Tanzania. Tutte le sfide della presidente


Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

Dal marzo dello scorso anno, il Tanzania ha una nuova presidente della repubblica, Samia Suluhu Hassan, subentrata d’ufficio al presidente John Magufuli, scomparso improvvisamente il 17 marzo 2021.

Magufuli era stato eletto nel 2015 e, completato un primo mandato presidenziale, era stato rieletto nell’ottobre 2020, quando aveva scelto la Suluhu come vicepresidente. Magufuli aveva gestito male l’emergenza della pandemia da Covid-19, dichiarando eradicata la malattia dal paese già nell’aprile 2020. Quando è morto, a 61 anni, è stato ufficialmente dichiarato deceduto per crisi cardiaca, ma la sua scomparsa, tuttavia, è avvolta nel mistero. Di fatto non appariva in pubblico da oltre due settimane.

Abbiamo parlato del paese con padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata e giornalista (già direttore di MC), che ha vissuto due diversi periodi storici nel paese.

Il peso del presidente

«Il Tanzania è una repubblica presidenziale, e questo vuol dire che il presidente ha un peso enorme. Ad esempio, i governatori delle regioni sono nominati direttamente da lui, che può anche rimuoverli. Così come tutti i ministri. È inoltre capo delle forze armate, garante della Costituzione, e molto altro ancora.

Secondo la carta costituzionale non è facile criticare il presidente. È possibile, ma occorrono elementi sicuri per farlo. Questo sistema può dar adito a un presidente autoritario, addirittura dittatore».

«Da circa un anno abbiamo come nuova presidente Samia Suluhu Hassan, donna, musulmana, terza moglie di un tanzaniano. Si presenta bene, parla bene l’inglese, a differenza di Magufuli, e ha un linguaggio molto accessibile. Quando ha preso il posto di Magufuli ha detto: “Le cose non cambiano, continueremo come prima”. In realtà le cose sono molto cambiate. A cominciare dall’atteggiamento nei confronti del Covid. Una delle prime cose che la presidente ha fatto, è stata di vaccinarsi, invitando tutti i cittadini tanzaniani a fare altrettanto. È stata fatta una campagna con manifesti per le strade. Ma la gente non si vaccina. A differenza del Kenya dove il vaccino si è diffuso».

La President del Tanzania Samia Suluhu Hassan Drew Angerer/Getty Images/AFP

Padre Francesco sulla misteriosa morte di Magufuli dice che «è stato ammalato per 17 giorni, durante i quali c’è stato un blackout di notizie. Il primo ministro Kassim Majialiwa diceva di non preoccuparsi, non prendere notizie dai social media. Invece Samia, che era vicepresidente, pochi giorni prima che il suo predecessore morisse, ha detto: “Il presidente Magufuli è un uomo come tutti, e come tutti può anche ammalarsi”. La versione ufficiale è che sia morto per problemi cardiaci, ma qualcuno dice che sia morto per Covid, e altri addirittura per avvelenamento, e che ci sia stato un complotto nel quale c’entra Jakaya Kikwete, il presidente suo predecessore. Ma sono solo voci».

La cosa più eclatante è il cambiamento di politica che la nuova presidente ha messo in atto. In uno dei suoi primi interventi, parlando al giudice federale, garante della Costituzione, ha chiesto di elencare tutte le cose che nel paese non funzionavano. Padre Francesco racconta che il giudice ha iniziato l’elenco partendo da alcuni scandali relativi al lavoro: «Magufuli si vantava dei lavori infrastrutturali che si stavano facendo. È vero che ha realizzato diverse azioni di ammodernamento, di sviluppo, come il progetto di ferrovia ad alta velocità da Dar-es-Salaam a Morogoro. Ma si è scoperto che c’erano un migliaio di operai assunti non registrati. Tutti cinesi e coreani».

Austerità e manganello

Il presidente Magufuli aveva imposto un clima di austerità abbastanza rigido, ad esempio aveva proibito a tutti i ministri di viaggiare all’estero. E lui stesso è andato pochissimo in visita ufficiale. Aveva inoltre eliminato alcune feste nazionali, per risparmiare soldi da investire in opere pubbliche, come risistemare e costruire strade. «Era un intervento populista, però era positivo. Lui si proclamava difensore dei poveri, e in un certo senso lo era. D’altro lato però era una persona autoritaria, come lo è anche Suluhu, ma in termini più sfumati. Ad esempio, se parliamo della polizia, non si sa fino a che punto sia autonoma o sia alle dipendenze del presidente.

Per ogni manifestazione di piazza occorre avere il permesso, ma raramente viene concesso; quindi, non ci sono molti scioperi o dimostrazioni e, se si verificano, la polizia può intervenire anche in maniera molto pesante. Se ci sono dei morti, difficilmente la polizia viene inquisita, c’è una certa impunità».

In Tanzania il parlamento ha un ruolo secondario. Ha prerogative di controllo sul presidente, ma in termini molto blandi. Una delle richieste dell’opposizione è di rivedere la Costituzione. Magufuli si era opposto e anche la Suluhu ha rimandato.

«Il parlamento è sovrano, ma non si sa di cosa – afferma padre Francesco -. Le leggi devono essere controfirmate dal presidente. Ci sono poi casi eclatanti di mancanza di giustizia. Ad esempio, quando le opposizioni sono troppo forti o violente, gli interessati vengono presi e poi scompaiono».

Un paese ricco

Il momento attuale, secondo il nostro interlocutore, è segnato da un’impasse grave: «Il Tanzania è un paese ricco, a differenza di quello che diceva il presidente Julius Nyerere i primi tempi del suo mandato (1964-1985). Ha grandi giacimenti di oro, i maggiori dopo Sudafrica, Ghana e Congo. Ha la tanzanite, che si trova solo sul suo territorio. Ha molto gas naturale».

Rispetto a quest’ultimo, è stato valutato che il Tanzania abbia giacimenti offshore di oltre 1.600 miliardi di metri cubi. È stato recentemente firmato un primo accordo tra la Tanzania petroleum development corporation, l’ente statale di gestione, e alcune multinazionali europee e statunitensi per la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas naturale che permetterà di trasportare la materia prima, tramite navi, in qualsiasi parte del mondo. L’investimento sarà di circa 30 miliardi di dollari e dovrebbe dare lavoro a circa 5mila persone. L’impianto entrerebbe in funzione tra 4-5 anni e farebbe diventare il Tanzania uno dei maggiori esportatori di gas naturale al mondo. Con la crisi energetica in corso, a causa della guerra in Ucraina, questo tipo di impianti diventa sempre più interessante. Attualmente il paese ha già tre giacimenti in funzione con una produzione di circa tre miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.

Il paese è inoltre ricco di acqua. È circondato dai grandi laghi: Vittoria, Tanganika, Niassa, e percorso da grandi fiumi.

Potenzialmente è un paese con enormi possibilità agricole, a differenza del Kenya che importa derrate alimentari proprio dal vicino. Non si tratta però di un’agricoltura meccanizzata, ma svolta a livello famigliare, artigianale.

Un’altra risorsa, poi, è rappresentata dalle bellezze naturali che alimentano una florida industria del turismo: «Il Tanzania è il più grande giardino zoologico del mondo», ricorda padre Francesco.

La popolazione

«La ricchezza maggiore del paese è la popolazione – aggiunge padre Francesco -: pacifica, tranquilla scevra da ogni tribalismo, a differenza di tanti paesi africani, come, ad esempio, Kenya, Uganda, Burundi. È un vantaggio, questo, dovuto alla lingua swahili che unisce.

Inoltre, il Tanzania ha avuto il pregio di raggiungere l’indipendenza in maniera pacifica, senza guerre civili.

I primi missionari, i benedettini, hanno insistito sullo swahili. Poi è venuto in presidente Nyerere, che ha dato un grande impulso a questa lingua, anche dal punto di vista religioso. Lui ha tradotto i quattro Vangeli in un suo swahili particolare, molto popolare.

L’aspetto negativo può essere che si sta indebolendo l’inglese, che è parlato pochissimo e male. Questo è un impoverimento. In parlamento si parla swahili, all’università di parla inglese, ma è un inglese molto povero.

Al contrario di quello che sta avvenendo in Kenya, dove lo swahili sta crescendo ed è di buon livello, in Tanzania si sta mischiando con l’inglese e altre lingue. Le lingue locali, che sono tante, non hanno peso. I giovani delle diverse etnie, parlano tutti swahili, non parlano le loro lingue. In particolare a Dar-es-Salaam, città di sei milioni di abitanti, dove non c’è tanzaniano che non vi abbia un parente».

