Sud Corea. Il passo falso del presidente

Fino a poche settimane fa tutto funzionava bene ed era tranquillo in Corea del Sud. Sabato 14 dicembre centinaia di migliaia di persone si sono radunate davanti al Parlamento e nella grande piazza di Kwang Hwa Mun. Tutti aspettavano ansiosamente una notizia. E poco prima delle 17 una esplosione di gioia, canti e danze improvvisate: era arrivato il risultato della votazione per l’«impeachment» del presidente Yoon Suk-yeol: 208 voti a favore e 86 contro.

Tutto era cominciato la sera del 3 dicembre. Senza alcuna imminente emergenza interna o esterna e in maniera completamente inaspettata, alle 22,30 era stata trasmessa alla Tv la notizia che il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk-yeol, aveva dichiarato la legge marziale. Nell’animo della maggioranza dei coreani era riapparso immediatamente lo spettro e la paura di quanto successo nel 1980, quando l’esercito prese il potere, dichiarò la legge marziale e la città di Kwangju pagò la sua resistenza con centinaia o forse migliaia di morti (ancora oggi non si conoscono i dati esatti).

Un’ora dopo la dichiarazione della legge marziale i militari dell’esercito prendevano controllo dell’edificio del Parlamento. Allo stesso tempo una grande folla si era riunita davanti allo stesso per protestare e permettere l’ingresso ai parlamentari perché andassero subito a votare. C’era la paura che questo fosse un tentativo di golpe da parte del presidente. Ma a differenza di 44 anni fa, non un colpo è stato sparato, nemmeno un ferito è stato segnalato. Anche l’esercito si è comportato con grande discrezione. Insomma, i parlamentari hanno votato contro la legge marziale e alle 4,30 del mattino tutto era già finito.

Perché il presidente abbia preso quella decisione nessuno riesce a capirlo. Non c’erano minacce dalla Corea del Nord. La Corea del Sud vive un periodo tranquillo. Yoon era stato eletto presidente con un margine di voti che non arrivava all’1% e dopo due anni il suo partito aveva perso la maggioranza in parlamento, per cui aveva sempre difficoltà a far passare le sue leggi (d’altra parte, quando la situazione era esattamente invertita anche il suo partito bloccava le leggi del precedente presidente). Inoltre c’erano inchieste su abusi di ufficio per acquisti di lusso fatti dalla moglie. Probabilmente tutti questi elementi lo hanno portato a una qualche ossessione, sfociata in una decisione che ha invalidato la sua capacità di guidare la nazione.

Entro pochi mesi la Corte costituzionale si pronuncerà sulla validità dell’impeachment, e poi ci saranno le elezioni per il nuovo presidente.
Nel frattempo reggerà la nazione il primo ministro, Han Duck-soo che, tra l’altro, anche lui potrebbe essere sottoposto a impeachment per il suo ruolo nei fatti del 3 dicembre.
Sono passati meno di 40 anni da quando la Corea del Sud ha conquistato la democrazia e in questi giorni, pur tra la tristezza di chi appoggia il governo e la gioia di chi sostiene l’opposizione, il popolo ha mostrato la sua maturità civile. Ora tutto continua nell’ordine e nella calma. Possiamo dire che la Corea è ancora «una penisola di pace».

Gian Paolo Lamberto




Siria. Una domenica, a Damasco

 

Damasco. Dopo una settimana di silenzio, tornano a suonare le campane delle chiese nella capitale siriana. Ci troviamo a Bab Tuma (in arabo, La porta di Tommaso), il quartiere cristiano della capitale siriana. Oggi si celebreranno le messe, ma si terranno in un’atmosfera completamente diversa. I riti religiosi avranno luogo in una «nuova» Siria, dopo 54 anni di regime della famiglia degli Assad.

Un’ora prima dell’inizio delle funzioni, Georges Assadourian, vescovo della Chiesa cattolica armena di Damasco, ci invita per raccontarci come la sua comunità ha vissuto quest’ ultima settimana. «I ribelli hanno cominciato prendendo Aleppo, perché quello è il centro economico della Siria. In questi anni, ci sono stati diversi attacchi per provare ad entrare qui, nella capitale, ma sempre senza successo. Il sabato prima della presa di Damasco avevamo programmato una preghiera. Tanti cristiani hanno avuto paura dell’arrivo degli uomini dell’Hts (Hay’at Tahrir al-Sham), siamo stati spaventati dal loro modo di presentarsi, e dall’origine estremista dei loro gruppi di appartenenza. Abbiamo avuto il timore che sarebbero tornate le persecuzioni contro i cristiani, così come accadde nei luoghi sotto il controllo dell’Isis. Quando il gruppo di al-Julani è arrivato a Damasco, abbiamo chiesto di poter incontrare un rappresentante per capire le loro intenzioni. Siamo andati a incontrarli al Four Season, l’hotel occupato e adibito a quartier generale temporaneo. Ci hanno rassicurato, dichiarando di volere solo la pace e che il tempo della guerra è finito. Ci hanno promesso che non avremo nulla da temere e che tutte le religioni coesisteranno insieme. Se sarà così, io non posso dirlo, ma sono ottimista. Certo, da parte dei fedeli ci sono diverse preoccupazioni. In questo governo, anche se temporaneo, sono tutti musulmani, alcuni magari anche estremisti. Noi invece vorremmo uno Stato laico. In uno stato laico ognuno è libero di professare la propria religione. Alcuni degli uomini di Julani, sono già andati nei negozi che vendono alcolici chiedendo, anche se momentaneamente, di non venderli. Ogni giorno ricevo circa 50-60 persone che, come cristiani in Siria, cercano rassicurazioni sul loro futuro. Non possiamo fare previsioni, possiamo solo attendere e vedere cosa accadrà. Posso dire che, comunque, anche se le intenzioni fossero quelle di radicalizzare la Siria, a Damasco sarebbe molto difficile farlo. Siamo un mosaico di tante culture e religioni diverse, credo che la gente non permetterebbe mai l’istituzione della sharia, almeno qui nella capitale».

