Cent’anni donati di cuore Le Missionarie della Consolata in Kenya

Il passaggio
del testimone: è un attimo di concentrazione, di precisione, di passione.
Mentre scrivo, sento di essere io chiamata al passaggio di testimone alle
giovani generazioni, per due motivi. Primo: molto di quello che scrivo l’ho sentito
dalla viva voce di madre Margherita De Maria, la missionaria della prima ora
che nelle belle serate di ricreazione a Sanfré ci raccontava, vibrante di
passione, le prime ore, i primi giorni, le prime spedizioni delle suore
missionarie della Consolata in Africa, in Kenya.

Secondo motivo è quello di
contribuire alla celebrazione del centenario dell’arrivo delle nostre sorelle
in Kenya, io che per anni ho chiamato quella terra «mia patria di adozione».
Con
queste righe voglio rendere omaggio alle tante sorelle conosciute e amate che
ora riposano nei cimiteri di quella terra benedetta.

L’evento

In questa foto (l’originale in bianco e nero è stato
rielaborato da Fraser) ci sono le prime 15 suore missionarie della Consolata
accolte dai missionari della Consolata, dalle suore del Cottolengo (tre,
riconoscibili dalla loro mantellina bianca e lunga) e dai primi cristiani, lavoratori
e bambini della missione di Limuru (probabilmente). Eccole (da sinistra): sr. Rosa Margarino (Portacomaro, At), sr. Filomena Moresco (Barge, Cn), sr. Agnese Gallo (Caramagna, To),
sr. Teresa Grosso (Buttigliera d’Asti, At), sr. Caterina Gemello
(Candiolo, To), sr. Domenica Drudi (Misano, Forlì), sr. Candida
Sandretto (Sparone, To), sr. Margherita De Maria (Dronero, Cn), sr.
Serafina Drudi (Misano, Forlì), sr. Paolina Bertino (Montevideo,
Uruguay), sr. Cristina Moresco (Barge, Cn), sr. Carolina Crespi
(Pogliano, Mi), sr. Costanza Golzio (Castiglione, To), sr. Cecilia
Pachner (Torino), sr. Lucia Monti (Almenno S. B., Bg).

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1913

L’Istituto ha tre anni di
vita. Le suore professe sono 18, le novizie 24, le postulanti 12. Dall’Africa,
e precisamente dal Kenya dove oramai da dieci anni i missionari della Consolata
lavorano, si fa pressione sul Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, nostro
comune Padre, perché mandi le missionarie. Così ecco il 1913 con l’incalzare di
eventi per il giovane Istituto: vestizioni religiose a gennaio, ad aprile, a
maggio, a settembre. In aprile, il giorno 5, le prime professioni religiose
nell’Istituto. «Questo giorno, dice il Fondatore nella conferenza, è da
scriversi a caratteri d’oro».

Dieci sorelle, all’altare,
emettono la loro professione religiosa. Sono le pietre angolari sulle quali si è
innalzato l’edificio delle missionarie della Consolata.

1913, l’anno scorre veloce. Dopo
il traguardo delle prime professioni, il Fondatore annuncia la partenza per le
missioni. Da questo momento, nel Fondatore c’è un solo desiderio: formare le
sue figlie più direttamente a quello spirito missionario di cui Lui aveva tutto
acceso il suo grande cuore.

Madre Margherita De Maria viene
scelta come superiora del primo gruppo delle partenti. Il tempo vola: corsi speciali di
medicina, di inglese, di gekoyo (la lingua dei Kikuyu, come si scriveva
allora, ndr.), di musica; le sorelle visitano regolarmente gli ospedali
della città e non mancano di fare lunghe camminate per allenarsi alla vita
missionaria.

1913, 28 ottobre, le prime 15
missionarie della Consolata destinate al vicariato del Kenya, ricevono
solennemente il Crocifisso, il Compagno del loro pellegrinare in missione,
dalle mani del cardinale Agostino Richelmy, assistito dal Fondatore e dal
Canonico Camisassa. È il momento dell’invio, del mandato «ad gentes» da parte
della diocesi e della Chiesa. Da quel giorno in poi, le missionarie partiranno
dalla Consolata e andranno in tutto il mondo. «Ricevi la Croce di Gesù Cristo.
Ti sia sostegno nelle fatiche
dell’apostolato». È la voce del Vescovo che «manda» i nuovi operai nella messe.

Sono pronte per partire. Eccole:
suor Agnese Gallo, suor Candida Sandretto, suor Carolina Crespi, suor Caterina
Gemello, suor Cecilia Pachner, suor Costanza Golzio, suor Cristina Moresco,
suor Domenica Drudi, suor Filomena Moresco, suor Lucia Monti, suor Margherita
De Maria, suor Paolina Bertino, suor Rosa Margarino, suor Serafina Drudi, suor
Teresa Grosso.

Le prime Missionarie della Consolata nel 1913. Tra loro le suore professe (col crocifisso), le novizie (con la medaglia) e le postulanti (velo nero)

Le prime impressioni

L’Africa. Il Kenya. Un mondo
nuovo per le nostre sorelle. L’immensità dello spazio che si apre davanti a
loro, il cammino difficile, povero, sacrificato; il pericolo dell’isolamento,
la lontananza, lo scoraggiamento, potrebbero intaccare la generosità e la
serenità delle figlie dell’Allamano.

Ma davanti ai loro occhi la
figura del Cristo missionario del Padre, della Consolata, che quale madre
dolcissima le seguiva, il ricordo del Fondatore, il suo sorriso, il suo «Coraggio,
avanti!» diventano il sostegno nei duri inizi.

Partono. Sono 15 e provengono da
otto diocesi: Torino, Saluzzo, Ivrea, Asti, Bergamo, Milano, Rimini e
Montevideo. Alla stazione di Porta Nuova a Torino, il Fondatore commosso dà
loro la sua benedizione.

Partono. Dà loro grande fiducia
il sapere che andranno a lavorare accanto ai missionari della Consolata, figli
dello stesso Fondatore, espressione di uno stesso carisma. Le sorelle ripongono
altrettanta fiducia nel fatto che in Kenya da una decina d’anni lavorano le
Cottolenghine (le suore del Cottolengo) della Piccola Casa di Torino; sotto la
loro guida il tirocinio missionario sarà più facile e sicuro.

Partono. Non hanno con sé il
biglietto di ritorno, hanno salutato tutti, per sempre. Vanno. Quando il
bastimento «Catania» leva le ancore da Genova e le coste della patria si
allontanano, le 15 si stringono l’una all’altra: piangono, sorridono e pregano.
Vanno verso l’ignoto piene di fiducia, sorrette dalla benedizione del
Fondatore. Con sé portano una lettera del
Padre Allamano, da leggersi durante il viaggio: è
un prezioso compendio di quanto era stato loro insegnato durante la
preparazione.

Gruppo di Missionarie della Consolata in Kenya attorno a madre Margherita Maria, la lor superiora.

Da Limuru a Nyeri

Dopo un lungo viaggio, le
missionarie raggiungono il porto di Mombasa in Kenya e il piccolo treno a
scartamento ridotto che porta in Uganda le lascia alla stazione di Limuru: è il
28 novembre 1913. A Limuru, una ventina di km oltre Nairobi, i missionari
avevano posto la loro casa procura da cui poi mandare, attraverso le valli
dell’Aberdare, i rifoimenti alle missioni di Muranga (allora Fort Hall), di
Nyeri e di Meru.

Il cuore è pieno di gioia:
finalmente le missionarie sono nella terra dei loro sogni. Alla stazione sono
ad attenderle monsignor Perlo Filippo, vicario apostolico di Nyeri, le suore
Cottolenghine, vari missionari della Consolata, alcuni dei primi cristiani e i
catecumeni.

Il giorno successivo molti
vengono a salutarle e chiedere notizie del papa, dei superiori, degli italiani.
Il terzo giorno le missionarie iniziano un «corso di orientamento» con le suore
del Cottolengo visitando i villaggi attorno a Limuru e un corso intensivo di
lingua kikuyu in modo di rendersi capaci di comunicare in modo diretto con la
gente.

Il rodaggio dura solo pochi mesi,
poi inizia l’avventura. Le nuove missionarie lasciano Limuru e partono in
carovana per raggiungere Nyeri. I buoi trascinano carri carichi di tutto: le
tende per ripararsi durante le notti del lungo viaggio di quattordici giorni,
il cibo, gli attrezzi e il necessario per mettere su casa una volta arrivate a
destinazione. Dopo la lunga camminata le suore raggiungono Nyeri senza essere
accolte da speciali cerimonie di benvenuto. Solo i circa 75 bambini
dell’orfanatrofio (raccolti dai missionari e dalle suore del Cottolengo perché
abbandonati alle iene nella foresta) le guardano con gli occhi sgranati.

Così ha inizio la nuova missione
Nyeri-Mathari (dove i missionari sono presenti dal 1904). Lo stile di vita è
veramente povero a livello materiale, ma ricco di ogni sorta di attività. Tutti
i giorni riservano il tempo per il catechismo agli operai della grande fattoria
agricola. Con loro lavorano, per produrre il necessario per se stesse e le varie
missioni già aperte dai missionari della Consolata.

È un’avventura anche il ritmo di
lavoro dalla domenica alla domenica. Scuola per tutti quelli che giungono alla
missione dai villaggi intorno; attenzione particolare per le giovani che sono
educate e vivono alla missione; visita agli ammalati nell’ospedale governativo,
cura di quelli che arrivano all’improvvisato dispensario della missione
collocato sotto un albero o in una capanna per proteggere il paziente e la
suora dal sole implacabile; visite regolari ai vicini villaggi, in cerca di
malati da curare; e la cura dei 75 orfani, che vivono ancora in costruzioni
molto provvisorie. E il lavoro massacrante nella immensa piantagione di caffè e
in quella di orchidee; l’attendere agli oltre 500 buoi e mucche (la fattoria
aveva moltissimi buoi per tirare i carri usati nel trasporto del caffè da Nyeri
a Nairobi e per le carovane da una missione all’altra; ndr.) che bisogna
contare al sorgere e al tramonto del sole e accudire giorno dopo giorno.

Missionarie della Consolata impegnate nella visita ai villaggi.

Ma per tutto questo lavoro non
tutte le 15 missionarie rimangono a Nyeri: quattro partono immediatamente per
Tuthu (la prima missione fondata nel 1902 dai missionari nelle valli
dell’Aberdare a oltre 2300 m), dove giungono dopo tre giorni di cammino (il
viaggio oggi richiede poche ore di macchina!). Suor Agnese è la superiora, suor
Paolina Bertino è destinata alla visita ai villaggi e all’insegnamento
nell’incipiente scuola, suor Serafina Drudi per la visita ai villaggi e suor
Rosa Margarino per la cucina di tutta la comunità maschile e femminile della
missione. Così le missionarie iniziano la seconda missione.

Avventure di tempi eroici!
Aggiungiamo quella di inserirsi nell’ambiente vincendo la sfida della lingua,
dei lunghi viaggi, delle malattie come la malaria, le piaghe, la dissenteria,
del cibo scarso: tutto contribuisce a rendere difficile la vita. Ma il Signore è
loro accanto, e interviene anche con i miracoli.

Le sorelle rimaste a Torino,
seguono con amore fraterno le loro missionarie, nell’attesa di raggiungerle, e
pregano:

«Vergine, piena d’amore,
consolatrice d’ogni nostro pianto.
Reggili sugli oceani,
nell’orror delle foreste
e dei deserti ardenti,
Quando spira la furia
dei torrenti,
quando spossati cadono per via,
quando li assale stanchezza e nostalgia,
posati loro accanto!».

E
davvero, come per altre volte a molte di noi, il cielo si fa vicino.

Suore Serafina Drudi in visita a capanne attorno al villaggio di Thusu.

Avventura e grazia

Ed è un’avventura anche uno dei
tanti viaggi fra Tetu (missione fondata nel 1903) e Nyeri. Protagoniste suor
Teresa e suor Candida, le quali, dopo una mattinata spesa nella funzione dei
battesimi, nel pomeriggio si incamminano in carovana per il ritorno alla
missione. La notte si avvicina: vescovo, padri, suore, cristiani e non, tutti
in fila ritornano al Mathari. Tra loro suor Candida, appena giunta in missione,
non allenata alle lunghe marce. A poco a poco tutti sorpassano le due sorelle
che alla fine si trovano isolate, nella solitudine e nel silenzio della notte
africana senza luna. Hanno perso il sentirnero. La paura si fa strada. Un
improvviso fruscio le allarma ancor più. Un serpente, una iena, un leone?
Invece ecco un giovane con una bianca tunica si avvicina e le invita a seguirlo
per raggiungere la carovana. Nel dialogo con suor Teresa si presenta e dice il
suo nome: «Wa Ngai» (di/da Dio). Suor Teresa ribatte che tutti veniamo
da Dio e insiste per sapere il suo nome: «Wa Ngai – dice -, e vengo da molto
lontano». Della giornata dei battesimi il giovane dice che è stata molto bella
ed è piaciuta anche a Dio. Egli precede le sorelle mentre il camminare si fa più
facile e anche suor Candida ha la sensazione che la stanchezza sia scomparsa.
Finalmente, a discesa terminata (perché c’è una valle tra Tetu e Mathari e
bisogna scendere al fiume e risalire), il paesaggio si allarga, si cominciano a
sentire le voci del gruppo. Sono salve! Suor Teresa chiede ancora: «Vuoi dirmi
il tuo nome?». Dopo un istante di sospensione, con voce chiara il giovane
risponde: «Sono Raffaele. Vengo da Dio». E scompare.

In senso orario: suora della Consolata e del Cottolengo tra i bambini orfani dell’orfanotrofio di Nyeri; suora con giovani mamme;
bambini dell’orfanotrofio di Nyeri e la stessa foto ritoccata con al presenza delle suore.

Avventure missionarie: quante! Di
quanti piccoli miracoli in questi cento anni di Kenya, siamo testimoni! Le
piccole scatole-case, le capanne, i primitivi improvvisati dispensari, poco a
poco hanno lasciato il posto a case vere, scuole, ospedali, orfanotrofi,
dispensari. Cento anni per seminare l’Amore, la Consolata e il Padre Fondatore
nel cuore della nostra gente del Kenya, obbedendo all’invito dell’Allamano: «Coraggio
e vanti!».

Gesù, il missionario del Padre ci
ha sempre precedute e ci ha rese anche capaci di cedere nelle mani responsabili
della Chiesa locale quello che con tanto sacrificio è stato costruito (la
maggior parte degli ospedali, scuole e altre attività iniziate nelle missioni
della Consolata, sono ora nelle mani delle Chiesa locale, avendo i missionari e
le missionarie finito il loro compito da dare inizio ad una nuova comunità ndr.).

Ora abbiamo raggiunto il deserto,
di nuovo come agli inizi, forse con meno fatica. Tocca sempre a noi andare e
partire per testimoniare, per passare il testimone ad altre sorelle, alle
giovani di oggi, anche a nome delle 157 missionarie che riposano nei cimiteri
del Kenya: 47 al Mathari-Nyeri, 8 a Meru, 95 al Nazareth Hospital-Nairobi e 7
in altri cimiteri.