Livello di vita

Padre Francesco ha il privilegio di poter fare il confronto di due periodi su un arco di mezzo secolo: dalla sua prima esperienza alla sua vita nel paese oggi. Ci conferma che in città la vita è molto cambiata, mentre in campagna un po’ meno.

«La prima volta sono arrivato in Tanzania nel 1973 e vi sono rimasto tre anni. Nel ‘74 lavoravo in un villaggio con un altro padre più anziano. Il giudice del luogo ci ha chiamati a osservare un processo. Al termine avevamo capito tutte le parole, ma non l’argomento. Si trattava di una violenza di un padre su una figlia, un caso nuovo per la società di allora. La parola “violentare”, in quei quattro anni non l’ho mai sentita.

Oggi, invece, il tema è all’ordine del giorno, giornali, televisione, radio. Violenza domestica e sessuale sono diffusissime».

Padre Francesco ci dice che sta avvenendo un cambiamento culturale importante, specialmente tra i giovani. Non sopportano più di stare zitti: «Io sono a contatto con ragazzi e ragazze universitari e laureati che dicono: “Non si può andare avanti così, se vedo cose che non vanno, specialmente per quanto riguarda la giustizia, non sto zitto”».

I giovani sono attratti dalla città, perché sperano di divertirsi e di acquisire una certa istruzione, se sono ammessi all’università, cosa che dipende da come si sono qualificati alle superiori. «Molti studiano informatica e marketing. Ma una volta terminati i tre anni, ci sono ragazzi e ragazze che si danno al commercio di strada, per racimolare qualcosa. Oppure fanno i mototaxi, che provocano tanti incidenti. Ma il guadagno è molto povero. Se riescono a ricavare 3-4 euro al giorno va bene. Lo fanno per sopravvivere».

C’è dunque un livello di reddito molto basso, non c’è fame, ma non c’è circolazione di denaro. Se una famiglia ha un’emergenza, cure mediche da affrontare, o andare a un funerale a molti chilometri di distanza, non ha i soldi per affrontarla. «Molto spesso le persone che lavorano con me, a metà mese mi chiedono un anticipo, perché non hanno abbastanza soldi per pagare il trasporto pubblico e venire al lavoro».

La disoccupazione, specie giovanile, è altissima. La gente si arrangia. Ma non c’è la tendenza a migrare, neppure tra i giovani.

Per chi ha un lavoro, il problema grosso sono i salari bassi. Di solito al primo maggio di ogni anno venivano aumentati, ma la presidente l’anno scorso e quest’anno non lo ha fatto. Oggi lo stipendio medio è di circa 80 euro al mese.

Ma tutti i prezzi stanno aumentando, anche a causa della guerra in Ucraina. Non se ne parla molto, ma l’influenza si vede già. Il costo della benzina e dei generi di prima necessità, come la farina, sono aumentati, anche del 70%. Così pure i mezzi di trasporto».

Alle Nazioni Unite, nella mozione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il Tanzania si è astenuto, mentre il Kenya ha votato contro la Russia. C’era una certa alleanza, molti studenti sono passati da Mosca.

Il Tanzania ha relazioni con la Cina sul piano economico, da sempre. Il Tanganyka (il primo nome del paese, ndr) è stato forse il primo paese che ha avuto rapporti con il gigante asiatico. Durante la guerra fredda, Nyerere ha scelto la Cina. I cinesi hanno costruito la ferrovia che collega il Tanzania con lo Zambia. Oggi la grande maggioranza dei prodotti circolanti sul mercato sono cinesi. La gente li compra perché il prezzo è basso, anche se la qualità è scadente. Ci sarebbero anche prodotti buoni: «Una tanzaniana che conosco stava per aprire un’attività commerciale ed è andata in Cina per vedere cosa importare. Mi ha poi raccontato: “In Cina mi hanno fatto una domanda: signora vuole prodotti scadenti, copie o originali? E mi hanno fatto tre prezzi”».

Bambini scomparsi

Un altro fenomeno di cui ci parla padre Bernardi è quello dei bambini che scompaiono. «Si cercano anche con annunci in chiesa. Cosa c’è dietro? Sono bambini che magari non sopportano l’ambiente famigliare. Alcuni scappano. Altri vengono rapiti, specie le ragazze di 10-15 anni.

Una mamma un giorno mi ha detto: “Mia fglia non c’è più. L’ho mandata da una zia che abita a 600 km ed è scomparsa. Potrebbe essere stata rapita, essere al servizio di una signora o del marito di questa”. La mamma voleva andare a vedere ma non aveva i soldi per pagare il viaggio».

«Quando Nyerere divenne presidente, nel 1961, disse: “Il Tanzania ha tre nemici: povertà, ignoranza, malattia”. Si sono fatti dei passi, ma oggi sono ancora i tre nemici principali. E oggi vedo un quarto nemico: la corruzione.

Io personalmente ritengo che il paese farà strada. Ero in Tanzania 50 anni fa e non c’era nulla. Oggi è cambiato, è andato avanti. Ha delle potenzialità. In quei tempi le persone qualificate erano molto poche. Nel ‘61 quando il Tanganika divenne indipendente, c’erano due studenti, uno di medicina e uno di ingegneria. La qualità però è ancora bassa».

Parliamo di terrorismo islamista, ricordando l’attentato del 1998 all’ambasciata Usa. «In Tanzania non c’è. L’unica incertezza è Zanzibar. Ci sono state, negli anni passati, alcune uccisioni, tra cui un prete, e dei ferimenti. Ma il governo centrale ha il pugno di ferro. Quando ci sono giovani sospetti vengono eliminati. È sempre stato così. Dicono che ai primi tempi di Nyerere ci siano stati due tentativi di colpi di stato, sventati dai servizi segreti, che funzionano molto bene».

La Consolata in Tanzania

«Noi missionari della Consolata abbiamo compiuto 100 anni di presenza in Tanzania (cfr. MC gennaio 2019). Arrivammo nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi furono sconfitti e i missionari tedeschi, benedettini, vennero cacciati. A mio parere abbiamo compiuto una grande opera. In particolare, di educazione scolastica: gli stessi figli di Nyerere hanno studiato da noi. Abbiamo costruito missioni con un impegno notevole. Quell’epoca è passata, ora l’Istituto è africanizzato e noi stranieri siamo una minoranza, e siamo anziani.

Oggi abbiamo un’eccellenza che è il centro di Bunju a 35 chilometri da Dar-es-Salaam (cfr. MC luglio 2020). È un centro di formazione culturale missionaria, “un centro per pensare, per far pensare i giovani”. È stato creato per dare una formazione approfondita ai giovani e ai catechisti. Questi sono la forza principale della chiesa.

Allo stesso tempo il centro raccoglie tante persone, di estrazione diversa: i luterani sono i nostri “clienti” migliori, gli anglicani, le Ong vengono a fare incontri. Lo frequentano anche i musulmani, presenti, ad esempio, nei gruppi governativi. E tutti restano molto soddisfatti.

Questo è un punto qualificante che l’Istituto ha in Tanzania oggi. Non è facile portarlo avanti, perché la formazione culturale approfondita non è un’esigenza molto avvertita. Il Tanzania è un paese dove la gente legge pochissimo. Esiste un detto: “Hai un segreto e vuoi che resti tale? Scrivilo, perché nessuno ti legge”. Questo è l’insulto peggiore che possano fare ai tanzaniani! Ma questa è anche la grande sfida: cominciare a far pensare la gente. Io leggo romanzi locali per avere un’idea della società. C’è un abisso tra quello quello che la gente vive nel quotidiano e quello che scrivono i romanzieri, i quali propongono idee anche nuove, magari critiche verso il potere, la tradizione, la cultura. Anche dal punto di vista religioso, non basta avere il rosario al collo, bisogna avere la Bibbia in mano. Leggere e pensare. Come cristiani è la Parola di Dio che deve essere il nostro libro e non i libercoli.

I vescovi tanzaniani, ogni anno, in occasione della Quaresima, scrivono una lettera. Di solito è molto bella, critica. Ma viene ignorata dagli stessi preti. Manca un senso critico verso società, politica, chiesa. Il centro di Bunju vuole preparare la gente a pensare con la propria testa. Per questo motivo abbiamo fondato la rivista Enendeni, che vuol dire Andare, l’unica a carattere missionario, anche un po’ critica. Fa fatica a diffondersi.

Abbiamo poi tante altre opere, come l’ospedale di Ikonda, l’accoglienza dei bambini abbandonati, vicino a Iringa. Ma la novità è questo centro».