Camminando per il quartiere cristiano, si respira un’aria totalmente diversa rispetto a quella che c’era sotto il regime. La gente festeggia e, pian piano, sta perdendo quella costante paura di finire in galera con qualsiasi pretesto. Fotografie e poster, raffiguranti Assad, che decoravano letteralmente ogni angolo delle strade, ora sono fatte a pezzi. I proprietari dei negozi dipingono di bianco le proprie serrande, cancellando la vecchia bandiera della Siria, per poi dipingere quella con i nuovi colori.

Il francescano Firas Lutfi della chiesa dedicata alla Conversione di San Paolo, nel quartiere cristiano di Bab Tuma, a Damasco. (Foto Angelo Calianno)

Raggiungiamo la chiesa latina dedicata alla Conversione di San Paolo, sempre nel quartiere di Bab Tuma. Parlando con i fedeli che escono dalla messa, tutti ci esprimono la gioia di non essere più sotto un regime, e la speranza di non ritrovarsi presto con un altro dittatore. Malgrado questo, nessuno dei cristiani riesce a sbilanciarsi troppo sul futuro, tutti sono molto cauti.

Finito di celebrare la messa, il frate francescano Firas Lutfi ci racconta: «Ora abbiamo sentimenti contrastanti. Gioia, perché l’incubo di Assad è finito. Preoccupazione, perché questi gruppi di ribelli vengono da un background islamico estremista. Ci hanno promesso che saremo tutti liberi senza nessuna persecuzione. Quindi, ora attendiamo per vedere quello che accadrà nel concreto. Quello che noi speriamo, è che tutto sia stabile per arrestare la fuga dei cristiani da questo Paese. Non vogliamo essere considerati una minoranza nel nostro Stato, ma dei cittadini a tutti gli effetti. Si avvicina il Natale, lo celebreremo come abbiamo sempre fatto. Sarà un Natale uguale a quello di Gesù, con povertà e scarsità. Per tutto il resto, ora ci sono solo due cose che possiamo fare, da un punto di vista pratico: attendere, per vedere come si evolverà questa situazione e quali saranno le intenzioni del nuovo governo. Da un punto di vista spirituale: sperare, perché alla fine, per vocazione, noi siamo figli della speranza».

Angelo Calianno, da Damasco




Asia. Aumenta la produzione di armi

 

La guerra in Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Ma anche le minacce della Corea del Nord. Per non parlare dell’assertività cinese nell’Asia-Pacifico. Sono questi i principali fattori ad aver trainato l’acquisto di armi nel 2023, secondo un rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), pubblicato il 2 dicembre. Il think tank svedese ha conteggiato per il 2023 vendite di armi e servizi militari per 632 miliardi di dollari per le sole prime 100 aziende produttrici nle mondo, con un aumento del 4,2% rispetto al 2022.

Grandi numeri a parte, la spartizione delle commesse mette in luce piccoli assestamenti, in particolare un graduale ribilanciamento delle transazioni tra gli esportatori asiatici.

A guidare la classifica globale (ormai dal 2018) sono sempre le aziende statunitensi, con una quota di mercato del 50%, mentre i cinesi si posizionano al secondo posto (16%), seguiti dai produttori di Regno Unito (7,5%) e, un gradino sotto, a pari merito, fornitori militari di Francia e Russia, ciascuna con una quaota del 4%.

Sebbene la graduatoria non presenti ancora grandi elementi di novità, sotto traccia sono tuttavia riscontrabili alcune tendenze anticipatrici di quelli che probabilmente saranno i futuri sviluppi del settore.
Tra tutti spicca un dato: le aziende della Repubblica popolare cinese (Rpc) hanno registrato la crescita dei ricavi (103 miliardi di dollari) più bassa degli ultimi quattro anni (+0,7%). Un risultato che il rapporto Sipri attribuisce al rallentamento dell’economia cinese, a fronte di una crescita costante delle vendite nei mercati esteri. Il motivo, come spiega un ricercatore del think tank svedese, è che molti produttori militari in realtà guadagnano dal settore civile, mai uscito completamente dalla crisi pandemica. Con entrate per 20,9 miliardi di dollari (+5,6%), Aviation industry corporation of China (Avic) si è classificata all’ottavo posto nella lista del Sipri, diventando il più grande produttore di armi della Cina. Segno dell’importanza crescente ottenuta dal comparto aerospaziale.