Sr. Pier Rosa Campi

Pier Rosa Campi




Kenya, uniti per la pace: ripartire dai giovani

Cooperando

Riunire migliaia di giovani perché possano discutere e confrontarsi, liberare il campo dagli odi fra
etnie, cercare le reali cause del conflitto e trovare una soluzione comunitaria. Questi gli obiettivi del progetto «Giovani uniti per la pace in Kenya» lanciato dai missionari della Consolata e dall’Associazione Africa Rafiki. Affinché la tragedia degli scontri post-elettorali del 2007 e 2008 non si ripeta e prevalgano il dialogo e la riconciliazione.

Era da poco passato Natale quando l’opinione pubblica internazionale fu bruscamente strappata alla tranquillità delle feste dai primi notiziari che parlavano di centinaia di morti e migliaia di sfollati in tutto il Kenya, risucchiato in una tanto inspiegabile quanto cruenta spirale di odio e violenza interetnica all’indomani delle elezioni politiche del 27 dicembre 2007. Increduli, con il disastro ruandese del 1994 ancora negli occhi, gli osservatori cercavano di spiegare come potesse essere successo quello che unanimemente era ritenuto impossibile: che, cioè, un paese come il Kenya, non certo estraneo alle tensioni fra etnie ma dimostratosi fino a quel momento capace di gestirle, stesse sperimentando la stessa follia collettiva che si era vista all’opera in altri paesi africani e che si sperava superata e irripetibile.
La crisi si chiuse il 28 febbraio del 2008, con l’accordo fra i due contendenti, il presidente uscente Mwai Kibaki e l’oppositore Raila Odinga e la formazione di un governo di coalizione. Rimaneva da far luce sulle violenze perpetrate in quei due lunghissimi mesi di conflitto, il cui drammatico bilancio registrava più di mille morti e seicentomila sfollati costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di essere attaccati e massacrati da quelli che, fino a poche settimane prima, erano stati i loro vicini di casa.
Oggi, a quattro anni di distanza, il Paese si prepara a una nuova consultazione elettorale, prevista per la fine del 2012-inizio 2013, in un contesto certamente più disteso e pacificato nel quale però i cittadini keniani rimangono guardinghi. Sebbene il forte desiderio del paese di gettarsi alle spalle i traumi del 2008 nutra un ottimismo tutto sommato abbastanza diffuso, nessuno si sente di escludere del tutto che lo spettro del conflitto inter-etnico torni ad aleggiare non appena la campagna elettorale dei candidati alla presidenza entri nel vivo. Contraddittori sono stati anche i segnali in arrivo dal Kenya dal 2008 ad oggi: se, da un lato, il paese ha accolto in maniera tutto sommato equilibrata la recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di incriminare quattro esponenti politici keniani – fra i quali il figlio dell’ex-presidente Jomo Kenyatta, Uhuru – per omicidio, crimini contro l’umanità, deportazione e persecuzione sulla base di affiliazione politica, dall’altro diverse fonti, fra le quali un report della BBC, hanno segnalato circa due anni fa un tentativo di armarsi che alcuni gruppi della Rift Valley avrebbero perseguito acquistando fucili d’assalto AK 47 e G3.
In questo contesto di fiducia prudente si inserisce l’iniziativa «Giovani Uniti per La Pace in Kenya», un progetto della durata di ventinove mesi che prevede l’organizzazione di forum per la riconciliazione in undici località del Kenya. L’obiettivo è quello di coinvolgere circa sedicimila giovani dei gruppi etnici che si sono scontrati nel 2008, in un processo di valutazione e riflessione comunitario sul conflitto post-elettorale per demistificare l’elemento etnico, riconoscere e individuare le reali cause del conflitto e cercare di rimuoverle attraverso la collaborazione e il dialogo all’interno della comunità.

Presi alla sprovvista
«We were caught unaware», (siamo stati presi alla sprovvista). Padre Jacob Ndong’a non si dava pace, e con lui tutti i missionari presenti in Kenya, anche quando nel 2009 la situazione intea era in corso di normalizzazione e la «Commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione», istituita dal nuovo governo, era al lavoro per investigare sui crimini commessi durante gli scontri. La mediazione internazionale dell’ex-presidente ghanese John Kufuor e dell’ex-segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, insieme alle pressioni della comunità internazionale, avevano portato già nel febbraio del 2008 a un accordo fra Mwai Kibaki e Raila Odinga, che avevano formato un governo di coalizione nel quale i due rivali erano, rispettivamente, presidente della repubblica e primo ministro, ma, al di là degli accordi politici di stabilizzazione, il paese era ancora profondamente traumatizzato.
I segni della violenza, d’altronde, erano tutt’altro che cancellati: a Kisumu, città del Kenya occidentale sulle rive del lago Vittoria, in pieno centro città gli edifici dati alle fiamme durante il conflitto rimanevano, neri di fuliggine e sventrati, come cicatrici non ancora rimarginate e pronte a riaprirsi al primo strappo.
Il senso di frustrazione implicito nelle parole di padre Ndong’a derivava principalmente dalla consapevolezza, condivisa dalla maggior parte dei missionari e degli operatori umanitari attivi in Kenya, che gli scontri post-elettorali del 2007 – 2008 avevano cause molto più profonde della semplice contrapposizione etnica, cause che però erano state ampiamente sottovalutate nel loro potenziale distruttivo.
Ad essere preso alla sprovvista è stato in effetti un Paese intero, chiesa cattolica compresa, che pure da anni nei suoi documenti segnalava la gravità della situazione e l’urgenza di risolvere una volta per tutte il problema della terra. La speranza di elezioni pacifiche aveva fatto sottovalutare la campagna di odio etnico messa in atto nei mesi immediatamente prima delle elezioni con ampio uso di radio locali e cellulari. Questo ottimismo «a tutti i costi» aveva lasciato campo libero a quella parte di classe dirigente che aveva volutamente strumentalizzato l’elemento etnico per fomentare tensioni da capitalizzare come merce di scambio nell’arena politica. Nella maggior parte dei casi, le violenze sono state perpetrate da giovani frustrati dalla mancanza di prospettive occupazionali che avevano accettato, in cambio di una manciata di scellini offerti dagli emissari di politici di diversi schieramenti – ben organizzati già da mesi -, di impugnare la panga (il tipico coltellaccio usato dai contadini per far di tutto, dal tagliare alberi al pulire la terra dalle erbacce, dal macellare un animale al farsi uno stuzzicadenti) e diventare giustizieri e difensori del proprio gruppo etnico.

Il conflitto e le sue cause
Proprio questo disagio giovanile è una delle chiavi di volta per comprendere i fatti del 2007 – 2008. Il tasso di disoccupazione, in Kenya, è intorno al 40%: circa sedici milioni di keniani non hanno un lavoro. Di questi, dieci milioni sono giovani fra i 18 e i 30 anni. «L’assenza di prospettive e la difficoltà a garantirsi la sussistenza», commentava padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista The Seed di Nairobi all’epoca degli scontri, «si trasformano velocemente in mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro. Giovani in questa condizione, che vivono di espedienti e che covano una rabbia e una frustrazione profonde, non sono difficili da coinvolgere in azioni violente in cambio di denaro».
Al disagio giovanile si aggiungono altri fattori, primo fra tutti quello dell’iniqua distribuzione della terra. «È un problema che affonda le sue radici nel colonialismo», precisa padre Michael Njagi da Mombasa, dove particolarmente serie sono le conseguenze del mancato riconoscimento del diritto alla terra. «Fu durante l’epoca coloniale che i nativi di zone di particolare interesse agricolo furono sfollati verso aree meno fertili per poter assegnare le loro terre ai coloni europei, sulla base di quanto sancito dal leggi come il Crown Lands Ordinance del 1902 poi rimpiazzato dal Govement Land Act del 1915. Il principio di gestione comunitaria delle terre andò perduto, accantonato in favore del modello occidentale di possesso privato.
A peggiorare la situazione furono le ridistribuzioni successive all’indipendenza, spesso attuate dai nuovi governi in maniera poco chiara a favore di individui potenti e ben introdotti, in grado di corrompere le autorità preposte all’assegnazione delle terre. Si calcola che circa il 60% di tutte le terre arabili sia nelle mani di pochi latifondisti, tra cui molti membri di governi passati e presenti.
Infine, ed è il fatto più di recente, le multinazionali straniere si stanno accaparrando i pezzi di terra migliori e, secondo le stime del Ministero della terra del Kenya, una serie di proprietari assenti, keniani e stranieri, posseggono oltre settantasette mila ettari di terra solo nella zona costiera fra Malindi e Mombasa dove le comunità locali sono costrette a vivere pagando affitti mensili e rischiando costantemente di essere sfrattate e allontanate».
Ulteriore elemento da tenere in considerazione, se si vogliono ricercare le cause reali del conflitto, è l’elevato tasso di corruzione, presente a tutti i livelli della società keniana, che in un contesto di risorse scarse o scarsamente utilizzate limita ulteriormente i margini di ridistribuzione della ricchezza. Se il modo più efficace e diffuso per garantirsi un impiego o un incarico è quello di corrompere chi è nella posizione di concederlo, è evidente che la stragrande maggioranza dei keniani è esclusa dalle dinamiche del mercato del lavoro. «È da questo insieme di fattori», riflette Josephat Khamasi Bandi, responsabile della ong keniana Yupk – Youth United for Peace in Kenya, «che si deve partire per tracciare un quadro realistico delle tensioni alla base del conflitto post-elettorale. La rivalità interetnica ha certamente aggravato queste tensioni ma non le ha causate e, senza queste ingiustizie di fondo, le rivalità tribali da sole non avrebbero potuto causare scontri su larga scala come quelli del 2008».

Il progetto «Giovani Uniti per la pace in Kenya»
È su questa serie di riflessioni che si è basata l’ideazione del progetto Giovani Uniti per la Pace in Kenya. Nato come movimento spontaneo di migliaia di giovani che, all’indomani degli scontri, si riunirono a Dagoretti, nella periferia di Nairobi, per discutere dell’accaduto e cercare risposte pacifiche e comunitarie alla violenza, il progetto attuale è l’ampliamento e l’estensione di quell’iniziativa quasi istintiva. Il responsabile di Yupk, Josephat Khamasi Bandi, è oggi il cornordinatore del progetto ed è impegnato in un intenso lavoro di organizzazione e supervisione dei forum.
«Nel 2008 abbiamo cominciato dalla zona della Rift Valley, dove gli scontri erano stati più aspri e sanguinosi», spiega Josephat, «e abbiamo organizzato forum di due giorni in ventisei parrocchie. A ogni forum partecipavano almeno cinquanta persone, molte delle quali erano proprio i perpetratori delle violenze. Il nostro obiettivo era quello di riunirle e permettere loro di confrontarsi: spesso il risultato erano scontri verbali piuttosto accesi, frutto di un risentimento ancora molto vivo. Ma, piano piano, grazie alla mediazione dei nostri moderatori, le persone trovavano la motivazione e le parole per aprire un dialogo e cominciavano a riconoscere che il problema non era essere kikuyu, luo, kalejin o samburu, bensì non avere a disposizione risorse che permettessero a tutti di garantirsi il sostentamento o il rispetto dei diritti più basilari, come il diritto al lavoro, alla terra, all’acqua. I risultati sono stati incoraggianti, per questo abbiamo deciso di cercare fondi che permettessero di allargare l’iniziativa a tutto il paese».
Oggi il progetto tocca undici località in tutto il Kenya e sono previsti centosessantacinque forum in ventinove che coinvolgeranno oltre sedicimila persone. Durante questi forum si replicheranno le modalità di invito al dialogo e al confronto già sperimentate nella Rift Valley, «naturalmente», aggiunge Josephat, «adattando l’iniziativa alla realtà locale e ai problemi prevalenti in quel contesto. Un conto è far comunicare kikuyu e kalejin che hanno come principale motivo di contesa la ripartizione della terra, altra cosa è aprire un dialogo fra Samburu e Pokot, che competono per l’accaparramento del bestiame e il controllo delle risorse idriche».
Le fasi del progetto sono essenzialmente due: la prima ha lo scopo di accompagnare i partecipanti dei forum fino alle prossime elezioni in un percorso di risanamento della memoria (healing of memories) e presa di coscienza dei propri diritti e doveri di cittadini. La seconda, che comincerà subito dopo le elezioni, darà una valutazione dei risultati ottenuti durante la prima fase – anche alla luce della reazione dei partecipanti a eventuali tensioni pre e post-elettorali – e getterà le basi per una gestione comunitaria dei conflitti e delle diatribe intee.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Dove va il Kenya?

Gravi incognite di un paese che sembrava ricco e felice

Dietro i disordini scoppiati in seguito ai controversi risultati elettorali del dicembre 2007, si celano gravi problemi irrisolti: possesso della terra, tensioni etniche, squilibri economici e sociali, corruzione…
I due contendenti leaders politici si sono messi d’accordo, ma cresce il malcontento della gente, mettendo a rischio il futuro del paese.

I più sprovveduti non se lo aspettavano, i più attenti sì. Il Kenya è oggi in fondo alla classifica della pace. Secondo il Global Peace Index, compilato dall’Istituto per l’Economia e la Pace in Australia, su 140 nazioni il Kenya è precipitato al 119° posto. Le cause principali della sua caduta nella classifica della pace sono state le violenze post-elettorali del gennaio scorso, le bande dei Mungiki e dei Sabaot nel distretto del monte Elgon al confine con l’Uganda, il crescente numero di rapine a mano armata e gli omicidi a contratto, l’abbondanza di armi da fuoco illegali, l’aumento delle razzie di bestiame e i sequestri di autoveicoli pubblici e privati.
Naturalmente questo non è tutto il Kenya; ma lo si credeva un paese ricco e felice, a differenza di molte altre nazioni africane. Sembravano sparite anche le divisioni etniche tra le numerose tribù che lo compongono. Oggi invece molti africani non kenioti che vengono in Kenya restano sorpresi da queste divisioni e si sentono spesso chiedere «a quale tribù appartieni?»; una domanda che sarebbe considerata scortese nelle loro nazioni di provenienza.
Il Kenya, le cui dimensioni territoriali sono all’incirca quelle della Francia, ha sette province. Quella di Nyanza, situata sulle rive del Lago Vittoria, è la patria della comunità etnica luo, il cui modo di vita tradizionale è strettamente legato alla pesca. All’epoca dell’indipendenza del paese, i luo erano la seconda comunità etnica del Kenya numericamente più grande. Insieme al gruppo maggioritario, i kikuyu, avevano combattuto per l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Al contrario dei luo, situati sul confine occidentale del Kenya lontano dalla capitale Nairobi, i kikuyu vivevano e vivono ancora oggi prevalentemente nella Provincia Centrale che circonda il monte Kenya. Al tempo del colonialismo britannico furono l’etnia maggiormente danneggiata dalle espropriazioni di terre, volute dalle autorità coloniali per permettere agli agricoltori bianchi di stabilirsi in zone vicine alla capitale. Ne derivò una violenta ribellione, quella dei Mau-Mau, repressa nel sangue dall’esercito britannico negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il Kenya ottenne l’indipendenza nel 1963 e tutte le comunità etniche del paese accolsero con entusiasmo l’elezione a primo presidente della giovane repubblica Jomo Kenyatta, un kikuyu imprigionato per anni nelle carceri inglesi perché favorevole all’indipendenza.
Nel 1978, dopo la morte di Kenyatta, fu scelto a succedergli Daniel Arap Moi, un candidato di compromesso, appartenente all’etnia kalenjin, che abita la provincia della Rift Valley, una depressione di grande bellezza naturale che attraversa il Kenya da nord a sud, tradizionalmente abitata da popolazioni dedite alla pastorizia, tra le quali emerge l’etnia dei kalenjin.
Fino a qualche tempo fa, la Rift Valley era considerata il granaio del Kenya, ma dal gennaio 2008, colpita da sanguinosi conflitti etnici e con quasi 300 mila rifugiati, l’agricoltura è stata quasi del tutto devastata e abbandonata.
Nello stesso tempo, in Kenya si era verificato un rapido incremento della popolazione e il governo si rese conto che un gran numero di piccoli agricoltori era in cerca di terra da coltivare. Si decise di risolvere il problema assegnando a questi agricoltori zone fuori dalla Provincia Centrale, a scarsa densità demografica, ma dotate di terre fertili. Tali terre furono trovate soprattutto nella provincia della Rift Valley e furono subito occupate da coloni kikuyu oltre che da etnie provenienti dall’altro lato della Rift Valley, come i luo. Ciò provocò il risentimento delle popolazioni che da secoli abitavano la Rift Valley. 
Negli anni ‘80 e ‘90 gli scontri per il possesso della terra avvennero soprattutto dove i kalenjin avevano cominciato a razziare il bestiame e a cacciare gli agricoltori di altre etnie. L’evento peggiore si verificò nel 1992, quando furono uccise 1.500 persone. Sembra che in questi atti di violenza fosse addirittura coinvolto lo stesso governo del presidente Moi di etnia kalenjin.