Chiediamo a padre Francesco qual è il suo impegno oggi. «Sono ripartito nel 2011 dopo 38 anni a Torino nella redazione di questa rivista. Avevo 68 anni. Ho trovato questo grande paese cambiato. Per prima cosa ho fatto un patto con me stesso: per tre anni non leggere una riga di italiano, non parlarlo, ma solo swahili. E l’ho fatto. Oggi me la cavo. Il mio swahili non è quello della gente, ma più letterario, secondo le regole e la grammatica.

Dopo 11 anni a Bunju, ho preparato il mio successore alla rivista Enendeni, lavorando con lui un anno. Quindi sono andato a fare il viceparroco in una parrocchia di missione, nella parte centrale di Dar. È una zona degradata, una semi favela. Dar ha poche strade di accesso grandi, solo due. Lasci la strada principale, ti metti dentro e sono strade in terra battuta. Vicoli. Ma la gente esce vestita bene».

Marco Bello

 




Un secolo di Consolazione con l’Allamano:

100 anni di Tanzania

Indice

Introduzione

21 aprile 1919, ore 21

Affascina di più il
sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara
la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno
il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore
e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa
attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.

Non fa eccezione il Tanzania, anche
perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli
stregoni con i loro traffici loschi.

E, tuttavia, i primi missionari
della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore
21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso,
pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e
dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).

Da Dar Es Salaam, «porto della
pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti
e Domenico Vignoli. Missionari
italiani, ma provenienti dal Kenya.

Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di
carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor
Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922
di «La Consolata».

Perlo aveva ricevuto un appello da
parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con
i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad
abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella
Prima guerra mondiale.

Perlo spiegò quell’«atto di carità»
precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità,
mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per
far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del
personale per “imprestare” ad altri»1.

Imprestare? Il termine non centrava
in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.

F. B.

Inizia l’Avventura:
I quattro, dell’Ave Maria

I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri,
fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i
vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come
tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a
oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.

Arrivati da
pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro
missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in
treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e
acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con
l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia
nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro
pastori»2.

Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni
giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si
stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai
missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150
chilometri.

Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso,
popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il
sultano Mkwawa.

Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi
decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei
suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I
tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in
Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento
del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.

Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola
moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche
il padre Sapi Mkwawa.

Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi
etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti,
estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano
di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca
tzetze, che stermina pecore e vacche.

I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira)
si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni»,
per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.

In termini più prosaici e concreti: i missionari
ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono
a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei
battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.

«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti
ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel
giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.

Onore a monsignor Cagliero

Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione,
nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco
Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».

Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri,
alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e
gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e
Padangani fra i Wagogo, e non solo.

Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni
di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare
la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per
procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E
poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto.
Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci
conoscere e avere sussidi»5.

Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la
seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare
5.151, studenti della Central
School 107, scuole magistrali per ragazze
28, allievi delle scuole professionali 21.

Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.

Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la
fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù
Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana,
una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile,
nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per
essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito
Santo».

Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero,
fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.

Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6.
E le suonarono. A morto.

In residenza coatta

Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa
volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo
pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta,
anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto
monsignor Cagliero.

Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di
«investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore»
attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di
Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il
lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano
lacrime e sangue.

E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta
Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.

Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga.
La deportazione era quasi certa.

Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario
cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata.
Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.

Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della
Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola
d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle
loro sedi»7. E così fu.

L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola
d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario
italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito
allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di
personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico
con la gente locale.

Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque,
«la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la
Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in
Sudafrica.

Coraggio e strategia

A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure
cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le
conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che
concludere: libera nos Domine.

Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei
fallimenti.

La missione esige costante coraggio e sempre nuove
strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei
missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26
aprile 1937 stabilirono:

1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione
dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana
Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.

2. Scuola. È un
obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano
riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio
per lo stipendio dei maestri.

3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre
che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul
fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando
documenti e schedando riviste e libri.

4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa
locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli
religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.

5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano
strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i
dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione
umana e religiosa.

6. Ecumenismo. Il Concilio
ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si
contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un
rapporto di amicizia e buon vicinato.

7. Amministrazione. Un
missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti
rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor
Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.

Grazie ai campi di… tabacco

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto
il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.

I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre
è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche
soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.

La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda
dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e
da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando
oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!

Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto
il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.

Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham,
anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede
cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due
vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.

Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di
tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi.
Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso,
arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a
norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello
per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso,
il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si
devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo
era un tessitore di tende e stuoie.

«Suo padre è musulmano»

Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne
«Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non
è solo «monsignore», ma anche «vescovo».

L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».

Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo,
Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti
ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna»,
come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.

Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa
locale di Iringa crebbe, specie in qualità.

Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con
l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.

Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come
scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto
religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine»,
valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli»,
con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12).
Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.

Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora
avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde.
Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.

Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì
per Roma per laurearsi in Diritto canonico.

«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà
poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.

Missionari della Consolata al Capitolo generale del 1999 in Kenya con Julius Nyerere

Tre passi indietro

A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari
della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti
eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.

• Indipendenza del paese

La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a
mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero
Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika
indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini
con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo
dell’oro delle miniere.

Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si
pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.

I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi,
salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.

• Concilio Ecumenico Vaticano II

Per
la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma
dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo. 
Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è
sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della
misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire
incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina,
piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i
parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate,
onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.

Consultado vecchi documenti d’archivio risalenti ai tempi dei Benedettini.

• Da un vescovo all’altro

Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo
Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui
inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64
anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.

Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro»,
il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30
anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto
risoluto.

Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di
Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde,
il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una
«eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.

Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure
il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si
prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano
bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze
erano rigorosamente rosse.

Il cerchio si allarga

Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e
venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e
bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano
affrontare un viaggio.

«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in
anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge
sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te
dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia,
spagnolo.

Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai
missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i
brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.

Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti
da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le
suore, anche le Religiose Camaldolesi.

Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente.
Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es
Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.

Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si
insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di
Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una
siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei
Wabena di Njombe.

«Manda è una missione di frontiera, di prima
evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor
Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti,
inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della
stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono
all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.

Padre Antonio Zanette

Da Manda a Sanza

Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51
anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro,
raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo,
dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la
politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo
vero».

«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so –
rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma
l’interesse sta crescendo».

A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto
africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda
bisogna saper attendere.

Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un
villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava
entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo
arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci
hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il
dono di questa capra».

Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al
passaggio di proprietà con un garrulo belato.

Il primo keniano

«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda –
esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari
della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono
il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».

Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina,
sorseggiando il tè.

Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli
inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal
Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di
Julius Nyerere. Ma non ci badò.

Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento
di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti
erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i
cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non
schierarmi contro nessuno».

La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi.
«Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per
essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.

Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano
ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di
Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».

«Le raccomandazioni sono tre:

• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i
primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;

• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i
laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo
separati dalla gente, i laici no;

• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una
dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della
Consolata».

Padre Giovanni Giorda

Epilogo

A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei
missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento
dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.

Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione.
Ennesima luce per illuminare e consolare.

Francesco Bernardi

La date più importanti

  • 21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
  • 1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
  • 1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
  • 22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
  • 22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
  • 16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
  • 1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
  • 27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
  • 1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
  • 9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
  • 26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
  • 28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
  • A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
  • 15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
  • A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
  • 1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
  • 2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.

I missionari della
Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di
varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel
mondo sono 66.

F.B.

Il primo missionario del Tanzania

Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti
italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre
nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?

Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono
nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita,
perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1
gennaio 1941.

In
famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una
sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco
Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.

Con
i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani
della missione di Mdabulo.

L’utawani
era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai
missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I
ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici.
Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.

Oltre
che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo
insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa
scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte
integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in
famiglia per le vacanze.

Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi
ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci,
ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro
scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».

Veramente
la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto,
responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.

Poiché
rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.

Sei solo un ragazzo!

Avevo
11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare
sacerdote».

«Figlio
mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il
proposito di farti prete», risposi senza paura.

Da
quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.

Dopo
la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai
il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a
piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia
e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in
quei volumi?».

«Come
le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.

Poi,
notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso:
«Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».

Però
non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata»,
perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e
lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni»
non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.

Ero
già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio
Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si
vedrà!», rispose secco.

Missionario in Congo

Nel
1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della
Consolata, il primo del Tanzania.

Per
sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary
School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania,
fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di
Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.

Partii
per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla
swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.