Mentre la Cina arranca, altri esportatori asiatici guadagnano terreno.
Nonostante Corea del Sud (+1,7%) e Giappone, (+1,6%) abbiano ancora quote di mercato complessivamente molto contenute, i due paesi sono in rapida rimonta. Complici le tensioni regionali nella penisola coreana e nel Mar cinese meridionale, ma anche un maggiore protagonismo internazionale di Tokyo e Seul al fianco degli Stati Uniti. Le vendite delle aziende giapponesi (10 miliardi di dollari) hanno beneficiato del progressivo incremento del budget militare del Paese, che sta spingendo le Forze di autodifesa ad aumentare gli ordini dopo decenni di basso profilo.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, obblighi costituzionali autoimposti costringono il Giappone a «rinunciare all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». Fattore che per decenni ha spinto Tokyo ad appoggiarsi all’alleato americano. Salvo ora dover rivedere la sua posizione difensiva come deterrente davanti alle provocazioni missilistiche di Pyongyang (Corea del Nord) e all’espansionismo regionale di Pechino.
Nel suo rapporto, il Sipri ha notato «un importante cambiamento nella politica di spesa militare» da quando, nel 2022, il governo dell’ex premier Fumio Kishida ha destinato alla difesa il budget più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale (47 miliardi di dollari) con un incremento previsto fino al 2% del Pil entro il 2027. Lo stesso livello dei paesi Nato.

Se nel caso delle aziende giapponesi a fare da traino sono le vendite interne, per i produttori sudcoreani la crescita dei ricavi (11 miliardi di dollari) va ricondotta principalmente alle esportazioni. Soprattutto per quanto riguarda gli ordini di artiglieria terrestre. Con la guerra in Ucraina alla clientela della Corea del Sud – oltre all’Australia – si è aggiunto un numero sempre maggiore di paesi europei. La Polonia, ad esempio, ha comprato da Seul carri armati, aerei da attacco leggeri e obici semoventi K9.

Secondo la Top 100 del Sipri, le forniture delle aziende militari sudcoreane e giapponesi hanno riportato una crescita rispettivamente del 39% e del 35%. A fare meglio è stata solo la Russia che, con un aumento del 40%, ha registrato l’incremento maggiore a livello globale.

Alessandra Colarizi




Libano. Israele contro sciiti e sunniti

 

Verso Nabatiye. Nell’ultima settimana, siamo stati testimoni di un nuovo e grande fermento in Medioriente. La presa della Siria da parte dei «ribelli» sunniti di Hts (Hayat Tahrir al-Sham) sta avendo molte ripercussioni anche qui, in Libano.

Migliaia di siriani si sono riversati per le strade di Beirut e per quelle delle principali città libanesi, per festeggiare la liberazione della propria nazione dal regime di Assad. La maggior parte dei siriani rifugiati in Libano, e il 28% della popolazione locale, sono sunniti in un Paese a prevalenza sciita. Qui le divisioni sociali di origine religiosa sono sempre molto presenti. Non ci sono mai scontri aperti, lo si può però notare nella quotidianità. Ad esempio, un musulmano sunnita non può lavorare in un ambiente sciita, così come ad un musulmano sciita non verrà mai data la possibilità di comprare casa in un quartiere cristiano, ecc.

La maggioranza sciita libanese guarda con sospetto quello che sta accadendo al di là del confine. Una guardia di Hezbollah, fuori da una moschea dove attendiamo alcuni permessi, ci confessa: «Siamo felici che la Siria, dopo così tanto tempo, si sia liberata dal regime di Assad. Però, chi sono questi ribelli? Pochi sono siriani, tanti sono mercenari stranieri. Questa è una manovra di Israele e Stati Uniti per continuare a colpire e occupare Libano e Palestina, e per combattere indirettamente contro la Russia».

In Libano, mentre la parte sunnita della comunità musulmana gioisce, l’altra si dispera per quello che accade nella parte Sud del Paese. Gran parte dell’area meridionale confinante con Israele, infatti, è stata quasi rasa al suolo. Pur essendoci un «cessate il fuoco» in vigore, Israele sta bombardando 62 villaggi in un’area compresa tra il proprio confine e il fiume litani.

Questi villaggi, in realtà, erano già stati totalmente evacuati perché già sotto attacco dall’8 ottobre 2023. Quindi, perché distruggere case e infrastrutture vuote? Israele dichiara di voler creare una «safe zone». Hezbollah lo accusa di stare distruggendo tutto per poi occupare e annettere nuovi territori. Nel frattempo, migliaia di persone hanno perso tutto e ora vivono come rifugiati nel proprio Paese.

A Nabatiye, un’altra città del sud fortemente colpita, incontriamo delle famiglie scappate da Houla, villaggio a pochissimi chilometri dal confine israeliano. Raccontano: «Il 90% di Houla non esiste più. Le nostre case, quelle che i nostri nonni e genitori hanno costruito, sono state spazzate via. Houla, come tanti paesi del Sud, è un luogo abitato per la maggior parte da anziani. È un posto da dove molti giovani si spostano per studiare e lavorare fuori, ma dove poi si torna per passare le feste, i weekend e per visitare i propri cari. Abbiamo visto il momento esatto del bombardamento della nostra casa in un video in internet. È stato il momento più brutto della nostra vita. Vedere distrutto quello che si è costruito con i sacrifici, è qualcosa che distrugge l’animo, soprattutto quello delle persone anziane che ora non hanno un altro posto dove andare».

