ETIOPIA – Ragnatela d’amore e vita

Asili, scuole, acquedotto, dispensario medico, campagne di vaccinazioni, soccorsi di emergenza… sono alcuni fili della «rete» di progetti di promozione umana della parrocchia di Wonji, insieme a un’intensa attività di evangelizzazione.

I contadini delle montagne circostanti la chiamano col termine di «verde». E tale appare Wonji, vista da lontano: una grande conca verde cupo, che si estende a perdita d’occhio. Il colore le deriva dalle estese piantagioni di canna da zucchero, irrigate con le acque del fiume Awash.
Ma il centro abitato non è un paradiso: le abitazioni sono quasi tutte di fango; le strade sporche e sconquassate, con uomini e bestie in libertà; auto scassate e biciclette sono l’unico segno di progresso.
Gli oltre 18 mila abitanti della città vivono (si fa per dire) grazie all’industria dello zucchero: la maggioranza di essi si spaccano mani e schiena nelle piantagioni per 30 dollari al mese; gli operai dei due zuccherifici non sono più fortunati.
Fuori dal «verde», poi, l’impressione è più penosa, specialmente in questi mesi: l’anno scorso sono mancate le piogge stagionali e in molte zone è fame nera.
ACQUA «CATTOLICA»
Mentre guardo il panorama, in piedi sulla grande cisterna costruita in cima a una collina a ovest del paese, padre Giuseppe Giovanetti mi spiega il paradosso: il fiume Awash è generoso, ma inquinato; la falda acquifera è a soli 10 metri sotto terra, ma l’acqua dei pozzi contiene un’alta percentuale di fluoro che rovina denti e ossa. Ancora oggi si incontrano ragazzi con i denti neri e anziani ringobbiti.
Lo spettacolo doveva essere più impressionante nel 1980, quando padre Tarcisio Rossi fu nominato parroco del luogo: il progetto dell’acqua potabile fu una priorità. Scavò un pozzo non lontano dal fiume Awash, costruì un serbatornio da 50 mila litri e cominciò la distribuzione dell’acqua in varie zone dell’abitato.
«Quando arrivai per la prima volta a Wonji, nel 1992-93 – continua padre Giovanetti -, la popolazione era aumentata enormemente: scavai un altro pozzo e raddoppiai questo serbatornio. Ora che sono tornato, continuo a occuparmi del progetto».
Notte e giorno, due pompe spingono l’acqua nei due serbatorni da 100 mila litri; una rete di oltre 12 km di tubi la porta in 18 punti di distribuzione pubblica e ad altre strutture private (scuole, bar, banca, moschea, chiese ortodosse e protestanti).
Mentre visitiamo alcune fontane, dove si allineano serpentoni di bidoni gialli, padre Giovanetti spiega: «Ogni famiglia preleva una tanica al giorno, per un totale di 1.000 litri al mese, pagando due birr (20 centesimi di euro); le strutture private hanno il contatore e pagano secondo il consumo. Ma tale compenso non basta a pagare il personale addetto alla manutenzione e gestione del progetto».
Intanto aumenta la richiesta d’acqua. Per accontentare tutti, la distribuzione è razionata: le famiglie attingono solo al mattino; durante la notte le condutture vengono chiuse, per evitare che eventuali sprechi o abusi dei privati provochino l’entrata di aria nelle tubature, creando disguidi per tutta la popolazione.
I problemi arrivano, soprattutto, quando una pompa si brucia, a causa degli sbalzi di corrente: prima che arrivi il tecnico da Addis Abeba e ripari i guasti, parte della città rimane a secco per oltre dieci giorni.
Per diminuire tali rischi, padre Giovanetti sta pensando di costruire un altro serbatornio di 50 mila litri e ha fatto appello per una pompa più potente. La Caritas italiana ha accolto la richiesta.
Sembra che anche il governo si stia muovendo. Alcuni tecnici hanno visitato il progetto, sono rimasti contenti e vorrebbero portare acqua potabile da Nazaret e immetterla nel progetto della missione. «Ho accettato subito. Almeno la gente, che da oltre 20 anni beve acqua “cattolica”, non darà la colpa alla chiesa, quando i rubinetti rimarranno asciutti» conclude il padre sorridendo.

FAFA «MORMONE»
Fin dagli inizi, la chiesa di Wonji è impegnata pure nel campo sanitario. Il dispensario, oltre a curare la gente che accorre alla missione, svolge varie attività nelle zone rurali e di montagna: sensibilizzazione igienica e sanitaria, campagne di vaccinazioni, formazione di levatrici tradizionali e agenti di sviluppo comunitario.
«La chiesa cattolica promuove la coscientizzazione sui problemi basilari della gente» spiega padre Giovanetti, mentre mi porta nel suo quartiere generale, dove una dozzina di giovani sono impiegati nei vari progetti sociali e umanitari della missione. Sono tutti indaffarati nei preparativi per il giorno seguente: trasferta ad Amude, 62 km da Wonji, per distribuire 180 quintali di cibo a oltre 4 mila persone.
«È ancora la chiesa cattolica a portare alla ribalta i problemi della gente e a prestare i primi soccorsi» continua il padre. Alla fine dell’anno, durante le varie visite per le attività sanitarie, abbiamo scoperto che i contadini avevano finito le loro scorte di cibo: era la fame, causata dal fallimento delle grandi piogge autunnali. Abbiamo subito avvisato il Dppc (Disaster prevention and preparedness commission), l’organismo governativo incaricato di prevenire i disastri naturali. Ho dovuto smuovere capi politici della sanità, educazione, agricoltura, portandoli sul posto; ho pure suggerito una possibilità di soluzione».
La soluzione si chiama Crs (Catholic relief service), l’organizzazione dell’episcopato americano, con programmi di aiuti in vari paesi africani. «Dapprima il governo disse che avrebbe preso in mano la situazione – continua padre Giovanetti -. Ma in un incontro tra autorità federali e Ong, parlando a nome del Crs, dissi chiaro e tondo che i donatori volevano che fosse la chiesa a gestire il progetto: e ce lo ha permesso; cosa che prima non accadeva».
Il principale donatore si chiama Gary Flake, incaricato delle attività caritative della Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno (mormoni). Si era rivolto al Crs offrendo aiuto contro la fame. «La signora Anne Bousquet, rappresentante del Crs lo mandò da me – racconta il padre -. Ci incontrammo in un hotel di Nazaret e mi fece grande impressione. A un certo punto, rivolgendosi a due signore che lo accompagnavano disse: “Io sono un mormone, ma mi metto nelle mani di un prete cattolico; sono felice di essere qui, per fare del bene insieme al mio fratello padre Giuseppe Giovanetti”. Poi, rivolto a me, disse che era disposto a pagare fino a 35 mila tonnellate di cibo».
Era un’impresa grande e complessa. Fu fatto un accordo con mister Flake, il Crs e la chiesa di Wonji: il primo paga le fatture all’Unimix, una fabbrica locale di fafa (miscela di farine, vitamine, proteine, zuccheri…); il Crs provvede ai contratti con la fabbrica, al trasporto e alle spese per il personale; alla chiesa la responsabilità di organizzare la distribuzione.