Si
parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in
salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O,
meglio, spegni il motore».

Quando
padre Giuseppe Inverardi13,
superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che
lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per
testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore
tutt’oggi.

In
Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano
ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa
che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.

Ora vescovo

Ritornato
in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato
di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le
canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.

Ho
scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata
in Tanzania.

In
conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe
Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un
seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme,
prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.

I
giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla
nostra porta per stare con noi missionari.

Se
entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti
di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un
carico insopportabile.

Al
contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico
leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.

Mons. Evaristo Chengula,
missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)

Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.

I fratelli missionari:
Più in alto dei preti

I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di
vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e
al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che
ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.

I missionari della Consolata, al
maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo
il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore,
beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un
coadiutore!»15.

I
fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo,
non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro
fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.

L’Allamano
ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso
sarà sopra gli altri sacerdoti»16.

Michele e Felice

I
primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del
1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.

Ero
a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della
missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.

Padre
Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso
come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel
pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in
un pianto dirotto.

Fratel
Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi,
inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni
foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.

Fu
il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come
Giuseppe, quello di Nazaret.

A
Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi.
Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore
a diesel.

Una
notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la
pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel
fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel
vedere quei bianchi in costume semiadamitico.

Dopo
15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il
motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.

Fratel
Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i
missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino
imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.

Ascoltarlo
di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a
dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.

«Dalle
carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia
di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi,
pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana
procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in
coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il
rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».

Negli
anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare
e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto.
Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese,
lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.

Conciava
pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido
finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare
motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come
l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.

Al
termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva,
fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle
6,30?».

E tanti altri…

Ricordo
anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio
erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso
lavorando con precisione al tornio.

Lavorava
e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora
un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.

Fratelli
missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto
finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’
chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.

Eresse,
nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione
con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle
partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.

Fratelli
missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai
piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di
Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria
in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del
paese, persino da Zanzibar.

Terminati
i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un
ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».

Fratelli
missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe
Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».

Francesco Bernardi

Quattro esperienze di missione:
Oggi e domani strada facendo

Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un
ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità.
Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di
Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate.
Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate
che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani
a rischio, per esempio.

Una scuola per bocciati

Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il
Centro di formazione Stella del mattino.

Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre
si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo
terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono
stati bocciati.

Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono
finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla
prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.

«Apriamo una Secondary
School per i bocciati», si dissero allora
suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre
consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati
di ieri, oggi emergano fra i migliori.

Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla
«polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano
legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.

È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando
«la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito,
mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.

È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di
Ilamba e dintorni.

L’ospedale di Ikonda

Una stella polare

Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi»
(Matteo 10, 8).

L’attenzione agli ammalati è una «stella polare»
nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.

Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani,
numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo
nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.

L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius
Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti
letto.

Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi
nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le
sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il
«delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la
risonanza magnetica.

Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar.
Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono
più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza
remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di
costose turbine che i fulmini mettono a ko
a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda
cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il
maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.

«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo –
chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati
lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».

Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto
l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe
più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di
città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un
ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».

Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove
campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di
Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano. 

Un centro per… centrare

Incontro di missionari della Consolata con padre Stefano Camerlengo, superiore generale, a Bunju (maggio 2013)

Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.

Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008»,
l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della
stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose
della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.

Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250
siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il
cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori.
Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.

Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro».
Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in
movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti.
Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.

Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha
aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani.
Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.

Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i
prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui
risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese,
chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che
canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e
«formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.

La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I
missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata
Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.

Chi è stato «prossimo»?

Padre Francesco Bernardi, autore di questo dossier, direttore in Tanzania della rivista Enendeni. ex direttore di Missioni Consolata

Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato
«prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).

È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.

Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri)
paesi, compreso il Tanzania?

Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane.
Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare
qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo
lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani
vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste
nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo
bottiglie di plastica».

Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla
t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente
per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.

La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei
«Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è
il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il
sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni
elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno
lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e
poveri…»19.

Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese
le cose non vanno meglio».

Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in
Tanzania meno, molto meno.

Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della
politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un
buon samaritano».

Francesco Bernardi

Note

  • (1) Cfr. rivista La Consolata, agosto 1922.
  • (2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
  • (3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
  • (4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
  • (5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
  • (6) Ivi, p. 262.
  • (7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
  • (8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
  • (9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
  • (10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
  • (11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
  • (12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
  • (13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari  della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
  • (14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
  • (15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
  • (16) Ivi.
  • (17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
  • (18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
  • (19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.



Centocinquant’anni di evangelizzazione in Tanzania


Non reportage da Bagamoyo, ma racconto per ricordare la celebrazione dei 150 anni della evangelizzazione del Tanzania.

Testo di Marianna Micheluzzi – foto padre Francesco Bernardi

Manca circa una mezzora (sono le 9, 30 del mattino) all’inizio della grande celebrazione all’aperto nella enorme spianata di Bagamoyo, che guarda di rimpetto l’oceano. Proprio quello stesso oceano che, nel lontano 1868, consentì a padre Antornine Horner, un tedesco, missionario della Congregazione del Santo Spirito, di raggiungere la terra ferma provenendo da Zanzibar.

E noi siamo fermi, sotto un cielo azzurro e un sole cocente, a pochi metri dalla croce commemorativa che ricorda, appunto, la prima missione, la più antica, di Tanzania, fondata un secolo e mezzo fa.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, folla alla celebrazione

Una folla enorme, coloratissima e molto varia, anche per le fogge originali degli abiti, in particolare quelli femminili, comincia ad accalcarsi. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Anziani, bambini e giovani. E ci sono pure i giovanissimi. Quelli, adolescenti, amanti dell’hip hop, che le mamme hanno tirato giù dal letto perché ci fossero anche loro alla festa. Si prevede una presenza di pubblico intorno alle circa 250 mila persone. L’evento, importante per il paese, era stato pubblicizzato a sufficienza in anticipo e nelle parrocchie e dai media. In particolare dalla radio, che arriva quasi ovunque, e ne ha dato notizia circa un mese prima.

Così il popolo di Tanzania, il popolo cattolico, che non vuole mancare all’appuntamento, c’è. C’è tutto e si fa sentire. È una festa, una festa grande. Qui si amano i raduni festosi dove, dopo l’ascolto è possibile anche cantare e ballare in segno di gioia condivisa. Non mancherà il rullo dei tamburi e neppure il suono del corno secondo la tradizione (anche biblica).

La gioia del Vangelo di cui si racconterà questa mattina ha cambiato, infatti, con la presenza missionaria, la vita di moltissime persone. È avvenuto nelle città e nelle campagne. Il Vangelo con le sue parabole, con i suoi insegnamenti mirati, ha accompagnato la gente nei momenti felici e pure in quelli un po’ meno felici. Il Vangelo è stato un autentico volano di promozione umana e sociale, e quindi di sviluppo. Nel paese e per il paese. Un paese dove c’è ovviamente ancora tantissimo da fare ma che, per la più parte, dati alla mano, ha iniziato da tempo ormai un buon cammino. E di certo lo continuerà.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, il coro

Risultati di grazia

Un percorso, quello della presenza missionaria cattolica, le cui tappe fondamentali traccerà questa mattina agevolmente l’oratore, e cioè padre Faustine Kamugisha, sacerdote cattolico della diocesi di Bukoba, noto negli ambienti cattolici e non solo, incaricato della celebrazione dalla Tec, la Conferenza episcopale del Tanzania. Padre Kamugisha, tra l’altro, ha scritto un libro che ha proprio per titolo: «I 150 anni di Evangelizzazione del Tanzania: la gioia del Vangelo». Un testo che ci dirà molto altro ancora sull’impegno missionario in Tanzania in quanto redatto da un tanzaniano, che ha scelto per la sua vita la strada del sacerdozio.

Logo dei 150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania

Ecco alcuni dati per comprendere l’impegno della Chiesa cattolica in Tanzania, che emergono dagli allegati acclusi al programma della celebrazione.

  • La Conferenza episcopale del Tanzania (Tec) comprende attualmente ben 34 Diocesi. Di strada, dagli inizi, possiamo dire che se ne è fatta davvero tanta anche se tanta altra ne resta ancora da fare.
  • 235 Scuole secondarie sono oggi il numero di istituti gestiti direttamente dalla Tec.
  • 75 sono, invece, i centri di formazione professionale, molto utili per la gioventù e perciò molto frequentati.
  • 4 sono le Università cattoliche a pieno titolo.
  • 55 sono gli Ospedali, sempre afferenti alla Tec così come 94 i Centri sanitari e 338 i Dispensari. Degli ospedali del Tanzania merita, per la sua eccellenza, d’essere ricordato in particolare l’ospedale di Ikonda, retto e gestito dai missionari della Consolata di Torino. Con un reparto apposito, unico nel territorio, dove sono ospitati i malati di Aids, purtroppo ancora dolente piaga d’Africa.