Houla è conosciuta anche per un orribile massacro avvenuto nel 31 ottobre 1948, subito dopo la Nakba in Palestina. Un gruppo di militari israeliani, la brigata Carmeli, occupò la cittadina radunando circa cento persone in una casa. L’edificio venne poi fatto saltare in aria, non ci furono sopravvissuti. Inoltre, uno degli ufficiali in comando: Samuele Lais, fu responsabile diretto dell’esecuzione di 35 persone disarmate. Lais, accusato di crimini di guerra, passò solo un anno di detenzione confinato all’interno di una base militare. In seguito, fece carriera politica fino a diventare capo dell’Agenzia ebraica per Israele.

Nei giorni scorsi, alcuni membri dell’Idf sono entrati ad Houla vandalizzando il monumento che ne ricorda il massacro. Sulla grande lastra di marmo commemorativa, i militari hanno scritto in ebraico: «Lo sciita buono è lo sciita morto».

Chiunque incontriamo nel Libano del Sud, nonostante il divieto di rientro, ci dice di non essere assolutamente disposto a pensare ad una vita fuori dalla propria regione. Malgrado ora sia tutto in rovina, ognuna di queste persone è disposta a tornare per ricominciare daccapo con le proprie famiglie, e per costruire nuovi ricordi per le generazioni future.

Angelo Calianno (dal Sud del Libano)




Haiti. Massacro selettivo a Cité Soleil

 

Ancora un massacro ad Haiti, questa volta una vera carneficina perpetrata in modo selettivo e con l’aggravante della persecuzione religiosa.
Tra venerdì 6 e sabato 7 dicembre sono state uccise 184 persone, secondo dati delle Nazioni Unite e di Rnddh (Rete nazionale per la difesa dei diritti umani ad Haiti). La maggior parte sono anziani, molti dei quali fedeli della religione vudù.

Il tutto è avvenuto a Wharf Jérémie, un sobborgo di Cité Soleil. Questa è la più grande bidonville della capitale Port-au-Prince. Situata tra il mare e la route nationale 1 che corre verso Nord, conta oltre 300mila abitanti.
Già nei primi anni Novanta Cité Soleil era nota come uno dei più grandi agglomerati di baracche delle Americhe. Un’intera città di lamiere arrugginite e cartone. Qui, da circa quattro decenni, vivono i più poveri tra gli haitiani.

Le bande armate controllano quasi totalmente la capitale e la maggior parte delle principali vie di comunicazione per il Paese. Il capo gang Micanor Altès, alias Monel Félix (Wa Mikano in creolo), ha fatto chiudere il sobborgo da venerdì 6 e ha mandato i suoi uomini a cercare i sospetti praticanti vudù in un centro di aggregazione e casa per casa. Sono stati catturati anche sacerdotesse (mambo) e sacerdoti (bokor) vudù. Monel Félix li ha poi fatti giustiziare. I cadaveri mutilati sono stati quindi bruciati nelle strade oppure buttati in mare o sotterrati.

Secondo Rnddh oltre 110 vittime avevano più di sessant’anni (ad Haiti, l’aspettativa di vita è di circa 64 anni).
Tra gli uccisi, molte erano persone note nel quartiere per il loro impegno comunitario, riporta il Combite pour la paix et le développement (Cpd, Comitato per la pace e lo sviluppo), associazione locale presente nella zona.

La motivazione del massacro sembra essere la malattia del figlio di Monel Félix, che lui attribuisce a un malocchio causato da riti vodù (che si ricorda essere una religione a tutti gli effetti, molto seguita ad Haiti, e non stregoneria). Il bambino sarebbe poi deceduto domenica.
Il capo banda non è nuovo a questo tipo di persecuzioni, già nel 2012 aveva fatto cercare e uccidere dodici donne praticanti e mambo.

L’eccidio è stato denunciato anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, tramite il suo addetto stampa, lunedì 9 dicembre. Il capo dell’Onu ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime e chiesto alle autorità haitiane di realizzare un’inchiesta approfondita per fare in modo che gli autori di queste violenze e di tutte le altre violazioni dei diritti umani siano tradotti in giustizia.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, è pure lui intervenuto condannando l’atto durante una conferenza stampa lo stesso giorno a Ginevra. Türk ha detto che le vittime di violenze ad Haiti da inizio anno hanno raggiunto le 5mila unità.

Si ricorda che iI 3 ottobre scorso, un’altra gang aveva compiuto un massacro di oltre 70 persone a Pont Sondé, importante mercato e snodo rurale nell’Artibonite. In quell’occasione gli abitanti erano stati sorpresi a casa nella notte e trucidati.

Ad Haiti, dallo scorso giugno, è presente un contingente di 400 poliziotti provenienti dal Kenya, a cui si sono poi aggiunti 24 giamaicani, nell’ambito della Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas), approvata dalle Nazioni Unite nell’ottobre 2023, ma non sotto suo diretto mandato. In realtà la missione prevista dovrebbe contare circa 3.100 effettivi da diversi paesi dell’area centroamericana e dell’Africa. L’attuale numero è assolutamente insufficiente a contrastare le gang, i cui effettivi conterebbero oltre 10mila uomini ben armati.
Un fiorente traffico di armi dagli Stati Uniti verso Haiti e di cocaina in senso contrario è stato denunciato da un rapporto delle Nazioni Unite.