LA RAGNATELA…
Come supervisore, padre Giovanetti ha impiegato un mese per organizzare tale impresa: ha preparato gli impiegati (3 supervisori, 7 animatori, 12 distributori); ha visitato le autorità locali (sindaci di città e capi di Associazioni dei contadini) per stendere il piano e risolvere i problemi logistici.
«L’avventura è cominciata a febbraio – spiega il padre, mentre andiamo al centro di distribuzione di Amude -. L’abbiamo chiamata Web of love, help and life: ragnatela di amore, aiuto e vita, perché coinvolge donatori e beneficiari. La rete è composta da 8 centri (5 nel distretto di Adama e 3 in quello di Dodota Sire, in cui è Amude), coinvolge 42 Associazioni di contadini con oltre 40 mila persone e distribuisce ogni mese 1.400 quintali di fafa. Il nostro è un progetto integrativo: mentre il governo dovrebbe aiutare le famiglie affamate con la distribuzione di granaglie, noi aiutiamo donne gestanti, allattanti e bambini sotto i 5 anni».
Ad Amude arriviamo quando il sole è allo zenit; troviamo una marea di donne in attesa di essere servite. Alcune siedono pazientemente al sole o sotto un albero; altre sono attorno agli impiegati, che controllano schede, confrontano liste di nominativi, fanno apporre la firma (impronte digitali) sulle tessere; intanto si formano file variopinte ai punti di distribuzione.
È la scena che si svolge ogni mese negli 8 centri di distribuzione. Per padre Giovanetti e i suoi aiutanti tale è un lavoro snervante, ma gratificante. Più noiose, invece, sono le giornate passate in ufficio a stilare resoconti dettagliati del lavoro fatto da inviare al Crs e alle autorità governative; preparare il piano, altrettanto dettagliato, con date, luoghi e quantità di cibo necessario per il mese seguente.
Tale avventura continuerà fino a ottobre, quando si spera che la gente possa avere i primi raccolti. «Ma la ragnatela non scomparirà – continua il padre -. Ho preso accordi con varie capi locali per pesare tutti i bambini e controllare se abbiano superato la crisi o siano ancora denutriti e bisognosi di ulteriore aiuto».

FAME DI SAPERE
Dei sette progetti sociali gestiti dalla missione, quattro riguardano l’educazione: un asilo vicino alla chiesa parrocchiale e un altro ad Awash Melkasa, nella parte opposta delle piantagioni di canna; una scuola elementare e media con oltre 700 alunni a Wonji e un’altra a Bati Bora, a 12 km dalla sede parrocchiale.
Di tali opere si occupa padre Matthieu Kasinzi, missionario della Consolata congolese, eccetto Bati Bora, gestita da padre Giovanetti.
Mentre ci rechiamo a visitarla, traballando su una sassosa mulattiera, il padre racconta: «Piccola e malandata, la scuola stava per chiudere, poiché le famiglie non potevano pagare le tasse scolastiche, a causa della fame. Ho fatto un patto con i genitori: li avrei esonerati dalle tasse per un anno, purché mandassero i figli a scuola. Non l’avessi mai detto! Da 113, gli alunni sono saltati a 715. Ma con l’aiuto di alcuni amici italiani sono riuscito a mandare avanti la baracca e ingrandire gli edifici».
Siamo in vista della scuola; ma un’enorme erosione ci costringe a fare l’ultimo chilometro a piedi, attraversando un profondo burrone. Le aule sono piene come un uovo: le classi oscillano tra i 95 e i 110 alunni; alcune seguono il ciclo regolare di quattro anni; in altre i programmi vengono condensati in due anni: lo chiamano «sistema informale» ed è riconosciuto dal governo.
Ciò che colpisce nelle aule «informali» è la scala delle teste: nelle prime file esse sporgono dai banchi a malapena; nelle ultime si ergono ragazzotti e signorine in età da matrimonio.
Un particolare fa gongolare di gioia padre Giovanetti: in alcune classi le ragazze sono più numerose dei maschi. «È un fatto nuovo in Etiopia – osserva il padre -. La gente ha capito l’importanza della scuola per il futuro dei loro figli, in modo particolare per le donne, anch’esse affamate di sapere».

FAME DI DIO
Wonji non è solo progetti sociali, ma svolge una capillare opera di evangelizzazione e formazione di comunità cristiane. Il parroco, Ghebre Egziabher Gebru, missionario della Consolata etiopico, cornordina il lavoro religioso e pastorale, visita le famiglie, malati e anziani. È coadiuvato da padre Matthieu, responsabile dei giovani. La domenica, padre Giovanetti dà una mano a tutti e due, celebrando la messa nelle comunità rurali.
Wonji è la parrocchia più grande del vicariato di Meki: conta 18 comunità; alcune sono disseminate nella piantagione; altre sparse in campagne e colline; quella di Alentena è la più sviluppata e richiede tanta attenzione come la sede centrale.
Tutte le comunità sono caratterizzate da un comune denominatore: la fame di Dio. Per questo ha avuto un grande sviluppo: dalle poche centinaia di 20 anni fa, i cattolici sono passati a 5.700, un quarto della popolazione cattolica di tutto il vicariato.
L’attività di evangelizzazione, corroborata dalla testimonianza della carità dei progetti sociali e umanitari, continua a rispondere alla più profonda fame e sete della popolazione di Wonji: anche qui «i poveri hanno fame di Dio; non solo di pane e libertà» (RM 83).