Tuttavia, dietro alle violenze avvenute in Kenya con un numero considerevole di morti e di profughi, non c’è solo il problema delle terre, ma anche il conflitto tra luo e kikuyu; questi ultimi oggetto di una spropositata politica di investimenti considerata dai luo sfavorevole nei loro confronti. Scoppiarono così rivolte in tutta la provincia e il leader politico luo di allora, Oginga Odinga, fu arrestato con l’accusa di fomentare le rivolte. Un altro luo, il ministro della pianificazione economica Tom Mboya, filoccidentale e moderato, fu ucciso in una serrata lotta con Odinga per la successione all’ormai vecchio Kenyatta.
Dietro le recenti violenze avvenute in Kenya permane dunque il conflitto tra luo e kikuyu. Forse il principale teatro di queste violenze fu il Kibera slum di Nairobi, un luogo periferico della capitale dove è evidente la disuguaglianza economica e dove coloro che provengono dai territori dei luo tendono a gravitare in cerca di una sistemazione economica migliore. Il Kenya ha uno dei più alti redditi pro capite fra i paesi africani, ma ha anche il maggior divario nella distribuzione delle ricchezze. Negli ultimi decenni le proporzioni raggiunte dalla corruzione politica hanno inoltre messo il paese in una posizione anche peggiore rispetto a quella dei suoi vicini e, inevitabilmente, i tassi di crescita economica sono rimasti indietro.
Non solo a Nairobi, ma in molte altre città keniote la disuguaglianza economica è evidente nell’architettura delle zone ricche e nell’architettura fatiscente di quelle povere. Una foto scattata dal satellite e reperibile su internet mostra come all’interno dei confini della città c’è una superficie occupata da una serie di campi da golf e un’altra uguale occupata dagli slums, in cui vivono fino a tre milioni di persone. La consapevolezza di questa disuguaglianza, unita al risentimento etnico, si è combinata in una miscela esplosiva con forti tensioni e violenze nei primi mesi di quest’anno.

I n tale situazione le elezioni del dicembre 2007, che portarono di nuovo al potere il kikuyu Mwai Kibaki, furono giudicate dagli osservatori inteazionali «molto irregolari». Buona parte di loro ritennero infatti che il presidente legittimamente eletto fosse il capo dell’opposizione, Raila Odinga, appartenente all’etnia luo, membro del Parlamento di Nairobi e rappresentante di un’area che include Kibera slum. È anche figlio di Oginga Odinga, il leader politico della comunità luo imprigionato durante i disordini del 1969.
Le violente proteste contro le irregolarità avvenute alle elezioni del dicembre scorso sono con ogni probabilità non un fatto marginale, ma piuttosto una risposta alle molte tensioni che aspettavano soltanto di esplodere. È perciò importante che ora tra il presidente kikuyu Mwai Kibaki e il luo Raila Odinga si sia raggiunto un accordo di pace e che tale accordo abbia successo.
L’accordo propone un’autentica condivisione del potere, considerato il primo passo verso il superamento di rancori profondamente e storicamente radicati, in modo da costruire uno stato riconciliato, dove prevalga il senso del bene comune. L’auspicio è che in questo frangente i cristiani, tra cattolici e protestanti in Kenya sono più della metà della popolazione, abbiano un ruolo significativo nella maturazione del paese verso un’autentica democrazia. La strada è senza dubbio difficile. I rancori storici si sono accumulati e non sono stati affrontati per tempo.
Nel maggio scorso nei campi dei circa 300 mila rifugiati a causa dei conflitti etnici è stata lanciata dal governo l’operazione «Toate a casa». A Eldoret, in uno dei campi di questi rifugiati, si è tenuta una cerimonia interreligiosa, con la partecipazione di parlamentari locali di etnia kalenjin che predicavano il perdono e la pace. Alcuni di questi leaders sono sospettati di aver incitato il massacro dei kikuyu nel gennaio scorso.
Le difficoltà sono comunque enormi. L’agricoltura è stata devastata. Molte zone sono rimaste incolte, il prezzo delle sementi, dei fertilizzanti e del carburante sono alle stelle e la pioggia tarda a venire. Per coloro che hanno perso casa, bestiame e tutto il resto «tornare a casa» è un grosso problema, circondati come sono dai vicini che non li potevano vedere e che hanno razziato tutto quello che potevano. Per coloro che possedevano solo una capanna e un piccolo negozio di beni di consumo, si troveranno invece un cumulo di ceneri. «Toare a casa» sarà difficile, molto difficile.

E non è tutto finito qui! Come sempre succede in simili casi, i disordini di fine 2007 e inizio 2008 si sono trascinati dietro altri fatti incresciosi. Decine di piccoli commercianti, che avevano fornito del materiale a sostegno del partito del presidente Kibaki, non hanno ancora ricevuto alcun pagamento per un totale di 14 milioni di scellini (140 mila euro). Trattandosi per lo più di piccoli commercianti, ora rischiano la bancarotta. I dirigenti del partito del presidente, che avevano raccolto tale materiale, affermano di non avere nessuna responsabilità nel pagamento.
Inoltre, dopo parecchi mesi dai disordini elettorali, nei campi della Rift Valley vi sono ancora circa 20 mila rifugiati in precarie condizioni, malgrado gli aiuti dall’estero. A Timboroa il governo italiano ha costruito 200 piccole abitazioni per i più bisognosi; altre centinaia sono in costruzione da parte di diverse organizzazioni di assistenza umanitaria.
Ma succede anche qui come con i poveri polli di Renzo di manzoniana memoria: delle 2 mila stufe d’emergenza, donate dalla Germania, i rifugiati denunciano la sparizione di un certo numero; dove sono andate a finire? Non si sa! I rifugiati lamentano anche la scomparsa di vettovaglie, naturalmente vendute al pubblico dagli amministratori locali.
Infine, secondo la polizia, almeno 30 bambini sono stati abbandonati nelle vicinanze dei campi dei rifugiati di Eldoret e della tendopoli della Rift Valley. Tutto questo mentre il presidente Kibaki e il primo ministro Odinga discutono tra loro come punire gli arrestati responsabili delle violenze post-elettorali. Odinga chiede l’amnistia per tutti; Kibaki promette severe condanne. Odinga cerca il dialogo con i Mungiki; il capo della polizia promette severe repressioni finché la «setta» è fuorilegge.
Nel frattempo i parlamentari, già abbondantemente stipendiati dal governo, si rifiutano di pagare le tasse. «Ci vogliono ridurre alla miseria come i nostri elettori» diceva un parlamentare; e un altro: «Pagheremo le tasse quando ci aumenteranno lo stipendio che ci compensi di quanto abbiamo perso».
E non basta: la polizia avvisa che una nuova banda criminale, denominata «Siafu» (formiche caivore), sta operando negli slums di Nairobi, in conflitto con quelle già esistenti, ossia i Mungiki, i Talebani e i Kamjeschi. Queste bande raggruppano gruppi etnici diversi tra loro e si dividono determinate aree della baraccopoli di Nairobi.
Veramente a questo punto ci si può chiedere: «Dove va il Kenya?». 

Di Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Quale pace per il Kenya?

Dopo l’«indigestione» di notizie del mese scorso, per il Kenya c’è il rischio molto alto che i riflettori si spengano su questo come su altri paesi africani. Basti pensare alla copertura mediatica offerta un anno fa, sempre nel mese di gennaio, per il primo World Social Forum organizzato in Africa, proprio a Nairobi: un silenzio imbarazzante, interrotto da pochi lanci di agenzia disseminati qua e là fra le pagine dei maggiori quotidiani.
I fatti di violenza di un mese fa, scatenati dalla contestata elezione presidenziale, sono stati amplificati anche dal fatto che un buon numero di nostri connazionali fosse andato a svernare sulle spiagge del paradiso artificiale di Malindi. Grazie anche a un certo gusto del macabro, che sempre aiuta a vendere bene il prodotto, anche in Italia ci si è resi conto che il Kenya è ben di più che gli scorci da cartolina della sua costa. Si sono scoperte località ai più sconosciute, come Kisumu e Eldoret, e si è fatto capolino nelle periferie disagiate di Nairobi: Kibera, Korogocho.
Nel racconto delle violenze ci si è soffermati sulle lotte tribali che hanno insanguinato il paese: Luo, Luia, Kalenjin, gruppi che si sentono emarginati dalla vita politica ed economica del paese, che si trova invece saldamente nelle mani dei Kikuyu. Sicuramente questo è un elemento da tenere sempre presente e da approfondire quando si affrontano problemi africani: non si capiscono la storia e la vita politica di un paese se non si considerano i rapporti fra le diverse etnie che lo colorano demograficamente. L’errore, semmai, è quello di sdoganare la questione etnica come l’unica possibile ragione del fallimento post-coloniale della maggior parte degli stati africani.
Sicuramente, rimangono moltissimi punti interrogativi che l’analisi offerta dagli organi d’informazione occidentali, specie europei, non ha neppure sfiorato. Occorre, a mio giudizio, andare al di là del giudizio di colpevolezza attribuito in forma univoca all’odio tribale, facile da comprendere e di forte impatto emotivo per la nostra gente. Pensare, però, che le sommosse e le violenze siano da imputare solamente a questo fattore non solo non aiuta a spiegare il fenomeno nella sua complessità, ma serve a nascondere quelle che sono in realtà le nostre responsabilità in quanto occidentali ed europei.
I tumulti del mese passato sono infatti un atto di accusa all’atteggiamento aggressivo dei paesi industrializzati (e multinazionali che ne muovono le fila) nei confronti di un continente malato e volutamente lasciato in lungo-degenza da quelle stesse potenze occidentali che oggi cercano la mediazione politica fra le parti in conflitto. Ipocrisia bella e buona di chi finora si è solamente interessato del Kenya «utile»: quello delle località turistiche, regione oggetto di investimenti, paese delle «zone franche» per l’industria tessile e dei fiori. Facile battuta, ma in Kenya, per davvero, «non è tutto rose e fiori». Anche gli slums di Nairobi, dove alberga un’umanità di milioni di disperati, ci dice che l’odio tribale è una concausa (se non una scusa) del malessere di un intero continente. Lì dove la forbice tra ricchi e poveri è così tragicamente aperta, dove la sperequazione è troppo evidente per non sfociare nell’ingiustizia, fa molto più comodo una guerra fra poveri che non una coalizione, anche pacifica, dei poveri contro il sistema.

All’Africa delle nuove conquiste coloniali corrisponde, come conseguenza, l’Africa malata, il continente delle tragedie, dei profughi, degli interi villaggi decimati dalla guerra o Aids. La situazione che oggi si è venuta a creare in Kenya interpella moltissimi di noi, agenti di pastorale a vari livelli, esercito di «buoni samaritani», sempre pronti a mettere le bende lì dove le ferite sanguinano, ma forse non così decisivi nell’analizzare, informare e denunciare le cause di ciò che provoca tanta sofferenza nei più poveri, in coloro che sempre rimangono ai margini e non hanno voce in capitolo.
Questi fatti dovrebbero aiutarci a valutare il modo in cui, oggi, ci presentiamo nelle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, spingendoci a riflettere, per esempio, sul modo in cui formiamo le persone che inviamo in Kenya o in altri paesi africani, sia per brevi viaggi di conoscenza come per più lunghi periodi di volontariato a sostegno delle missioni. In che misura aiutiamo queste persone a leggere una realtà di disagio, molto più complessa di quella che si può cogliere in superficie e di come ci viene raccontata dai nostri mezzi di comunicazione?

Antonio Rovelli




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIASapori d’Africa

Studente di legge all’Università cattolica di Milano, l’autore ha passato un mese tra i missionari della Consolata a Gatunga, nella regione del Tharaka.
Ne è tornato affascinato dal mondo ivi scoperto e con una grande fame… d’Africa.

Prima che mi fosse offerta l’opportunità di un’esperienza in questo continente, la parola Africa mi evocava vaghe idee infantili e suggestive fantasie di avventura, natura, mistero.
Invece mi sono trovato a esplorare un paesaggio umano e reale di cui avevo sentito parlare solo in astratto da qualche rara inchiesta televisiva o dai resoconti di alcuni missionari. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle odori e sapori dell’Africa vera, concreta, quotidiana; ho incontrato un’umanità sofferente per la povertà di mezzi materiali, ma serena, vitale, giorniosa, ricca di speranze.