Attualmente Haiti è governata da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto di 9 membri, che rimpiazza il Presidente (l’ultimo, Jovenel Moise è stato ucciso il 7 luglio 2021). La presidenza del Cpt è a rotazione, e dal 7 ottobre scorso è in carica l’architetto Leslie Voltaire. Ci sono già stati tuttavia problemi, con tre membri del Cpt, indagati per corruzione.
Il governo di transizione, inoltre, ha visto un repentino cambio di primo ministro l’11 novembre scorso. Gary Conille, in carica dal 12 giugno, è stato deposto con una procedura poco ortodossa dal Cpt e sostituito dall’uomo d’affari Alix Didier Fils-Aimé. Un avvicendamento che mostra come tra gli organi di transizione ci siano attriti notevoli, talvolta insanabili.
Le organizzazioni per i diritti umani accusano il Cpt di mancanza di volontà nella lotta contro le gang.

Lo scorso ottobre, il Cpt ha chiesto all’Onu che la Mmas sia trasformata in una missione delle Nazioni Unite con risorse consistenti e l’impiego di militari. Ma gli haitiani hanno già vissuto decenni di presenza dei caschi blu dell’Onu che, lontani dal portare soluzioni, hanno spesso causato problemi.

Marco Bello




Mondo. Plastica libera

Un fallimento senza se e senza ma. È il risultato della Conferenza delle Nazioni Unite sulla plastica (Cop16) tenutasi a Busan, in Corea del Sud, dal 25 novembre al 1° dicembre. Nel paese asiatico hanno vinto i lobbisti delle imprese chimiche e delle fonti fossili, contrarie a qualsiasi riduzione della produzione di plastica. A Busan, erano 220, più dei rappresentanti ufficiali dell’Unione europea (191). La presenza dei lobbisti alle Cop è diventata talmente prevalente e asfissiante che è stata lanciata una campagna contro di loro, «Clean the Cop».

Inventata all’inizio del Novecento, la plastica ha iniziato a diffondersi negli anni Cinquanta del secolo scorso. La produzione è cresciuta di anno in anno divenendo gigantesca come giganteschi sono i problemi che essa ha generato. Il principale produttore di plastica è, di gran lunga, la Cina con il 33 per cento del totale mondiale, seguita dagli Stati Uniti con il 17 per cento e dai paesi dell’Unione europea con il 12 (Statista, 2023).

Le conseguenze di questa produzione sono drammatiche. Si calcola che, nel 2024, saranno generati 220 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, pari a una media di 28 kg a persona in tutto il mondo. Un terzo di questi rifiuti, ovvero 69,5 milioni di tonnellate, saranno gestiti male e finiranno nell’ambiente naturale (interrati, dispersi o gettati negli ecosistemi acquatici, inquinando laghi, fiumi e mari). Nella classifica di chi riversa rifiuti plastici in oceano ai primi dieci posti ci sono nove paesi asiatici con Filippine, India, Malaysia, Cina, Indonesia e Myanmar a guidare il gruppo.

L’inquinamento da plastica può alterare gli habitat e i processi naturali, riducendo la capacità degli ecosistemi di adattarsi ai cambiamenti climatici, influenzando direttamente i mezzi di sussistenza, le capacità di produzione alimentare e la salute di milioni di persone.

Corea del Sud, Germania e Austria sono i paesi con i tassi di riciclaggio della plastica più alti al mondo. Tuttavia, se è vero che il riciclo è un passaggio fondamentale, è altrettanto vero che esso non è sufficiente per affrontare adeguatamente la questione.

«Non usciremo dalla crisi dell’inquinamento da plastica riciclando: abbiamo bisogno di una trasformazione sistemica per raggiungere la transizione verso un’economia circolare», ha spiegato Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United nations environment programme, Unep).

L’economia circolare è l’alternativa all’economia lineare, oggi dominante. Secondo la definizione del Parlamento europeo, quella circolare «è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo».

Nella giostra delle conferenze ambientali, si sono già tenute la Cop16 sulla biodiversità e la più nota Cop29 sul clima. Attualmente è in corso (dal 2 al 13 dicembre) la Cop16 sulla desertificazione. È ospitata a Riyad, in Arabia Saudita. In questo caso, essendo molto toccata dalla questione, la petromonarchia saudita potrebbe essere più disponibile al raggiungimento di un accordo.

Paolo Moiola

 




Siria. Da Aleppo l’appello dei cristiani

Aleppo, nella Siria martoriata dalla guerra, è di nuovo preda della violenza. I cristiani si preparano al Natale anche con la solidarietà.
Il cardinale Zenari: «Non abbandonate la Siria». Padre Karakash, «manca tutto ma noi restiamo con la nostra gente. E prepariamo il Natale».

Nella parrocchia di San Francesco ad Aleppo, i fedeli hanno deciso di non cancellare il Natale. Manca tutto, il pane e la benzina, l’acqua e l’energia elettrica. Manca soprattutto la sicurezza che si era faticosamente ricostruita dopo quattordici anni di guerra. Eppure, nonostante l’occupazione della città da parte dei ribelli, la comunità cristiana non vuole perdere la speranza.