Benedetto Bellesi




ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi




SUGLI ALTIPIANI DELL’ETIOPIA – 1a puntata

SEMI DI SPERANZA

Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki
è stato fondato e organizzato dal sudore dei
missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi
hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma
il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta
molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione
che in quello della promozione umana.

Il 10 maggio scorso è stata una
data storica per il vicariato apostolico
di Meki. Anche il cielo ha
voluto partecipare alla festa: un temporale
notturno ha spazzato via la
cappa caliginosa che ricopriva questo
infuocato angolo della Rift Valley,
promettendo una boccata d’aria
più respirabile. La mattina, un cielo
terso come uno specchio ha fatto da
sfondo al grande evento: l’ordinazione
episcopale di abba Abraham
Desta, secondo vescovo del vicariato
apostolico di Meki, successore di
mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto
nel settembre 2002.
Oltre ai 4 mila fedeli, missionari,
preti locali, religiose e religiosi impegnati
nel vicariato, hanno partecipato
alla celebrazione tutti i vescovi delle
nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio
apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi.
La stragrande maggioranza
dei convenuti è rimasta fuori della
cattedrale, seguendo la funzione da
due schermi televisivi. Beati loro! I
privilegiati ammessi all’interno della
chiesa hanno sudato le proverbiali
sette camicie per quasi quattro ore,
tanto è durata la funzione.

IL VESCOVO VENUTO DAL NORD
Ha presieduto la cerimonia mons.
Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo
di Addis Abeba, assistito dai vescovi
di Adigrat e di Harar. La celebrazione
eucaristica è stata in lingua
amarica e rito latino; la consacrazione
episcopale in lingua ge’ez e rito orientale.
Non sono dettagli di pura curiosità:
le differenze dei riti rispecchiano
storia, organizzazione ecclesiastica
e strategia missionaria adottata in
Etiopia. Le regioni settentrionali del
paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate
fin dal IV secolo; ma due secoli
dopo la chiesa etiopica si trovò
separata da Roma per incomprensioni
di teologia cristologica, dando
origine alla chiesa copta ortodossa.
Quando nel secolo XIX Agostino
De Jacobis (1839-60) cercò di attirare
gli ortodossi nella comunione con
Roma, conservò lingua, riti e legislazione
orientali.
Nelle regioni del sud, invece, abitate
da popolazioni prevalentemente
non cristiane, il card. Guglielmo
Massaia (1846-77) preferì adottare il
rito latino, ancora in vigore anche nel
vicariato di Meki.
L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo
di Adigrat, inoltre, sottolinea
l’origine del nuovo vescovo, che, come
il suo predecessore, proviene dalla
diocesi tigrina.
Nato 51 anni fa, Abraham Desta
studiò nel seminario di Adigrat e, dopo
l’ordinazione, continuò gli studi
in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti,
conseguendo la licenza in teologia
dogmatica e diplomi in sviluppo
comunitario e teologia pastorale.
Tornato in patria, ricoprì vari incarichi:
per nove anni fu rettore del
seminario minore di Adigrat; poi segretario
del vescovo e responsabile
della pastorale e formazione dei giovani;
dopo sette anni fu nominato
cancelliere e direttore del Segretariato
cattolico della diocesi, finché,
nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla
nomina di vescovo di Meki.
«È stata una sorpresa – confessa
abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente
comprensibile, mi sono
posto varie domande: sono la persona
giusta? Come potrò assolvere
questo compito? Ce la farò? Poi,
nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre
di darmi la forza per accettare e
fare la sua volontà».

SPERANZA EVANGELICA
Ed è proprio durante un periodo
di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione
della sua ordinazione, che
incontro abba Abraham e gli porgo
qualche domanda, a cui risponde volentieri.
Cosa pensa del vicariato che è
chiamato a guidare?
«Prima dell’ordinazione ho voluto
rendermi conto della vita della
chiesa in questa regione del paese, visitando
tutte le parrocchie, incontrando
la gente e i missionari e missionarie.
Sono stato felicemente impressionato
dalla mole di lavoro fatto
dal mio predecessore, dai missionari,
preti fidei donum, suore di varie
comunità religiose. Mi ha commosso
lo zelo di tante persone impegnate
nel portare alla gente la speranza
del vangelo, specialmente dei missionari
della Consolata, che sono all’origine
di questa diocesi».
Il vescovo si lancia in un elogio
sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni,
padri e fratelli. Ed è sincero.
Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono
i padri Giovanni De Marchi,
Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino,
è stato fatto un lavoro gigantesco
(cfr. M.C. gennaio e maggio 2003):
in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato
dalla chiesa madre di Harar
(1980), diventò prefettura apostolica
e poi vicariato (1992).
È una regione immensa, dallo Shoa
meridionale alla Somalia, localizzata
in gran parte nello stato dell’Oromia,
con estensioni in quello delle Nazioni
etniche meridionali. Misura oltre
156 mila chilometri quadrati (quasi
mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti,
in prevalenza oromo, con minoranze
etniche indigene (kambatta,
adya, wolaita, guraghe) o immigrate
(amhara e tigrini).
Gli oromo sono quasi tutti musulmani;
gli altri gruppi etnici sono cristiani
(ortodossi, cattolici e protestanti)
e di religione tradizionale.
Oggi il vicariato di Meki conta oltre
21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni:
erano circa 4 mila i battezzati
nel 1980; 14 mila nel 1992.
L’adesione alla chiesa cattolica è forte
soprattutto tra le etnie minoritarie;
ma anche tra gli oromo si registra
il passaggio di famiglie intere dall’islam
al cattolicesimo.
Più delle cifre, sono le innumerevoli
opere sociali (scuole, asili, ospedale,
lebbrosari, dispensari, centri di
formazione religiosa e promozione
umana, pozzi e acquedotti, interventi
umanitari di emergenza…) a testimoniare
la mole di lavoro che la
chiesa di Meki continua a svolgere a
favore di centinaia di migliaia di persone
di ogni etnia e religione, seminando
tra la gente «speranza evangelica
» per un futuro migliore.