UNA METROPOLI TERRIFICANTE
Nairobi è il mio primo bagno d’Africa: un’immersione superficiale, ma già ricca d’impressioni ed emozioni. È una città caotica, squallida, disordinata e altamente inquinata. Le immagini scorrono nella mente come rapidi flashes: grande affollamento per le vie e fiumi di persone accalcate sui marciapiedi o sdraiate su aiuole, un tempo verdi, che compongono un mosaico variopinto; mercatini che s’inseguono in modo confuso, deprimente e poco igienico ai bordi delle strade; pulmini scassati, senza portiere, traboccanti di gente pigiata come spiedini; traffico selvaggio (è «proibito» fermarsi col rosso) e assordante per i clacson che suonano a piacimento; incroci stradali dove le frecce manuali sopperiscono alla mancanza di quelle elettroniche; loculi sovrappopolati nell’estrema periferia…
Eppure, nella sordida miseria della periferia esiste un non so che di pittoresco, che si può assaporare solo passeggiando tra i mercatini, abbandonandosi alla loro atmosfera, ai sapori e odori dell’Africa autentica.
C’è qualcosa di addirittura edificante nella drammaticità di un incontro coi bambini malati di Aids in un centro del Cottolengo: dai loro occhi, sguardi e sorrisi catturo un’incontenibile gioia di vivere, un fuoco che arde impetuoso prima di spegnersi, purtroppo, per sempre.
In una casa-famiglia, invece, vedo rinascere la speranza: qui sono accolti bambini e giovani respinti dalla società e dalla famiglia, che hanno alle spalle vicende terrificanti di schiavitù, tortura, prostituzione, droga o accattonaggio.
Con quell’affetto e amore che non hanno mai ricevuto, essi sono aiutati a imparare un mestiere, per ricostruirsi una nuova vita e avere un futuro almeno decoroso. È confortante vedere come delle ragazze africane si adoperino con passione, per aiutare la propria gente ad aiutarsi a sua volta, a risollevarsi con le proprie forze, senza confidare solo su finanziamenti e aiuti dall’esterno.
L’Africa più nera, l’apice della miseria, la incontro a Giturai, un orrendo quartiere ai margini di Nairobi. Qui un gruppo di volontari di Olgiate Molgora (LC), sotto la guida di padre Luigi Brambilla, superiore dei missionari della Consolata in Kenya, sta lavorando con entusiasmo per costruire una scuola, la chiesa e annesso centro pastorale.
Nell’ambiente circostante la missione la povertà di beni essenziali, igiene, decoro e dignità raggiunge i livelli di un desolante degrado materiale e umano.
Ma Nairobi, in fin dei conti, non è l’Africa vera, è la classica e spaventosa metropoli del terzo mondo, in cui convivono in maniera confusa e contrastante quartieri residenziali esclusivi ed eleganti (come le faraoniche ville di magnati pakistani o indiani), centri affaristici o istituzionali con i loro edifici di rappresentanza, e tutt’intorno, senza confini o separazioni nette, si estendono i terrificanti slums di Nairobi.
Qui i ragazzi di strada ti stanno continuamente appiccicati, mentre cammini sui marciapiedi, nella triste speranza che dalle tasche dell’uomo bianco cada qualcosa, anche solo una briciola di quella ricchezza per loro irraggiungibile.

MAGICA GATUNGA
Lontano dalla capitale, comincio a respirare un altro modo di vivere, una dimensione umana e culturale totalmente diversa, un’Africa più intatta e affascinante: primitive capanne di argilla e paglia, tranquillità e aria sana, serenità e tanta dignità. Dopo cinque ore di viaggio, eccoci a Gatunga, terra arida e infeconda nella regione del Tharaka.
Il paesaggio non ha nulla di spettacolare: solo piccoli arbusti, sterpaglie, spine giganti, qualche solitario baobab e tanta polvere rossa. Ma è il paesaggio umano ad attrarre maggiormente. La gente è ospitale, cordiale, a suo modo persino cerimoniosa con noi estranei.
Ricordo con piacere una serata trascorsa a casa di Eduard, con sua moglie e i loro tre bambini dagli occhi e sorrisi di disarmante dolcezza: seduti su artigianali sgabelli di legno, assistiamo al calare delle tenebre, scherzando e ridendo in una quiete surreale, nel cuore della savana tharakese, nell’Africa più nera che ci sia.
In questa immensa distesa di terra rossa e bruciata, provo per un attimo un’ebbrezza indescrivibile, un condensato di contrastanti sentimenti di grandezza, maestosità, dominio, onnipotenza e, al tempo stesso, di soggezione, precarietà, miseria umana. In totale abbandono alla forza magica di questa terra, penso che soltanto questa sia l’Africa vera.
Al momento di congedarci, i padroni di casa, che tra l’altro vorrebbero condividere con noi il loro frugale pasto, ci sommergono con una valanga di regali (ciotole e mestoli di legno, frutta tropicale, borse, uova, legumi…). Vergognandoci di non potere contraccambiare, siamo costretti ad accettare per non ferire il loro senso di ospitalità.
È cosa abituale incrociarsi per gli stretti sentirneri che conducono al mercato o in aperta savana e salutarsi spontaneamente, scambiarsi due parole o tentare una stentata conversazione, e poi proseguire il cammino più contenti, soddisfatti di un contatto così naturale, libero e intenso; tutte cose a cui da tempo non siamo più abituati.
Ogni tanto, sviati dalla loro pacata e serena giovialità, dall’eleganza e pulizia dei loro vestiti di stampo occidentale, capita di dimenticarsi che ci troviamo in una regione tra le più povere al mondo e con un alto tasso di mortalità. È una povertà resa evidente nella mancanza di beni vitali, come l’acqua, ma meno angosciante di quella vista a Nairobi. Qui è più velata, con meno impatto, celata da una coltre di normale e dignitosa quotidianità.
Sono soprattutto i bambini, con la loro contagiosa allegria a farmi trascurare che qui si vive in scomodi capanni, senz’acqua e senza luce, che quasi si muore di fame, o si vive, finché si vive, di poche e povere cose.
Quanti ne ho visti di bambini, alcuni timorosi, altri decisamente più estroversi, stringersi intorno a me, assalirmi con la loro eccezionale carica di gioia, lieti di vedere qualcosa di diverso e «strano» come me!

COLORI, ODORI, SAPORI
Per completare il panorama umano di questo magico angolo d’Africa, non può mancare uno dei momenti tipici della vita africana: una giornata di mercato. Nel cuore del villaggio di Gatunga la gente arriva a sciami da tutto il Tharaka, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi o in bicicletta. Per la gente è un’occasione per scambiarsi un’infinità di notizie e barattare le loro mercanzie.
Per me diventa un ottimo punto di osservazione per penetrare nei molteplici aspetti del macrocosmo africano. Passeggiando come un normale indigeno e abituale avventore, in un’affollatissima e quasi impenetrabile selva di bancarelle, sono impressionato dalla straordinaria varietà di prodotti, dalle numerose specie di frutta tropicale alle verdure, legumi, spezie e tuberi, dalle stuoie, vestiti e tovaglie (celebri le «getambà» made in Gatunga), agli aesi e utensili in ferro e persino sciabole made in China.
È un mercato ricco, vivace, colorato, con l’inconfondibile e indescrivibile sapore d’Africa. M’incuriosiva soprattutto l’enorme assembramento di capre, galline, vacche e asini, di cui non riuscivo ad afferrare il senso. Un missionario mi ha spiegato che gli asini sono i mezzi di trasporto per gli articoli del mercato (come i nostrani carrelli della spesa); capre, galline e vacche costituiscono la merce di scambio per altri articoli necessari alla sopravvivenza.
Già, vivere è il segreto insegnamento di questa terra: riuscire a campare con dignità e apparente serenità in mezzo a una natura che non ti regala niente, a un’immensa distesa di nulla, da cui non ricava che spine e polvere.
Ma mentre mi lascio contagiare dall’atmosfera di festa, mi accorgo di essere diventato io, unico bianco, l’attrazione principale dell’animato mercato. Tutti gli occhi si distolgono dalle usuali occupazioni per soffermarsi ora curiosi, ora magari infastiditi o addirittura intimoriti su di me con mio enorme imbarazzo.
Sono conteso dai venditori che cercano di approfittare del mio evidente disagio per propinarmi l’improponibile, persino una gallina, investendomi con fiumi di belle parole che non capisco. Mi limito, per quieto vivere, a comprare alcune banane, unica merce di facile e immediata utilità.
Continuo impassibile a osservare e inquadrare con la cinepresa, quei volti neri, che a loro volta mi squadrano da dietro le bancarelle e la vita continua a scorrere tranquilla, con la solita quotidianità normale e dignitosa, che pare prevalere, almeno per ora, sulla micidiale povertà.
Anche la vita nei giorni normali ha un suo tratto peculiare. È quello dei bambini di cinque o sei anni, che già guidano con fare sicuro le greggi di mucche o capre lungo i viottoli; delle vecchiette che, logore e curve, si trascinano per chilometri a tutte le ore del giorno, dall’alba al tramonto, sotto pesanti taniche d’acqua sporca, che vanno ad attingere in fiumi dislocati spesso anche a venti chilometri dalle loro case. Sul loro volto è dipinta la fatica, insieme alla serenità derivante dalla consapevolezza di un ineluttabile modo di vivere, radicato ormai da tanto tempo nel loro humus genetico.

L’UNIVERSO MISSIONARIO
Da decine di anni, i missionari si sono inseriti in questo pezzo d’Africa e ne fanno parte a tutti gli effetti. Costituiscono, assieme ai volontari laici che fanno da supporto tecnico o finanziario, l’unica possibile via d’uscita di queste popolazioni dal circolo vizioso del sottosviluppo.
Il loro impegno è orientato a colmare le carenze più gravi, a soddisfare i bisogni più urgenti e fondamentali, a migliorare, a poco a poco, la qualità della vita. Ma al primo posto c’è la formazione di una coscienza umana e cristiana, per costruire comunità autonome e attive.
Non avevo mai avuto a che fare con dei missionari; a Gatunga ho toccato con mano la loro dedizione totale, sincera, appassionata ai problemi della gente. Tra questi il più pressante è certamente quello dell’acqua.
Marimanti, cittadina a un quarto d’ora da Gatunga, diventata da poco capoluogo distrettuale, perciò sede di uffici statali e polizia, ospedale e scuola, è ancora sprovvista d’acqua, comprese le strutture che maggiormente ne hanno bisogno.
È terrificante vedere in quale stato di sporcizia e disagio sia ridotto un sanatorio senza acqua corrente: ho visto coi miei occhi dei bisturi immersi in bacinelle d’acqua mista a sangue, servizi «igienici» (anche se mi è difficile definirli tali) posti all’esterno dell’edificio ospedaliero, che costringono i pazienti a trasferimenti scomodi o difficoltosi, se non impossibili in alcuni casi.
I missionari hanno avviato il progetto di un acquedotto a Marimanti. Il luogo di prelievo, a un paio di chilometri dal paese, è il fiume Kathiga, che con le sue cascate dà vita a una vera oasi nel deserto tharakese. La canalizzazione partirà dalla sommità delle cascate, per sfruttare la caduta senza l’impiego di costose pompe. Unica difficoltà da superare è la distanza, poiché il percorso della tubazione dovrà sormontare una collinetta prima di scendere in città.
Tecnicamente il progetto è fattibile e sicuramente partirà: un gruppo di volontari di Torino e Roma è venuto sul posto, ha tracciato i rilievi e fatto i preventivi sui tempi e costi dell’operazione, per poi lanciare una campagna e avere finanziamenti necessari.
Osservando l’entusiasmo di questi ragazzi, si rinvigorisce la speranza in un futuro migliore per l’Africa. Se di giovani come loro, animati da grandi ideali e capaci di sacrificarsi, ce ne fossero di più, forse l’Africa non sarebbe così lontana.
Gli africani, da parte loro, non stanno a guardare. Nel caso di Marimanti, per esempio, la popolazione si offre per la mano d’opera e organizza le arambé (una specie di lotteria) per raccogliere fondi e contribuire, per quanto è possibile, al progetto dei missionari.
Ma il problema tecnico-finanziario non è tutto. Il lavoro dei missionari è molto più lungo e spinoso, ma decisivo: si tratta di sensibilizzare ed educare la gente al bene comune, un concetto non facile da inculcare dove si lotta per la sopravvivenza.
In un incontro, sempre sul problema dell’acqua, con alcune autorità locali, ho potuto constatare la difficoltà di taluni a comprendere l’utilità collettiva di un bene prezioso come l’acqua, l’importanza che essa riveste per uno sviluppo complessivo della vita. Trapelava, invece, la tendenza a considerarla una possibile ricchezza ad esclusivo vantaggio personale, come può esserlo un gregge di capre.
Tale mentalità potrebbe sfociare in gesti di illegalità, accaparramento e sfruttamento di pochi a danno della comunità, con conseguenze funeste per la civile convivenza. È evidente che il compito dei missionari è complesso e delicato, perennemente in bilico tra ciò che della cultura africana va conservato e valorizzato, perché in armonia col loro carattere e la loro terra, e ciò che deve essere corretto o gradualmente integrato con la modeità.
Se vogliamo veramente aiutare l’Africa, dobbiamo aiutare i missionari.

L’AFRICA CHE MI PORTO DENTRO
Nei miei pellegrinaggi tra missioni e cappelle, dentro e fuori del Tharaka, ho partecipato a decine di celebrazioni religiose, animate da vivaci e interminabili canti, danze e processioni, che conservano sapori ancestrali, un tempo usati forse per oscuri rituali, ma che i missionari hanno saputo trasformare per esprimere la gioia della fede cristiana.
Il rito del matrimonio, soprattutto, mi è sembrato una stupenda vetrina sulle più ataviche tradizioni africane. La messa solenne nella chiesa di Gatunga, prevista per le 9 del mattino, è iniziata rigorosamente 4 ore dopo e si è prolungata per tre altre ore, secondo l’usuale orologio africano, che dilata la dimensione del tempo e della vita.
Finita la funzione, si procede in processione lenta, ma sonoramente andante, dietro agli sposi fino al banchetto nuziale, al quale sono tutti invitati. In un’atmosfera di festa paesana e giorniosa comunione, parenti, amici e conoscenti partecipano alla felicità degli sposi.
Un’intrattenitrice ci stordisce per quasi un’ora. Finalmente (sono circa le cinque del pomeriggio) ha inizio il convito nuziale: prima gli sposi e la parentela, muniti di forchette e coltelli, poi tutti gli altri con le mani. Mentre li guardo mangiare, mi sento un intruso, finché una signora sorridente si avvicina per offrire anche a me la ciotola di riso, condito da una salsa di legumi e un pezzo di carne di gallina. Rifiuto cortesemente, ma apprezzo ancora una volta la calorosa ospitalità.
Al pasto segue il rituale simbolico della consegna dei doni agli sposi e lo scambio della dote tra i rispettivi genitori, che consiste in un buon numero, concordato in precedenza, di capre e galline schiamazzanti.
La giornata si chiude felicemente alle sette, quando d’improvviso le tenebre avvolgono quest’angolo di terra e comincia una lunga notte silenziosa, interrotta dai versi striduli delle scimmie.
Trascorro l’ultima settimana tra battesimi e cresime, al seguito del vescovo di Meru, nelle cappelle sparse per la vasta parrocchia di Gatunga. Sono giorni scanditi dai ritmi, suoni e colori, conditi dall’impareggiabile accoglienza da parte delle varie comunità cristiane, animate tutte da spirito e fervore inimmaginabili nelle nostre asfittiche parrocchie.

I ricordi più vivi di questa lunga esperienza sono proprio i momenti, anzi le ore, fino a tre o quattro, intensamente vissute in mezzo a queste comunità, nelle loro semplici e accoglienti chiese di legno, fango e lamiera, sperdute nella più raggelante miseria umana e ambientale, ma scaldate dal calore della gente, dalla voglia di stare insieme, dagli allegri e orecchiabili canti che accompagnano danze e processioni, dai cocktails entusiasmanti di suoni, colori, voci, sguardi e sorrisi meravigliosi.
Sono questi i sapori d’Africa che mi porto dentro; anzi, sapori di cui ho fame.