«Per un attimo i nostri giovani hanno dubitato di poter fare il presepe, che quest’anno ha come tema il Giubileo della speranza. Ma proprio questo tema li ha spinti a riprendere le forze per continuare la loro opera», racconta da Aleppo padre Bahjat Karakach, frate della Custodia di Terra Santa. Le linee telefoniche siriane da qualche giorno non funzionano, ma resta ancora possibile, almeno per il momento, comunicare via web.

Quindi, nonostante il rumore degli spari fuori dalle finestre, e il fatto che la maggior parte delle persone, coprifuoco o no, resta chiusa in casa per la paura, in questi giorni «decine di persone si sono offerte per pulire la chiesa e così prepararla alle prossime feste, questo aumenta il senso dell’appartenenza alla comunità e infonde sicurezza nei cuori, perché la vita non si ferma ma va avanti», dice padre Bahjat che della chiesa di San Francesco è il parroco.

Con la stessa determinazione, i francescani, dopo che domenica primo dicembre è stato bombardato il Terra Santa College, hanno riaperto, proprio lì, il panificio che distribuisce pane gratuitamente a chi ha bisogno: «Quando si tratta di fare il bene, nessuno ci deve fermare», dice padre Samhar che, insieme al confratello fra Bassam, per primo ha dato l’allarme del raid in arrivo sul college.

Loro due, poi, dopo l’attacco, sono stati gli ultimi ad andarsene dal luogo distrutto. Volevano assicurarsi, insieme ai vigili del fuoco, che l’incendio causato dalle bombe fosse completamente spento.

Ad Aleppo, la situazione ora è calma e drammatica allo stesso tempo. I religiosi raccontano di file di persone per prendere il cibo che ormai scarseggia nei punti vendita. I prezzi sono alle stelle: «Un litro di benzina costa l’equivalente di uno stipendio», spiega padre Bahjat. Nelle file dei disperati ci sono gli impiegati pubblici «ai quali non è stato pagato lo stipendio di novembre e che per il momento sono senza impiego».

Fuggire da Aleppo è difficile, se non impossibile: è percorribile un’unica strada, ma ci può volere anche una intera giornata per riuscire a uscire dalla città.
I ribelli che hanno preso possesso della città «mandano messaggi di tolleranza, istituiscono commissioni di sicurezza, si rendono disponibili a ogni richiesta», racconta ancora il religioso, ma la gente non si fida. Le cicatrici degli ultimi anni di guerra, con i bombardamenti sui civili e anche le restrizioni imposte dai jihadisti alle minoranze religiose, tra le quali quella cristiana, fanno ripiombare in un incubo.

Di qui l’appello del Nunzio, il cardinale Mario Zenari, che da Damasco chiede: «Non dimenticate la Siria, purtroppo il Paese era scomparso dai radar dei media, adesso è tornato. E allora vi chiedo: non abbandonate la Siria che sta soffrendo enormemente. In quattordici anni di guerra c’è stato mezzo milione di morti e tredici milioni di sfollati. Ora aumenteranno. Non dimenticate la Siria», ripete l’ambasciatore del Papa.

La voce, via telefono, va e viene, ma Zenari ci tiene a scandire più volte il suo appello al mondo: «Rivolgo un pressante appello alla comunità internazionale perché la Siria ha un ruolo importante nel Medio Oriente. Se non è aiutata, questa instabilità rischia di propagarsi», avverte. E deve essere aiutata anche la comunità cristiana che «ha un ruolo importante, ed è qui da prima dell’islam. Ha fondato scuole, ospedali, e i politici cristiani hanno dato un apporto significativo al progresso del Paese. Adesso bisogna aiutarli a restare, ma senza lavoro, senza un futuro, è difficile.

Benché non perseguitati, due terzi dei cristiani, negli anni di questa guerra, sono partiti. E questo è un fatto grave, un guaio per l’intera società siriana», conclude il cardinale Zenari.
Non sono mai andati via invece i religiosi, suore e frati, sacerdoti e vescovi. Restano lì anche i diversi missionari, dai religiosi del Verbo Incarnato alle suore di Madre Teresa di Calcutta. Sempre accanto alla loro gente, anche nei momenti più difficili.

Sabato 30 novembre, quando la situazione stava chiaramente per precipitare, tutti i vescovi di Aleppo, dei vari riti e confessioni, nel mosaico delle tradizioni religiose che in Medio Oriente è sempre stato una ricchezza, si sono rapidamente consultati per decidere il da farsi. «Abbiamo deciso di rimanere tutti con la nostra gente», ha riferito monsignor Hanna Jallouf, vescovo dei cattolici di rito latino. Si va avanti insieme sperando che anche ad Aleppo il Natale porti pace e serenità.

Manuela Tulli




Congo Rd. Un congolese su 4 rischia la fame

 

Un rapporto di fine ottobre della Piattaforma integrata di classificazione della sicurezza alimentare (Integrated food security phase classification, Ipc), composta da Ong e agenzie dell’Onu, riporta che 25,6 milioni di congolesi, su una popolazione di 104,3 milioni, sono minacciati a breve termine a causa dell’insufficienza alimentare. Inoltre, sono tre milioni le persone per le quali l’insicurezza alimentare oramai è acuta, ovvero sono in crisi umanitaria.

Secondo la Fao (l’agenzia Onu che si occupa di cibo e agricoltura e ha sede a Roma), si tratta di uno dei più grandi numeri al mondo per una sola popolazione con questa problematica.