PALLA O… PATATA?
«Naturalmente c’è ancora molto
da fare – continua il vescovo -. Ho visto
che vaste zone sono ancora da evangelizzare.
I missionari della Consolata
sono essenziali; ma ho paura
che mi lascino solo».
La frase è sibillina, ma so a che cosa
allude. I missionari della Consolata
hanno sempre voluto dare massima
visibilità al clero locale: quando
fu creata la prefettura di Meki,
essi insistettero che fosse un prete etiopico
a guidarla; appena una parrocchia
è funzionante, premono perché
sia affidata al clero diocesano,
per aprire una nuova missione in zone
ancora incolte.
C’è ancora un posto di responsabilità,
da 30 anni in mano a un missionario
della Consolata: l’amministrazione
del vicariato. Tale carica richiede
continui contatti e trattative
con amministrazioni e governo, per
lo svolgimento dei programmi sociali
e di sviluppo del vicariato. Inoltre,
dal momento che Meki conta già
una quindicina di preti locali, i missionari
hanno ventilato l’idea di passare
loro la palla, ritenendo che un
prete oromo possa intendersi con le
autorità meglio di un visopallido.
Più che di palla, forse si tratta di…
patata bollente: basta guardare padre
Giovanni Monti, attuale amministratore
e direttore dei vari uffici
della curia: è rimasto pelle e ossa e,
in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi
alla cinghia dei calzoni, anche se non
è mai stato in sovrappeso in vita sua.
«I missionari della Consolata hanno
svolto un compito meraviglioso;
il futuro della diocesi dipende ancora
dal loro supporto – continua il
nuovo vescovo incensando -. Sono
felice di lavorare e programmare insieme
a loro. Spero e prego, quindi,
che essi vedano le esigenze e problemi
della diocesi e aumentino la loro
presenza, per rispondere alle attese
sociali e religiose della gente, che in
tanti villaggi aspettano ancora la consolazione
del vangelo. Da soli non ce
la possiamo fare».

VISIONE E REALTÀ
A proposito di programmi, cosa
prevede per il futuro?
«Per ora non ho in mente nessun
piano, sarebbe prematuro. Prima di
delineare una strategia, ho bisogno
di sedermi con tutte le persone coinvolte
nelle attività del vicariato e ascoltare
cosa hanno da dire. Ma ho
una mia visione, un traguardo da
raggiungere. Nel vicariato ci sono già
molti cristiani: dobbiamo fare in modo
che si impegnino realmente, fino
a diventare autosufficienti e capaci
di aiutare gli altri. È pure il cammino
indicato dalla lettera pastorale
della Conferenza episcopale etiopica:
La chiesa che vogliamo essere.
È un cammino da fare tutti insieme:
vescovo, clero, religiosi, suore,
catechisti e fedeli, uniti in mente e
cuore, nella preghiera e comunione,
nella condivisione, diffusione e testimonianza
del vangelo. Vogliamo essere
una chiesa non ripiegata su se
stessa, ma che guarda sempre avanti,
che guarda fuori, come le comunità
primitive che, quando ricevettero
la missione di Cristo, non si chiusero
in se stesse, ma andarono a
portare altrove la buona notizia. Vogliamo
costruire una chiesa non dipendente,
ma capace di inviare missionari
e aiuti alle chiese in necessità
di altri luoghi.
Intanto, però…
«Siamo ancora una chiesa bisognosa
di personale e aiuti materiali.
Viviamo tra gente molto povera. Anche
quest’anno, l’intero paese è in
stato di emergenza a causa della siccità
e della fame; il vicariato di Meki
è parte del problema; soprattutto la
gente che vive nell’area della Rift Valley
si trova in una situazione disperata.
Dobbiamo pensare ai bisogni
materiali della gente. Non possiamo
aspettare, predicando solo cose spirituali;
devono anche riempire lo stomaco.
La comunità internazionale e
la chiesa universale ci stanno aiutando
molto. Ma non dobbiamo
perdere di vista il traguardo: edificare
una chiesa sempre più coinvolta
nello sviluppo del territorio, protagonista
di cambiamento, fino a rovesciare
la situazione di povertà
della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani?
La loro presenza è in aumento?
«A livello nazionale e internazionale,
il Coo d’Africa è nel mirino
della comunità mondiale e, nel suo
insieme, non so cosa accadrà in futuro.
Per ora direi che esiste una certa
“tensione” a livello psicologico;
ma sul piano pratico non vedo problemi
concreti e pericolosi.
Anche a livello locale non ho riscontrato
tensioni particolari. Ma ho
notato un fatto preoccupante: lungo
la strada da Shashemane al Bale ho
contato 10 moschee nuove: una ogni
dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo
una chiesa ogni 100 chilometri.
Ho una certa apprensione: dobbiamo
intervenire in fretta. Non si
tratta di provocare contrasti, ma di
presenze pacifiche, per fare conoscere
l’etica della nostra religione e
la testimonianza della nostra carità evangelica.
Aspettare potrebbe essere
troppo tardi. Per questo ho intenzione
di aprire una nuova parrocchia
nel Bale.
Anche le sètte evangeliche sono in
aumento…
«E sono molte. Vengono con tanto
denaro e la gente povera è attratta
dai soldi. Anche a questo aspetto
dobbiamo fare fronte, non ricorrendo
ai loro metodi, denaro in cambio
di conversione, una prassi che aborriamo,
ma aiutando la gente a riscoprire
la propria dignità umana e formare
cristiani dalla fede solida.
Ho visto che i missionari hanno
fatto un grande lavoro in tale direzione,
e questo mi dà coraggio: hanno
preparato un buon numero di catechisti,
leaders e laici impegnati.
Occorre continuare.
L’unità e solidarietà della chiesa
cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o
America, mi dà fiducia nell’assumere
la responsabilità di guidare una comunità
povera di personale e mezzi
come il vicariato di Meki. Confido
nella chiesa universale, per rispondere
alle infinite necessità della nostra
gente. Per questo faccio appello anche
alla generosità di quanti sostengono
i missionari della Consolata. E
li ringrazio di cuore. Sono certo che,
lavorando insieme, mano nella mano,
riusciremo a portare consolazione
e speranza evangelica in
questa remota parte dell’Etiopia».