BOX 1

MEZZA CAROTA

Ho vissuto lo slum di Nairobi, come volontario. L’ho vissuto nella sua interezza, camminando tra le capanne di sterco e fango, con l’odore penetrante del liquame, spaventato dalla diossina che un’immensa discarica a cielo aperto, bruciando, consegna ai polmoni degli abitanti. Devastandoli.
Ho giocato con bimbi uguali a quelli di tutto il mondo, con la stessa voglia di correre e crescere, senza sapere che solo uno su dieci di loro diverrà adulto. Sono entrato in capanne dove persone malate riuscivano a sorriderti solo perché tenevi per mano il loro figlio: ho guardato e sono uscito, inutile nella mia impotenza. Sono stato alla messa che padre Luciano celebra nel capannone di legno: quattro ore di funzione e canti, con una potenza tale da farti paura, tanto Dio si avverte vicino. Tanto da farti capire l’assurda inutilità di oro e argento nelle case del Signore.
Sono stato crocifisso da un bambino che ha spezzato la sua carota in due, la sua merenda, forse anche cena, offrendomene metà, solo perché avevo giocato con lui.
A poche centinaia di metri i grattacieli di Nairobi diretti verso il cielo, strade piene di auto, uffici lussuosi: l’Occidente ricco e opulento a violentare la realtà che avevo attorno, la realtà dell’80% del mondo.
Ho vissuto lo slum di Nairobi e sono andato via, troppo vigliacco per restare in quel posto, dove mi era stato regalato il mondo in cambio di niente. Ma le stesse cose ho incontrato in Madagascar, Senegal, Camerun e altri posti, dove la sopravvivenza si cattura giorno dopo giorno, senza mai la certezza di possederla.
Lo slum di Nairobi: ci vivono oltre 2 milioni di persone. Ora hanno deciso di scacciarle. Gigantesche ruspe come demoni cattivi entreranno fra le case, scardineranno i sogni, la voglia di vivere ancora nonostante tutto.
Si dice che un’impresa americana, abbia deciso di costruire sulla collina un complesso per il golf, nobile gioco di nobili persone, che certo non possono avere sotto gli occhi lo spettacolo di una baraccopoli con le sue disgraziate vicende e pestilenziali odori. Già l’anno scorso si parlava di demolizione. In Kenya la terra appartiene interamente allo stato che può decidere in ogni momento la requisizione.

Io non credo a girotondi, appelli, preghiere alle autorità del mondo, per molte delle quali gli esseri umani senza risorse sono poco più che fastidiosi insetti. Non lo credo, anche se sono certamente importanti, come tutte le ribellioni a situazioni simili. Credo invece che colpire gli interessi economici ottenga risultati migliori, perché solo il denaro e l’interesse hanno valore per il potere. Perché allora non sensibilizzare tutte le agenzie di viaggio, boicottare le vacanze in terra kenyana, fino a quando una parte del salato visto d’ingresso non venga destinato alla costruzione di villaggi, strutture di accoglienza, di cura? Perché non far comprendere a chi sogna il sole dorato delle spiagge africane e i safari fra esotici animali, che questo avviene fra il dolore inimmaginabile di milioni di persone, devastate da fame e Aids?
Solo con la consapevolezza di tutti, l’assurda sperequazione nelle condizioni di vita del pianeta potrà, lentamente, ridursi. Solo con la voglia di capire che un semplice caso non ci ha portato a nascere e morire a solo poche ore d’aereo e che, in tale sfida per tutti noi, il piano divino prevede la voglia di lottare per dei fratelli privi di ogni cosa, potremo cercare di cambiare qualcosa.
L’ingiustizia atroce di quello slum non è la sua demolizione, ma la sua esistenza stessa. Anche se fra sterco e fango esiste un’umanità autentica, spesso dimenticata dal quotidiano vivere della nostra parte di mondo. Anche se la mezza carota di quel bambino possedeva e possiede la forza autentica della parola di Cristo, quella parola quasi sempre oscurata dal luccicante spettacolo del nostro tempo.

William Giusti

Angelo Croce




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIATratta di esseri umani

Mete turistiche rinomate a livello internazionale, Malindi, Mombasa e altre città della costa del Kenya sono teatro del sordito commercio di esseri umani, esportati anche… in Italia.

Appena tramonta il sole, su Malindi scende la confusione. Nel resto del paese, la gente si affretta verso casa per godersi il meritato riposo, qui si sveglia per la seconda volta.
Città della costa kenyana, con circa 300 mila abitanti, sfacciatamente ricca, Malindi può essere scambiata facilmente per un distretto a luci rosse di un’affaccendata e spensierata città europea, come Amsterdam.
Quanti turisti, sdraiati sulla spiaggia, fissano il cielo come se stessero aspettando che le stelle portino loro un messaggio da casa! Bambini che si rincorrono sulla sabbia, sotto la pallida luce della luna. Ragazzi scarsamente vestiti, abbordano i turisti con cenni fin troppo allusivi. Le ragazze sfrecciano da una strada all’altra come in pieno giorno. Cosa fanno? Non è difficile scoprirlo.
Come una luce nell’oscurità attira a sé gli insetti, lo splendore di questa città costiera, attira gente da ogni dove. Ricchi turisti fioccano per le vacanze; piccoli e grandi investitori, locali e stranieri, vengono per fare affari… e i poveri si affollano per raccogliere le briciole.
Queste ragazze che si crogiolano nell’affascinante notte di Malindi fanno parte dell’ultimo gruppo. Non hanno soldi per alloggiare in albergo, tanto meno da investire in affari, vengono per vendere se stesse.
Oltre alle donne, ci sono i cosiddetti «ragazzi di spiaggia». Molti di essi vengono da comunità pastorali: non vendono souvenir, né si esibiscono in danze tradizionali per rallegrare la vita nottua degli alberghi. Sono pronti a procurare ragazze su richiesta, a procacciare avventure esotiche a donne straniere o diventare essi stessi un brivido di giovinezza per vecchie e ricche turiste d’oltremare.

LUCCIOLE
Padre Linus Jappani, incaricato del turismo presso la Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, accusa la povertà che regna lungo la costa e nelle regioni circostanti: è questa che spinge le ragazze alla prostituzione.
Oltre a organizzare la celebrazione della messa in diverse lingue, per i turisti cattolici presenti negli alberghi della costa, padre Jappani ha il compito di togliere tali ragazze dal marciapiede. Il suo lavoro non è un letto di rose, dice: «Convincere le ragazze ad abbandonare tale vita non è un compito facile, perché non ho nulla da offrire come alternativa, una volta uscite dal giro».
Durante l’intero anno in cui egli è uscito per parlare alle ragazze, è inciampato in varie realtà. La maggior parte di queste ragazze non sono del posto, ma vengono dalle regioni intee del Kenya; molte di loro sono state raggirate, ingannate e spinte alla prostituzione. Sono poche le donne che battono tale strada volontariamente per arricchire in fretta; moltissime quelle che ci cadono per inganno.
Suor Lucy Kerubo, della Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, tenta di chiarire le loro origini: dice che queste ragazze vengono da ambienti poverissimi, per lo più da zone rurali. Solo un quarto di esse sono locali (dell’etnia giriama). Molte vengono da Kitui, nel Kenya orientale, zona famosa per la sua disperata povertà.
È chiaro che qualcuno ci guadagna su questa disperazione, sempre pronto a rifornire il mercato di ragazze per qualsiasi occorrenza. La clientela è abbondante: l’afflusso di turisti lungo la costa, le navi militari straniere che attraccano a Mombasa fanno andare gli affari a gonfie vele.

TRAFFICO UMANO
L’Onu definisce il traffico umano come «reclutare, trasportare, trasferire, alloggiare una persona per mezzo di minacce o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso… a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento include la prostituzione altrui, lavoro forzato, schiavitù, rimozione di organi».
I paesi di tutto il mondo hanno sperimentato differenti livelli di traffico di esseri umani. I casi più grandi sono negli Stati Uniti, dove ogni anno, secondo il Catholic Relief Services (Crs), oltre 2 milioni di persone (per lo più donne e bambini) sono oggetto di traffico.
A riguardo dell’Africa, si è parlato di bambini uccisi e i loro organi asportati e venduti al mercato nero internazionale; di ragazze portate in Europa, Americhe e nei paesi asiatici ricchi per essere ridotte a schiave del sesso; di giovani venduti e costretti a lavorare nelle lucrative piantagioni di vari paesi africani; altri sono rapiti per combattere nelle numerose guerre che continuano a insanguinare il continente.
Dopo il quasi collasso dell’economia, la perdita del lavoro e la crescente povertà nelle aree rurali e urbane, molti kenyani sono stati costretti a stili di vita inimmaginabili. I trafficanti ne hanno approfittato, facendo promesse di impieghi ben remunerati e buone condizioni di vita: disperazione e false promesse fanno molte vittime.
Ottenere notizie dettagliate sul traffico umano in Kenya è praticamente impossibile, poiché l’affare è condotto in estrema segretezza. Molte organizzazioni hanno cercato di seguire varie piste; ma molte tracce finivano nel nulla. «Nessuno parla del traffico umano e di prostituzione in piena luce; avere dettagli è un’impresa difficile» dichiara Juma Kamau, un operatore sociale della diocesi di Mombasa.
Tuttavia, i rapporti dell’Associazione delle religiose del Kenya (Aosk), della Commissione giustizia e pace delle diocesi di Malindi e Mombasa, di Solwodi (Solidarity with women in distress, organizzazione ecclesiale che cerca di riabilitare le ragazze dalla prostituzione) hanno raccolto alcune informazioni, ancora alquanto nebulose, sul traffico di donne, specialmente di ragazze.

UNA RETE PERVERSA
La rete coinvolta in questo lurido commercio serpeggia lungo una strada che dalle spiagge penetra nei villaggi rurali del Kenya, anche lontanissimi, come quelli della regione di Kakamega, nell’ovest del paese. Donne mature si recano in questi villaggi e convincono i genitori di ragazze con promesse di impieghi ben pagati nei grandi alberghi della costa.
Gli accordi sono fatti con tale astuzia che le ragazze, spesso analfabete, sono incaricate di gestire modei congegni, difficili da maneggiare con efficienza. Quando questi si rompono, le giovani sono ricattate e costrette ad assumere un altro compito che il datore di lavoro offre loro per ripagare il debito.
Padre Jappani fa capire che le mafie coinvolte nel traffico umano operano da diversi bordelli, camuffati da case residenziali o ville lungo le città costiere di Malindi, Kilifi, Watamu e Mombasa. I proprietari di queste case, spesso locali donne d’affari con connessioni ad alto livello, impiegano buttafuori: guai a chi tenta di ficcarci il naso. «Visitare qualsiasi di questi sospetti bordelli è un suicidio: non se ne ritorna vivi» ammonisce.
Quando non ci sono clienti, le padrone costringono le ragazze a lavorare nei saloni per massaggi o di parrucchieri. Questi luoghi diventano una passerella, per mostrare le ragazze in vendita.
Queste padrone, inoltre, assumono intermediari che vanno sulla spiaggia e accolgono i turisti appena mettono piede negli alberghi, per poi portarli nelle case dove le disperate ragazze sono ormai disposte a tutto per sopravvivere.
La signora Emma Ndonye, della Commissione giustizia e pace di Mombasa crede fermamente che queste ragazze sono state usate per scattare film poografici per il mercato internazionale.
Alcuni turisti, poi, hanno iniziato attività alberghiere in Kenya e attirano i propri concittadini con l’offerta di ragazze. In prossimità della stagione turistica, essi ricorrono a inserzioni pubblicitarie per offerte di lavoro. «Perché arruolano ragazze sprovvedute, invece di esperte intrattenitrici?» domanda la signora Emma. «Di fatto, è evidente perché alcuni di questi turisti, che possiedono case residenziali nel paese, impiegano tanti domestici proprio quando aspettano i visitatori».

PER VIE TRAVERSE
Se un turista vuole una ragazza da portare in patria, gli basta solo sborsare un po’ di denaro e il proprietario di un bordello organizza un frettoloso matrimonio con il personale che lavora nel suo locale.
Così la ragazza finisce sui marciapiedi europei, spesso sotto gli stessi padroni che operano in Kenya. La strada per l’«esportazione» varia a seconda della destinazione. In Italia esse arrivano con voli diretti, oppure sono trasportate furtivamente, passando per l’Egitto. Quando i trafficanti sospettano di essere seguiti, passano per differenti paesi, in modo da far perdere le tracce, prima di atterrare in Italia.
Altre destinazioni sono la Germania e l’Olanda. Una volta nella nuova terra, donne e ragazze sono costrette a prendere nuovi nomi, poiché i trafficanti confiscano i loro documenti. Quelle che riescono a tornare a casa, raccontano atroci storie di sofferenze e agonia.

POVERTÀ E MOLTO PIÙ
La povertà è la causa principale della prostituzione; ma anche i genitori sono colpevoli, negando ai loro figli l’appoggio morale di cui hanno bisogno o, addirittura, spingendoli praticamente sulla strada.
«A volte sono i genitori stessi a comandare ai figli di uscire a procurare cibo e denaro per gli altri membri della famiglia» lamenta la signora Emma. E racconta la storia di una ragazza di Kilifi: fu venduta a 9 anni; tornata a casa dopo la morte della madre per Aids, diventò la concubina del suo genitore; dopo pochi mesi morì anche il padre; dovendo sostenere i suoi fratellini, la ragazzina continuò a prostituirsi, finché la sua tenera vita fu barbaramente stroncata: per il disaccordo sul pagamento con un cliente, fu assassinata e il suo corpo buttato sul ciglio della strada.
Un agiato dentista di un paese europeo, era solito vantarsi con i suoi coetanei di avere quattro giovani sorelle tutte per sé quando era in vacanza a Malindi. La prima ragazza la ottenne dopo aver pagato al padre una certa somma di denaro; poi, aumentando la cifra, ebbe la seconda figlia; quindi la terza e la quarta: tutte con il consenso dello sciagurato genitore.
Nelle città lungo la costa la situazione sembra essere andata fuori controllo: l’ingannevole fascino della ricchezza facile e in fretta ha intrappolato perfino coppie sposate. Pur di fare soldi, alcuni mariti concedono alle mogli di andare a caccia di turisti. A Kilifi capita pure il contrario, racconta la signora Emma; alcune mogli permettono ai mariti di cercarsi una donna facoltosa. «Mariti che portano un’altra donna nel letto matrimoniale è parte delle storie che le donne di etnia mijikenda si raccontano alla fontana» lamenta.

SPERANZA DI RIABILITAZIONE
Il timore che i genitori trasmettano tale modello di vita ai propri figli ha indotto la diocesi di Mombasa a lanciare il progetto Solgidi (Solidarity with girls in distress, emanazione di Solwodi) per aiutare le bambine nate da genitori dediti alla prostituzione, affinché non seguano i loro passi. «Cerchiamo di far sì che i genitori non trascinino i loro figli nel loro sistema di vita notturno, sponsorizzando le ragazze in scuole piuttosto lontano dai loro genitori» dice Agnes Maillu, direttrice del programma Solgidi.
Padre Linus, la cui commissione si occupa della riabilitazione delle ragazze spinte in tale commercio da circostanze fuori del loro controllo, dice che molte ragazze sono disposte a smettere e avere una vita più decente; ma insistono perché, prima di cambiare, si procuri loro un’alternativa per poter sopravvivere. «Qualcosa sta muovendosi – continua padre Linus -. Varie persone ci aiutano in tale riabilitazione, collaborando con la diocesi di Malindi».
Rimane ancora il problema delle ragazze imprigionate in ville e residenze private. La signora Emma ha raccolto varie idee, per liberarle e trovare lavori alternativi, ma per ora è impossibile realizzarle, conclude amaramente: «Tutti sanno che quelle case sono zone proibite».