L’insicurezza alimentare acuta è il risultato di diversi fattori combinati: i conflitti armati, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e quello dei costi di trasporto, ma anche l’effetto di diverse epidemie che hanno colpito il Paese.
È un dato che interessa tutto il Paese, con valori maggiori nelle aree di guerra, ovvero Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri. Qui la crisi umanitaria, già presente da tre decenni, è recentemente aumentata a causa del ritorno in auge del gruppo ribelle M23, finanziato dal vicino Rwanda. Si ricorda anche che la Monusco (Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione) ha lasciato il Sud Kivu a fine giugno scorso, dopo vent’anni di presenza.

La guerra in queste regioni ha causato uno sfollamento massiccio della popolazione che si è assembrata nei campi profughi interni. Il 35% degli agricoltori ha smesso di coltivare, mentre il 25% degli allevatori ha perso i propri capi di bestiame. Attualmente, secondo la Fao, sono 7,3 milioni i congolesi che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni e si trovano nelle tendopoli.

Ci sono poi altri fattori strutturali che acutizzano la crisi, come la scarsità delle strade in numero e in percorribilità e la mancanza dell’accesso all’acqua.
Il problema delle vie di comunicazione rende difficile il collegamento tra i mercati e tra i produttori e i mercati stessi, e quindi la distribuzione degli alimenti, aumentandone enormemente il prezzo.

La Fao e il Pam (Programma alimentare mondiale) avevano già richiamato l’attenzione lo scorso marzo, quando parlarono di 40 milioni di congolesi in stato di insicurezza alimentare cronica.
Oltre a un aiuto di immediato, con distribuzione di cibo, sono necessari, secondo i tecnici della Fao, programmi di agricoltura di emergenze, ovvero distribuzione di sementi e di attrezzi agricoli per realizzazione di mini orti almeno per la popolazione dei campi di sfollati.
La Fao chiede ai donatori 330 milioni di dollari per 2025, per assistere oltre 3 milioni di congolesi attualmente in condizioni disperate.

Marco Bello

Per un approfondimento sul Congo si legga qui.




Libano. Una foto tra le macerie

 

Beirut. Dahye, quartiere della capitale libanese, mercoledì 27 novembre, primo giorno di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Migliaia di uomini, donne e bambini, sfilano con i propri mezzi di trasporto sventolando le bandiere del Libano e quelle di HezbollahPartito di Dio»). Ragazzi più giovani, armati di pistole e kalashnikov, esultano sparando per aria. I giornalisti, per la prima volta dall’inizio dei bombardamenti a Beirut, sono stati invitati per un «tour» attraverso il quartiere. Non va dimenticato, infatti, che nei quartieri a maggioranza sciita non si fa nulla con gli accrediti ufficiali rilasciati dal governo libanese: qui decide tutto Hezbollah. Questa parte della città era rimasta inaccessibile per due mesi.

Dahye (anche conosciuta come Dahiyeh) è una delle roccaforti principali di Hezbollah, e per questo, una delle aree più colpite dai raid israeliani. È qui che, il 27 settembre, è stato ucciso Hassan Nasrallah, terzo segretario del «Partito di Dio».

Nel cuore della manifestazione, incontriamo Rana El Sahily, portavoce di Hezbollah. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel partito ci sono molte donne. «Nonostante il dolore per le tantissime perdite – ci racconta Rana -, per noi questo è un giorno di vittoria. Vittoria, perché Israele non è riuscito a invadere il nostro territorio. Vittoria, perché non ci siamo piegati ai loro attacchi e non ci siamo mai arresi. Se avessero continuato questa guerra, avrebbero perso innumerevoli risorse, ma senza ottenere alcun risultato. Per questo, Israele ha accettato il cessate il fuoco. Noi speriamo che questa pace possa durare, anche se gli israeliani, nella storia, non sono famosi per tenere fede alla parola data. In questo caso però, rompere la tregua sarebbe solo a loro svantaggio. Sono loro che hanno tutto da perdere. Per noi adesso comincia la ricostruzione. Ricostruiremo tutto come prima, anzi meglio di prima».

A Beirut, si festeggia il cessate il fuoco. Foto di Angelo Calianno.

Oggi si festeggia, ma le strade mostrano tutti i segni pesanti della devastazione. Molte case, scuole e infrastrutture sono state completamente cancellate. L’aria, piena di polvere e detriti, è quasi irrespirabile se non si indossa una mascherina protettiva.

Beirut, in questi mesi, è stata l’ombra di sé stessa: locali chiusi, le strade centrali del souq deserte. Scuole, palestre e anche hotel: tutto è stato riconvertito a rifugio per gli evacuati. Per due mesi si è vissuto con l’incessante suono dei droni sopra le teste e la paura degli attacchi che, puntualmente, arrivavano ogni notte.

Nei giorni successivi alla dichiarazione del cessate il fuoco, per strada si sono riversati centinaia di furgoncini e macchine stracolme di bagagli: erano le famiglie che tornavano a casa. Sono stati più di un milione i libanesi che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto.

Molti però, al loro ritorno, non trovano più nulla. A Chiyeh, altro quartiere di Beirut a maggioranza sciita e massicciamente colpito, incontriamo due donne. Sono ferme davanti ad un cumulo di macerie. Fino a quattro giorni fa, qui c’era la loro casa. Quello che era un condominio di sette piani, ora è una pila di rovine alta qualche metro.