Tutto questo, uomini, cifre, risultati, è opera delle Missioni cattoliche, che tanto hanno dato in termini di accompagnamento e crescita alla popolazione locale. Popolazione che, di rimando, ha sempre ricambiato (va detto) e ricambia con riconoscenza e generosità. Il Tanzania, infatti, è uno dei paesi dell’Africa che, con il Kenya, conta tra l’altro un buon numero di vocazioni sacerdotali. Lo stesso dicasi per le vocazioni al femminile. E va anche ricordato l’impulso dato alla nascita di congregazioni locali.

Assieme alla presenza certa del presidente del Tanzania, John Pombe Magufuli, ai ministri locali e agli ambasciatori esteri, compreso quello italiano, nella concelebrazione lo spazio dell’omelia sarà riservato al presidente dell’assemblea. E cioè al cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, in rappresentanza di Papa Francesco.

Bagamoyo, dalla schiavitù alla libertà

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, arrivo dei vescovi

Bagamoyo sappiamo che, storicamente, come città fu fondata alla fine del ‘700 (XVIII sec.) ma in precedenza, già nel 1400, era un territorio oggetto dell’occupazione araba (lo ricorda moltissimo infatti, ancora oggi, nelle sue architetture) e, purtroppo, fu porto di transito nei secoli successivi, quando divenne dominio dell’Oman (1750). Un porto idoneo al trasferimento degli schiavi nelle terre d’Arabia e dell’Asia. Schiavi che altro non erano che uomini e donne e bambini, rastrellati in paesi dell’Africa occidentale, nei numerosi villaggi rurali, trasferiti successivamente a Bagamoyo, imprigionati poi in una fortezza e infine venduti. Un Museo in Bagamoyo ne ricorda l’immane tragedia. La parola Bagamoyo significa nella lingua locale: «Uccidi il tuo cuore». Ovvero: «Perdi ogni speranza».

I missionari cattolici, quando arrivarono, costruirono il «Villaggio della libertà», dove poter ospitare appunto quegli schiavi che riuscivano a riscattare. Fu un’iniziativa che, in qualche modo, concorse poi a dare forza, gradualmente negli anni, al movimento abolizionista della schiavitù.

A ricordare i 150 di Missione cattolica, sempre in Bagamoyo, c’è anche un gigantesco baobab cresciuto in centocinquanta anni (1868-2018), che è ancora lì maestoso nel cortile della missione. E che merita d’essere visitato. Come lo merita anche il cimitero locale, che ricorda, con delle lapidi, i 50 missionari morti giovanissimi per malaria o altre malattie tropicali. Cosa che accadeva sovente, specie agli inizi della missione, perché non esisteva conoscenza adeguata di queste malattie, né tanto meno rimedi idonei a guarire chi ne fosse colpito.

Resta il fatto che il seme piantato da tanti missionari e missionarie, che si sono avvicendati negli anni in terra di Tanzania, ha dato senza dubbio i suoi frutti, se oggi il paese può guardare innanzi, agli anni che verranno, con una certa fiducia e un discreto ottimismo.

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, fedeli da tutto il paese

Non sappiamo se padre Faustine Kamugisha oppure il cardinale Njue citeranno Nyerere, il grande presidente cattolico, il padre dell’Ushamàa, che tanto ha dato al suo Paese e alla sua gente, privilegiando da subito per il suo popolo quali priorità urgenti: il lavoro, l’istruzione, la salute, perché si potesse vivere tutti, ma proprio tutti, un’esistenza dignitosa.

E lo ha fatto, Nyerere, non va dimenticato, giorno dopo giorno, affiancando e condividendo sempre, in tutti gli anni della sua presidenza, il lavoro dei tanti missionari.

Il prossimo appuntamento in Tanzania, dopo quello odierno, sarà quello che celebrerà, tra pochi mesi, il giubileo di 100 anni dell’arrivo dei missionari della Consolata, nel 1919.

Testo di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

150 anni dell’evangelizzazione in Tanzania, musicista




Il Gomni in Tanzania: Il Vangelo «pratico» del servizio

Testo di Marco Bello e foto Archivio Gomni |


(Il Gomni) Nasce un po’ per caso. Come le grandi storie. Poi diventa l’impresa di una vita. Un gruppo missionario molto «operativo». Lo è ancora oggi, dopo più di 30 anni. Principi saldi e perseveranza. Ispirato a suor Irene Stefani e nessun margine al compromesso. E, sempre: fare il bene senza farsi pubblicità. Ne parliamo con Giuseppe Lupo, uno dei fondatori.

«Quando mia figlia ha compiuto cinque anni, ha iniziato ad andare all’asilo delle suore della Consolata in corso Allamano (a Torino, ndr.). Grazie a questo, io e mia moglie Maria abbiamo fatto amicizia con suor Idelma, la sua insegnante. Ma un giorno, senza preavviso, ci ha detto che sarebbe partita per la Tanzania». Chi racconta è Giuseppe Lupo, universalmente conosciuto come Pino, e parla di un «inizio», di qualcosa che gli sta molto a cuore. Pino e Maria avevano creato un’azienda nel settore delle forniture idrauliche, dove erano impegnati entrambi tutta la giornata.

All’inizio fu un viaggio

Corre l’anno 1986, Pino continua: «Suor Idelma cominciò a scriverci delle lettere con le sue prime esperienze di missione e noi le rispondevamo. Così iniziai a incuriosirmi di questo paese e dell’Africa in generale, continente di cui sapevo poco o nulla. Di fatto io non avevo mai viaggiato». Poi Pino prende il coraggio a due mani e decide di andare a trovare suor Idelma. Soprattutto vuole andare a vedere l’Africa. Un viaggio che dura – ricorda con precisione – «34 giorni», e che cambia qualcosa in lui. Qualcosa che a 32 anni di distanza ancora non sa spiegare. «Ero tornato da poco e durante una festa di battesimo, un tizio mai visto mi avvicinò: “Sei tu quello che è stato in Africa?”, chiese. Così cominciammo a parlare. Voleva sapere tutto. Alla fine della festa mi disse che se fossi partito di nuovo, sarebbe venuto. E così fu». Così si crea un gruppo di persone interessate alla missione.

Il Vangelo come servizio

Pino è disorientato. Insieme agli amici sente che deve fare qualcosa per «condividere» con le sorelle e i fratelli africani incontrati in Tanzania. Anni dopo scriverà: «Ogni attività nasce da un incontro con persone, luoghi, situazioni complesse e gravi che possono essere comprese nell’umiltà del cercare di calarsi dentro», e anche: «Occorrono iniziative idonee a modificare le cause di povertà creando sviluppo», e «Si crea così la possibilità di un cammino comune e di uno scambio profondo di esperienze».

Con Maria si rivolgono ancora una volta alle suore della Consolata e incontrano suor Gianpaola Mina. È lei che parla loro della beata Irene Stefani: «Siamo rimasti immediatamente ispirati dalla vita di suor Irene», commenta Pino. Così, insieme agli amici, Pino e Maria creano il «Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene», Gomni in sigla, dove Nyaatha, ovvero madre misericordiosa, è l’appellativo che gli africani davano a suor Irene.

Racconta Pino: «Suor Mina ha aiutato il gruppo a nascere e a formare lo statuto. Ci disse: “Non potete chiamarvi Gruppo Irene, perché voi non sarete mai un gruppo esclusivamente di preghiera, voi porterete il Vangelo dando servizio, lavorando con la carità. Sarete un gruppo operativo missionario”. E in effetti ci aveva azzeccato».

Gruppo «di carità»

Un altro principio fondamentale deciso fin da subito è che «non saremo mai né onlus né Ong – ricorda Pino -, ma un gruppo di carità». Questo per «non scendere a compromessi», perché l’associazione vuole «vivere di carità, dando carità». Rifiuta dunque di entrare nel «business» o, più benevolmente, nel settore, della cooperazione internazionale. E il Gomni riesce a mantenere la promessa per tutta la sua storia, nonostante non sia facile, perché qualcuno che ha tentato la virata c’è stato, ma poi ha prevalso lo spirito iniziale.