BOX 1

«MANI PULITE» MADE IN KENYA

Lo sapevano tutti, ma non si osava parlarne in pubblico. Sui giudici circolavano i nomignoli coloriti: iena imparruccata, bigliettaio, kifagio (spazzino), raccatta palle, sticky fingers (dita adesive), toga puzzolente, mani unte, casello daziale… La gente diceva: «Non sprecare i soldi con gli avvocati. Paga il giudice».
Ma bisogna dare atto al governo di Kibaki, per avere avuto il coraggio di rivelare in pubblico il marciume accumulato negli ultimi 25 anni del regime di Moi.
Le due inchieste in corso, Goldenberg e quella sui giudici corrotti, sono solo una parte delle tragiche vicende occorse in Kenya sin dall’indipendenza, come i casi Ouko, Kaiser, Kariuki, Mboya, Pinto, Muge, Julie Ward, Boyles, Makenzie, Mbai e altri assassinati. E poi scontri tribali, con l’espulsione d’intere popolazioni; torture di Nyayo House, saccheggio degli enti parastatali, banche fatte fallire, elezioni truccate, appalti fraudolenti.
Per fare giustizia sui casi annoverati, occorrerebbe una pletora di costose commissioni. Per il momento, ci si può accontentare di portare avanti quelle in corso, dando atto al governo del coraggio dimostrato per metterle in atto.
Limitandoci alle vicende dei giudici corrotti, riportiamo le «tariffe» medie richieste dai giudici, a partire dai gradi più alti: giudice Corte d’Appello 166.600 euro; giudice dell’Alta Corte 16.600 euro; magistrato ordinario 1.660 euro; impiegato legale 56 euro.
Poi ci sono tariffe per i servizi speciali: 555 euro per la remissione per offese minori; 6 mila per l’assoluzione per offese gravi; 11 mila per il proscioglimento dalla pena capitale. Infine tanti servizi minori: rilascio sotto cauzione (110 euro), rinnovo della cauzione (220 euro); variazione delle condizioni di cauzione (145 euro); agevolazione generale nella sentenza (555 euro); procurare una condanna falsa (890 euro).
Inoltre, magistrati corrotti domandano una tangente del 10-30% per ogni risarcimento monetario concesso in casi d’assicurazione, incidenti ecc. Non tutte le «tangenti» sono basate su soldi contanti. Alcuni domandano favori sessuali, o doni materiali, da qualche bottiglia di whisky a un bue grasso a seconda delle disponibilità del cliente.
Mentre i magistrati di bassa categoria sono pagati una miseria, ossia circa 320 euro al mese, quelli delle alte sfere, che sono anche i più corrotti, vengono adeguatamente rimunerati: un giudice della Corte d’Appello percepisce da 2.100 a 4.750 euro al mese, a seconda della anzianità raggiunta, senza contare altri benefici di cui godono: autovettura con autista, guardia del corpo, alloggio sussidiato con personale di servizio, indennità varie in contanti, assicurazione, ferie generose ecc.
Attualmente, oltre una ventina di magistrati sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. Tuttavia l’operazione «mani pulite made in Kenya» durerà a lungo.
Dulcis in fundo: è appena arrivata la notizia che non tutti i giudici sono succubi alla tentazione delle «mazzette» in contanti. Altri cedono a lusinghe di carattere più umano o perfino sentimentale. Una giovane donna magistrato, mentre conduceva una causa di divorzio, s’invaghiva dell’uomo in questione, tanto da andarvi a coabitare insieme prima ancora del termine del processo. La sentenza fu emanata speditamente.
G. Ferro (da Eldoret, Kenya)

Omwoyo Omwoyo




DOSSIER KENYASete di acqua, pace e giustiziaPace con latte e miele

Le secolari tensioni tra samburu, turkana e pokot sono sfociate in lotte che sfiorano il genocidio.
Con i suoi missionari, mons. Virgilio Pante,
vescovo di Maralal, sta facendo opera
di riconciliazione tra queste popolazioni.

Da sempre i popoli pastori delle savane dell’Africa si rubano il bestiame a vicenda. Gli etnologi spiegano che sono comportamenti normali: si tratterebbe della legge di sopravvivenza dei più forti, della lotta per avere più bestiame, pascoli, acqua, donne e figli.
Non è affatto normale per i missionari, che non possono rassegnarsi alla legge della giungla, perché fa a pugni con il vangelo, che è cultura di pace e uguaglianza tra gli uomini, perdono dei nemici e condivisione delle risorse, di un Dio padre di tutti.

IL LEONE E L’AGNELLO
«La pace è il termometro per capire fino a che punto il vangelo ha messo radici nella cultura e nella storia di un popolo – afferma mons. Pante, da tre anni vescovo di Maralal -. Mi vengono i brividi quando penso a ciò che accadde 10 anni fa in Rwanda, dove hutu e tutsi si scannarono a vicenda, dopo aver celebrato la pasqua insieme.
Grazie a Dio, nella diocesi di Maralal non si registrano tali eccessi di genocidio; tuttavia, specie negli ultimi 15 anni, si sono moltiplicati gli episodi di razzie tra i nostri pastori samburu, turkana e pokot, con numerosi morti e sfollati. Si respira ancora nell’aria paura e diffidenza reciproche. Si sono create vere distanze, anche fisiche, tra le varie etnie, che una volta si mescolavano tra loro mediante i matrimoni».
Una volta razziatori e difensori degli armenti si affrontavano con le lance: al massimo ci scappava qualche ferito; raramente il morto. Oggi, invece, hanno fucili e mitragliatori automatici: in ogni scontro, numerosi sono i morti.
Alle razzie, poi, si aggiunge la vendetta per la morte dei congiunti, con una spirale di odio che provoca autentiche carneficine di vecchi, donne e bambini, costringendo interi villaggi a sfollare dalla propria terra per cercare rifugio in luoghi più protetti. Senza contare che, con le armi, crescono il banditismo e l’insicurezza in tutta la regione.
«Appena nominato vescovo, prima ancora dell’ordinazione episcopale – continua mons. Pante – decisi di visitare in motocicletta il territorio della mia futura diocesi. Mi si stringeva il cuore al vedere villaggi, scuole, chiesette, pascoli completamente abbandonati. Per chilometri non c’era anima viva. Respiravo paura. Il progresso sociale era tornato indietro di 20 anni. Mi domandavo cosa avrei potuto fare, come pastore della chiesa, per guarire quelle ferite e tanto odio. Più che sulle strutture materiali, avrei dovuto puntare sulla costruzione di una controcultura di pace e riconciliazione».
Da quel viaggio mons. Pante trasse ispirazione per lo stemma episcopale: gli venne in mente un passo di Isaia, dove il profeta descrive un messia che porta la pace cosmica: «Il lupo dimorerà assieme all’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; vitello e leoncello pascoleranno insieme» (Is 11,6-7).
«Disegnai subito un leone sdraiato accanto a un agnello, mentre la colomba dello Spirito della pace aleggia su di loro. E poi la scritta: “A servizio della riconciliazione”» continua il vescovo.
Tre mesi dopo l’ordinazione episcopale, nel territorio della diocesi ci fu un evento eccezionale: nel Samburu Park, una leonessa adottò il cucciolo di gazzella: lo allattava e custodiva come se fosse il proprio figlio. I cristiani ne rimasero fortemente impressionati: sembrava la realizzazione dello stemma episcopale. Andarono dal vescovo e gli dissero: «Vedi, gli animali della savana si riconciliano; ora toccherà a noi uomini fare altrettanto».

LA MALEDIZIONE DELLE DONNE
Alle orecchie del vescovo quelle parole suonarono come una sfida. Ma che cosa fare? In ogni situazione di tensione, il vescovo accorreva, con la sua motocicletta, per calmare gli animi. Ma le parole non bastavano. Occorrevano gesti concreti. Ma quali? La risposta venne dalle donne.
«Nel maggio del 2003 – continua il vescovo -, mentre celebravo la festa delle donne nella missione di Morijo, alcune mamme samburu si lamentarono perché agli incontri di pace invitavo sempre e solo uomini: perché non coinvolgevo anche loro?».
E suggerirono una sorprendente iniziativa: portare un dono alle donne turkana del villaggio di Marti, rimaste senza latte, perché samburu e pokot avevano rubato tutto il bestiame. Un incontro tra samburu e turkana, in una zona come Marti, dove l’odio tribale si taglia a fette, sembrava una pazzia. «Gli uomini fanno la guerra, ma le donne possono essere strumenti di pace da non sottovalutare» osserva il vescovo.
Dopo essersi autotassate, le donne samburu comprarono due vacche e una decina di capre e le portarono alle donne turkana. Ci fu una grande festa, che ristabilì l’amicizia infranta dai loro uomini. La consegna del dono fu accompagnata da preghiere, benedizioni e una imprecazione: «Chi ruberà questi animali sia maledetto!».
Poco tempo dopo i razziatori, forse pokot, tornarono a Marti e rubarono il bestiame: alcuni furono presi, altri finirono all’ospedale con le pallottole nelle gambe. Vacche e capre furono subito restituite. «La maledizione delle donne mette paura» sorride mons. Pante.

NELLA TANA DEL LEONE
«L’incontro di dialogo e preghiera tra gruppi etnici che si considerano nemici si rivelò efficace per un cammino di riconciliazione – continua il vescovo -. Decidemmo di ripetere l’esperienza a Loteta, con i pokot, l’etnia più ostica, dedita impunemente al banditismo».
Questa popolazione, che vive nella zona infuocata della Rift Valley, è totalmente dimenticata dal governo, isolata dalla vita del paese, senza strade, né pozzi, né scuole, né medicine. Nessuno si azzarda a entrare in quel territorio impenetrabile; neppure la polizia osa inseguire i razziatori: la zona è raggiungibile solo con gli elicotteri.
«Era il mese di luglio 2003 – continua il vescovo -. Insieme a padre Aldo Vettori, siamo scesi nella tana del leone. C’erano con noi anche il commissario e l’ufficiale del distretto: per la prima volta i pokot videro un’autorità governativa.
Con padre Aldo promettemmo di aiutarli, di costruire una scuola, poiché ignoranza e povertà producono violenza. Anche le autorità s’impegnarono (almeno a parole) di fare qualcosa per toglierli dall’isolamento e farli sentire cittadini del Kenya. Quindi abbiamo letto la bibbia, pregato e cantato insieme, senza la celebrazione della messa, dato che i cristiani sono ancora rari.
I pokot ci hanno fatto capire che non avrebbero più attaccato i “nemici”: ma se questi li avessero assaltati, si sarebbero difesi. Non è molto, ma è già un passo avanti».

TURKANA DANZANO CON I POKOT
Il terzo incontro avvenne a Morijo, tra pokot, turkana e samburu. A un certo punto, però, la situazione rischiò di degenerare. Mons. Pante puntò il dito dicendo: «Voi giovani siete quelli che fanno la guerra; non sono i vecchi e le donne. Ora confessatevi a vicenda, tutti insieme».
L’intenzione era che, riconoscendo torti e malefatte reciproche, ne scaturisse una catarsi, una purificazione. Ma dopo poche battute, l’emotività prese il sopravvento: ognuno puntava il dito contro l’altro, finché intervennero gli anziani: «Adesso basta! Vi siete sfogati abbastanza: ora datevi la mano e fate la pace».
Dopo la benedizione da parte degli anziani, i giovani promisero di non usare le armi se non per difesa, facendo questa preghiera: «O Dio, tu vedi cosa stiamo facendo, sei testimone del nostro impegno: devi benedirci. Ma se mancheremo alla promessa, non esitare a colpirci».
La quarta festa di riconciliazione, avvenne all’inizio del 2004, a Barsaloi, dove alcuni mesi prima, di notte, c’era stata una razzia di bestiame. Gli assalitori non si erano limitati a rubare gli animali, ma avevano sparato contro le capanne, col chiaro intento di uccidere la gente che stava dormendo. Per fortuna, a fae le spese furono solo gli arredi delle abitazioni, come zucche e altri recipienti dove i popoli pastori conservano l’acqua e il latte.
«Prima della messa, celebrata all’aperto sotto gli alberi – racconta mons. Pante -, avevo posto sull’altare un contenitore per il latte, crivellato dalle pallottole, e alcuni bossoli vuoti, raccolti dopo quell’assalto. La gente guardava incuriosita. “Questo contenitore e i bossoli sono la prova del nostro peccato – dissi loro -. Voi ne siete testimoni. Giuriamo davanti a Dio che queste cose non le faremo più”. Alla fine della messa abbiamo fatto la cerimonia della pace: ci siamo unti a vicenda sulla fronte con il latte e miele».
I bambini fecero una specie di teatro, descrivendo una razzia: guerrieri nascosti, che avanzano e attaccano il villaggio; donne che piangono, bambini che strillano e fuggono… Finché i piccoli attori si rivolsero ai genitori: «Voi adulti ci volete veramente bene? No! Siete voi che avete fatto queste guerre; noi siamo dovuti scappare dalle scuole e perdere l’insegnamento. Voi avete distrutto la pace, l’ambiente e il nostro futuro: ora ci odiamo a vicenda».
«Ho visto alcune persone che si soffiavano il naso e si asciugavano qualche lacrima: una scena inusuale tra i duri popoli della savana» conclude il vescovo.
E poiché senza cibo non c’è festa, tutto fu concluso con un piatto di riso, un po’ di carne e tè in abbondanza. In lingua samburu non si dice fare festa, ma «mangiare» la festa.
Al ritorno da Barsaloi, il camion che portava a casa i pokot fu fermato a Marti, dove questi, in passato, avevano più volte rubato mucche e pecore ai turkana. Ci fu un momento di paura. Invece, i passeggeri furono fatti scendere e invitati a bere il tè. Poi tutti si misero a ballare. «Rimasi strabiliato. Vedere turkana e pokot danzare insieme fu una scena commovente» racconta padre Aldo, che accompagnava il camion.