STEMMA EPISCOPALE
Dall’alto: la corona (simbolo di santità
e buone opere), la tipica croce etiopica
e il pastorale (simbolo di servizio,
autorità e magistero).
I tre cerchi indicano la Trinità.
Il centro del campo è occupato dalla
Madonna con il bambino e la scritta
in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto
carne». Maria è rappresentata come
madre di Dio e in atteggiamento
di preghiera, figura della chiesa orante.
Il roveto ardente, oltre a ricordare
la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione
definitiva di Dio mediante
l’incarnazione del Figlio.
La quercia a sinistra, tipica del paesaggio
dell’Oromia e presente nella
bandiera dello stato omonimo, simboleggia
fertilità e pace: alla sua ombra
si siedono gli anziani per discutere
i problemi della gente.
In basso il motto episcopale: «Lampada
ai miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sal 118,105).

SCHEDA DI MEKI
Superficie: 156.600 kmq.
Popolazione: 5,3 milioni.
Parrocchie e centri: 12.
Chiese cappelle: 64.
Cattolici: 21.520.
Catecumeni: 2.092.
Personale missionario:
17 missionari della Consolata,
3 fidei donum, salesiani, fratelli scuole
cristiane, suore di 12 istituti religiosi.
Personale locale: vescovo,
15 preti diocesani, una congregazione
di suore indigene.
Attività: seminario minore
e maggiore, evangelizzazione,
130 progetti (scuole, sanità, acqua,
agricoltura…) a beneficio di 2,47 milioni
di persone, per una spesa di 6 milioni
di euro in 5 anni.

Benedetto Bellesi




ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci




ETIOPIA – Un paese… di corsa

Non si tratta delle visite alle nostre missioni
di chi vuole in pochi giorni conoscere
la cultura della nazione e vivere un’esperienza missionaria;
ma del verbo «correre», nel senso letterale
del termine: l’Etiopia è famosa per i suoi maratoneti; ma anche i ragazzi di un campo profughi alla periferia della capitale non scherzano.

V enti anni fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960.
Oggi, a 40 anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel centro di Addis Abeba.
Il giorno che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat, mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino. Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti; un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.
Queste vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.
Oggi, il numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.
C onfesso che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io. Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.
L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di 11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la loro tredicenne compagna Sinnàit.
Alla mia età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida. Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.
Le tute da bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

D a Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città, tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.
Abùsh va perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.
Da parte mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di scarto.
A i piedi delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada. È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta, mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto, come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina. Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla. Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt si mostra molto gentile: vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e dobbiamo rientrare prima che faccia buio.
La gente, al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.
Siamo quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti. Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più fortunato.

Vincenzo Clerici




ETIOPIA – Missionari del “permesso”

Ma dove sta la differenza?

I missionari che lavorano in Etiopia devono confrontarsi con numerose sfide e l’evangelizzazione incontra molte difficoltà. Queste vengono, prima di tutto, da parte dello stato, molto esigente nel concedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I missionari non sono accettati come tali, ma debbono fornire un diploma di specializzazione nel campo della salute pubblica, educazione o sviluppo e giustificare la loro competenza e servizio, presentando un rapporto ogni anno.
A questa non lieve difficoltà, si può aggiungere anche la sfida di vivere insieme ai musulmani e, naturalmente, alla chiesa locale «ortodossa». Questa è molto potente nel paese. Legata ad Alessandria d’Egitto, ha conservato per parecchio tempo la denominazione di «chiesa copta». Ben radicata nella cultura locale, perfettamente strutturata fin nelle minime istituzioni, ha avuto la fortuna di veicolare senza problemi la fede cristiana nel corso dei secoli. La bellezza delle sue chiese, l’indimenticabile splendore delle sue icone (sempre circondate da candele accese), il colore vivo degli abiti liturgici, i canti in lingua ghez (un po’ come il latino di un tempo nella chiesa cattolica), l’atmosfera mistica che regna nei monasteri… colpiscono immediatamente lo spirito del visitatore.
Sul sagrato della basilica della Ss. Trinità, ad Addis Abeba, dove veniva a pregare l’imperatore Hailè Selassié, un monaco sorridente mi accoglie e benedice con la croce che tiene nella mano sinistra. La croce ricorda la sofferenza e la morte del nostro Salvatore e bisogna abbracciarla tutte le volte che ci si avvicina ad un santuario, dove Dio è presente.
Si rimane sorpresi nel vedere la folla, seduta davanti alle chiese e che prega all’aperto. L’impressione di essere impuri e peccatori (molto sviluppata in Etiopia) proibisce ai fedeli di penetrare dove si trova il Santo e comunicare con lui.
Mi interrogo sull’impatto reale di questa chiesa nella società di oggi. La preghiera: sì, questa è indispensabile alla vita; ma la giustizia, la salute, la lotta contro la miseria, la formazione continua che permette di ampliare gli orizzonti… non sono cose altrettanto necessarie? È bene restare ancorati alle tradizioni del passato, ma il dialogo con il mondo di oggi non ha la stessa importanza? La chiesa è sale della terra, luce del mondo. Essa dovrebbe avere la potenza del lievito, la capacità di trasformare una società arroccata nell’arcaismo.

