VILANCULOS (Mozambico): Riflessioni missionarie

IL FUTURO CHE VERRÀ
Uomo
di «due continenti»,
padre Sandro Faedi
riflette sulla sua
esperienza missionaria.
Per tirare anche alcune
conclusioni sul futuro
che si sta delineando…

Dopo aver lavorato per circa
20 anni in America del Sud
(Venezuela), padre Sandro
Faedi si trova ora a Vilanculos, in
Mozambico. Direttore delle pontificie
Opere missionarie venezuelane,
ha dovuto occuparsi sia della pastorale,
che dell’animazione missionaria.
L’esperienza fatta gli può
dunque permettere di stabilire alcune
proiezioni interessanti circa il futuro
della missione.
Nel contesto attuale della chiesa,
molte sono le persone che si chiedono
quale sia il futuro della missione.
La globalizzazione ci ha portato il
mondo in casa e le realtà dei popoli
del Sud ci sono più familiari; il dialogo
interreligioso, l’evangelizzazione
e la promozione umana diventano
più che mai una sfida per la chiesa.
Ma, oggi, dove sono i missionari?
Le partenze sono sempre meno frequenti,
gli istituti missionari diminuiscono
di numero nei loro componenti,
le nuove entrate non riescono
più a sostituire coloro che, per
motivi di età, malattia o morte, sono
costretti a lasciare il proprio posto.
La domanda merita, dunque, di essere
posta. Ed è padre Sandro che
spiega un po’ le cose…

MISSIONE
SENZA MISSIONARI?

La missione, come noi
l’abbiamo pensata da anni
(cioè, una delle attività
della chiesa) avrà ancora un
posto significativo nel futuro?
Io credo che non rivedremo mai
più le spedizioni missionarie del passato!
Lo slancio e il dinamismo della
missione ad gentes sono state spazzate
via dal secolarismo, l’abbandono
della pratica religiosa e l’indifferenza;
d’altra parte, molte comunità
missionarie si sono ripiegate su
se stesse e, sull’esempio dei vari organismi
governativi, investono più
tempo in personale, soldi e problemi
interni, dimenticando lo scopo
per cui sono stati fondati.
Ma la chiesa non «ha una» missione,
perché essa stessa «è» missione!
Proprio come una pietra lanciata
nel mezzo di un lago, che continua
ad espandere le sue onde fino ai bordi.
Mi viene in mente la chiesa primitiva
e il modo con cui i primi discepoli
di Gesù hanno «pubblicizzato
» la nuova fede in tutto il mondo
conosciuto di allora. Penso anche alla
città di Milano, ai tempi di
sant’Ambrogio: metà dei suoi abitanti
erano pagani, l’altra metà divisa
tra cattolici e ariani. Non c’era ancora
la congregazione di Propaganda
fide. La predicazione di Ambrogio e
la testimonianza di vita dei fedeli furono
gli unici mezzi per raggiungere
i non credenti.
Ritoeremo a quei tempi? Probabilmente
no, anche se oggi la chiesa
ha questa nuova coscienza: definirsi
missionaria all’interno e all’esterno.
Ho chiesto ad un giovane che
era appena stato battezzato: «Perché
Dio ci ha creati?». Spontaneamente,
mi ha risposto: «Per conoscerlo, amarlo
e farlo conoscere e amare dai
miei compagni!».
È suonata l’ora di «ridare» la missione
alla chiesa: tutta la chiesa è missionaria,
ad intra e ad gentes. Anche
se sono meno numerosi, i praticanti
hanno una fede più dinamica e contagiosa:
ciò che noi abbiamo visto e
toccato, noi ve lo annunciamo.
«Ringraziamo le chiese d’Europa
che ci hanno portato Cristo; ma non
possiamo ringraziarle per non aver
fatto di noi dei missionari». Mi vengono
in mente queste parole di un
vescovo brasiliano in un congresso
missionario, alla vigilia delle celebrazioni
per i 500 anni di evangelizzazione
del continente latinoamericano. Parole vere: cristiani sì, missionari
no; una chiesa oggetto della
missione, una chiesa che riceve e non
dona. Lo zelo di cui tanti missionari
erano infiammati non è stato trasmesso
nel cuore delle chiese che
hanno fondato. Perché?
Quando un alunno viene bocciato,
ci sono due possibilità: o che sia
pigro, oppure il maestro un incapace.
Occorre cercare di risvegliare
l’interesse dell’alunno e migliorare il
metodo del professore. È ciò che si
cerca di fare in America Latina. Tutto
il lavoro e la riflessione teologicopastorale
di questi anni hanno avuto
di mira la costruzione di un nuovo
modello di chiesa: tutta apostolica,
meno centrata sui sacramenti e più
sul vangelo, meno portata all’interno
e più all’esterno, meno sui vicini
e più sui lontani, meno di parole e
più di testimonianza…
I frutti non sono tardati a venire:
l’entusiasmo missionario ha raggiunto
associazioni, comunità religiose,
preti, famiglie e… ammalati! Nella
chiesa tutti sono chiamati ad annunciare.
In Venezuela, soprattutto, abbiamo
visto rinascere una chiesa cosciente
e dinamica. Manifestazione
speciale e sorprendente di questo risveglio
sono stati i giovani laici missionari,
che hanno accettato di consacrare
un periodo delle loro vacanze
per andare a «fare missione» nei
villaggi, dove la presenza della chiesa
era minima; o ancora giovani laici
che, dopo aver ottenuto il diploma,
hanno deciso di «buttare» qualche
anno della loro vita al servizio degli
ultimi, in un vicariato apostolico o in
una missione fuori della patria.

LO SPIRITO SANTO E… LORO
Certo, per padre Sandro, la realtà
del Mozambico, dove si trova ora, è
ben diversa. La pasqua scorsa sono
stati celebrati 336 battesimi, dopo tre
anni di catecumenato: il 60% di loro
avevano più di 18 anni. Uomini e
donne che cercavano Cristo e hanno
trovato nella chiesa una risposta alla
loro fame e sete di Dio. Il numero è
quasi sempre lo stesso, tutti gli anni.
«Padre, cosa devo fare per essere
cristiano? Per pregare Dio, come
voi, la domenica?». Allora, chiedo
loro: «Perché vuoi essere cattolico?
». Quasi sempre la loro risposta
è: «È un mio vicino, un parente, un
amico che mi ha invitato… Ho visto
come siete uniti e organizzati, come
aiutate i poveri…».
Nel Mozambico di oggi, l’offerta
religiosa è importante: oltre alla nostra
chiesa, si trova una moltitudine
di sètte (cristiane o no) e pure l’islam.
La gente cerca qualcosa che riempia
il cuore e dia senso alla loro esistenza.
Non sono i missionari che chiamano,
non sono stato io ad avvicinare
queste persone, ma lo Spirito Santo,
la comunità cristiana. I veri
missionari sono i nostri cristiani che,
con la parola e l’esempio della loro
vita, condividono la gioia di credere,
trovarsi in comunità e servire i poveri;
per questo richiamano alla vita in
Gesù.
La missione è stata restituita alla
chiesa! Un catechista spiegava ad un
neo battezzato: «Dove è scritto che
tu hai ricevuto il battesimo per venire
a messa la domenica? Non sai che
Dio ti ha fatto battezzare perché aiutassi
i tuoi fratelli?». Questa è la chiesa
nuova che cresce, risposta alla nostra
angoscia e promessa per l’avvenire.
Oggi l’urgenza è «come» essere
missionari. Il missionario «capace di
fare tutto» è morto da tempo. Ora
abbiamo bisogno di missionari «dietro
le quinte», animatori, formatori,
e moltiplicatori di una chiesa nata
per annunciare. L’avvenire della
missione è stato così restituito alla
chiesa, cosciente di essere
inviata ovunque, sino ai
confini della terra!

C’è posto… per tutti
La missione cambia, lentamente, ma decisamente… Prima del concilio Vaticano
II, i missionari erano tutti preti, religiosi e religiose. Ma è lo stesso
concilio ad insegnare che tutti i discepoli di Cristo devono collaborare
alla missione. Visitando il Mozambico ho effettivamente incontrato laici impegnati
in questo senso, giovani e meno giovani.
Alcuni giovani – È a Cuamba che incontro alcuni laici missionari, che hanno
preso la decisione di dedicare un periodo di vita al servizio dei più poveri. È il
caso di Nuno Miguel Reis Prazeres, 28 anni. Pienamente integrato nell’équipe
pastorale della parrocchia di Cuamba, è professore sia nella scuola superiore,
come alla facoltà di agricoltura della nuova università cattolica del Mozambico.
Mi presenta anche tre ragazze, della stessa età, che lavorano tutte nell’insegnamento
o nell’amministrazione. In più, sono impegnate pure in parrocchia:
alla biblioteca, con i giovani e per dei corsi di informatica. Tutti questi giovani
missionari laici hanno un contratto con la diocesi e l’università.
Un pensionato – Titus Pereira risiede nel vescovado di Lichinga. È un portoghese
in pensione; ha lavorato tutta la vita nelle costruzioni. Non è architetto
né geometra, ma ci sa fare; per questo ha messo il suo talento al servizio della
diocesi ed è lui che cornordina la maggior parte delle nuove costruzioni.
Un laico IMC – Ma vi è pure un’altra possibilità: un contratto come laico missionario
della Consolata. Ne ho visto uno, a Vilanculos: Wilfer Javier Ramirez,
uno dei giovani formati in Venezuela da padre Nelson Lachance, con «Joven
Mission». Mentre il padre lavorava nelle pontificie Opere missionarie, aveva
fondato un’associazione di giovani: Javier ne divenne membro e, in seguito,
continuò ad interessarsi alle missioni, collaborando nelle pontificie Opere con
padre Sandro Faedi. Mi racconta come ha maturato la sua vocazione missionaria:
«In tutta la mia formazione e nei vari incontri, ho imparato molte cose
sulla missione. Sempre più volevo mettere in pratica ciò che avevo imparato e
avvertivo che, per rispondere alla chiamata del Signore, dovevo lasciare il Venezuela
e andare in un paese lontano». Era pronto, ma fu molto difficile per
via dei famigliari. Per questo, allo scadere del suo contratto dei tre anni, ritoerà
in Venezuela per sposarsi e occuparsi della famiglia.
Gli chiedo della sua esperienza: «Bella e interessante. Mi sentivo ben preparato.
È stato più duro per i miei genitori e la mia famiglia». Ora, a Vilanculos, aiuta
nel cornordinamento materiale delle tre scuole matee della missione. In ognuna
c’è una sessantina di bambini, è necessario procurare acqua e cibo: ed è proprio
Javier che si interessa di tutto. J. P.

Jean Paré




L’università cattolica del MOZAMBICO

UN FIORE NATO SULLA PACE

«L’identità cattolica
comporta assai di più
della recita del breviario
ad un’ora precisa,
della “lectio divina”…»
(padre Filipe J. Couto, rettore
dell’università cattolica
del Mozambico).
«Ho preso possesso
in uno sgabuzzino della
Conferenza episcopale
mozambicana,
con una sedia,
un tavolino
e senza un centesimo…»
(padre Francesco Ponsi,
vicerettore e amministratore
dell’università cattolica).

Scena e retroscena di un grande evento
E non è mancato
un sorso di whisky

L’università cattolica del Mozambico è un evento, un grande evento.
Nasce per volontà dei vescovi come strumento di giustizia, pace e democrazia.
La realizzazione è affidata ad un missionario della Consolata.
Inaugurata nel 1996, il rettore e vicerettore «inventano» poi le facoltà
di medicina e agraria. Meglio: valorizzano un liceo malandato dello stato
e una caserma di guerra. I carri armati sono ancora là…
Oggi l’università conta oltre 2.300 studenti in sei facoltà (economia,
medicina, scienza dell’educazione, diritto, agraria, turismo-informatica)
a Beira, Nampula, Cuamba e Pemba.