ECUMENISMO PRATICO
La quinta festa fu «mangiata» il 23 giugno scorso a Nachola, nella missione di Baragoi, preparata con un lavoro indefesso dai padri Lino Gallina e Aldo Vettori, insieme ai cristiani delle loro missioni. Sotto l’ombra fresca di enormi acacie spinose, vestiti con oamenti tradizionali, oltre 2 mila tra samburu e turkana gareggiavano nelle danze in mezzo a un polverone soffocante. Durante la messa, però, i vari cori cantarono e danzarono più compostamente.
«Più che feste, i nostri sono incontri di preghiera – continua il vescovo -. A Nachola, mescolati ai cattolici (circa la metà), c’erano alcuni protestanti e musulmani, il resto di religione tradizionale: tutti, però, hanno pregato con orazioni spontanee secondo la propria lingua e religione. Sembrava una nuova pentecoste. Lo stesso Dio era invocato con nomi diversi: Nkai, Akuj, Mungu, Allah… E Dio li ascolta tutti. La pace non conosce le divisioni religiose.
Quando arrivò il momento, turkana e samburu si chiesero perdono a vicenda; quindi tutti i presenti furono benedetti con abbondanti aspersioni di latte misto a miele. Tra i presenti c’erano anche alcuni famosi killers, maestri di razzie da tutti temuti. Mi domandavo: “Questi leoni, potranno davvero diventare agnelli? Quanto durerà questa pace? Stiamo facendo teatro? È tutto troppo bello per essere vero”.
Mi aggiustai la mitra di pelle di capra, ricoperta di perline, dono dei cristiani di Baragoi, e feci una breve predica (almeno mi sembrava tale). Le parole mi venivano dal cuore. Dissi che Dio può fare miracoli; che anche se i suoi tempi sono lunghi, il nostro cammino è iniziato e dovrà continuare; che Dio solo può cambiare il nostro cuore di sasso in un cuore di carne; che la nostra speranza di pace non deve mai arrendersi, anche di fronte agli insuccessi».
Dopo la messa ripresero le danze, seguite da discorsi, quasi tutti uguali: «Sarò breve… Oggi è un giorno storico: l’inizio di un’era di pace… Lasciamo che i fucili facciano la ruggine… Interprete, traduci!».
«Tutti dicono che l’incontro di Nachola è stato un successo. I telefoni senza fili ne sparsero la notizia per tutta la savana. Sappiamo che la pace è un cammino lungo, ma stiamo facendo insieme piccoli passi» conclude il vescovo.

PROVANDO E RIPROVANDO
«Dimenticavo che a Nachola non c’erano i pokot, neppure uno. Tutti notarono la loro assenza – riprende mons. Pante -. Una settimana prima, infatti, essi avevano rubato il bestiame a un villaggio samburu del Malaso, nella missione di Morijo».
Era capitato che, all’inizio di giugno, i samburu avevano comprato 4 fucili dai pokot; ma al momento dello scambio gli acquirenti scapparono via senza pagare. Per rifarsi, i pokot rubarono ai samburu alcune vacche, ma senza uccidere nessuno. Il giorno dopo, seguendo le tracce del bestiame, i derubati inseguirono i ladri: nello scontro due samburu rimasero uccisi. Per questo i pokot disertarono la festa di Nachola.
«Parlando di tale assenza con gli anziani – conclude il vescovo -, abbiamo deciso che il prossimo incontro di preghiera e riconciliazione sarà proprio al Malaso, località a 2.400 metri di altitudine, da cui si vede la Rift Valley. Chiameremo i samburu e pokot che si sentono in colpa, perché bisogna mettere il dito dove c’è la piaga; quindi benediremo tutta la vallata dove normalmente vengono nascosti gli animali rubati.
Il risultato non è scontato. Se necessario, tenteremo ancora, sempre nello stesso luogo: a forza di ripetere queste feste qualcosa rimarrà. Se non altro, quelli che vi partecipano tornano a casa con un briciolo di speranza».

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Una generazione infame

Monsignore, in passato si parlava di genocidio tra samburu e turkana: è esagerato?

La tradizione di rubarsi il bestiame è molto antica, c’è sempre stata; ma oggi con la presenza di fucili e mitra capitano disastri. Inoltre, qualche politico ha soffiato sulle tensioni etniche, incitando al tribalismo o vendendo armi. Queste vengono dal mondo occidentale: kalashnikov dalla Russia, G3 dalla Germania, M16 dall’America… Anche noi siamo responsabili del disastro.

Sono molte le armi in mano a queste etnie?
Secondo i giornali, i samburu, che sono circa 150 mila, possiedono 16 mila fucili: praticamente uno su 10; ogni famiglia ha uno o due mitra. Ed è un calcolo per difetto. I pokot ne hanno di più; i turkana più dei pokot. Ci sono tre eserciti potenziali.

Sono tutte armi di contrabbando?
Una trentina di anni fa, il governo concesse ad alcuni, pochi in realtà, di avere un fucile per difendere il bestiame dagli attacchi degli scifta (predoni somali). Ma poi si sono armati tutti illegalmente e alcuni giovani hanno cominciato a usare le armi per rubare di tutto e dappertutto: soldi, cibo, vestiti ai turisti, commercianti e missionari.

È così facile procurarsi le armi?
Con 4 mucche si ha un fucile automatico, importato dal Sudan, Uganda, Etiopia o Somalia, tutti paesi belligeranti confinanti col Kenya. Ancora più facile è procurarsi le munizioni: a Eldoret c’è una fabbrica di pallottole, voluta dall’ex presidente Moi.

Il governo non fa nulla per disarmare la popolazione?
Non è facile. Se si usa la forza, la maggioranza nasconde le armi o, più sovente, si ribella, come è capitato alcuni anni fa: due poliziotti sono entrati in un villaggio per requisire le armi, ma sono stati uccisi. Bisognerebbe convincere la gente a rivenderle al governo, dietro un giusto rimborso. Prima, però, il governo dovrebbe dimostrare di essere capace di difendere i propri cittadini, per cui i fucili sarebbero inutili. Ma questo non avviene: raramente la polizia è intervenuta per recuperare il bestiame rubato. È logico, quindi, che la gente cerchi di difendersi da sola.

È ancora rischioso viaggiare nel territorio della tua diocesi?
La situazione è leggermente migliorata. L’attuale prefetto del distretto sembra molto serio: affronta i problemi con forte senso di responsabilità e, quando avviene un furto, manda soldati e poliziotti a indagare, chiede la collaborazione del prefetto dall’altra parte della valle. Da quando è al governo il presidente Kibaki, sembra che ci siano maggiori controlli nel commercio delle armi e più collaborazione da parte delle popolazioni, fino ad ora abbandonate.

Quale futuro?
Quest’anno, tra i samburu, si chiude una generazione e ne inizia una nuova. Un evento che avviene ogni 14 anni. I giovani circoncisi nel 1990 e che quest’anno terminano il loro status di lmuran (guerrieri), entrando nella classe degli adulti, passano alla storia con il nome infamante di lmooli, coloro che calpestano le tradizioni. È la classe che ha avuto le armi e le ha usate male, fino ad uccidersi tra loro per inesperienza nel maneggiarle. L’ho ricordato nella festa celebrata a Nachola e ho augurato alla nuova classe di giovani di diventare una generazione pacifica.

Benedetto Bellesi




KENYAUna bibbia in ogni famiglia

All’inizio del 2004, in varie diocesi del Kenya si è svolta con successo la campagna
per la diffusione della bibbia nelle famiglie,
con l’invito alla lettura quotidiana della parola
di Dio. A Nairobi l’evento ha avuto luogo
nella parrocchia-santuario della Consolata.

Mentre cresceva nel villaggio rurale di Mwala, diocesi di Machakos, il futuro vescovo di Nairobi, Raphael Ndingi Mwana ‘a Nzeki, non ebbe mai l’opportunità di sedersi e leggere la bibbia, finché non entrò nel seminario maggiore. Non è che il ragazzo ignorasse le scritture. «Prima di tutto la bibbia era disponibile solo in latino; in secondo luogo la chiesa non sempre incoraggiava i laici a leggere le scritture» ha detto l’arcivescovo ai cristiani di Nairobi.
In quei giorni, la bibbia era apparentemente destinata solo al clero. Ma il Concilio Vaticano ii ha capovolto la situazione. Nel 1965 Paolo vi impresse un forte impulso alla costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, in cui si raccomanda di provvedere perché «tutti i fedeli abbiano facile accesso alle sacre scritture».
Negli ultimi 40 anni, la bibbia è stata tradotta in tutte le lingue del Kenya, ma l’abitudine di leggere non è diventata abbastanza popolare o, secondo l’umorismo protestante, molti cattolici hanno tale rispetto per la bibbia che non osano aprirla.
«Resta ancora tanto lavoro pastorale da fare, non solo per mettere la bibbia nelle mani dei cristiani, ma anche per aiutarli a capire quanto essa sia importante nelle loro esperienze quotidiane» ha detto Alexander Schweitzer, segretario generale della Federazione biblica cattolica (Cbf), mentre visitava il paese lo scorso febbraio. Egli si è rivolto agli agenti di pastorali perché suscitino la consapevolezza tra i cristiani sull’importanza delle sacre scritture come compagna quotidiana nel loro cammino spirituale.
È precisamente questo che le suore Paoline hanno messo in moto a Nairobi e Nanyuki, all’inizio dell’anno, organizzando la «giornata biblica», all’insegna del motto «la bibbia in ogni famiglia».
A Nairobi, l’evento ebbe luogo il 24 gennaio 2004 nella parrocchia-santuario della Consolata: con una solenne cerimonia fu intronizzata la bibbia, quindi l’arcivescovo Ndingi e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci, insieme a vari studiosi, parlarono ai fedeli e risposero alle loro domande. A Nanyuki lo stesso evento fu preparato durante il mese di gennaio e concluso il 14 febbraio 2004.

LA BIBBIA: NON È UN LIBRO, MA UNA BIBLIOTECA

Nella sua presentazione, mons. Tonucci tracciò una breve storia della composizione della bibbia, spiegando che i 73 libri della bibbia cattolica (46 nel Primo e 27 nel Nuovo Testamento; i protestanti ne hanno solo 66) furono scritti da autori differenti, in circostanze storiche e culturali differenti, con linguaggi e stili differenti, in un periodo di mille anni. E questo, ha spiegato il nunzio, fa sì che la bibbia sia una biblioteca di libri da leggere con attenzione.
«I libri della bibbia furono scritti in ebraico e greco – ha continuato -. Ciò che noi oggi usiamo sono traduzioni; e benché i traduttori facciano del loro meglio, esse non sempre riflettono perfettamente gli originali». Portò l’esempio della parola Geova, presente in alcune traduzioni della bibbia e usato da alcuni cristiani come nome di Dio: tale termine, ha detto, non è mai esistito nelle versioni originali in ebraico e greco.
Anche i differenti stili usati nello scrivere la bibbia devono essere tenuti in mente quando si leggono le scritture. Alcuni libri devono essere letti come storia, altri come romanzi, altri ancora come canti; alcuni contengono testi per meditazione e preghiera, mentre altri riportano statistiche, come il 1° libro delle Cronache, che contiene 9 capitoli di numeri, ha continuato mons. Tonucci: «Puoi pregare e meditare sulla misericordia di Dio, rivelata nella parabola del figliol prodigo in Luca 15; non altrettanto si riesce a fare con i 9 capitoli delle Cronache».
Inoltre, la bibbia riflette le differenti culture del Medio Oriente antico: una comprensione di tali culture è essenziale per una lettura significativa delle scritture, ha spiegato il nunzio, aggiungendo che i cambiamenti che avvengono in una lingua attraverso il tempo incide sul significato originale delle scritture.

LA BIBBIA: È CIBO, NON MEDICINA

Nonostante queste difficoltà, i cristiani devono leggere regolarmente la bibbia, ha sottolineato il nunzio: «Essa è la parola vivente solo quando la leggi. Ai nostri fratelli e sorelle protestanti piace andare in giro con la bibbia sotto il braccio: buon per loro; per noi, la bibbia rimane in casa, dove la leggiamo con calma e tranquillità».
Egli ha pure messo in guardia sulla lettura selettiva e ha spronato i cristiani a leggee il libro o capitolo intero, perché la bibbia deve essere considerata come un pasto da consumare, non una medicina da ingoiare a piccole dosi quando sorge un bisogno. «La bibbia non è una miniera di buone citazioni per sostenere le proprie idee, ma una sorgente d’ispirazione nel suo insieme, e sempre sotto la guida della chiesa».
Il nunzio ha confutato la visione protestante, secondo cui la bibbia ha fatto la chiesa. «Non è la bibbia che ha creato la chiesa, ma il contrario: essa è esistita prima del vangelo scritto; è nata nella sala dell’ultima cena, sul calvario, a Pentecoste… La buona notizia della salvezza era già stata predicata molti anni prima che fosse scritto il primo libro del Nuovo Testamento. Più tardi, quando numerosi libri pretendevano di essere racconti della vita e lavoro di Gesù, fu la chiesa a selezionare quelli che erano genuini per essere inclusi tra le sacre scritture.

LA BIBBIA: GUIDA PER LA FAMIGLIA CRISTIANA

Arcivescovo Ndingi, dopo una breve riflessione sulla famiglia come «chiesa domestica», ha detto che la bibbia ha guidato il popolo di Dio nella sua vita quotidiana. «La paragono alla costituzione di una nazione – ha affermato, esortando le famiglie cristiane a fare della parola di Dio il centro della loro vita -. Nella famiglia ha inizio la chiesa universale… I membri della famiglia dovrebbero leggere ogni giorno un passo della bibbia per trae ispirazione».
Padre Henry Akaabian, direttore del Centro biblico per l’Africa e Madagascar (Bicam), ha parlato su come fare della bibbia la guida della propria vita. «Il mio richiamo ai cristiani africani è che abbiamo mancato di testimoniare i valori del vangelo con la nostra vita… Perché leggiamo ciò che Dio richiede da noi e poi non lo traduciamo nella vita delle nostre comunità?». Egli ha messo in risalto come la bibbia deve portare il cristiano a una vera conversione: non si tratta semplicemente di una conoscenza accurata di ciò che dice la scrittura, ma piuttosto di un personale incontro con Cristo.
Padre Vincent Kamiri, dell’Università cattolica dell’Africa orientale (Cuea), ha discusso sul ruolo di Maria nella bibbia e nella chiesa.

IN GUARDIA CONTRO GLI ABUSI

A Nanyuki, la «giornata biblica» ha avuto luogo nella parrocchia di Cristo Re. Mons. Tonucci è stato l’oratore principale. Rivolgendosi ai 10 mila fedeli del decanato di Nanyuki, ha ripetuto la presentazione fatta a Nairobi, quindi ha risposto alle domande presentategli in antecedenza.
Molte di esse tradivano l’influenza della predicazione protestante ed evangelica e riguardavano la Madonna, il sabato, le bevande alcoliche, l’uso delle immagini nel culto cattolico, uso dei pantaloni da parte delle donne, il fondamento biblico della data del natale… Oltre a mettere in guardia i cattolici contro l’uso errato delle sacre scritture, mons. Tonucci ha spiegato che la bibbia non dice nulla su argomenti scientifici. «Gli autori della bibbia hanno scritto libri di teologia e non di scienze. Per cui non si può sostenere che la teoria dell’evoluzione sia errata perché la bibbia parla di creazione. Essa non si occupa di verità scientifica».
Il nunzio si è rammaricato che molti cattolici siano stati fuorviati dalla lettura selettiva e interpretazione spuria della bibbia da parte di alcune chiese cristiane, prevalentemente fissate sul primo testamento.
Incoraggiando i fedeli a leggere la bibbia ogni giorno, egli ha pure avvertito che la verità nella bibbia non è questione di interpretazione personale: «Abbiamo bisogno della guida della chiesa per comprendere la scrittura» ha detto, aggiungendo che i cattolici non vedono la bibbia come unica sorgente di rivelazione divina, come avviene nelle altre denominazioni cristiane. Nella costituzione dogmatica Dei Verbum, la chiesa, mentre esorta i fedeli a sviluppare l’abitudine di leggere la bibbia, afferma che le tre sorgenti della divina rivelazione sono la sacra scrittura, la tradizione e l’insegnamento o magistero della chiesa.
La «giornata biblica» a Nanyuki si concluse con la celebrazione eucaristica, presieduta da mons. Nicodemus Kirima, arcivescovo di Nyeri.