Ho vissuto il mio viaggio in Etiopia come una ricerca, un’inchiesta sul senso del lavoro missionario svolto e sono giunto alla conclusione che questo paese rimane un terreno privilegiato per i missionari della Consolata. La «consolazione» di questo popolo si impone e l’evangelizzatore crede che debba passare attraverso Gesù Cristo.
Fare conoscere Gesù, proporre i suoi valori e le sue parole nello spirito delle beatitudini, predicare la frateità universale sotto l’egida di un solo Dio Padre: questo è mettere in evidenza da dove viene la forza principale per trasformare una società. Là dove ristagnano immobilismo e tradizionalismo, ingiustizia e povertà, sottosviluppo e segregazione razziale, il missionario inietta un seme di rinnovamento, di vita e risurrezione. Là dove il dialogo tra persone di differenti culture e religioni non riesce a instaurarsi, il missionario (talvolta profeta solitario) rimane colui che ne predica l’urgenza, per costruire una comunità fratea, dove i diritti di tutti sono rispettati.
C’è di più. In Etiopia il lavoro quotidiano del missionario è direttamente orientato verso il benessere della popolazione più povera. Allora si comprende, senza troppe spiegazioni, il senso di opere come l’ospedale di Gambo, il dispensario di Modjo, la scuola superiore di Meki, il centro per handicappati di Gighessa, la scuola per non vedenti di Shashemane, il centro per la cura della lebbra.
Ciò che si dimentica troppo facilmente è che questo lavoro, compiuto con sforzo e competenza, viene fatto per amore di Gesù. E questa è la grande differenza, che ci qualifica rispetto agli altri «operatori sociali».
Un dialogo
difficile

Le giornate iniziano molto presto ad Addis Abeba. Dalla mia camera, ancora mezzo addormentato, sento il grido del muezzin che, dall’alto del minareto della moschea centrale, invita tutti alla preghiera, prima di iniziare il lavoro.
«Bismillahi rahman arrahim» (nel nome di Dio clemente e misericordioso): la preghiera comincia prima della levata del sole. Si direbbe che in Etiopia tutti pregano: nei monasteri ortodossi le vigilie delle feste si prolungano fino a tarda notte; il mattino presto è l’ora dei musulmani, mentre i cattolici preferiscono celebrare Dio nel corso della giornata.
L’islam è molto presente nel paese: il 45% della popolazione professa la sua fede in Allah, dichiarandosi sottomesso alla sua volontà (muslim, musulmano, cioè «sottomesso»). Cinque regole fondamentali sono alla base di una giusta condotta:
– la professione di fede in un Dio unico e la proclamazione di Maometto come suo profeta;
– la preghiera personale, cinque volte al giorno (e pubblica il venerdì), con la faccia rivolta in direzione della Mecca;
– l’elemosina ai poveri e (secondo alcuni) «la guerra santa»;
– il digiuno totale nel mese del Ramadan;
– il pellegrinaggio alla Mecca, una volta almeno in vita.
Il missionario che lavora in tale contesto ha a che fare con grandi sfide: da una parte, ammira la vita di fede radicata nelle persone e la loro incrollabile credenza in un Dio unico; ma, dall’altra, non può non osservare un’assenza totale di dialogo tra musulmani e credenti di altre religioni.
In questo tempo di globalizzazione e modeità, il dialogo diventa una priorità indispensabile. Di fronte alla crescita musulmana, non soltanto in Etiopia ma nel mondo intero, l’esigenza di condividere la fede e di verificare i supporti culturali che la manifestano… si presenta come il cammino più sicuro per un dialogo fruttuoso.

Per comprendere l’islam, bisogna partire da Maometto e dal suo progetto. Egli mirava ad unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona, fino a stabilire un unico impero nella penisola d’Arabia. Egli stesso realizzò l’idea a Medina, dopo la sua fuga dalla Mecca, nel 622: il popolo lo accolse come un profeta di Dio.
La religione e la fede nel Dio unico avevano un posto importante nel progetto di Maometto. In effetti le antiche tradizioni arabe si rifacevano alla discendenza di Abramo e Ismaele e le persone si sentivano sottomesse alla volontà di un Dio, che le aveva create e protette. La circoncisione diventerà il segno visibile per ricordare l’alleanza.
Occorre apprendere dalla storia che l’islam costituisce una entità socio-politica, culturale e religiosa. Il sistema di vita integrato che ne deriva può scivolare verso un fondamentalismo totalitario, incapace di distinguere tra «fede» e «cultura». La moschea ne è un esempio evidente: infatti non viene concepita solo come luogo di preghiera o incontro, ma anche come un’istituzione dove, oltre alla preghiera e ai sermoni dell’imam, si fanno studi, dibattiti politici e processi civili.
Nel mondo musulmano è, dunque, del tutto normale che la radio interrompa la sua programmazione per permettere la lettura del corano e che la televisione faccia lo stesso; che la legge proibisca l’unione tra musulmani e cristiani; che l’allevamento di porci e animali impuri sia interdetto. Si nota pure che le differenze tra il sistema dell’islam e quello occidentale non sono soltanto religiosi, ma culturali. L’uomo è il capo dell’unità familiare, la donna è al secondo rango: il suo ruolo è soprattutto legato alla procreazione e alla sessualità e deve accettare la poligamia come un fatto normale. Non può ereditare che la metà di quello che appartiene all’uomo e, se ripudiata, non ha il diritto agli alimenti. A livello giudiziario, occorre la testimonianza di due donne per controbattere quella di un uomo.
Il rifiuto di questi princìpi e altri comporta l’esclusione dell’individuo dalla società in cui vive. La persona in se stessa non è importante, ma è rilevante la comunità, dove ogni credente si sente legato alle persone che professano la stessa fede.
Per il musulmano tutto è religioso. Ogni aspetto della vita sociale, politica, economica, ogni dettaglio della vita quotidiana è diretto dal corano, che è l’unica vera legge.
Tuttavia le differenze socio-culturali non dovrebbero impedire il dialogo. Il missionario conosce le sfide, ma crede che anche i musulmani abbiano diritto alla libertà religiosa. Così essi hanno certamente il diritto di confessare la loro fede in Allah, ma hanno ugualmente il diritto di incontrare Gesù, il rivelatore del Dio cristiano.
In Etiopia il missionario non ha soltanto una «ricchezza» economica, da condividere con le migliaia di poveri che incontra; ma possiede pure il tesoro di Gesù, che può diventare fonte di felicità anche per l’islam. A quando l’avvenimento di un dialogo libero e fruttuoso?

PURTROPPO ANCORA DIPENDENTI

Padre Aristide Piol intervista
Berhane Jesus Souraphiel, arcivescovo
di Addis Abeba e primate di Etiopia.

Quali sono le attuali relazioni tra il governo e la chiesa in Etiopia?