FRA DUE LITIGANTI
La guerra in Mozambico impazziva
da anni. E il popolo, esasperato,
«impose» il cammino verso la pace…
Così i belligeranti si ritrovarono
a Roma, presso la Comunità di S.
Egidio, per concertare la fine delle
ostilità. Però le discussioni si protraevano
sterili, interminabili. L’uomo
della strada insorse ancora: «Finitela!
Da oltre un anno e mezzo
mangiate e bevete a sbaffo, mentre
i nostri figli si scannano con i vostri
bazooka».
Nel giugno 1992 le trattative tra i
contendenti Frelimo e Renamo (Fronte
di liberazione del Mozambico e
Resistenza nazionale mozambicana)
erano ad un punto morto. Nel disegno
di ricostruire il paese, la Renamo
rinfacciava al Frelimo l’«asimmetria
regionale», ossia una specie di
colonialismo interno del sud rispetto
al centro-nord.
È possibile firmare l’accordo di pace
anche subito – incalzava la Renamo
-; però le cose continueranno immutate.
Per esempio: i giovani del
nord resteranno esclusi dalla formazione
universitaria; per ottenerla dovrebbero
raggiungere Maputo, dove
esistono tutte le strutture specializzate,
ma dove i nostri giovani non
hanno appoggi familiari o conoscenti.
Per non parlare di strade e trasporti.
Restando così le cose, tutti gli
sforzi di recare democrazia e giustizia
al paese rimarranno frustrati.
In tale contesto, per superare lo
stallo, Jaime Pedro Gonçalves, arcivescovo
di Beira e mediatore fra i
contendenti, lanciò un messaggio:
la chiesa cattolica si sarebbe impegnata
a fondare una università nel
centro-nord del paese. La coraggiosa
proposta sgelò l’ambiente di diffidenza
e recriminazione.
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo
firmarono gli accordi di pace dopo
16 anni di guerra civile, che aveva
prodotto un milione di morti, milioni
e milioni di profughi interni,
devastazioni incalcolabili e aveva seminato
2 milioni di mine. Il paese,
con un reddito annuo pro capite di
soli 63 dollari, era da bonificare e ricostruire
dall’«a» alla «z», materialmente
e socialmente.
Si cominciò anche dall’università
cattolica, proposta da dom Gonçalves a nome dei vescovi del Mozambico.
Il progetto aveva entusiasmato
il presidente della repubblica Joaquim
Chissano. Era piaciuto anche al
papa Giovanni Paolo II.
Ma chi avrebbe posto «mano all’aratro»?

MA LE VIE DEL SIGNORE…
«I vescovi del Mozambico hanno
chiesto a me di mettere mano all’aratro…
». È la schietta affermazione
di padre Francesco Ponsi (*), vicerettore
e amministratore dell’università
cattolica. Con il rettore, padre
Filipe J. Couto, ci accoglie a braccia
aperte nella loro abitazione di Beira,
non facendoci mancare neppure un
pacchetto di wafers e un bicchierino
di Ballantine.
«Però, questi poveri missionari con
il Ballantine in tavola!» abbiamo malignato
mentalmente. Poi, osservando
il loro modestissimo alloggio, ci
siamo subito ricreduti. Biscotti e whisky
erano solo l’espressione di una
ospitalità squisita.
«Per iniziare l’università – racconta
padre Ponsi, in T-shirt bianca e
ciabatte nere nell’afa della sua camera
seminterrata -, il presidente
della Conferenza episcopale mozambicana,
dom Paulo Mandlate, si è rivolto
a vari istituti missionari, che
tuttavia non se la sono sentita di assumere
l’iniziativa. Però padre Franco
Gioda, superiore dei missionari
della Consolata, ha risposto: “Noi,
forse, noi uno che può farcela l’abbiamo”…». Cioè Francesco Ponsi,
docente nel seminario maggiore di
Maputo.
Questi rievoca sorridendo: «Il 1°
luglio 1993, dopo gli esami dei seminaristi
a Maputo, ho assunto l’incarico
in uno sgabuzzino della Conferenza
episcopale… con una sedia,
un tavolino e senza un centesimo».
Sennonché le vie del Signore sono
infinite. Ed ecco che, attraverso padre
Beniamino Guidotti e i professori
Felice Rizzi e Stefania Gandolfi (in
Mozambico a nome della Conferenza
episcopale italiana – Cei), al missionario
furono assegnati 25 mila euro:
non un granché per iniziare una università
da zero. Ma furono un catalizzatore,
come… i cinque pani e due
pesci (di evangelica memoria) che,
miracolosamente, sfamarono oltre 5
mila persone (cfr. Mc 6, 35-42). Infatti,
poi, la Cei donò altri 250 mila
euro per le sedi universitarie di Beira
e Nampula, nonché 200 mila euro
per le case dei professori a Nampula.
Oggi la chiesa italiana garantisce,
ogni sei mesi, 250 mila euro.
Né si scordi il contributo dei vescovi
del Portogallo, pari a 550 mila
euro, da aggiungersi a quello della
società filantropica Gulbenkia (Lisbona)
e della banca tedesca Merkur,
che offrì un prestito senza interesse.
Né è mancato il prezioso «obolo
della vedova», ancora di evangelica
estrazione: si tratta di donazioni di
istituti missionari, diocesi, parrocchie,
solo «offerte-
Couto,
un prestito
banca del
Mozambico Standard Tota (restituiti
con interesse). E gli studenti pagano…
Soprattutto si sta operando con
intelligenza e coraggio per raggiungere
l’autonomia finanziaria. La facoltà
di economia l’ha già conseguita
e quella di diritto quasi.

SUPERATA L’ASIMMETRIA
Il 10 agosto 1996 l’università ha
aperto i battenti a Beira con la facoltà
di economia e con quella di diritto
a Nampula. Il superamento della
temuta «asimmetria» è apparso
subito evidente con le due sedi universitarie
decentrate rispetto alla capitale
Maputo.
Dal 1998 Nampula ospita anche la
facoltà di scienza dell’educazione,
mentre dal 2000 Beira si è arricchita
dell’impegnativa medicina. Di più:
a Cuamba (nella dimenticata provincia
del Niassa), dal 1999 opera la facoltà
di agraria e, dall’anno scorso,
nella pittoresca e nordica Pemba si
studia informatica e turismo.
Complessivamente 2.300 giovani
frequentano l’università: sono cattolici
e musulmani, induisti e protestanti,
agnostici e credenti; appartengono
a sei facoltà, dislocate
in quattro città su una linea di circa
1.500 chilometri. «Cinque nostri
diplomati, dopo la specializzazione
in Zimbabwe e Botswana, operano
già in alcune sedi: uno è cornordinatore
alla facoltà di turismo e sarà
presto affiancato da un altro; il terzo
è direttore aggiunto alla facoltà
di agraria; la quarta persona è una
signorina, che sarà l’amministratrice
della facoltà di medicina, e la
quinta entrerà pure nell’organo direttivo
della medesima facoltà…».
Il vicerettore manifesta legittima
soddisfazione.
Il tutto in soli sei anni, mentre il
paese è ancora sanguinante per le
ferite della guerra civile ed è sottoposto
a drammatiche emergenze,
come l’alluvione di tre anni fa. Ma la
pace opera prodigi. E l’università
cattolica lo è.
«Dopo lunghe e faticose trattative
– annota padre Ponsi – lo stato ha
restituito alla chiesa cattolica alcune
strutture educative nazionalizzate:
come il grande liceo dei missionari
maristi di Beira e quello Nossa
Senhora das Victorias (Madonna delle
vittorie) di Nampula». Durante il
colonialismo erano centri efficienti
di studio; ma alla riconsegna le «crepe
» non si contavano. Oggi quegli
edifici, ristrutturati, sono la sede decorosa
di alcune facoltà.
L’università cattolica è nata con la
«c» maiuscola, al servizio del bene
comune, della giustizia sociale, della
pace… oltre che al servizio di una
professione ad alto livello. Questo è
sancito pure dallo statuto, dopo numerosi
incontri con l’università cattolica
del Portogallo e quella (all’inizio
cattolica) di Durban, in Sudafrica;
per non contare gli estenuanti
negoziati con i ministeri dell’educazione e della giustizia del governo
mozambicano. L’idea che l’università
fosse «per la gente del centro-nord»
si è fatta strada faticosamente tra alcuni
politici del sud.
«Però ce l’abbiamo fatta. Abbiamo
superato l’asimmetria. La nostra università
è la prima organizzazione nazionale
fuori della capitale».
Sembra davvero soddisfatto padre
Francesco, che si concede una pausa
ed accende la pipa.

SPADE IN ARATRI?
La facoltà universitaria che ci sorprende
di più è quella di agraria a
Cuamba: primo, perché è la più povera
ed isolata; secondo, perché sorge
in un’ex caserma di guerra. Sul
fondo, dietro gli edifici, alte erbacce
coprono autoblindo e carri armati,
con uccelli che cinguettano rincorrendosi
e bimbi che giocano. Dalle
carcasse arrugginite sono stati
divelti dei rottami. Per fae zappe
e badili?
… Forgeranno le spade in vomeri
per arare e le lance in falci per
mietere il grano, e i popoli non si
eserciteranno più nell’arte immorale
della guerra: fu il grande sogno di
un poeta sommo, 2.300 anni fa (cfr.
Is 2, 4). La profezia sta avverandosi
nel cuore del Mozambico dalla facoltà
di agraria?
A prescindere dai sogni, la facoltà
avrà un futuro roseo se Cuamba diventerà
un nodo stradale per le province
di Niassa, Cabo Delgado, Tete,
Zambesia e Sofala, province che non
possono ignorare l’agricoltura: un’agricoltura
che deve crescere tecnologicamente
superando la soglia della
zappa. Una agricoltura che, perfezionandosi,
potrà occupare con successo
anche i giovani, arrestando l’esodo
verso le città, cariche di lusinghe
e menzogne.
Ragiona padre Ponsi: «Un figlio di
contadini, diplomato in agraria, se
lo chiudi in ufficio a Maputo, non si
sente realizzato; egli ha bisogno del
campo, di incontrare gli agricoltori,
di vedere le loro condizioni per aiutarli.
Preparare un dottore in agraria
con tali orientamenti è un servizio
all’intera nazione. Intanto, mentre
frequenta l’università, deve accedere
alla biblioteca, al computer… Speriamo
di ottenere presto anche l’accesso
ad internet. Ma non basta conoscere
i problemi; bisogna risolverli
positivamente secondo la cultura locale».
Per venire incontro a tale esigenza
fondamentale, ecco che la facoltà
di agraria ha accettato l’apporto del
Centro di cultura della missione di
Maua, specializzato nello studio dell’etnia
dei macua (cfr. Missioni Consolata,
gennaio 2003).