Una di loro, la più giovane, racconta: «Siamo dovuti fuggire così in fretta durante i bombardamenti, da non avere avuto il tempo di prendere niente. Non abbiamo più nulla. Tutto quello che possediamo ora, è solo quello che portiamo addosso».

La signora più anziana, tra le macerie, trova una foto di famiglia. La cornice è distrutta ma l’immagine è ancora intatta. La ripulisce, la bacia, e se la stringe al petto. Oggi, nuovi attacchi Israeliani registrati a Sud, mettono nuovamente in dubbio la durata del cessate il fuoco. Malgrado questo, malgrado le grandi divisioni sociali e religiose in Libano, tutti cercano di aiutarsi l’un l’altro superando le proprie diversità e paure. Tutti lavorano insieme pregando che, questa volta, la pace possa essere duratura. Mentre giungono i primi echi del riaccendersi della guerra civile nella confinante Siria.

Angelo Calianno da Beirut




La guerra dentro


Il volume mette in luce le radici affettive della guerra. Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a sostenere o rifiutare la violenza armata? Si può considerare tramontata la cultura del «mors tua vita mea»? Alcuni studiosi sostengono di sì.

Il titolo del volume curato da Diego Miscioscia e pubblicato dalle edizioni la meridiana incuriosisce: «La guerra è finita». Ma come? Con tutti i conflitti che ci sono.

«La tesi di questo libro – si legge all’interno – è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti».

Quello che stiamo vivendo è un tempo in equilibrio sull’orlo di un’estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico. È quindi necessaria una riflessione su quali possano essere gli elementi di un percorso diverso che metta la guerra fuori dalla storia e realizzi processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.

Il mondo interno e la guerra

Il testo utilizza punti di vista scientifici diversi (dalla biologia, alla psicologia, alla storia), e parte da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra. Questo per mostrare che, nel corso del Novecento, il sistema guerra è entrato in crisi a causa della sua irrazionalità e distruttività, e a causa della sua inefficacia nel risolvere i conflitti. Ma anche per mostrare, allo stesso tempo, che in tale contesto, si sono sviluppate le competenze mentali della pace.

Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali. Esso mostra strategie di sopravvivenza orientate più alla cooperazione che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dagli scimpanzé bonobo.

Il riferimento teorico più forte è, però, quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani Franco Fornari e Luigi Pagliarani che, circa 60 anni fa, elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione delle risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.

Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare», essa «si innesta anche su […] dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno».

Questa dimensione psicologica ci aiuta a comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra, e anche il fatto che, per costruire una solida cultura di pace, è necessario lavorare sul mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.

Il volume, perciò, mette in luce le radici interiori della guerra, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari. Essa sostiene che i valori e le motivazioni personali nascono da logiche sentimentali diverse che fanno riferimento al mondo familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e quelli sessuali, virile e femminile.

«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza», si legge nel testo.

È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna» che integri e armonizzi i codici diversi, evitando che qualcuno di essi si radicalizzi, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale che estremizza il codice paterno.

È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace».

Nel corso dell’ultimo secolo alcuni passi nella direzione di uno sviluppo delle competenze mentali della pace sono stati fatti.

Miscioscia individua tre condizioni significative: il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero; la crisi della cultura patriarcale; la globalizzazione economica, che ha fatto sentire a molti di essere cittadini del mondo più che di nazioni.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è segnata: la creazione delle Nazioni Unite e l’articolo 11 della nostra Costituzione ne sono due esempi.

Via la guerra dalla storia

Poiché la mente umana è influenzata da ambiente, educazione e cultura, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni».

Nella terza parte del volume si individuano le azioni collettive che possono incidere sui processi mentali dei singoli: favorire il sentimento di essere parte di una comunità; educare con metodi nonviolenti anziché repressivi; narrare la storia come storia del mondo e delle sue civiltà, delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi pacifici, invece che come celebrazione di conquiste ed eroi.

L’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, fornisce indicazioni su come parlare di guerra ai bambini, cosa significa educare alla pace, come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.

«Il contributo più importante che abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità […]: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un’utopia […]. Si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l’ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali».

Quello fatto da Diego Miscioscia è un lavoro ricco e importante. La presenza di alcune imprecisioni storico culturali che potevano essere evitate da una più rigorosa revisione delle informazioni, nulla toglie al suo valore. Per fare solo due esempi: Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962, non nel 1952; il Mean non è tra le associazioni promotrici della campagna «Un’altra difesa è possibile» per la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta, e nemmeno la Rete italiana pace e disarmo, la quale si sarebbe costituita dopo l’inizio della campagna dall’unione della Rete della pace con la Rete italiana per il disarmo, queste sì promotrici della campagna.

L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché è uno strumento davvero prezioso.

Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’Unesco (firmata nel 1945): «Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

bibliografia

  •  Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 288, 24,00 €.
  •  Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e Associati, Milano 2012, pp. 111, 13,50 €.
  •  Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2011, pp. 634, 11 €.
  •  Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1992, pp. 656, 13 €.
  •  Antonella Sapio, Per una psicologia della pace, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 944, 58 €.
  •  Franco Fornari, Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, Milano 1969.