Henry Makori




APPELLO KENYAViva Nairobi viva

Il 55% della popolazione di Nairobi (Kenya) vive in 168 baraccopoli, dove i servizi sono inesistenti. Il governo del Kenya ha deciso
la demolizione di 42 mila strutture (baracche, scuole, chiese, centri comunitari, cliniche, mercatini, ecc.), lasciando senza casa né speranza oltre 354 persone. Le demolizioni
sono già cominciate, senza preavviso né offerta
di alcuna alternativa o compensazione.
Il «Coordinamento delle parrocchie negli insediamenti informali» (slums) di Nairobi ha lanciato un appello per fermare le demolizioni
e avviare un tavolo di trattative serio, finalizzato a trovare soluzioni accettabili: limitazione dei trasferimenti, rilocazione concordata, indennizzi per gli sgomberati.
Varie associazioni e personalità inteazionali hanno aderito all’appello e lanciato la campagna «Viva Nairobi Viva», tra cui i volontari di AfrikaSì, impegnati negli slums della parrocchia della Consolata di Westlands, Nairobi
(vedi dossier in M.C. marzo 2004).

La notizia della demolizione sistematica degli slum a Nairobi ha colto noi operatori volontari in quel territorio di sorpresa, lasciandoci basiti.
Chi conosce gli slum sa perfettamente quali siano le condizioni di degrado estremo di quella realtà che si svolge al di fuori di ogni canone di vita compatibile con gli esseri umani. Ma cacciarli di lì senza alcuna azione concreta di ristrutturazione migliorativa o no, significa togliere loro l’unica risorsa di cui dispongono: la speranza.
È per dar loro la speranza di una vita accettabile e civile che noi di AfrikaSì andiamo laggiù a operare, immergendoci nella loro miseria materiale e spirituale e nella loro vita. Noi, un pugno di volontari, andiamo a portare il poco che possiamo materialmente, il tanto che abbiamo nel nostro cuore, commossi e profondamente turbati dal loro dolore, nascosto spesso dietro un sorriso e la rassegnazione.
Cacciarli di lì, da quei tuguri che rappresentano l’unico «bene» e certezza, non è propriamente un atto di civiltà, come si vorrebbe far credere, ma un ulteriore crudeltà della civiltà delle ruspe e della tecnologia.
Possiamo comprendere, noi occidentali, come spianare il loro fango misto a sterco, allontanando il loro fetore, possa essere liberatorio per noi, per le nostre case e la nostra «pulizia»; diversa forse la loro ottica. Buttar via quelle quattro assi e quegli stracci, unici loro beni, significa compiere l’ultimo gesto di negazione e di rifiuto, dopo aver loro rubato le terre, le case rurali, la realtà contadina decorosa e civile in chiave con le loro radici e tradizioni a favore del latifondo, con l’inganno supremo di un lavoro in città, con il miraggio di un benessere migliorativo.
Questo il primo passo della nuova Repubblica kenyana, il primo intervento nei confronti dei diseredati della terra.
«Son sempre i cenci che vanno all’aria» diceva Manzoni. Le ruspe contro le forchette come sempre, come adesso «esportare la democrazia» è il nuovo look politico di questa epoca che, nella sua grande violenza e ipocrisia, aggredisce i deboli, togliendo loro il molto o il nulla che posseggono, peraltro ammantando la prevaricazione, il sopruso, l’offesa sotto la veste etica della democrazia, foriera per definizione di libertà, benessere, bene assoluto.
Bene per chi? Non certo per coloro che non hanno voce, mezzi, armi per difendersi. Perché non fare altrettanto e quindi esportare le nostre ideologie sacre in quei paesi e territori ove la democrazia è carente, ma dove si incontrerebbe una reazione, una risposta altrettanto forte a difesa delle proprie radici, della propria terra, magari una risposta con armi tecnologiche altrettanto distruttive e offensive delle nostre? Semplice, questa è la legge dei prepotenti e dei vigliacchi di questo sporco mondo che, adducendo lo spettro del terrorismo, nascondono agli stolti e ai ciechi che esso nasce proprio dalla violenza, aggressività e ingiustizia e come il perpetuarsi di queste dinamiche sia la causa prima che alimenta la reazione dei poveri con le loro armi: pietre, sangue, pianti e disperata estrema reazione: il suicidio.
Con queste nostre semplici ma oggettive valutazioni, intrise di amarezza e di dolore, unite allo sconforto e all’impotenza intendiamo denunciare con grido lacerante la nostra più vibrata protesta insieme a quella di tutti coloro che vivono e soffrono con noi l’ingiustizia, la prevaricazione, la stupidità. Grido associato in modo irrevocabile alla nostra volontà di andare avanti e di combattere per questi sacri, eterni ideali.

Ennio Di Giulio




KENYASinfonia di aiuti

Anche nei posti più difficili, è possibile far sorgere un’opera «quasi impossibile», come un ospedale. Eppure, unendo insieme fantasia, generosità
e competenza, il sogno può avverarsi. Come è successo nell’arido Tharaka…

S orta nel 1957 in uno sperduto lembo del Tharaka, 180 km a nord di Nairobi, la missione di Matiri copre un’area di 600 kmq con una popolazione di 46 mila abitanti di vari gruppi bantu.
La popolazione vive di pastorizia e, malgrado le frequenti siccità, di agricoltura di sussistenza, limitata alla coltivazione di miglio e granturco, dai quali ricava una polenta che è spesso l’unico pasto quotidiano.
Le strade sono pessime, l’acqua scarseggia. Per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, padre Orazio Mazzucchi, missionario della Consolata, unendo al servizio pastorale una capacità manageriale, ha trasformato Matiri in un perenne cantiere. La missione ospita varie strutture scolastiche e, fin dai primi anni ’60, un ambulatorio che per anni ha rappresentato l’unica forma di assistenza alla popolazione, afflitta delle principali malattie tropicali: malaria, tubercolosi, parassiti, lebbra, tracoma, Aids.
Rita: un volto
accanto a… Cristo
Nel 1987, il dispensario ha fatto un primo salto di qualità, grazie a un’infermiera volontaria piemontese, Rita Drago, arrivata sul posto con il Cuamm (medici missionari); da allora, non è più ripartita.
La sua dedizione e competenza le hanno subito guadagnato stima e fiducia della popolazione, in particolare delle donne, che hanno trovato in lei un valido aiuto sia nelle emergenze sanitarie, che nella gestione della vita familiare e prevenzione di malattie infettive. Tanto è l’affetto della gente di Matiri, che, al momento di adornare la modesta chiesa della missione con un ciclo di affreschi ispirati al vangelo, hanno voluto inserire anche il volto di Rita tra le figure che attorniano il Cristo.
Già allora frequentavano Matiri i volontari dell’Avi (Associazione volontariato insieme, di Montebelluna TV), nata su impulso del concittadino padre Pierino Schiavinato, uno dei tanti missionari della Consolata usciti dal seminario di Biadene. Tramite Rita, le donne tharaka presentarono all’Avi l’esigenza di assistenza continua e qualificata durante la gravidanza. Grazie all’associazione montebellunese, la collaborazione dei clan locali e gruppi organizzati femminili, nel 1995 si è potuto inaugurare una piccola mateità che, con i suoi 15 posti letto, ha garantito assistenza a circa 700 parti l’anno.
Fondamentale si rivelava l’apporto, sia in termini di lavoro personale che finanziario, del decano dell’Avi, Mario Olivato, che, con questa struttura a servizio dei bambini, ha voluto ricordare un figlio scomparso precocemente.
tutti insieme,
appassionatamente
Nel corso degli anni, la mateità ha trovato la collaborazione di vari medici volontari, che passano le loro vacanze a Matiri, dando una mano a Rita. Ma la mancanza di una sala operatoria e modee attrezzature diagnostiche non permette una piena risposta alle necessità dei pazienti; per di più, i 40 km di sterrato, che separano Matiri dall’ospedale più vicino (impercorribili durante la stagione delle piogge), potevano trasformare in tragedia anche la più banale patologia.
Tra i medici volontari passati a Matiri c’è anche Giorgio Giaccaglia, primario dell’Unità terapia intensiva dell’ospedale di Migliarino (Ferrara), che ha alle spalle una breve esperienza di volontariato presso l’ospedale di Sololo, nel nord del Kenya: ormai prossimo alla pensione, quando, come tanti suoi colleghi, potrebbe dedicarsi interamente ai guadagni dorati della libera professione, non accetta di assistere impotente alla perdita di tante vite e matura l’idea di trasferirsi in pianta stabile a Matiri, per avviare la costruzione di un vero ospedale.
La moglie Antonia, a sua volta infermiera, è la prima a condividere e incoraggiare il progetto. Giorgio ne parla, nel 1999, con un altro montebellunese, padre Livio Tessari, all’epoca responsabile dell’ufficio di cornordinamento degli ospedali africani dei missionari della Consolata; comincia a coinvolgere attorno a quest’idea colleghi e amministratori della sanità ferrarese, con i quali dà vita all’«Associazione Emiliano De Marco». Ancora una volta l’impegno per i bambini del Tharaka si lega al ricordo di un giovane italiano, mancato precocemente.
Padre Livio lo mette in contatto con Gino Merlo, presidente dell’Avi, e il progetto prende forma, potendo contare anche sul parallelo intervento di altre realtà del volontariato, come l’Ong «Mondo giusto» di Lecco e l’Associazione «La sola verità è amarsi» di Barzanò (LC).
I volontari lombardi sono alle prese con la costruzione di un acquedotto per fornire acqua alle opere di Matiri, di una centralina idroelettrica da 70 kw e un progetto di sviluppo agricolo: tutto sfruttando le acque del fiume Mutonga (cfr. Missioni Consolata, marzo 2003).
Tra il 2000 ed il 2003 si susseguono i rilievi e la progettazione, curata dall’architetto Zarattini di Ferrara, i contatti con la diocesi di Meru, le autorità locali e le varie iniziative di raccolta fondi, che coinvolgono banche, enti locali e donatori privati del Veneto e dell’Emilia. Vengono anche raccolte e rigenerate varie attrezzature sanitarie dismesse dagli ospedali.
con la benedizione
di sant’orsola
Nel luglio 2001, mons. Silas Silvius Njiru, vescovo di Meru, pone la prima pietra del costruendo ospedale, che, nel frattempo, vede nascere a Caserta un nuovo gruppo di sostenitori, riuniti nell’associazione «Una mano tesa per Tharaka».
I lavori di muratura vengono affidati ad Agrikenya Ltd, un’impresa di Nairobi gestita da un costruttore italiano, e decine di volontari trevigiani e ferraresi spendono le loro vacanze occupandosi di impiantistica, generatori elettrici, pannelli fotovoltaici, macchinari elettromedicali e quant’altro.
Non mancano (è ovvio!) né imprevisti e ritardi legati alla situazione locale, né le incomprensioni tra persone che stanno imparando a conoscersi strada facendo; ma, a eccezione di un residuo contenzioso con Agrikenya, l’entusiasmo, la fantasia e la consapevolezza dei bisogni che attendono una soluzione consentono di superare ogni ostacolo.
Il primo ottobre 2003, l’ospedale entra in attività e, nella sua gestione, viene coinvolta la congregazione delle Orsoline, che manda a Matiri tre suore indiane con competenze infermieristiche e amministrative. In un’area dove solo lo 0,5% della popolazione dispone di una stabile occupazione, l’ospedale significa anche una sessantina di nuovi posti di lavoro tra infermieri, assistenti sanitari, inservienti e addetti alla cucina.
Grande è la gioia per questo risultato, anche se velata dalla scomparsa di padre Livio Tessari, spentosi a Torino appena tre mesi prima.
Questo primo stralcio funzionale si sviluppa su circa 2.000 mq di superficie e dispone di due sale operatorie, sala parto, 50 posti letto di degenza, radiologia, ecografia, laboratorio analisi, ambulatori e locali di servizio. È la prima struttura del Tharaka a essere realizzata con copertura in tegole e tetto autoventilante, il che garantisce una buona temperatura intea. Ad essa si affiancano una casa per le suore e una per i volontari; sono state gettate le fondamenta per un terzo alloggio, destinato ai medici residenti.
L’assistenza medica e chirurgica è affidata a Giorgio Giaccaglia e all’infettivologa Marina Tadolini, ai quali si affiancano medici e paramedici emiliani e campani (si spera a breve anche veneti), anche se a regime l’ospedale dovrà necessariamente assumere personale medico locale. L’impegno di spesa ha già superato i 600 mila euro (senza contare l’apporto personale dei volontari) e almeno altri 200 mila di attrezzature e opere sono stati foiti dal Consorzio acquedotto del Po per l’approvvigionamento idrico.
Le previsioni per le spese di gestione sono di 250/300 mila euro all’anno, che sicuramente non possono essere reperiti sul posto e continueranno a lungo a impegnare le associazioni che ne hanno promosso la costruzione; mentre le aspettative che la popolazione riversa sulla struttura richiederebbero, già oggi, l’avvio di un primo ampliamento.
Il 31 gennaio 2004, il vescovo di Meru ha benedetto il nuovo ospedale dedicandolo a sant’Orsola, con una cerimonia nella quale padre Orazio Mazzucchi e Giorgio Giaccaglia hanno dato un emozionato benvenuto al superiore generale della Consolata, padre Pietro Trabucco, al superiore regionale padre Luigi Brambilla, autorità locali, volontari di Ferrara (accompagnati dall’assessore Alessandra Chiappini), di Montebelluna, Caserta, Barzanò, Fano e altre realtà che gravitano attorno alla missione. Il rappresentante del governo kenyano, che ha partecipato alla cerimonia, si è sbilanciato: ha promesso l’arrivo di una linea elettrica. Staremo a vedere.
A 80 anni suonati, è presente anche Mario Olivato che, nel frattempo, lasciata in buone mani la crescita della «sua» mateità, ha trovato tempo, energie e risorse per occuparsi di bambini orfani o abbandonati, affidati alle cure di Rita. Grazie a Mario, oggi Matiri può ospitarli in una nuova casa. La benedizione ai 65 degenti e le loro patologie, che spaziano dal morso del coccodrillo alle grandi ustioni, alla gravidanza complicata da malaria acuta, danno l’idea dei bisogni che affliggono la popolazione, mentre l’attaccamento alla vita di una piccola creatura, salvata il giorno prima con un cesareo dall’équipe di Giorgio, rafforza in tutti l’entusiasmo e la determinazione per continuare a lavorare.

La festa ha rischiato di trasformarsi in tragedia: sulla via del ritorno a Nairobi, alcuni partecipanti all’inaugurazione, tra cui l’assessore Chiappini e Antonia Giaccaglia, sono stati coinvolti in un incidente, riportando varie fratture. Ricoverati al Nairobi Hospital, hanno avuto la conferma che dalla sanità privata puoi trovare aiuto solo se disponi di adeguata carta di credito.
A Matiri invece, come ha ricordato nel suo saluto il vice presidente Avi, Francesco Tartini, l’ospedale di sant’Orsola si ispira al principio che la salute non è né un’opera di carità, né un bene di consumo; ma un diritto umano fondamentale.

Francesco Tartini