«MAASTRICHT»
FA LA DIFFERENZA

E le altre facoltà?
Economia raccoglie il numero più
alto di studenti: quasi 800. Il fine è
quello di creare piccoli imprenditori
nei villaggi, capaci di gestire in proprio
un’attività, produrre posti di lavoro:
quindi sviluppo. A tale scopo,
si richiedono minicrediti iniziali, ma
anche fantasia innovativa. Alla facoltà,
i futuri piccoli imprenditori si
sentono spesso ripetere: «Osservate
i venditori del mercato informale nel
centro di Beira. È, come ben sapete,
il Chunga moyo (fatti coraggio). Attingete
da quei venditori (assai meno
istruiti di voi!) idee e costanza».
Ma, ad un tiro di sasso dal mercato
informale, spicca il supermercato
Shoprite: appartiene ad una catena
del Sudafrica. Il nome «shoprite» (il
rito di acquistare) è già un messaggio,
molto equivoco però. Non lontano
s’impone anche «il monumento
alla globalizzazione»: è una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola che, da un
basamento circolare in cemento, si
staglia solenne sotto il cielo… La facoltà
di economia è chiamata a remare
anche controcorrente.
Sempre a Beira, un tardo pomeriggio
visitiamo la facoltà di medicina,
con il sole che ne illumina gloriosamente
la facciata. Ci accompagna il
rettore Couto. Una guardia giurata,
in divisa grigio-verde, scatta sull’attenti
al passaggio del «capo»… facendoci sentire noi stessi un po’ importanti.
L’apertura di medicina è merito del
rettore, che ha saputo fronteggiare
resistenze serie. Il Mozambico – si
obiettava – più che di medici necessita
di infermieri; e poi non è equipaggiato
per formare cardiologi, chirurghi…
Ma Couto replicava: puntiamo
prima su medici e, se non ce la
faremo, avremo ugualmente ottimi
infermieri. Ha vinto la scommessa.
Il problema non è solo la preparazione
professionale di medici, bensì
disporre di esperti di sanità in sintonia
(ancora una volta!) con la cultura.
La stragrande maggioranza dei
medici mozambicani lavora a Maputo;
solo un’esigua minoranza accetta
di operare nei villaggi. Occorre invertire
la tendenza.
«Si tratta di creare un “nuovo” medico
di eccellente qualità – spiega padre
Ponsi -, ma disposto a servire i
poveri e dimenticati dalle strutture.
Non per forza deve essere un missionario,
ma con il suo spirito, sì. È necessario
un professionista che, dopo
la laurea, continui a leggere la realtà
in cui vive. Formare professionisti
con una mentalità di ricerca e aggioamento
permanente comporta
una struttura di sostegno, che non si
limita alla facoltà di medicina; implica
che l’università formi medici per
la società e continui ad accompagnarli
con libri, computers e incontri
fra loro via internet e congressi inteazionali…
Esiste pure una medicina
a distanza, che si estende a tutti
i centri di salute dove le comunità
devono essere seguite…».
«La nostra facoltà di medicina deve
essere non solo un luogo dove si
studia, ma anche una sede di scambio
di esperienze: una facoltà che
utilizzi, come metodo di studio, il
problem based leaing (apprendere
partendo da problemi concreti),
già sperimentato in Olanda da 20
anni all’università di Maastricht. Anche
noi l’abbiamo assunto…».
In facoltà incontriamo alcuni docenti,
fra cui padre Elias Arroyo, medico
missionario comboniano messicano,
e suor Donata Pacini, anch’essa
dottoressa comboniana. È poi la
missionaria ad accompagnarci nella
visita a medicina.
Ci soffermiamo davanti ad un murale
naif, che esprime bene l’animus
dello studio nella facoltà secondo il
problem based leaing: partito dal
villaggio, il dottore neolaureato vi
ritorna per servire la comunità secondo
le esigenze e lo stile di vita
locali. All’università studia in gruppo,
ricorre constantemente alla biblioteca
(è necessario quindi conoscere
l’inglese), fa pratica su manichini
anatomicamente perfetti, non
su cavie umane.
La novità del problem based leaing
non è solo di metodo, ma (e soprattutto)
di approccio tra professore
e studente, dove il primo non è il
soggetto protagonista e il secondo
oggetto. Tra i due si sviluppa un rapporto
alla pari, simile a quello della
«maieutica» di Socrate. Nel dialogo,
il grande maestro greco aiutava l’allievo
a cogliere la verità con domande
«curiose»: «Non ti pare che io fossi
nel giusto?… O tu avresti paura
che…?» (Platone, Fedone, passim).

STUDENTI CHE RECUPERANO
Purtruppo non incontriamo studenti,
perché sono in vacanza. Tuttavia
ne salutiamo alcuni in biblioteca.
«Sono in ritardo con il piano di
studi rispetto ai compagni di gruppo
– spiega la professoressa Karin,
austriaca, della facoltà di economia
-. Se non vogliono essere emarginati
dai loro stessi colleghi, devono recuperare».
Sugli studenti si sofferma anche
suor Dominique, delle orsoline italiana,
responsabile dell’immatricolazione
ad economia e impegnata a
Beira nella pastorale della donna. Il
mondo femminile esige soprattutto
rispetto e riconoscimento della propria
dignità. «Quanto alla lotta contro
l’Aids – aggiunge la missionaria –
si punta sulla prevenzione, secondo
il principio dell’amore responsabile.
Il preservativo è accettato come ultimo
mezzo di prevenzione».
Dominique non nasconde la propria
apprensione di fronte al comportamento
di alcune studentesse
universitarie, perché vi sono gravidanze
extramatrimoniali e aborti.
Le consorelle Damiana e Raffaella
insegnano etica, basata sulla dottrina
sociale della chiesa, una disciplina
che caratterizza la «cattolica».
Se condividono la preoccupazione di
suor Dominique, sottolineano anche
i fattori positivi.
«Noi privilegiamo gli studenti poveri
– ci confida suor Damiana -, ma
non escludiamo i ricchi, quasi tutti
appartenenti all’induismo e all’islam.
I musulmani tirano un sospiro di sollievo
quando affermiamo che la religione
non può essere imposta… che
la democrazia non è né comunismo,
né capitalismo, né teocrazia… che
occorre valorizzare la cultura tradizionale,
fondata pure sulla disciplina…
Uno studente della campagna,
mi ha detto: “Suor Damiana, ora non
mi vergogno più di essere figlio di
contadini…”. Io conosco universitari
che dormono in capanne e studiano
al lume di candela. Questi vanno
aiutati».

SOFFERENZE E GIOIE
Qual è il «peso» della chiesa nell’università
cattolica?
«È sufficiente dire che l’università
è della chiesa – risponde padre Ponsi
– : una chiesa esperta in umanità,
che lotta per la giustizia, la pace, il
dialogo e la riconciliazione fra le religioni,
le etnie, i partiti… La gerarchia
ecclesiale si è attirata anche critiche,
perché si assiste ad una certa
competizione tra seminaristi e universitari.
Fino a ieri si entrava in seminario
anche per studiare e poi, magari,
fare strada in politica. Oggi è un
po’ diverso: chi sogna una carriera civile
non entra in seminario. Questo è
positivo. Qualcuno dice che l’università,
proprio perché cattolica, è settaria,
fondamentalista. Non è vero. I
frutti lo dimostrano»…
Siamo sempre nell’afosa stanza seminterrata
di padre Francesco Ponsi,
dove l’abbiamo ascoltato a lungo, ora
in attesa anche della cena con il Ballantine
per aperitivo.
Nel frattempo poniamo al vicerettore-
amministratore dell’università
cattolica il seguente ed ultimo
quesito: «Che cosa ti ha maggiormente
rallegrato e rattristato nella
tua esperienza?».
«Mi ha rattristato lo scetticismo
di alcuni uomini di chiesa, che ci
hanno ritenuti dei matti ridendo alle
nostre spalle. Certo, ci sono stati
dei rischi, ma anche delle opportunità,
che mi hanno fatto toccare
con mano valori evangelici che prima
ignoravo. Come prete missionario,
mi sono trovato in un cammino
di crescita personale e spirituale. Mi
ha rallegrato il fatto che il cammino
sia avvenuto in compagnia di
Gesù Cristo: lo dico però “balbettando”.
Se avessi continuato a insegnare
in una situazione di sicurezza,
non avrei avuto questa esperienza
unica nella vita…».
«Basta con le chiacchiere! La minestra
si raffredda in tavola…». È il
rettore magnifico dell’università,
padre Filipe José Couto, che parla e
comanda.

(*) PADRE FRANCESCO PONSI,
cuneese di 61 anni, missionario
della Consolata, laureato in sociologia
statistica e demografia
a New York.
È docente per otto anni all’università
di Addis Abeba (Etiopia)
e per cinque è in Kenya come ricercatore
nella pastorale dei nomadi.
In Mozambico insegna nel
seminario di Maputo. «Fonda»
l’università cattolica, di cui oggi
è vicerettore e amministratore.

Università cattolica
PERSONAGGI, DATE, LUOGHI, NUMERI
Nel giugno del 1992 l’arcivescovo
di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, durante
i colloqui di pace a Roma tra
Frelimo e Renamo, lancia l’idea di
una università cattolica. Dopo l’approvazione
dei vescovi mozambicani,
la realizzazione del progetto è affidata
a padre Francesco Ponsi.
Il 10 agosto 1996 l’università inizia
con due facoltà: economia-amministrazione
a Beira e diritto a Nampula.
Successivamente si aggiungono altre
quattro facoltà:
– scienza dell’educazione a Nampula
(1998)
– agraria a Cuamba (1999)
– medicina a Beira (2000)
– turismo-informatica a Pemba
(2002).
Gran cancelliere: Jaime Pedro
Gonçalves, arcivescovo di Beira.
Rettore magnifico: Filipe José Couto,
missionario della Consolata mozambicano.
Vicerettore e amministratore: Francesco
Ponsi, missionario della Consolata.
I docenti sono 230: i mozambicani
sono il 50%; poi portoghesi, italiani,
spagnoli, brasiliani, austriaci, russi,
messicani, ecc. (religiosi e laici).
Gli studenti sono 2.336 (di cui il
48% donne), così distribuiti per facoltà:
economia-amministrazione
750, medicina 180, diritto 580,
scienza dell’educazione 490, agraria
236, turismo-informatica 100.
Tasse annuali di iscrizione: 500, 750
e 1.000 euro, secondo le facoltà. Alcuni
studenti bisognosi usufruiscono
di borse di studio.
Dall’apertura dell’università, 252
studenti conseguono il bacellierato
(una sorta di laurea breve) nelle varie
facoltà (il 50% donne). Particolarmente
soddisfatti sono i primi cinque
bacellieri in agraria, la facoltà più
povera. L’avvenimento viene festeggiato
anche con una eucaristia, il 28
agosto 2002, presieduta dal vescovo
di Lichinga Luis Ferreira Gonçalves,
che consegna i diplomi.
PER INFORMAZIONI:
Missionarios da Consolata
Avenida Eduardo Modlane 715
CP 544 – Beira (Mozambico)
e-mail: imc.beira@teledata.mz

L’ESEMPIO DI CHISSANO
Don Matteo Zuppi, della comunità di S. Egidio, è stato uno dei mediatori
negli accordi di pace del 1992. Il sacerdote è tornato in
Mozambico nel giugno scorso e ha celebrato a Nampula il 10° anniversario
degli accordi, alla presenza di 2.800 giovani. Ad essi ha ricordato
che la pace non si conquista una volta per sempre, ma si costruisce
giorno per giorno dall’«interno». Dall’«esterno» si può dare una
mano. Ma saranno i mozambicani a dover ricostruire il loro paese.
Parole opportune per una nazione fragile culturalmente e ideologicamente.
Gli anni di indottrinamento marxista e il successivo periodo
hanno minato i valori della società tradizionale. Ora il paese si apre al
futuro senza molti punti di riferimento. I pericoli di prendere la strada
sbagliata sono molti. I politici sono tentati dal denaro facile, dall’arroganza,
dalla corruzione. Il popolo, sentendosi defraudato, può essere
tentato dalla violenza o dall’indifferenza, dalla corruzione a basso livello
e dal furto.
L’attuale presidente Joaquim Chissano ha deciso di non ripresentarsi
alle elezioni del 2004: una decisione lodevole, dato che sono pochissimi
i presidenti africani che lasciano il proprio posto volontariamente.
Il candidato alla successione è Armando Guebuza, storico del Frelimo,
che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza al fianco di Samora
Machel. È stato anche il rappresentante del Frelimo durante i
colloqui di pace del 1992.
S iamo ottimisti sul futuro del Mozambico. I mali della nazione sono
una realtà; ma è altrettanto innegabile che questi ultimi anni hanno
rappresentato un importante passo
avanti: la pace è stata mantenuta;
anche se con ritardi, si stanno realizzando
diversi programmi di sviluppo;
i partiti politici stanno imparando la
ginnastica della democrazia; la corruzione,
specialmente se paragonata
a quella di altri paesi, è contenuta
entro limiti tollerabili.
Mozambico, buona fortuna!
JUAN GONZÁLEZ NUÑEZ

Francesco Beardi Lino Carpaneto




L’università cattolica del MOZAMBICO

Intervista con il rettore Filipe J. Couto
Per non essere
accattoni

All’università cattolica abbiamo soprattutto incontrato
padre Filipe J. Couto, rettore magnifico:
nell’arco di 13 giorni ci ha accompagnati in aereo,
auto e treno in tutte le facoltà.
Un pomeriggio a Nampula, all’ombra di un mango,
ci ha rilasciato la seguente intervista.
È troppo poco definire le risposte «interessanti».