Una scelta, quella del nome, che chiarisce le intenzioni della neonata associazione. I suoi fondatori si sentono ispirati anche dal beato Giuseppe Allamano. E in particolare fanno loro il motto «Far bene il bene, senza far rumore», senza spazio al compromesso. Non si fanno pubblicità, non mettono bandierine (come invece fanno molte associazioni). E chi prova a farlo viene riportato sulla retta via. «Anche se noi non ci facciamo conoscere, sono in molti che ci conoscono», ricorda Pino.

Subito operativi

Il Gruppo operativo parte, e fa onore al suo nome. Inizia una collaborazione con alcuni missionari della Consolata in Tanzania. I primi progetti sono del 1988 a Kibao e Iringa. Viene realizzato un intero acquedotto che alimenta un ospedale, un dispensario e diverse case, e un impianto elettrico per le stesse strutture. Poi si continua lavorando con la diocesi di Njombe. «Ci basiamo sempre su strutture locali, su persone che si dimostrino strumenti di promozione umana e comunitaria, in modo da coinvolgere la popolazione sempre da protagonista e non solo come beneficiaria».

Il Gomni ha alcuni principi molto chiari, come il fatto che con le sue attività non vuole «creare un circolo vizioso di dipendenza da assistenza, ma piuttosto intraprendere iniziative e attività concrete per uno sviluppo autogestito in loco». Ovvero, aiuto sì, ma condivisione e protagonismo attivo della gente coinvolta, che sia comunità, affinché «con il tempo assuma pieno coordinamento dei progetti, nella promozione del bene comune». Concetti molto avanzati per la fine degli anni ‘80.

Importanti, nella fase iniziale, sono i consigli di padre Franco Cellana. «Lo conobbi in Tanzania nel 1989, poi lo ritrovai a Torino nel ‘91». Nei primi anni ’90 padre Franco è responsabile dell’animazione missionaria in Casa Madre. La grande esperienza di Africa, come missionario, aiuta il gruppo nei primi fondamentali orientamenti. «Ci confrontammo sul fatto che lavorare con i missionari va bene, ma quando il missionario parte, la missione tende a decadere. Fondamentale è dunque far crescere la gente, che è anche la cosa più difficile che ci sia».

Puntare sempre allo sviluppo della persona, attraverso la formazione, e poi il lavoro, quindi la conoscenza di un mestiere: «Orientare ogni attività verso la crescita in dignità della persona, nella convinzione che ciascuno può realizzarsi pienamente».

È padre Franco a presentare al gruppo l’allora vescovo di Njombe, monsignor Raymond Mwanyka, incontro fondamentale.

I progetti diventano delle vere e proprie collaborazioni sul lungo periodo, relazione, amicizia, scambio. Numerose sono le attività con la diocesi di Njombe, Sud Ovest del paese, a partire dal 1992. Una collaborazione che continua ancora oggi. Diventano decine i viaggi di Pino e degli altri soci per portare avanti lo scambio, creare fratellanza, ma anche realizzare progetti concreti: ospedali, impianti fotovoltaici, acquedotti, dighe e impianti idraulici, centri di formazione, falegnamerie, ma anche formazione di giovani promettenti ai mestieri, ecc.

Un altro degli approcci del Gomni è infatti quello di formare, per creare lavoro, micro impresa si dice oggi nel gergo della cooperazione, in modo da permettere alle persone di avere un reddito e poter vivere con dignità nella propria terra. Una visione all’avanguardia, se si pensa che il sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo arriverà a questi concetti solo diversi anni dopo.

Un riferimento solido

Pino è fiero di aver portato sua figlia, la prima volta all’età di 7 anni, in Tanzania, e poi di averla riportata tante volte, così che lei «è cresciuta un po’ in Africa, e riesce a trasmettere certi valori ai suoi figli, ora che è diventata mamma».

Oggi il gruppo Gomni ha circa 80 aderenti di cui 7 o 8 pienamente operativi. Tutti volontari che si pagano ogni viaggio e ogni attività. Oltre alla base di Torino hanno delle «antenne» a Milano, Roma, Treviso.

Il gruppo è cresciuto intorno all’Istituto Missioni Consolata. A Torino le guide spirituali del gruppo sono state missionarie e missionari della Consolata e l’Istituto è sempre stato un riferimento centrale. Da suor Mina a suor Leottavia, da padre Franco a padre Francesco Bernardi e padre Giacomo Mazzotti. In filo rosso che ha guidato il Gomni nelle sue tre decadi di esistenza.

Anche se non vuole diventare Ong, il Gruppo Irene (come viene definito famigliarmente) collabora con enti, onlus e Ong. Talvolta riceve finanziamenti, altre volte, al contrario, si impegna a cercare materiali e fondi necessari per un progetto, finanziando attività di un altro ente. Ma sempre «senza far rumore». In questo modo, con aiuti puntuali, Gomni è intervenuto anche in Kenya, Romania, Brasile ed Haiti.

Un centro per suor Irene

Nel 2016 nasce un progetto integrato con la parrocchia di Mkiu, 80 km a Sud Ovest di Njombe. Il progetto prevede una prima fase, quella attuale, nei settori agricoltura e artigianato. Si tratta di creare le condizioni affinché i giovani possano formarsi in diversi ambiti: agricoltura, allevamento, falegnameria, carpenteria, taglio e cucito, informatica. Ovvero realizzare infrastrutture, iniziare attività che generino reddito e fare formazione.

Pino ci ricorda che: «Noi pensiamo che le persone debbano saper lavorare, ma anche saper gestire il lavoro, in modo che dia loro reddito. E poi saper gestire questo reddito». Concetti molto concreti, ma non facili da realizzare. In ogni caso molto pertinenti per la situazione che vivono i giovani nella diocesi di Njombe.

E così in questo villaggio di 4.000 persone più altrettante nei villaggi del circondario facenti parte della parrocchia, nello splendido scenario dei monti Livingston, immerso in una natura mozzafiato, il Gruppo Irene ha iniziato una serie di attività: un allevamento di vacche, maiali, polli, bacini di piscicoltura, apicoltura, riforestazione, laboratorio di falegnameria e costruzioni metalliche.

Il progetto a Mkiu è centrato attualmente sulla figura di padre Innocente Ngaillo, detto padre Inox, diocesano. Padre Inox ha passato alcuni mesi in Italia nel 2016 per motivi di salute, ed è nata questa idea con il Gomni, subito chiamata: «Centro agricolo – artigianale Irene Stefani».

«Abbiamo parlato con il vescovo, mons. Alfred Leonhard Maluma e ci ha garantito che padre Inox potrà restare a Mkiu per il tempo necessario a formare alcune persone locali alla gestione di quest’opera. Non ha senso realizzare grandi opere se poi non c’è nessuno che possa gestirle. Il nostro obiettivo è proprio far crescere le persone».

Ma come si finanzia un gruppo che fa carità? «Di carità, ovvero di donazioni di amici, persone, aziende, associazioni che vengono a conoscere i nostri progetti con il passaparola. È sempre stato così. Abbiamo dei tempi lunghi ma portiamo a compimento i nostri programmi. E non abbiamo vincoli ne obblighi, se non con il nostro statuto, i nostri principi e la nostra coscienza».

Nell’arco di questi 32 anni molte sono state le persone che hanno condiviso un percorso, anche lungo, con il Gomni. Poi magari hanno lasciato, o sono andati a creare altre realtà.

Dietro al front man Pino Lupo c’è sempre stata sua moglie Maria, «organizzava dietro le quinte, ma è pure stata spirito e motore propulsivo del gruppo». Maria è tornata alla casa del Padre nel 2006, ma Pino ha continuato a sentirla al suo fianco e a lottare insieme a lei per questo sogno: una condivisione e uno scambio, che deve essere alla pari, con l’Africa e gli africani. «Quelle lettere mensili di suor Idelma, che ci portavano i suoi problemi di missione in casa, sono diventate la nostra vita».

Marco Bello

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Tanzania: Maria e Consolata sono tornate a Casa

Carissimi, Carissime,

Due anni fa in occasione della festa della Consolata inviai un articoletto dal titolo ‘Maria…Consolata.’ Scrivevo: ‘Non pensate che intenda parlare della Madonna. Mi riferisco a due sorelle siamesi nate al Consolata Mission Hospital di Ikonda il 19 novembre 1997. Non solo erano unite, ma intrecciate in modo anomalo mai visto. Tutti pensavano che sarebbero morte subito, per cui Sr. Magda le battezzo’ con i nomi di Maria e Consolata.’