La chiesa cattolica, come altre istituzioni religiose, è considerata un’organizzazione non governativa e non è accettata come chiesa. Ma, pur senza riconoscimento ufficiale, essa può continuare a lavorare nell’ambito apostolico, anche se la sua situazione rimane precaria.

Quali difficoltà incontrate?

Prima di tutto, la mancanza di personale missionario (preti, religiosi e laici), perché quello etiope non è sufficiente. La penuria deriva dal fatto che è molto difficile fare entrare missionari in Etiopia, se non hanno prima un permesso di lavoro. I permessi vengono accordati soltanto per progetti di lavoro sociale, riguardanti l’educazione o la salute e non per l’apostolato. Sono molto difficili da ottenere.

Nelle attività sociali, potete lavorare liberamente?

Non proprio. Riceviamo sovente la visita di ispettori, che redigono rapporti tendenziosi a nostro riguardo; in più, noi stessi dobbiamo fornire regolarmente dei rapporti, stendere inventari minuziosi del materiale di scuole, ospedali, dispensari, asili matei. Dobbiamo anche indicare da dove provengono i soldi e come vengono spesi.

Ma perché tutto questo?

L’Etiopia è divisa in nove regioni e distretti, ognuno dei quali governati da autorità locali e ciascuno ha la sua parola da dire. Questa divisione non favorisce l’unità del paese (bisogna sapere che ci sono diverse etnie e che in Etiopia si parlano 82 lingue differenti!). Credo che non ci conoscono abbastanza e non sanno il bene che apportiamo al paese. Bisognerà fare di più per farci conoscere.

Avete la possibilità di organizzare il lavoro apostolico?

Sì, ma nascono altre difficoltà. Dal momento che il personale deve donarsi completamente all’attività sociale, non può concentrarsi unicamente sul lavoro apostolico. Noi dipendiamo, dunque, dalle chiese cattoliche di Europa e America del nord, sia per il personale che per i mezzi materiali. Da soli, non possiamo fare grandi cose.
La chiesa cattolica ha fatto qualcosa per la guerra con l’Eritrea?
La Conferenza episcopale si è associata al nunzio apostolico, mons. Tommasi, e alle altre professioni religiose per esercitare una certa pressione. Ma il governo si aggrappa a filosofie e mentalità differenti e i nostri interventi non sono sempre ascoltati. Abbiamo detto che questa guerra non ha senso, perché Etiopia ed Eritrea sono nazioni sorelle. Infatti hanno la stessa fede cristiana, sono cresciute insieme e hanno quasi le medesime tradizioni, lingue e culture.

Cosa si aspetta la chiesa dalla commissione «Giustizia e pace»?
Abbiamo accolto la commissione con viva speranza. Essa dovrebbe informare l’opinione pubblica mondiale sulle ingiustizie commesse dai governi locali e inteazionali. È necessario fare intervenire i paesi occidentali e l’Onu, perché la libertà di stampa e religione venga garantita, e che i cattolici abbiano le stesse opportunità degli altri cittadini nella pubblica amministrazione. L’annullamento del debito internazionale è un altro obiettivo. Così, come la denuncia delle nazioni che vendono armi ai governi di paesi poveri. «Giustizia e pace» dovrebbe vigilare perché i soldi dati per opere sociali vengano spesi soltanto per queste e non per arricchire le tasche di alcuni dirigenti.

C’è speranza che la chiesa cattolica etiopica divenga autosufficiente?
Per la gerarchia, anche se ci sono vescovi etiopici, abbiamo ancora bisogno di vescovi stranieri. Così per il clero, i missionari e religiosi.

Come sono le relazioni con la chiesa ortodossa copta?
A livello di gerarchia, c’è rispetto e ci invitiamo reciprocamente. Tuttavia, sul piano del lavoro apostolico, constatiamo ostilità e concorrenza. Questo dipende dal fatto che la chiesa ortodossa copta era (oggi non più) «chiesa di stato» e beneficiava di alcuni privilegi.

Come giudicate la crescita dei musulmani in Africa?

Questa avanzata ci preoccupa. Constatiamo che agiscono secondo un piano ben strutturato per raggiungere i loro scopi. Con i soldi del petrolio cercano innanzitutto di ottenere il potere economico, poi quello politico e religioso. Vediamo che portano degli etiopi a lavorare in Arabia Saudita o in altri paesi musulmani; poi fanno loro regalo del corano e li obbligano a vestirsi come i musulmani. Crediamo che si tratti di una minaccia seria.
Aristide Piol

Giuseppe Ronco




SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi




ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino




ETIOPIA – Crescere da rifugiati

Vivere in un campo-profughi è un’esperienza drammatica.
Ma per i bambini, cresciuti nella precarietà, c’è sempre
un modo per divertirsi. Dopo una guerra durata 30 anni,
oggi le relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono tornate
molto tese. E i rifugiati rischiano di aumentare.

In Etiopia, la casa procura dei missionari della Consolata si trova a Makanissa, una zona della periferia sud di Addis Abeba. Questa parte della città era stata assegnata, ai tempi del negus Hailé Selassié, agli handicappati e ai lebbrosi. Ora ci vivono anche (e sono dunque nostri vicini di casa) alcune migliaia di rifugiati, provenienti da Asmara (Eritrea).
Sono i profughi della guerra d’indipendenza dell’Eritrea, che durò ben 30 anni (finì nel 1991). Arrivarono qui nel 1992 e fu loro assegnata un’area non abitata alla periferia di Addis Abeba.