Signor rettore, non c’è rosa senza
spine. C’è qualche spina all’università
cattolica?
Nel 1997 c’è stato uno sciopero
generale nella facoltà di diritto, perché
il decano, il vicedecano e tre docenti
portoghesi si erano dimessi. E
questo ad appena un anno dall’apertura
dell’università.
Cos’è avvenuto?
È avvenuto che i suddetti docenti,
non concordando con la linea del rettore,
si sono appellati al gran cancelliere
dell’università, l’arcivescovo
Jaime Pedro Gonçalves. Ma questi ha
risposto: non posso rimuovere il rettore
per causa vostra, e gli interessati
in 24 ore si sono
dimessi. Poi gli studenti,
per evitare ulteriore
caos, si sono schierati con
il rettore.
L’università cattolica è nata per
ridurre l’«asimmetria» rappresentata
anche dall’università
statale di Maputo. Oggi come
sono i rapporti fra i due atenei?
Sono come le mani del corpo: fra
i due atenei c’è collaborazione.
L’università statale considera
quella cattolica un fattore di sviluppo,
che cornopera con il governo
ed altri enti dello stato al bene comune.
E l’università cattolica
non intende staccarsi dal contesto
nazionale: proprio come
una mano nel corpo umano.
La statale opera nel sud
del paese (Maputo e dintorni);
invece la cattolica
lavora nel centronord.
Però l’università
cattolica è presente anche
a Maputo con l’istituto
«Maria, madre dell’Africa», dove si insegna
teologia della vita consacrata
e si tengono corsi
per educatori sociali.
Oggi il Mozambico
necessita di esperti
che sappiano
anche rimboccarsi
le maniche…
Ben detto! Proprio a questo mira
l’università cattolica. Ecco perché si
stabilisce il periodo di studio: da un
minimo di quattro anni ad un massimo
di sette. Poi si deve andare a
lavorare come impiegati statali o nel
settore privato come imprenditori.
Vogliamo che l’università sia legata
al mondo del lavoro in genere: scuole,
negozi, imprese… Una università
aperta anche ad altri paesi: Malawi,
Zimbabwe, Sudafrica, Tanzania.
La «cattolica» è frequentata anche
da protestanti, musulmani,
induisti. Quale clima interreligioso
si respira?
Ieri a Nampula siamo passati davanti
ad una università islamica, che
ha iniziato con una piccola facoltà di
agraria ed economia. Che Allah l’aiuti!
Dobbiamo tenere conto anche di
questa esperienza: per esempio, non
vedo perché qualche nostro professore
non possa insegnare anche in un
centro musulmano.
Allora in che consiste l’«identità
cattolica» dell’università?
L’università si ispira alla dichiarazione
pontificia Ex corde Ecclesiae.
Premesso che in tutte le facoltà si
parla di Gesù Cristo e si insegna etica,
occorre anche ricordare che un
cattolico perde la sua identità se si
isola: in tale caso, non è più cattolico,
ma settario. L’identità cattolica
comporta assai di più della recita
del breviario ad un’ora precisa, della
lectio divina… Hai presente l’esperienza
di san Pietro con Coelio?
Sì, ma ricordala tu ai lettori della
rivista.
Secondo gli Atti degli apostoli (10,
9-30), un giorno san Pietro vede un
lenzuolo con degli animali ritenuti
impuri dagli ebrei osservanti, e una
voce che gli dice: mangia. Ma lui, da
bravo ebreo, risponde: no. E la voce:
tu non devi considerare impuro ciò
che Dio ha creato. Poi Pietro incontra
Coelio, un romano pagano, animato
però dallo Spirito Santo. L’apostolo
dice a se stesso: io non posso
negargli il battesimo solo perché
non è ebreo.
Che c’entra questo con l’identità
cattolica?
C’entra, c’entra! A volte chi vuole
salvare l’identità cattolica è un credente
pigro, chiuso in se stesso, non
aperto alla voce dello Spirito Santo,
e considera impuro ciò che impuro
non è.
Per accedere all’università uno
studente deve pagare ogni anno
da 500 a 1.000 euro, secondo le
facoltà. Non sono cifre alte in un
paese povero?
L’università fa tutto il possibile
per abbassare i costi e venire incontro
agli studenti bisognosi. Ma,
per aiutare, ci vogliono mezzi: l’università
cattolica non ne possiede
molti. Allora ben vengano le borse
di studio! Se la chiesa ha dei soldi,
ben vengano, anche perché l’università
non li trova per strada… E
senza denari, non è possibile comprare
libri, avere buoni professori…
Però mi domando: fino a quando
dobbiamo continuare a dare e dare?
Si raccomanda l’autonomia economica
nel terzo mondo; ma non basta
auspicarla, bisogna farla… Oggi abbiamo
2.300 studenti (che pagano
facendo sacrifici), e si va avanti.
L’università cattolica impressiona
positivamente anche per la
disciplina che vi regna… Qual è
l’atteggiamento di fronte a comportamenti
sessuali che possono
causare sieropositività?
Siamo severi e raccomandiamo il
massimo controllo di se stessi. Tuttavia
il sieropositivo non è escluso
dall’università, ma gli si suggerisce
come curarsi.
Entrando all’università, si richiede
allo studente il test dell’Aids?
Lo si consiglia con tatto. Molti studenti
vi si sottopongono liberamente.
Però i testimoni di Geova, contrari
a trasfusioni di sangue, rifiutano
il test.
Come vedi il futuro dell’università
cattolica?
La speranza è di poter contare su
persone competenti, non fanatiche,
che credono in ciò che fanno: persone
che con la loro presenza diano
un’impronta all’università. L’ho detto
anche al cardinale Saraiva, ex rettore
della pontificia università urbaniana
(Roma), prefetto delle «cause
dei santi». Egli mi ha risposto: questo
è «il» problema di tutte le università
cattoliche.
Inoltre vorrei che all’università ci
fossero più insegnanti seri di etica
che riflettano profondamente.
L’etica dell’«homo ludens» (la
persona che gioca) o quella
dell’«homo faber» (la persona
che costruisce)?
Soprattutto l’etica dell’homo faber.
La Germania, sia in ambito cattolico
che protestante, ha dei consiglieri di
etica, e ritiene che nel rapporto fra
capitale e forza-lavoro la presenza di
tali consiglieri debba essere del 50%
in ambo le parti.
Infine all’università noi dovremmo
avere docenti apartitici, dediti solo
all’insegnamento.
Tu hai sposato il pensiero del
partito Frelimo, ne conosci tutti
i leaders del passato e presente.
Qual è la tua posizione, se l’università
non deve schierarsi con
alcun partito?
Io non sono il segretario di un partito;
lavoro in una università della
chiesa cattolica.
Quindi hai dimenticato la tua
appartenenza al Frelimo!
No!… In Italia a chi ti chiede «per
quale partito voti?», tu giustamente
puoi rispondere che il voto è segreto…
All’università io non faccio
propaganda per il Frelimo. Ma questo
non significa che non abbia una
preferenza di partito. Se la mia posizione
politica non è gradita, i vescovi
mi possono sempre rimuovere.
I vescovi, nello scegliermi come rettore,
non mi hanno detto niente.
Mia Couto ha scritto: «Un tempo,
quando c’era una visita di politici
o stranieri, avevamo l’ordine
di non mostrare un paese mendicante…
Ora invece bisogna mostrare
la popolazione con la fame
e le malattie contagiose. La nostra
miseria sta diventando positiva.
Per vivere in un paese di
mendicanti, è necessario esibire
le ferite, mostrare i bambini con
le ossa fuori».
Rettore Couto, qual è il tuo parere
al riguardo?
Il romanziere Mia Couto colpisce
nel segno giusto… L’università cattolica
non è solo una sfida alla povertà,
ma anche al comportamento
da mendicanti.

LA PERLA
DELLO SVILUPPO

In ricordo di Paolo Carpaneto
Ho visitato il Mozambico con uno scopo: verificare
in loco le strutture, l’impostazione, l’efficienza, la
situazione generale dell’università cattolica (UCM), retta
da due missionari della Consolata, per eventuali borse di
studio a nome di mio figlio Paolo.
Dopo la sua morte (21 ottobre 1996), sorse in mia
moglie Mariuccia e in me il desiderio di prendere qualche
iniziativa per aiutare, in ricordo di Paolo, la promozione
culturale di giovani in paesi in via di sviluppo.
Padre Francesco Beardi ci parlò della UCM, da poco
nata, con l’invito ad attendee gli sviluppi… Maturati i
tempi, il missionario suggerì di recarsi in Mozambico
per capire meglio la situazione. Decidemmo di metterci
in viaggio nell’estate scorsa. E così fu.
All’aeroporto di Torino-Caselle, la prima piccola avventura:
le forbici da barbiere! Padre Beardi aveva riposto
le forbici nel bagaglio a mano; quindi, passando
attraverso i controlli di sicurezza, furono evidenziate dal
metal detector e fatalmente sequestrate. A nulla valsero
le spiegazioni e suppliche del missionario: «Mica sono
un terrorista!». Così le forbici, che da 30 anni lo avevano
accompagnato nei suoi viaggi per il mondo, finirono
in un inverecondo contenitore di oggetti di scarto.
Lascio immaginare la costeazione dell’interessato.
Quali le impressioni sul viaggio e sull’università? Si
possono riassumere in una frase: sono partito con
molte buone intenzioni e sono ritornato pieno di ragionato
entusiasmo.
Buone intenzioni, perché? Forte e profondo è stato
il desiderio di ricordare Paolo in modo duraturo e a certe
condizioni; finalmente si è presentata l’occasione che
rispondeva ai nostri desideri. Ragionato entusiasmo, perché?
Quello che ho visto in Mozambico in generale e nell’università
in particolare è andato oltre ad ogni ottimistica
aspettativa; di qui l’entusiasmo che, quasi con fatica,
ho dovuto razionalizzare.
Cosa mi ha colpito di più? La gente: questi bantu con
le loro tradizioni, la cultura, semplicità e disponibilità al
sorriso, l’affetto verso i missionari e il desiderio di vivere,
quasi a voler recuperare in pace il tempo perduto in
guerra. Altre favorevoli impressioni: l’innata eleganza del
portamento (soprattutto delle donne), la dignitosa povertà,
non miseria (non ho incontrato un solo mendicante,
al di fuori di Maputo; ma – si sa – le capitali sono
sempre crogiuoli dove si fondono gli elementi più eterogenei
e con maggiori difficoltà). Mi ha colpito il ruolo
fondamentale della donna, il rapporto mamme-bambini,
il rispetto di questi verso gli adulti, la consapevole e
composta partecipazione alle celebrazioni religiose.
Mozambico, una nazione veramente in via di sviluppo
con un costante indice di crescita, che si ripercuote
su particolari abbastanza significativi della vita quotidiana.
Un esempio: in alcune zone del nord, considerate le
più arretrate, il numero di biciclette, dopo 10 anni dall’accordo
di pace (4 ottobre 1992), si è quasi centuplicato.
E non sono poche le donne che ne fanno uso.
Ma è l’università cattolica, scopo del viaggio, la «perla
» dello sviluppo in corso. L’università, voluta dai
vescovi mozambicani e realizzata dai missionari della
Consolata (con il coraggio di padre Franco Gioda, allora
superiore, e il duro, costante lavoro di padre Francesco
Ponsi, attuale amministratore e vicerettore), è la prima
organizzazione nazionale con sede fuori della capitale
Maputo. È stata riconosciuta dal Consiglio dei
ministri del Mozambico quale unità autonoma di utilità
pubblica a beneficio della società. Padre Filipe J. Couto,
mozambicano, ne è il rettore.
L’università nasce nel 1996 con tre priorità: è un
mezzo al servizio della pace; è attenta ad evitare gli errori
commessi in altre università; è un’entità universale,
non settaria, aperta a tutti, per formare persone con un
servizio di qualità alla comunità. Non a Maputo, dove già
esiste l’università statale e dove gravita quasi tutta la vita
del paese, ma nel centro/nord, per dare ai giovani di
quelle province, spesso dimenticate, la possibilità di una
valida formazione e iniziare a correggere gli squilibri causati dal potere accentratore della capitale.
All’UCM si respira aria pulita, in quanto regnano ordine,
serietà, competenza, desiderio di far bene. Entrando
nelle diverse facoltà si avverte il senso di responsabilità
e la carica di entusiasmo che anima tutti: il rettore,
i professori, gli ultimi assunti, gli studenti. Tutti
contribuiscono con impegno alla vita e alla crescita dell’università.
Interessante è il coinvolgimento degli studenti nelle
facoltà di medicina, agricoltura e turismo, dove è stato
introdotto dall’inizio il metodo di «apprendimento basato
sui problemi» (problem based leaing): un metodo
che verrà assunto presto anche nelle altre facoltà,
che hanno iniziato con l’impostazione tradizionale.
Secondo l’«apprendimento basato sui problemi», si
assegna un argomento agli studenti (in gruppi di otto),
che lo sviluppano avvalendosi di testi in biblioteca; lo dibattono
fra loro affiancati da un assistente; periodicamente
gli studenti devono rispondere sul lavoro svolto;
nel corso dell’anno il gruppo stesso elimina eventuali studenti
svogliati, di rendimento insufficiente. A fine anno
ogni studente affronta gli esami personali, dove si valuta
l’idoneità al passaggio all’anno successivo. Non esiste
la figura del professore titolare di cattedra.
Il metodo responsabilizza gli studenti, li rende parte
attiva e forma in essi una mentalità di ricercatori, qualità
indispensabile quando, laureati, eserciteranno la professione.
Il successo dell’UCM presso i giovani del centro-nord
del paese è confermato dal numero crescente di presenze
che, nell’anno accademico 2002/03, supera le
2.300 unità con una massiccia partecipazione di ragazze:
quasi la metà degli studenti. Questo è il fatto
che maggiormente stupisce, ma che a sua volta sottolinea
l’evolversi positivo della promozione della donna.
Inoltre, se il corpo accademico è costituito per metà da
personale straniero, l’altra metà è mozambicano, con la
certezza di aumentare il numero nei prossimi anni.
Molte sono le persone di spicco. Basti citare i coniugi
Jan e Frouke Draisma, responsabili della facoltà di
Scienza dell’educazione (Nampula), che hanno rinunciato
alla cittadinanza olandese per naturalizzarsi mozambicani.
Però sopra tutti svettano il rettore, padre
Couto, e vicerettore-amministratore, padre Ponsi: due
personalità diverse e complementari.
Padre Couto è una mente vulcanica lanciata verso il
futuro, prolifico di nuove idee, conosciuto ed apprezzato
in tutto il paese per il suo impegno nella lotta di liberazione
nazionale, con ampie entrature in tutte le direzioni,
sostenitore di una ferma disciplina in seno all’università.
Padre Ponsi, piemontese pacato, figura di gentleman
inglese, con una profonda esperienza di studioso e
docente, amministratore provetto di assoluta affidabilità.
Entrambi animati da una solida fede, da un elevato spirito
missionario, fermamente convinti del valore dell’università
cattolica. È la migliore garanzia per il futuro.
LINO CARPANETO