Ebbene, ieri sera 2 giugno le due sorelle sono ritornate a Casa. Prima Maria e un’ora dopo Consolata, che non aveva notato la dipartita della sorella. Attorno a loro si era creata una catena di solidarieta’ per assisterle. Si prepararano spiritualmente e chiesero perdono per il disturbo recato durante la loro vita. Erano studenti di Legge all’Universita’ Cattolica di Iringa. La loro morte era annunciata. Da dicembre avevano avuto varie complicazioni.

Due anni fa scrivevo: “Maria e Consolata! Un mistero di vita. Un mistero di vita assieme: sempre assieme, tutto assieme. Ch potra’ mai scandagliare questo mistero? E guardando avanti: come sara’ il loro ritorno al Padre? Il Signore sara’ compassione. Credo ci sara’ perfetta comunione in morte, come in vita. Non riesco a immaginare che una possa soppravvivere all’altra anche solo per poco. Il Signore le accogliera’ come ‘martiri.’ Non sangue versato, ma una vita per noi! Dal Signore stesso avranno ricevuto risposta alla loro frequente domanda: ma perche’ noi siamo cosi’? Immagino la risposta: ‘Perche’ poteste essere salvezza per molti.’ Misteriosa verita’!

Senza piu’ ripetermi piu’ vicini alla festa della Consolata, il 20 giurgno, gia’ assicuro il mio grato e affettuoso ricordo. La Consolata terga le nostre lacrime. Ci sia consolazione nelle difficolta’. Ci accarezzi dolcemente. Interceda per noi maternamente.

In Lei un forte-forte abbraccio.

p. Giuseppe Inverardi (IMC)
3 giugno 2018

MC ha pubblicato la loro storia nel gennaio di questo 2018.

Padre Godfrey Msumange, tanzaniano e consigliere generale dei Missionari della Consolata, ha scritto:
“Grazie Signore per il dono di questa vita delle ragazze siamesi Maria e Consolata in mezzo a noi. Avevano 21 anni. Vostra vita è stata una testimonianza forte di santità, (proprio come dice il papa nel esortazione apostolica Gaudete Exsultate), una scuola di coraggio, di pazienza, non lamentarsi, di preghiera, di vita, di comunione, di gioia, di mitezza, di servizio nonostante tutto. Avete lasciato una eredità preziosa umana e spirituale per l’intera umanità. Li, al Gran Capo, pregate anche per noi”.

Baba Godfrey

Foto del 13 settembre 2017, rilasciata dalla Ruaha Catholic University (RUCU). Mostra le due gemelle siamesi Maria (a sinistra) e Consolata Mwakikuti nell’ostello dell’università a Iringa il giorno del loro arrivo per frequentare la stessa università. / AFP PHOTO / THE RUAHA CATHOLIC UNIVERSITY / Mwazarau Mathola




Tanzania: Cambio di guardia a Manda, una missione di frontiera

Testo e foto di Jaima C. Patias |


Padre Antonio Zanette e padre Vedastus Kwajaba, due generazioni, due culture, due continenti diversi ma un’unica passione: la prima evangelizzazione. Nella savana del Tanzania la missione continua.

Padre Zanette

A gennaio le piogge cadono abbondantemente nella regione di Dodoma, nella Tanzania centrale. Partendo da Iringa, dopo aver percorso 130 chilometri lungo l’asfalto dove il controllo della velocità è rigoroso, la macchina con trazione integrale ne percorre altri 70 in terra battuta. La terra sabbiosa e bagnata aiuta a ridurre il tonfo delle gomme nelle buche. Dopo 7 ore di viaggio siamo nel villaggio di Manda, la più recente missione affidata ai missionari della Consolata nel paese. La regione conta circa 40.000 abitanti, tra cui 4.000 cristiani, cattolici e anglicani. La sede della parrocchia si trova a 30 chilometri da Llangali (o Hangali), al confine con il Parco Nazionale Ruaha.

Tutto inizia nel 2003, quando padre Antonio Iseo Zanette, parroco nella vicina missione di Sanza, comincia a fare visite periodiche ai residenti di Manda dove soggiorna presso una famiglia. Nel 2010, il missionario intensifica la sua presenza. Nel maggio dello stesso anno riceve una lettera di mons. Yuda Thadei Ruwaichi, allora vescovo di Dodoma, nella quale il prelato scrive che il 21 luglio creerà una nuova parrocchia. I missionari della Consolata, in realtà, non hanno ancora assunto ufficialmente la cura pastorale della regione. Comunque, seguendo il suo piano, il vescovo crea la parrocchia di Manda dedicata alla Consolata e padre Zanette, nel vigore dei suoi settant’anni, è nominato amministratore parrocchiale.

La nuova parrocchia

Padre Vedastus Kwajaba

Nel mese di agosto del 2010 il missionario inizia a risiedere a Manda. «Non c’era niente qui. Siamo partiti da capo», ricorda. «I cristiani avevano scelto un posto che secondo me non era l’ideale per costruire la missione. Così ci siamo guardati intorno, ed eccoci qui. Noi siamo per la missione ad gentes e questo è un luogo di prima evangelizzazione». In otto anni, molte persone sono diventate cattoliche. Con l’aiuto di benefattori sono stati costruiti il centro catechistico, la falegnameria con magazzino, la casa dei padri e la casa delle suore, la chiesa parrocchiale consacrata nel 2015, la scuola materna e il centro di salute. Tutto vicino al villaggio. Nelle comunità sono state costruite anche cappelle e asili per i bambini. Qui l’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme come voleva il beato Allamano.

Un altro importante lavoro sociale sono gli otto pozzi artesiani che forniscono acqua alla popolazione.

Dal 2011, sono arrivate anche le missionarie della Consolata. Le suore Luisella Berzoni, Catherine Thaara Njiru, Teodora Mbilinyi e Ernestina Ternavasio si occupano di scuola materna, catechesi nella scuola, visite alle famiglie, formazione dei catechisti, del gruppo dell’Infanzia missionaria, dell’accompagnamento dei giovani e delle donne cattoliche e della supervisione del centro di salute. Suor Luisella conferma che «Manda è una missione di prima evangelizzazione. Il seme della Parola di Dio è già nelle persone e ora è necessario sviluppare e formare una Chiesa adulta con basi cristiane. La gente sta vedendo che la Chiesa cattolica richiede molto e va in profondità per poter evangelizzare. Per noi, la missione richiede grande pazienza».

La comunitàdi Manda ringrazia.

Le sfide della missione

Padre Zanette spiega che nella stagione delle piogge da dicembre ad aprile è impossibile visitare le 21 comunità comprese nel territorio della missione. «Le strade scompaiono. Dobbiamo aspettare la stagione secca. In alcuni luoghi i cristiani riparano la strada e poi facciamo le visite pastorali». Poi, fino al mese di luglio, la popolazione lavora tutto il giorno nei campi che sono lontani dal villaggio. Con questo, il tempo utile per l’evangelizzazione nell’anno è di sei mesi. Solo nella stagione secca è possibile visitare ogni comunità almeno una volta al mese.

A Manda lavora anche padre Piero Cravero e padre Vedasto Kwajaba è appena arrivato come nuovo parroco. Tra sfide e speranze, la missione continua.

Padre Cravero spera di «intensificare l’evangelizzazione con un programma di visite domenicali nei quattro villaggi più importanti». Secondo lui le celebrazioni, la catechesi, l’accompagnamento dei catecumeni e la formazione sistematica per i catechisti, sono le azioni indispensabili.

La messa domenicale del 21 gennaio segna l’addio di padre Zanette, trasferito a Morogoro. La celebrazione fatta con grande gioia e devozione riunisce un gran numero di cristiani del villaggio e delle 21 comunità. Tutti vogliono salutare il missionario pioniere. Sono presenti anche le missionarie della Consolata, il superiore regionale della Tanzania, padre Cyprian Brown, e io stesso in veste consigliere generale.

«Oggi mi è stata data la responsabilità di continuare il servizio di padre Zanette», dice padre Kwajaba. «È una grande responsabilità lavorare in questa missione che ha molti bisogni dal punto di vista dell’evangelizzazione e della promozione umana. Con la grazia di Dio, il mio sogno è coinvolgere tutte le forze pastorali in questo compito».

Il catechista Damian Mwinje è venuto da Chifufuka, un villaggio di 14.000 persone. A Chifufuka i cattolici sono circa 400. L’anno scorso sono stati battezzati 17 tra bambini e adulti. Attualmente ci sono 38 catecumeni. «Padre Zanette è stato un grande leader. Era un vero pastore per noi. Anche con le difficoltà delle strade lui ha sempre visitato le comunità. Ci ha insegnato a organizzarci e preparare la gente per i sacramenti», dice il catechista. A Chifufuka padre Zanette «ha costruito la chiesa, la scuola e creato quattro piccole comunità».