L e tende delle Nazioni Unite, a poco a poco, si sono trasformate in abitazioni stabili. Insomma, la tenda fa da «casa». L’acqua viene distribuita da un serbatornio per due-tre ore al giorno e, ovviamente, c’è sempre una coda di gente per avere questo elemento così prezioso.
Quando l’acqua manca del tutto si rivolgono alla missione. Allora si fa scorrere un tubo di plastica oltre il muro di cinta del seminario e lo si collega alla pompa elettrica e al pozzo. Si chiama anche un guardiano a distribuire l’acqua e mantenere l’ordine.
Sia le famiglie che i bambini parlano correntemente due lingue, il tigrigna (lingua dell’Eritrea e del Tigrai, che i piccoli imparano dalle mamme) e l’amarico imparato dai papà, ex militari dell’esercito di Menghistu.
La condizione di essere tutti rifugiati non elimina certo i problemi «etnici». Al primo campo di Makanissa prevalevano le famiglie di lingua tigrigna, rari gli amara, oromo e sidamo. Un altro campo rifugiati a nord-est di Addis Abeba aveva invece diverse etnie. La vita là non era facile. Ci furono grossi bisticci, tanto che alla fine un numero di rifugiati fu trasferito a Makanissa; si formò così un secondo campo, in pratica la continuazione del primo, ma in condizioni più precarie, con spazio più ristretto, attaccato alla strada, e abitazioni più piccole.
Conoscere i rifugiati è stata per me una nuova esperienza. I bambini rifugiati sono quelli che danno vita al quartiere: giocano, gridano, corrono ai bordi della strada, un po’ come si vede nelle campagna. Fanno giochi tipo «la settimana» o «palla prigioniera», molto simili a quelli che giocavamo noi in Italia. La palla è sempre una vecchia calza o un sacco di plastica legato e riempito di stracci.
Diversi vengono all’oratorio di sabato e domenica. Se non hanno il tesserino di riconoscimento richiesto per entrare (sono state emesse più di mille «cards») o perché l’hanno perso o perché è caduto nell’acqua (!) o non l’hanno mai avuto, cercano di passarselo l’un l’altro da sotto il cancello, tanto il guardiano non vede…

I bambini rifugiati ti invitano sempre a visitare le loro «case». Luàm e Nebiàt, due sorelline di nove e undici anni, sono un po’ speciali a voler condurre tutte le persone importanti alla loro tenda. Sovente senti Luàm raccontare che quell’ospite straniero (che parlava solo poche parole d’inglese) o quell’abba (padre) nuovo arrivato (che non sapeva una parola di amarico) sono stati a visitare la sua capanna. La mamma prepara per gli ospiti il tradizionale caffè e talvolta i pop-co, arrostiti su una piastra di ferro; il combustibile sono rametti e foglie secche raccattati all’intorno.
Un giorno di festa, in cui ero stato invitato per il caffè, mi ero avviato verso casa, e Nebiàt venne ad accompagnarmi. Non è facile trovare la strada in mezzo al campo rifugiati. Il villaggio è diventato una micro-città con strade strettissime dei sentirnerini), che girano e si intersecano in tutte le direzioni in mezzo alle case e casette (le ex tende).
Avevamo appena girato attorno alle prime capanne, che a Nebiàt venne in mente di farmi uno scherzo: «Addio brother, io debbo tornare a casa ad aiutare la mamma». Il significato – lo capii subito – era che io mi sentissi disorientato, e trovandomi in mezzo a quel labirinto di viuzze, avrei dovuto certamente chiederle aiuto per farmi accompagnare all’uscita del campo, che tra l’altro è anche in parte cintato col filo spinato. Io però non mi spaventai: «Va bene, grazie. Io giro a destra, poi ancora a destra attorno alla capanna diroccata, poi seguo il sentirnero che va zigzagando fino alla strada principale, dove non avrò difficoltà a orientarmi. Ciao» (ciao si usa anche in Etiopia). Fra me e me pensai: qui nel campo non ci sono ladri e malintenzionati; forse avrei più paura in certe zone della città…
I bambini rifugiati provano una certa fierezza a fare da guida ad un forengi (straniero) in mezzo al loro complicato villaggio. Unico avvertimento per il visitatore: stare attento a non picchiare la testa contro i pali sporgenti dai tetti, dato che le case sono molto basse.
I bambini del campo-profughi non sono oziosi: in maggioranza frequentano la scuola elementare di Makanissa. C’è chi si industria comprando e vendendo aranci o cipolle ai bordi della strada per pochi centesimi. Ibrahim, Motekù e Samuel fanno i lustrascarpe agli incroci delle vie principali e ai capolinea dei bus. Quello del lustrascarpe è un mestiere molto diffuso tra i bambini di strada di Addis Abeba. Bisogna dire che fanno bene e da competenti il loro lavoro, veloci e con una tecnica tutta particolare. Anche la gente benestante, impiegati e funzionari, si fanno lucidare le scarpe da loro.

Un giorno vedo passare, veloci tra una capanna e l’altra, dei bambini con dei grandi vassoi. Gridano: «Komidore, komidore». Guardo cosa c’è nei vassoi e vedo dei bei «pomidori». Mi pareva che ciò che sentivo gridare avesse un suono familiare!
Parole italiane sono entrate nel loro linguaggio. Infatti vengono da Asmara, città italiana per tanti anni. Esempi: «koporta» per «coperta»; «fornello», «fuo» o «bani» per «pane». Anche alcuni nomi di persona: «Rosa» e «Fiori» (l’equivalente amarico è Abeba. Addis Abeba significa «Nuovo Fiore»).
Questa sera dalla casa regionale ho sentito gridare sulla strada: «Fiori! Fiori!». Sono loro che giocano, e una bambina si chiama appunto «Fiori».

Si vedono tra i rifugiati anche atti di generosità. Bzuayehu vive nel campo e ha il papà con un lavoro fisso. Ma potrebbe la sua famiglia permettersi un esoso affitto per una casa fuori dal campo? Poco migliore poi dell’abitazione presente? Bzuayehu parla poco, è molto intelligente e va bene a scuola. È compagna di Nebiàt. Tra gli scolari del campo è l’unica a portare i libri in uno zainetto moderno, come usano oggi gli studenti più fortunati.
Un giorno vedo Nebiàt tornare da scuola con uno zainetto per i libri. «Dove l’hai trovato?». Mi sembra impossibile che la sua famiglia l’abbia comprato: costa più di 100 birr, un lusso.
«Me l’ha regalato Bzuayehu, suo fratello ne ha portato uno da Dire Dawa». Dire Dawa è una città nell’est dell’Etiopia, dove arrivano dal mare molte mercanzie a prezzi ribassati. «Bzuayehu aveva già uno zainetto. Allora ha dato l’altro a me».

Vincenzo Clerici