Francesco Beardi Lino Carpaneto




MAUA (MOZAMBICO): la grande occasione della pace

SE LA ZAPPA PARLA AL COMPUTER

Non è il titolo di una favola nell’era dell’informatica,
ma la strategia culturale elaborata da un missionario
in un contesto agricolo.
Per valorizzare la ricchezza della tradizione
di fronte alla modeità.

Da Beira, la seconda città del
Mozambico, sono in partenza
per Cuamba, nel cuore
della regione del Niassa. Il viaggio
sarà in aereo fino a Nampula e
poi in auto.
Il velivolo ritarda. Fortunatamente
sono con Raffaele Carpaneto, ingegnere
(per gli amici Lino), e padre
Filipe J. Couto, rettore dell’università
cattolica, che ammazzano il tempo
in sala di attesa discutendo persino
di matematica pura. Io sbadiglio
al cospetto di una gigantografia,
che raffigura il primo volo aereo dal
Portogallo alla colonia del Mozambico.
Di botto mi assale il detto di
Karl Kraus: «L’uomo che sbadiglia
assomiglia ad un animale».
Dopo quasi cinque ore, decolliamo
per Nampula e, subito, puntiamo
verso Cuamba. Sono le 14,30.
Ci attendono 400 chilometri in terra
battuta, con la Toyota che arranca
sui dossi, sprofonda nelle buche,
sbanda sulle inclinazioni, sussulta
sui tratti corrugati: e noi con essa.
Ora l’ingegnere e il rettore non
discettano più di matematica pura,
ma (soprattutto padre Couto, affabulatore
instancabile) si abbandonano
al genere «barzellette». Cessano
anche queste, come il sole che
tramonta. Ed è subito «Africa nera», rischiarata appena dai fari dell’auto
che mettono in fuga qualche
lepre sulla via. Si scorge solo l’erba
alta ai margini della strada, che la
Toyota schiaffeggia. Sembra di avanzare
tra due pareti interminabili
e ondeggianti.
Alle 22,30 ecco Cuamba e il sorriso
ospitale di padre Adriano Prado,
brasiliano, che ci offre cena. Ma,
con gli sballottamenti sofferti, preferiamo
ritirarci. Ci attendono una
branda traballante e la compagnia
delle zanzare. Ma, sulla porta della
cameretta, si affaccia il rettore magnifico
Couto con uno zampirone.
«Accendetelo! Meglio il fumo che le
zanzare malariche». Un bel gesto.

POICHÉ «LUI» NON C’È
Il giorno seguente padre Couto si
separa. L’ingegnere Lino ed io partiamo
alla volta di Maua, a tre ore di
auto. Altri sobbalzi, ma questa volta
la strada è da «formula uno» rispetto
a quella di ieri.
Giunti a destinazione, «lui»… non
c’è. «Sta visitando una comunità. Ritoerà
certamente prima di notte»
ci risponde fratel Gerardo Secondino
con uno sguardo un po’ ironico.
Quasi a dire: «Qui si lavora!». Però,
di fronte alla nostra delusione, soggiunge:
«Forse ritoerà nel primo
pomeriggio. Intanto pranzate con
noi. Poi, se Deus quiser…». Dio vuole
che gustiamo un buon risotto (un
piatto luculliano in Mozambico) in
compagnia anche di padre Julius
Mwangi, kenyano.
Nel pomeriggio (poiché «lui» non
è ritornato) visitiamo una scuola per
«l’insegnamento a distanza» a pochi
chilometri da Maua. Gli allievi sono
tutti adulti: frequentano il centro una
volta al mese e acquisiscono alcune
nozioni basilari; a casa si esercitano
nei compiti da consegnare all’insegnante
il mese successivo. Ideata
dai missionari, la scuola viene incontro
alle esigenze degli adulti nei villaggi
sprovvisti di strutture educative.
Gli studenti provengono da distanze
notevoli: anche tre ore di bici.
Ritorniamo alla missione. «Lui» è
sempre assente. Passeggiamo lungo
la strada principale di Maua. È sorprendente
il movimento: donne in
fila verso il mulino per macinare granoturco,
uomini che trasportano pesanti
e lunghi pali per costruire una
nuova casa e un viavai costante al
mercatino per acquistare o vendere
pesce secco, olio, scampoli coloratissimi
di stoffe. C’è pure una piccola
banca: segno che gira denaro.
Sulla facciata di una scuola statale
campeggiano le parole «produrre,
studiare, combattere», ispirate a
suo tempo dalla Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico), il partito
al potere dall’indipendenza del
paese (1975). Alcuni ragazzi siedono
davanti ad un modesto monumento
a piramide (opera anch’esso
della Frelimo), che ostenta una zappa,
un martello e una stella rossa; su
un blocco di cemento bianco si legge:
«Difendere la patria, vincere il
sottosviluppo, costruire il socialismo
(Maua, aprile 1983)». La
data ricorda un congresso
del partito nel cuore della
guerra civile. Oggi tuttavia,
dal 1992, il paese vive
in pace.
Durante la guerra civile i
cristiani di Maua non disponevano
di una chiesa ove celebrare
i funerali di
tante vittime, pregare
per la riconciliazione
nazionale
e la pace. Né potevano
costruirla in
cemento e ferro, perché
tali mezzi erano
irreperibili. Ma padre
Franco Gioda ragionò
davanti a tutti: «La chiesa
è fatta soprattutto di
cristiani, e i fedeli,
graças a Deus, non
mancano; poi servono cose materiali.
Vi domando: i nostri foaciai
non possono cuocere mattoni e tegole,
i nostri falegnami non sono in
grado di squadrare con l’accetta le
finestre e i fabbri forgiare i serramenti?
I muratori non possono erigere
muri e i pittori decorarli con colori
tratti dalle argille locali? Così si
supera anche il cruciale problema
della dipendenza dall’estero…».
In pieno conflitto è sorta la chiesa
di Maua, opera del popolo.
Stiamo per entrare. L’occhio ammira
il portone d’ingresso in legno
massiccio, finemente intarsiato con
immagini bibliche dagli artigiani del
paese. L’interno è una sinfonia di colori,
che i bagliori del sole tonificano.
La suggestione smorza la parola.
Diventa contemplazione.
«Che ne dite?». La domanda risuona
alle nostre spalle. È «lui», che
ha pure realizzato il sogno di padre
Franco.

UNA MONTAGNA DI CARTE
«Lui» è GIUSEPPE FRIZZI (*), missionario
della Consolata, come il
rettore Couto, fratel Gerardo
e i padri Julius e Franco. Però
è specialmente un mio compagno del liceo e della filosofia. Incontrarlo
a Torino, alla redazione di
Missioni Consolata, è un piacere; ma
abbracciarlo a Maua, fra il popolo
dei macua, è una commozione.
Mise piede in Mozambico quando
il paese era ancora colonia portoghese
e lottava per l’indipendenza
nazionale. In seguito soffrì con la
gente i 16 anni di guerra civile ed esultò
per la pace nel 1992.
Durante gli anni drammatici del
conflitto, padre Giuseppe non se ne
stette in casa ad aspettare la fine delle
ostilità; ma visitava le comunità
per settimane e settimane, a piedi e
in bicicletta: informava, ascoltava,
interrogava, rifletteva, annotava, incoraggiava.
Ha pregato e cantato
ovunque, soffrendo la penuria
come tutti e rischiando
il sequestro di persona
da parte della Renamo
(Resistenza nazionale mozambicana,
il partito armato
che si opponeva alla
Frelimo).
Ritornato a Maua, trascriveva organicamente
i miti e proverbi raccontati
dagli anziani, le favole e gli
indovinelli delle nonne, le ricette
psicosomatiche del curandeiro (medico
tradizionale). Il suo ufficio è diventato
una montagna di carte.
«I proverbi sono 9.708 – precisa
padre Giuseppe prendendo in mano
un fascio di fogli -. Le favole sono
un migliaio; poi abbiamo circa 2
mila indovinelli e tanti canti sull’iniziazione
femminile e maschile».
Mentre l’ex compagno parla, sul
suo tavolo di studio mi incuriosisce
un «coso», ricoperto da un drappo
rosso che sollevo e, stupito, tocco
un computer, alimentato da pannelli
solari. Ebbene: quel
vasto e prezioso materiale
etnografico è
stato elencato, catalogato.
La cultura
macua non
sarà più soltanto
orale, bensì scritta,
anzi computerizzata.
E, nel profondo dell’Africa,
computerizzati sono pure numerosi
disegni di artisti locali.

LE PORTE APERTE
Per fare che cosa?
«Ho già inserito proverbi e disegni
nel libro del catechismo e nella
bibbia appena tradotta in macua –
risponde il missionario -. Ma il materiale
può servire anche per una riflessione
antropologica nel contesto
del Mozambico moderno».
All’università la facoltà di pedagogia
o diritto, ad esempio, non dovrebbe
sorvolare sui valori culturali
dell’iniziazione tradizionale. L’insegnamento
di etica (una disciplina
presente in tutte le facoltà dell’università
cattolica) non dovrebbe ignorare
la ricerca del missionario di
Maua. È una ricerca non individuale,
ma comunitaria, che si è avvalsa
degli anziani (uomini e donne), degli
esperti del culto agli antenati, degli
operatori tradizionali della salute:
i depositari della cultura macua
insomma.
Lo studio delle radici culturali, da
applicarsi alla società attuale, è terminato?
«Stiamo completando l’applicazione
alla liturgia e alla catechesi. A
Maua, grazie anche alla Conferenza
episcopale italiana e alle Suore di
san Pietro Claver, abbiamo composto
e pubblicato canti e preghiere,
abbiamo tradotto, commentato e illustrato
la sacra scrittura. Oggi, dopo
alcune esperienze, può iniziare il
lavoro nelle scuole medie e superiori,
introducendo magari il bilinguismo
(macua e portoghese)».
Con quale risultato?
«Alcuni risultati sono sorprendenti:
ad esempio, chi sa scrivere il
macua impara meglio il portoghese.
Uno studente, dopo essersi identificato
con la propria cultura macua,
ora sta specializzandosi con successo
in Cina. Se dal macua si passa al
portoghese, il processo non è solo
più facile, ma più ricco. Se si dà all’alunno
la coscienza che, fin dal suo
villaggio, egli non è un selvaggio ignorante,
entrerà nella scuola modea
più convinto dei propri mezzi
e imparerà meglio le nuove discipline.
La matematica occidentale è
astrusa per i macua; invece diventa
più facile se si passa dalla loro alla
nostra matematica».
E tu, straniero, come sei stato accolto
dalla gente?
«Questa domanda dovresti farla
alla gente. L’accettazione dell’“altro”
dipende sempre dalla sua simpatia
e sintonia verso la cultura locale.
Nel mio caso, posso dire che
mi si aprono tutte le porte».
Non è poco. Infatti, se è vero che
la cultura tradizionale avalla lo spirito
comunitario, è vero altresì che
non elimina una «riserva mentale»
verso l’«altro» fra gli stessi macua.
La riserva è più accentuata, a fortiori,
per uno straniero. Se di fronte
a padre Giuseppe Frizzi la riserva
è caduta, il fatto è straordinario.

IL TOPOLINO NON SALTA
A Maua è nato il Centro di cultura
macua, oggi collegato anche alla
facoltà di agricoltura di Cuamba
dell’università cattolica.
Perché proprio la facoltà di agricoltura?
«La proposta al rettore dell’università,
padre
Couto, è stata
q u e s t a :
poiché la facoltà di agricoltura è frequentata
soprattutto da macua, facciamo
loro delle lezioni sulla cultura
tradizionale per spiegare il rapporto
“cordiale e religioso” dei loro
anziani con la terra».
Non ti sembra di sognare il tempo
passato?
«Me l’aspettavo tale obiezione!
Dopo 28 anni vissuti con i macua,
prima di utilizzare i mezzi dell’agricoltura
modea, ritengo necessario
partire dalle radici culturali di quella
tradizionale, che rappresenta una
filosofia di vita. Non vogliamo polemizzare
con le facoltà di agricoltura
occidentali: sappiamo che non dobbiamo
essere dei nostalgici e sappiamo
pure che, oggi, si possono
mungere le mucche utilizzando il
computer. Ma, per favore, il computer
non disprezzi la mano che, fino a
ieri, mungeva la vacca. Né l’aratro a
dischi disprezzi la zappa della donna
del villaggio. Giova, invece il dialogo
tra la zappa e il computer…».
Bussano. All’«avanti», una ragazza
posa sul tavolo un vassoio di vimini
con tre tazze in terracotta (tutta
produzione locale) e un thermos
di tè. Indicando il thermos e gli altri
oggetti, esclamo: «Ecco il frutto del
dialogo tra computer e zappa!».
L’ingegner Lino sorride divertito,
mentre gli occhi azzurri del compagno
di scuola sprizzano serenità.
In attesa che il tè bollente diventi
bevibile, chiedo a padre Giuseppe
qualche considerazione sulla vita
di tutti i giorni, dopo la firma della
pace nel 1992.
«Le cose potrebbero andare meglio.
I macua hanno l’impressione di
essere ignorati dal governo. Però, se
tieni presente che durante la guerra
a Maua circolavano solo due bici,
mentre oggi se ne contano due in ogni
famiglia… La pace è stata raggiunta
quando si è capito che essa
vale di più (anche economicamente!)
del commercio delle armi. Questo
è stato l’argomento che ha disarmato,
ad esempio, la Renamo».
Dal punto di vista etico…
«Ecco il nocciolo della questione
– interrompe il missionario -. Non
dimentichiamo che la guerra è stata
civile: non solo tra Frelimo e Renamo,
ma anche tra famiglie, tra genitori
e figli all’interno della stessa
casa con odi, furti e omicidi da ogni
parte. Che ci siano strascichi è deprecabile,
ma comprensibile. Però,
con la pace, la vita a Maua è ripresa
senza vendette. Non conosco un solo
caso di vendetta personale».
Finita la guerra, si è parlato subito
di riconciliazione nazionale; qualcuno
ha suggerito di invitare da America
e Europa tecnici per la pacificazione.
Ma gli anziani di Maua
hanno scosso la testa citando il proverbio
«il topolino salta la strada solo
per necessità». Però, se non c’è alcun
pericolo, il topo segue la strada,
cioè la tradizione.
Così a Maua un combattente della
Renamo, uxoricida, ha rischiato
il linciaggio; però, consigliato dal
missionario e appellandosi alla tradizione
che prevede il perdono, ha
confessato il delitto in pubblico, ed
è stato graziato. «Ecco la riconciliazione
» conclude padre Giuseppe.
Seduto su una dura sedia da circa
un’ora, mi è spontaneo allungare
le gambe sotto il tavolo.
Un piede tocca una pila di legni
accatastati, che si ribaltano rumorosamente.
«Piano! Tu non sai che c’è qui sotto
». Giuseppe raccoglie un legno. È
un crocifisso. Uno fra tanti, tutti
modellati sulla sagoma dell’albero.
«Provengono dalla nostra scuola
d’arte. La croce-albero ricorda la filosofia
tradizionale della pianta: la
pianta che rinfresca con la sua ombra,
che dona cibo con i suoi frutti e
medicine con le foglie e cortecce…
L’albero è vita. Pertanto, modellata
a forma d’albero, la croce rimanda
doppiamente all’albero della vita,
perché il crocifisso è il figlio di Dio…
Signor Lino, posso farle questo omaggio?».
L’ingegnere, confuso, riceve
il crocifisso dalle mani
del missionario.

(*) PADRE GIUSEPPE FRIZZI,
missionario della Consolata in Mozambico
dal 1975, licenziato in filosofia all’Università
urbaniana (Roma) e laureato
in teologia biblica all’università di
Münster (Germania). Ha scritto un catechismo
in macua e tradotto l’intera
bibbia. In italiano ha pubblicato «Gesù
mediatore e maestro», ricco di illustrazioni
(Istituto di San Pietro Claver
via Marmolada 40 – 00048 Nettuno).

Francesco Beardi




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Ma era proprio biondo?

Appartengono alla «Scuola d’arte macúa» del Niassa.
Diversi per carattere, formazione culturale e vicende familiari,hanno in comune l’odio per la guerra
(tutte le guerre) e il gusto per il «nuovo». Anche nel ritrarre la bibbia.

J oão Torchio e Luís Prisciliano entrano titubanti nella redazione di Missioni Consolata. Vengono dal Mozambico: ed è la prima volta che escono dal loro paese. Li accompagna padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata.
Fa abbastanza caldo a Torino. Ma il signor Prisciliano se ne sta rannicchiato in un giaccone grigio-nero: ha l’aria severa, espressione accentuata dalla barba ispida. Invece il compagno Torchio, dal volto più disteso, spicca per una camicia gialla a mezze maniche. Entrambi sono artisti della Escola de arte «macúa», fondata da padre Frizzi.
«Benvenuti, amici, e accomodatevi! Grazie della vostra visita».
un orfano alla ribalta
– Signor Torchio, il suo cognome è un po’ curioso…
– Infatti non è mozambicano. È italiano. Sono figlio di un vostro connazionale.
– E dov’è oggi suo padre?
– Dovrebbe essere in Italia.
Dunque João Torchio, 43 anni, è figlio di un italiano. La mamma invece è del Malawi. Però João si ritiene orfano, perché da molto tempo ha perso ogni traccia dei genitori. Era ancora bambino quando il padre lo «consegnò» ai missionari della Consolata di Massangulo: di tanto in tanto, fino al 1975, il genitore visitava il figlio. Lo stesso facevano la madre e uno zio materno. Poi più nulla.
Il padre di João ritoò in patria, dove tutt’oggi vivrebbe con moglie e figli.
«Considero genitori padre Pietro Calandri e suor Franca Cavicchi – dichiara il meticcio -, cui devo grande riconoscenza, come pure ad altri missionari della Consolata. Oggi sono sposato con 10 figli: insieme alla moglie, sono la mia unica gioia. Ciò non toglie che la mia esistenza sia ancora dura. Mia compagna è sempre la solitudine».
Una solitudine resa più acuta dale tragedie sofferte dal Mozambico. João era ancora bambino quando, negli anni ’60-70, il suo paese lottava contro il Portogallo per l’indipendenza nazionale: uno scontro armato durato circa 15 anni. Poi, quasi subito dopo l’indipendenza del 1975, la devastante guerra civile tra Frelimo e Renamo, terminata solo nel 1992. «Due conflitti sanguinosi – commenta Torchio -, senza contare le persecuzioni religiose, le nazionalizzazioni forzate, i profughi interni, la fame, l’ingiustizia».
Nel frattempo il giovane João, abbandonato dai genitori, cresceva accanto ai missionari. Il ragazzo era attratto, soprattutto, da padre Calandri «pittore»: le «nature morte» e i «paesaggi sconfinati» del missionario lo affascinavano. Suor Franca capì che nel ragazzo non c’era solo curiosità: e gli mise in mano carta e pastelli. Fu così che João si rivelò un cartellonista e fumettista prodigioso: con i suoi disegni rallegrava tutte le feste della missione di Massangulo…
Se ne accorse anche padre Frizzi, che gli propose di lavorare nella Escola de arte «macúa» presso la missione di Maúa. «João Torchio – afferma il missionario – varia molto lo stile, alternando quello realista con quello semirealista, impressionista ed altri stili: cubico-geometrico, circolare-duale. Ma, al di là della tecnica, l’autore ha sempre presente la bibbia, che traduce secondo la cultura africana».
– Signor Torchio, qual è la fonte di ispirazione delle sue raffigurazioni?
– Innanzitutto la mia fantasia. Poi, quando padre Frizzi, mi ha chiesto di ritrarre il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli, fonte di ispirazione sono i fatti della bibbia.
– Fatti che, tuttavia, lei non copia, ma «interiorizza».
– L’artista non copia; trasfigura, interpreta.
– Come sono stati accolti i suoi lavori?
– Non sempre con favore.
Ad esempio: fu chiesto a Torchio di pitturare l’abside della cattedrale di Lichinga; ma il suo progetto venne respinto dai «tradizionalisti». E l’artista fu costretto a modificarlo. Questo lo ha molto rattristato. Oggi, però, non mancano segnali di comprensione ed accettazione del suo stile.
– Signor Torchio, in questi giorni lei è in Italia. Quali sono le sue impressioni?
– Finora sono stato solo a Roma. Ma penso di avere già visto molto nella vostra capitale, che è anche quella di tutti i cattolici del mondo. Roma è pure un centro storico unico e un immenso tesoro d’arte. Io sono rimasto senza parole nel camminare lungo le strade della «città eterna», perché le emozioni erano troppe.
– Ora, in Italia, non le piacerebbe sapere anche qualcosa di preciso su suo padre?
– E me lo domanda?
un «eretico» estroverso
«Se l’amico João è interamente figlio dei missionari della Consolata, io lo sono solo per metà: infatti devo la mia formazione anche a padri monfortani…». Esordisce così Luís Prisciliano, senza attendere la nostra domanda. Nel frattempo si liscia i baffi con il pollice e l’indice. Il suo volto, ora illuminato dal sorriso, appare meno «nero».
Ma ritorna «nerissimo», quando bolla le «guerre criminali patite dal popolo mozambicano». Al che ci sentiamo quasi obbligati di replicare, ricordando che nel paese la situazione è migliorata.
– Oggi, finalmente, vivete in pace e godete della democrazia!
– Certo, certo. Ma bisogna passare dalla democrazia delle parole a quella dei fatti. Il popolo vuole gesti concreti, non ideologie.
Prisciliano è un eclettico. È stato maestro e contabile, con alle spalle un buon bagaglio culturale. Voleva anche fare l’infermiere. «Poi, come mestiere, ho cominciato a dipingere per guadagnare. Però non sono diventato ricco, anzi!».
Un giorno capisce che la vera arte ha bisogno di una ispirazione pura, profonda. «E dove potevo trovarla se non nella mia cultura africana?». Ha cessato di dipingere per soldi e ha iniziato a farlo per «vocazione»: e comunica il messaggio evangelico. Però sentiva il bisogno di vagliare la sua ispirazione. «L’ho fatto – dice il pittore – vivendo nella foresta con la gente, per capire meglio la religiosità tradizionale. La foresta è un santuario: qui avvenivano e avvengono i sacrifici antichi». Tanti gli hanno dato del matto. Ma il «nuovo pittore» non ha demorso.
Così l’artista ha recuperato la tradizione e, soprattutto, «l’obbedienza ai sogni. Ogni mio progetto, prima di essere schizzato, è visto nel sogno».
– Signor Prisciliano, che cosa intende per «sogno»?
– La visione di simboli. Questi (elemento tipico della nostra tradizione) consentono di trasmettere il messaggio biblico con categorie africane. I simboli non si possono pensare; si ricevono nel sogno.
– Li riceve da chi?
– Dagli spiriti degli antenati.
Il ricorso ai simboli ci rimanda al libro «Gesù mediatore e medico», curato da padre Frizzi in lingua italiana e macúa, che raccoglie anche numerosi disegni di Torchio e Prisciliano. Vi si legge che Gesù è… gazzella, tartaruga, camaleonte.
Qual è il significato cristiano di tale simbologia? «Gesù è la gazzella per eccellenza, che con la sua innocenza primordiale cura e redime l’umanità; Gesù è la tartaruga, che con l’umiltà scala la montagna, ottiene da Dio l’indicazione del deposito d’acqua e l’offre all’umanità assetata; Gesù è il camaleonte, che si fa tutto a tutti, cioè ebreo con gli ebrei, greco con i greci, macúa con i macúa».
– Signor Prisciliano, i cattolici del Niassa, abituati ad un Gesù biondo e con gli occhi azzurri, si ritrovano nel suo Cristo… camaleonte?
– Ma è proprio vero che Gesù era biondo?… In ogni caso, il Cristo-camaleonte, oltre che valorizzare la nostra tradizione, è in sintonia con l’insegnamento di Paolo apostolo.
– E i cristiani approvano?
– I seminaristi, studenti di teologia, mi hanno duramente contestato.
– Allora?
– Allora costoro devono sapere che sono succubi dei colonialisti religiosi.
– Non teme di offendere i suoi concittadini con una simile espressione?
– Già! Qualcuno ha detto che la verità offende… Però mi consola che il popolo capisce, a differenza dei preti.
– E i missionari?
– Tutto dipende dal cuore di ognuno. Numerosi missionari si sforzano di capire.
«Luís Prisciliano – commenta padre Frizzi – è un pittore dalla fantasia fervida e non sempre viene capito. Ha rischiato anche di essere espulso dalla comunità cristiana. Io mi sono opposto e l’ho rilanciato nell’attività artistica con temi biblici. Nella nostra escola si dedica alle via crucis e ne ha prodotte parecchie dalle tinte forti».
Il pittore è certamente imprevedibile, anticonformista, provocatorio. A differenza di Torchio (affascinato dalla «grande» Roma), Prisciliano in Italia è rimasto colpito dai cimiteri delle auto. «Da noi sarebbero ancora tutte sulla strada. Da voi sono il segno della ricchezza o dello spreco?».
D opo cena saliamo con gli ospiti sul Monte dei Cappuccini, per ammirare Torino by night, sotto l’occhio distaccato della luna. Un improvviso vento rende quasi fredda la notte. Giunti in vetta, usciamo dalla Fiat Uno: João Torchio indossa un K-way a maniche lunghe, mentre Luís Prisciliano si sfila il giaccone e resta a braccia nude, sotto lo sguardo divertito persino delle stelle.
Paese che vai… artista che trovi.

CORRUZIONE IN MOZAMBICO

Padre Couto, da mesi sei preoccupato del modo con cui si parla della corruzione in Mozambico. Perché?
Secondo alcuni, nel paese tutto è corrotto: governo, polizia, magistratura, banche… Io non sono d’accordo, perché, se tutto è negativo, lo è anche l’evangelizzazione. Lo squalificare l’intera nazione è disonesto. I mezzi di comunicazione, le istituzioni culturali e le religioni dovrebbero affrontare il problema «corruzione» con la dovuta responsabilità e discrezione.

Ma la corruzione esiste o non esiste?
Esistono diverse forme di corruzione. Però bisogna dimostrarle in modo chiaro e definito per superarle.

Che fare per «dimostrare», «definire», «superare»?
Occorre fissare dei presupposti come punti di partenza per agire. Primo: creare un nuovo contesto legale. Ci sono mozambicani che hanno accumulato beni mobili e immobili, che noi generalmente riteniamo corrotti. Nel «nuovo contesto legale» queste persone dovrebbero essere riconosciute come proprietarie dei beni accumulati e diventerebbero la classe degli imprenditori, in accordo con le leggi. Dovremmo legittimare tale classe.
Secondo: legare l’azione degli imprenditori alla politica del paese. Goveo, assemblea della repubblica, partiti, sindacati… dovrebbero concertare la loro azione anche secondo gli interessi degli imprenditori.

Da quando esiste la classe degli imprenditori?
Dall’indipendenza del paese (1975). Sono persone e gruppi che provengono dal «Fronte di liberazione del Mozambico» (Frelimo): alcuni hanno formato e formano l’apparato del governo; altri sono direttori di banche, porti, ferrovie, trasporti, comunicazioni. Esistono membri del Comitato centrale del Frelimo che hanno una partecipazione dei capitali di Compagnie industriali dell’Asia, Europa e America. Esistono quindi «Joint Venture» fra imprenditori mozambicani e stranieri.
E fra i partiti dell’opposizione?
Ci sono pure gruppi che stanno diventando la classe imprenditrice del paese.

Dunque: bisogna proteggere legalmente i mozambicani che, dopo l’indipendenza del paese, hanno rimpiazzato i colonialisti portoghesi e ora si stanno legando a capitali nazionali e stranieri. È forse un’amnistia per chi ha accumulato beni anche in modo illecito?
Io dico che gli imprenditori sono il motore per formare una società meno corrotta. Vado oltre: le istituzioni della società civile, quelle religiose e umanitarie devono avvicinarsi alla classe degli imprenditori per essere loro di esempio nel «senso della patria», nell’etica sociale e nella politica in favore del bene comune. Prospetto un compromesso fra tutte le forze del paese.

È un compromesso tra chi ha già molto e chi non ha niente, con l’avallo della legge. Non è pericoloso?
È l’unica via ragionevole per costruire un ordine sociale dove giustizia e sicurezza incomincino a funzionare. Gli imprenditori, legalizzati i loro capitali, saranno interessati alla pace del paese per salvaguardarli; nello stesso tempo dovranno lavorare per accrescere gli utili: così facendo, investiranno parte del loro patrimonio in opere che andranno a beneficio di chi ha un livello di vita molto basso.

Hai in mente qualche modello di riferimento?
Paesi come Belgio, Germania, Olanda e le nazioni scandinave hanno fatto il «compromesso». Se sono riusciti loro, perché non noi in Mozambico?

E pensi anche di superare le «differenze di classe»?
Queste esisteranno sempre. Ma una cosa sono le differenze in una società «abbastanza soddisfatta» un’altra in una società «totalmente insoddisfatta».

Queste riflessioni entrano pure nell’Università Cattolica del Mozambico?
Stanno entrando in tutte le università del paese. Queste devono lavorare per raggiungere la «tranquillità dell’ordine» (sant’Agostino di Ippona). Legare le università agli imprenditori è un dovere, anche per tutelare i valori della società. di F. B.

Francesco Beardi




Mozambico, università cattolica

Caro direttore,
con piacere ho letto «Protetti persino da… una suora» (Missioni Consolata, settembre 2000). L’articolo riguarda l’università cattolica del Mozambico. Dopo gli accordi di pace di Roma(1992), il paese ora è uno dei «successi» dell’Africa e l’università cattolica rafforza la speranza della nazione. È anche un onore vedere che i missionari della Consolata sono stati scelti per avviare e portare avanti la grande opera.
Ma, leggendo l’articolo, non posso nascondere il mio stupore. Se non sbaglio, sembra che l’università cattolica sia lasciata a se stessa… Tutti i missionari che hanno lavorato seriamente in Africa conoscono l’importanza strategica dell’educazione, secondo il detto: «È meglio insegnare a pescare che dare il pesce».
Io penso che l’università cattolica del Mozambico debba essere maggiormente sostenuta dai missionari della Consolata. Tra l’altro, il rettore e il vicerettore non sono membri dell’Istituto?
Sarebbe un «affare» anche per lo stesso Istituto far credito all’università secondo criteri commerciali e di solidarietà. E non c’è da temere il fallimento: infatti l’università ha sempre pagato i debiti fino all’ultimo centesimo.
Mi congratulo con i padri Couto e Ponsi, nonché con suor Dalmazia (rispettivamente rettore, vicerettore e docente all’università) per il loro impegno. Mi auguro che questi confratelli non siano lasciati soli, ma sostenuti dall’intera nostra famiglia missionaria. Non è anche questo un bel modo di celebrare il nostro centenario. O mi sbaglio?
p. Marco Bagnarol
Portogallo

Non ti sbagli, caro padre Marco! Un famoso principio della morale cattolica recita: caritas incipit ab egone. La carità inizia in famiglia.

p. Marco Bagnarol




MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes




MOZAMBICO – Protetti persino da una suora

P adre Filipe Couto, mozambicano e missionario della Consolata, è l’attuale rettore dell’università cattolica del Mozambico (Ucm). Sorta per volontà dell’episcopato del paese e inaugurata a Beira il 10 agosto del 1996, l’università, nonostante le non poche difficoltà, è in continua espansione, come ci rivela questa breve intervista.

Lo scorso agosto, l’università cattolica del Mozambico ha inaugurato una facoltà di scienze bio-mediche nella provincia di Sofala, a Beira. Come mai?
Volevamo iniziare una scuola superiore di medicina, anche se esiste già una facoltà nella nostra capitale (Maputo). Però la chiesa e il ministero della sanità hanno compreso la necessità di avee un’altra per formare più medici che potranno curare i malati nelle varie province e distretti.
Abbiamo pochissimi medici mozambicani e il nostro paese è molto esteso; troppi studenti non possono uscire dal centro e dal nord del paese per andare nella capitale. Inoltre, è necessario incominciare una scuola superiore di medicina con un tipo di istruzione molto più adeguato alle necessità. Il tirocinio accademico e pratico dovrà essere svolto tenendo conto dei bisogni degli ammalati dell’Africa Australe: Sudafrica, Botswana, Namibia, Zimbabwe, Malawi, Zambia, Tanzania…

Chi vi assiste nell’esecuzione del progetto?
Dalla scuola superiore di medicina dell’Università di Wittwatersrand (Johannesburg – Sudafrica) due professori (Peter Gray e Adriano G. Duse) si sono impegnati a foirci un’assistenza. Essi cornordineranno tutto il progetto: l’anno preparatorio, il ciclo pre-clinico e clinico; accompagneranno anche il lavoro che stiamo facendo per trasformare l’ospedale centrale della città di Beira in clinica di insegnamento per gli studenti di medicina.
Attraverso i due medici, avremo anche l’assistenza di due professori della Scuola di medicina dell’Università di West Virginia (Stati Uniti).
L’attuale ministro della sanità in Mozambico, Francisco Ferreira Songane, quando era direttore dell’ospedale centrale, aveva lavorato insieme a noi per organizzare il programma. Adesso, da ministro, si sente impegnato ad appoggiare l’inizio e lo sviluppo del progetto. Anche la facoltà di medicina dell’Università statale «Eduardo Mondlane» collabora con noi.

Disponete di mezzi finanziari per iniziare, sviluppare e continuare il progetto?
Abbiamo un credito da un banchiere tedesco, senatore e console onorario del Mozambico in Germania, nella Baviera, Siegfried Lingel. La sua banca (Merkur Bank) ci ha concesso un prestito. Questo ha dato la possibilità di incominciare. Alcuni istituti missionari ci hanno appoggiato: la provincia italiana dei missionari della Consolata, la direzione generale delle missionarie della Consolata, la regione italiana dei missionari comboniani, una parrocchia della diocesi di Milano (il cui parroco, don Antonio Colombo, ha una sorella missionaria della Consolata che lavora in Mozambico). Inoltre, contiamo sul sostegno di un gruppo di Casatenovo (LC), costituito dalla famiglia e amici della dottoressa Graziella Fumagalli, trucidata in Somalia (dove era volontaria della Caritas e responsabile di un ospedale).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who) in Mozambico ci ha dato un piccolo sussidio per pagare i consulenti che vengono da fuori.
Quanto al futuro: l’Ucm è opera di Dio. Confidiamo soprattutto nella provvidenza di Dio, della Madonna Consolata, di san Giuseppe e tutti i santi: includendo una suora benedettina tanzaniana, deceduta nel 1950 e sepolta a Songea (Tanzania), suor Beadette Mbawala; questa suora ha protetto e continua a proteggere l’Ucm, specialmente la rettoria.
In secondo luogo, contiamo sulle tasse scolastiche degli studenti. Ognuno dovrà pagare annualmente il corrispondente di 1.000 dollari americani. La Facoltà di scienze bio-mediche riuscirà ad automantenersi nella misura in cui riusciremo a sviluppare un sistema di tasse scolastiche che, pur non avendo intenzioni lucrative, esiga il pagamento delle spese ordinarie.
Stiamo cercando dei crediti per compensare quello che, per il momento, non riusciamo ad avere con le nostre forze: ci sono delle banche locali e inteazionali disposte a dare dei crediti bonifici, rimborsabili a lunga scadenza e con interessi non troppo alti. Stiamo dialogando con diverse fondazioni ed istituzioni bancarie per ottenere altri fondi.

Oggi si parla del condono del debito ai paesi in via di sviluppo e… voi di debiti volete fae ancora!
La faccenda del condono del debito è complessa. Noi non potremo iniziare le nostre attività senza ricorrere ai crediti. Abbiamo avuto esperienze positive con la Facoltà di agricoltura dell’Ucm, che già stà funzionando da due anni nella provincia del Niassa, a Cuamba.

Con quanti studenti e docenti avete iniziato?
Ci sono circa 100 studenti nell’anno preparatorio. Quanto ai docenti: ho già menzionato i professori di Wittwatersrand e West Virginia. Avremo anche due medici missionari comboniani: il medico-prete Elias Arroyo e la medico-suora Donata Pacini; entrambi hanno un’esperienza di molti anni nel campo sanitario in Mozambico. Dall’università del paese vicino (lo Zimbabwe) avremo altri docenti.
La Vso (Voluntary Service Overseas) dell’Inghilterra invia tre docenti e il Dog (Dienst Over Grenze) dell’Olanda altri due. Dal Ministero della sanità, dall’ospedale centrale di Beira e dall’università statale «Eduardo Mondlane» provengono dei mozambicani, che lavoreranno con gli esperti venuti da fuori.

Non sarebbe stato meglio incominciare, più modestamente, con una Scuola superiore di infermieri e agenti di sanità pubblica?
In Mozambico ci sono già degli istituti per la formazione di infermieri; ne abbiamo uno persino qui a Beira, nel recinto dell’ospedale centrale. Abbiamo anche istituti di sanità pubblica a Maputo e a livello provinciale, con corsi particolari.
Una nota: il nostro progetto si chiama «Facoltà di scienze bio-mediche». La denominazione significa che, in questa facoltà, l’approccio dell’istruzione ha componenti fondamentali di sanità pubblica. Durante i corsi alcuni studenti potranno cambiare e decidere di formarsi come infermieri. Comunque la facoltà di scienze bio-mediche dell’Ucm punta sulla formazione di medici.
Purtroppo in Mozambico ci sono moltissimi ammalati senza assistenza medica.

Giacomo Mazzotti




MOZAMBICO – A riflettori spenti

Passata l’emergenza causata dalle inondazioni che hanno devastato il Mozambico,
le telecamere straniere
si sono ritirate, ma la tragedia del popolo mozambicano continua. La gente vuole ritornare a vivere e ricostruire il paese; ma ha bisogno
di aiuto e solidarietà.

I dati ufficiali parlano di oltre 2 milioni di sfollati e 650 morti, travolti dalle alluvioni. Passati i giorni di emergenza, 400 mila continuano a vivere nei centri di accoglienza. A Chihaquelane, villaggio a 170 chilometri a nord di Maputo, tra Chókwé e la statale n.1, c’è uno dei maggiori centri di raccolta: circa 80 mila persone, stipate in tende e ripari improvvisati. Ciò che hanno perso può essere considerato poca cosa, ma era tutto quello che possedevano per vivere.
DRAMMA (MALE) ANNUNCIATO
La radio aveva annunciato che Chókwé sarebbe stata raggiunta da un’onda di piena il lunedì 14 febbraio. «Il servizio metereologico era alquanto vago – racconta padre Sebastiano, parroco di Chókwé -. Diceva che saremmo stati raggiunti da una seconda piena, senza alcuna informazione sulla quantità d’acqua, né sulla velocità con cui ci avrebbe raggiunti. Nell’inondazione avvenuta tre giorni prima le acque erano salite molto adagio, permettendo una fuga graduale».
Alle prime ore di domenica 13 febbraio un’onda di enormi proporzioni sommerse in pochi minuti tutta la città. Le autorità locali si erano già ritirate e gli abitanti rimasero disorientati, ingannati dalla disinformazione e dall’esperienza anteriore.
Alcune persone prestarono i primi soccorsi con le proprie barchette. «Ciò che è capitato può essere definito criminale. La prima settimana non abbiamo avuto nessun aiuto» si sfoga suor Anna Rosa, responsabile dell’ospedale di Chókwé e rimasta sul posto fino a quando un elicottero non ebbe portato in salvo gli ultimi pazienti.
Secondo la giornalista della Bbc, Maria de Lourdes, il Sudafrica è stato il primo ad accorrere in aiuto con gli elicotteri, perché sapeva esattamente la quantità dell’acqua trasportata dai fiumi mozambicani. «I sudafricani avevano tutto l’interesse nel mobilitare i giornalisti di altri paesi, per sensibilizzare il mondo e non dover portare da soli l’impegno di affrontare la catastrofe del paese confinante. I giornalisti mozambicani, invece, dotati di scarsi mezzi, poterono mettersi in moto quando ormai le immagini della tragedia avevano fatto il giro del mondo».
Le piogge torrenziali avevano contribuito a ingrossare il fiume Limpopo; ma la rapidità con cui le città di Chókwé e Xaixai vennero sommerse fu provocata dall’apertura delle dighe in territorio sudafricano. Ma di questo non si è parlato, per non danneggiare le buone relazioni tra Sudafrica e Mozambico. Invece la disgrazia sarebbe stata certamente minore, se le informazioni fossero state più precise e tempestive.
RISCHIO EPIDEMIE
Per iniziativa e col finanziamento della cooperazione spagnola, la forza aerea iberica ha allestito a Chihaquelane un ospedale da campo. Ogni giorno vi sono ricoverati 50 persone colpite da malaria, tubercolosi, anemia, denutrizione, infezioni e traumi vari. Di esse solo una decina recuperano la salute e ritornano all’accampamento. Le altre sono trasferite in elicottero agli ospedali di Chicumbane e Maputo.
Quando la forza aerea lascerà il paese, l’équipe medica spagnola continuerà a prendersi cura dell’unità sanitaria, insieme a infermieri e dottori mozambicani. L’arrivo di «medici senza frontiere», Croce Rossa e dottori sudafricani ha permesso la creazione di altri tre centri di soccorso, che danno assistenza giornaliera a centinaia di persone.
I decessi, principalmente di bambini, raggiungono una media di otto casi al giorno. La Caritas nazionale ha organizzato sul posto un centro per l’alimentazione di bimbi denutriti. Suore, infermiere e volontari sono venuti da Maputo a tui, per lavorare in tale programma di alimentazione. Ne usufruiscono circa 120 bambini al giorno. I casi più gravi vengono portati nell’ospedale da campo. Il centro accoglie anche bambini smarriti: 64 di essi non sanno più nulla della propria famiglia.
Il grande magazzino del centro profughi provvede anche alla gente rimasta nei sobborghi, distribuendo viveri, coperte, sapone, vestiti e scarpe a quanti hanno perso tutto nelle acque dell’inondazione.
Il problema maggiore del centro profughi e della città è la scarsità di acqua potabile e di servizi igienici. La mancanza di igiene può far scoppiare da un momento all’altro un’epidemia di colera. L’acqua potabile, trattata con cloro, è foita mediante alcune autobotti; ma l’attesa per avere cinque litri del prezioso liquido può durare ore e ore. Molte donne attingono dagli stagni più vicini.
Gli ingegneri della Oxfam stanno scavando pozzi artesiani; la Croce Rossa si interessa per la costruzione di nuovi servizi igienici nei vari quartieri della città, poiché quelli esistenti sono pochi o fuori uso.
VOGLIA DI RICOMINCIARE
L’acqua va lentamente ritirandosi e prosciugandosi, ma Chókwé rimane una città fantasma, con un fetore insopportabile. Alcune persone si avventurano nel fango, per ricominciare la vita con ciò che riescono a recuperare. Pezzi di mobilia e altre cianfrusaglie sono messe ad asciugano sopra i tetti. Le botteghe cominciano a esporre le loro mercanzie in mezzo all’umidità, quasi per invitare la gente a ritornare alle proprie case.
Quattro suore vincenziane, con l’aiuto di alcuni operai, hanno iniziato a ripulire l’ospedale e vi hanno portato 95 letti. Sulle pareti si vedono i segni lasciati dalle acque limacciose. Per terra mobili e strumenti di lavoro, documenti e archivi, si mescolano al fango puzzolente. Un falegname cerca di mettere in sesto porte e finestre tutte sgangherate.
Suor Maria Elisa continua a raccontare: «Quando abbiamo sentito il rombo delle acque e visto la rapidità con la quale si alzavano, abbiamo trasportato i 60 pazienti al primo piano. Non c’è stato concesso il tempo di salvare nulla, eccetto i ricoverati».
Una giovane mamma, con sulle spalle tre gemelle gravemente denutrite, batte alla porta del convento per chiedere aiuto. Ha attraversato un terreno ancora inondato con l’acqua fino al collo, lasciando indietro il marito e altri figli. La famiglia si è salvata restando per tre giorni su un albero e legando i figli ai rami, perché non cadessero nell’acqua.
Pur nelle misere condizioni in cui è stato ridotto, l’ospedale di Chókwé comincia a funzionare, prestando assistenza ad ammalati e affamati. Nel centro profughi di Chihaquelane molti desiderano ritornare quanto prima ai loro villaggi. Ma le autorità locali non sollecitano tale ritorno prima che venga effettuata la disinfestazione di tutto il territorio e della valle del Limpopo.
Sarmento Miocha aveva 10 ettari di riso nel villaggio di Inconhane e non vede l’ora di ritornare al suo campo. «La mia vita è là, nella terra che ho lasciato coperta di acqua. Sono stato a vedere ciò che è rimasto; ma l’aria tossica e insopportabile non mi permette di starvi».
Come Sarmento, tutta la gente sa che nei prossimi mesi dovrà affrontare grandi difficoltà per sopravvivere e spera negli aiuti, almeno fino a quando sarà possibile riprendere a coltivare la terra.
Intanto bisogna preparare la gente al ritorno ai propri villaggi. Per quanti disagi debbano affrontare, nei campi profughi sono tutti bene assistiti; ma non si vuole creare atteggiamenti di passività e dipendenza. Le assistenti sociali stanno lavorando in questa direzione, preoccupandosi della salute mentale degli sfollati. Molti bambini, traumatizzati dalle inondazioni e dallo sradicamento dall’ambiente naturale, rifiutano di parlare e prendere cibo.
Soprattutto bisogna dire chiaramente a tutti che nei loro villaggi non troveranno più niente; che dovranno incominciare da zero; che i riflettori delle telecamere sono spenti: d’ora in poi, dovranno contare sulle proprie forze.

Jaime Carlos Paitas