Attraverso il cortile della missione passano molte persone, in particolare le donne cariche di fardelli di legna da ardere e prodotti del campo. In gran numero, bambini e giovani garantiscono la continuità di un popolo pieno di vita. Senza elettricità, la notte arriva portando oscurità e silenzio. Il nuovo giorno inizierà presto con il canto degli uccelli che invitano alla preghiera e al lavoro.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale dei missionari della Consolata

Durante la celebrazione del passaggio di consegne.

Missionarie e missionari della Consolata a Manda.

L’ospedale di Manda in cui servono le missionarie della Consolata.

Il centro catechistico di Manda.




Tanzania: Maria e Consolata due sorelle in una


Testo di Marianna Micheluzzi MC A – Foto di Angelo Dutto |


L’università di Iringa, in Tanzania, da quest’anno 2017 ha due nuove studentesse eccezionali, Maria e Consolata. Due sorelle unite non solo dal sangue, ma dal fatto di condividere parte dello stesso corpo. Orfane dalla nascita e dotate di una brillante intelligenza, le due sorelle stanno sfidando il futuro e i pregiudizi con tanta voglia di vivere e il sorriso sulle labbra.

Una sera di vent’anni fa, in un villaggio rurale nei pressi di Ikonda, in Tanzania, una giovane donna in attesa della nascita del suo primo figlio, fu presa all’improvviso dalle doglie del parto. Il sospirato evento, in cui col marito aveva riposto tante aspettative, era ormai prossimo.

In Africa il parto è ancora l’avvenimento più naturale del mondo, se non ci sono complicazioni. Così però non fu per quella giovane mamma e le donne del vicinato se ne resero subito conto. L’istinto e, soprattutto, la consumata esperienza le aveva messe in allarme. Non era un travaglio normale, si presentava sin dall’inizio molto difficile tanto che le alte grida della partoriente arrivavano lontano, si può dire, fino in foresta.

Così le vicine si diedero subito da fare e cercarono un mezzo di fortuna, una specie di furgoncino di un commerciante che abitava nelle vicinanze. Tra sobbalzi ripetuti su una strada impossibile e con condizioni atmosferiche non ideali, l’uomo del camioncino e il marito della partoriente arrivarono all’ospedale di Ikonda con la puerpera che, per il troppo dolore patito, era ammutolita e con lo sguardo inespressivo.

L’ospedale di Ikonda, nato ad opera dei Missionari della Consolata e dalla collaborazione fattiva di tanti benefattori, era il più vicino e l’unico della zona attrezzato per situazioni complesse come, appunto, lo era questo parto. E di parti a Ikonda se ne affrontavano e se ne affrontano tanti. E quasi tutti, ieri come oggi, vanno a buon fine.

Non mancarono ovviamente le dovute attenzioni anche al nuovo ingresso nel reparto di ostetricia da parte del medico incaricato di assistere la donna e degli altri sanitari. Tutti, accoglienti e comprensivi, si diedero un grande da fare senza risparmio di forze e di mezzi. Era urgente un parto cesareo, pena la perdita di madre e figlio. Ma, incredibile e fuori da ogni immaginazione, dall’utero della donna uscirono nientemeno che due gemelle siamesi, unite in un corpo solo dallo stomaco in giù. Inseparabili.

Si fece tutto il possibile per tenere in vita le due piccole e la mamma. Ma quest’ultima, qualche giorno dopo, non ce la fece e lasciò orfane le sue creature che neanche aveva avuto modo di vedere. La prostrazione dopo il parto non le consentiva, su consiglio dei sanitari, di sopportare un’emozione troppo forte e, manco a dirlo, una vista straziante. Che poi straziante, diciamocelo in sincerità, lo sarebbe stato per chiunque, fosse stato pure in perfetta forma fisica, se non dovutamente preparato.

Così le due bimbe, senza mamma e con il papà senza i mezzi necessari per occuparsi di loro, una volta superate le primissime difficoltà, furono battezzate subito con i nomi di Maria e Consolata e vennero affidate a suor Magda, una generosa missionaria della Consolata. E suor Magda non solo le allevò amorevolmente rispondendo a tutti i loro bisogni come alimentazione e igiene (gestione nient’affatto semplice), ma provvide anche ai primi rudimenti della loro formazione come solo avrebbe potuto fare la loro mamma. Quando tuttavia gli impegni del servizio missionario per suor Magda aumentarono, com’era inevitabile che fosse, e le bambine cominciarono a essere grandicelle, si pensò di trovare una famiglia a cui affidarle. E non fu difficile, grazie a quella solidarietà molto diffusa in Africa per cui i bambini che non hanno genitori spesso trovano abbastanza facilmente una famiglia che si prende cura di loro. Una donna, una madre di famiglia, residente nei pressi dell’ospedale si offrì e Maria e Consolata furono affidate a lei.

Non poteva essere diversamente perché anche il papà delle due bambine, dopo un certo girovagare nelle città vicine (lui diceva di andare alla ricerca del lavoro), provato nel fisico per gli stenti e per il troppo bere, dopo qualche anno dalla perdita della moglie morì.

Per Maria e Consolata, coccolate e conosciute da tutti, missionari e missionarie e amici vari di servizio o passaggio nella missione, a Ikonda ci furono gli anni della scuola materna e delle elementari vissuti con buon profitto. Ormai pronte per la scuola secondaria si pensò che le due, date le buone premesse quanto a impegno, avrebbero potuto continuare gli studi a Ilamba, in un collegio retto anch’esso dalle missionarie della Consolata. E quindi ecco il primo trasferimento per le sorelle Mwikikuti, che non ci stavano nella pelle all’idea di poter proseguire negli studi.

Tanto Maria che Consolata sono sempre state molto vivaci intellettualmente e tenaci nel prefiggersi obiettivi e poi raggiungerli, collaborando in piena armonia e guardando al futuro sempre con grande ottimismo, nonostante gli inevitabili limiti della loro fisicità.

Il Signore prende ma dà pure. Quello che Maria e Consolata non hanno rispetto alle loro coetanee, lo hanno ricevuto in dono, senza merito alcuno, in intelligenza e cuore. Sono sempre sorridenti e ottimiste. È raro vederle tristi. E la Provvidenza ha fatto il resto per loro. Quella Provvidenza che si chiama benefattori. Ossia uomini e donne che testimoniano Cristo e nella preghiera e nel concreto perché aperti alla fratellanza universale e capaci di gettare ponti.

La bella notizia è che Maria e Consolata Mwikikuti, finita con successo la secondaria, quest’anno stanno frequentando a Iringa l’università nella facoltà di Scienze della Formazione e intendono conseguire, a completamento del ciclo di studi, la laurea. Proprio come altri loro coetanei. Era il loro sogno, anche se non osavano immaginare che sarebbe potuto un giorno divenire, a tutti gli effetti, realtà.

Se oggi si domanda loro come stanno vivendo questa esperienza universitaria, prima si scherniscono un po’, cioè si nascondono timidamente dietro un sorriso che muove a tenerezza, consapevoli che si tratta di un’impresa che richiede tantissimo impegno, ma, tenaci quali sono, fanno poi capire con chiarezza che non hanno nessuna intenzione di mollare.

Auguri, allora, a Maria e a Consolata. Saremo felici d’essere assieme a voi, al traguardo, per fare festa. Una festa più che meritata.

Marianna Micheluzzi

Il Consolata Hospital Ikonda

Si trova nel distretto di Makete, trenta chilometri prima di Makete sulla strada da Njombe. Si tratta di uno dei tre ospedali del distretto. Gli altri sono l’Ospedale luterano di Bulongwa (distante cinquanta chilometri) e il Makete District Hospital (trenta chilometri).

È posizionato sugli altopiani meridionali della Tanzania, a 2.050 metri sul livello del mare, con inverni molto freddi ed estati afose. È un istituto cattolico privato, che appartiene fin dalla sua origine (1963) ai missionari della Consolata, ai quali il 25 febbraio 1961 il capo Kiluswa, il capo dei capi di quell’area dell’Ukinga, chiese loro di aprire un ospedale nella zona.

E il 7 ottobre 1968, ampliato di necessità, l’ospedale fu inaugurato dall’allora presidente del Tanzania, Julius Nyerere. L’obiettivo prioritario era quello di ridurre la mortalità infantile e di supportare le mamme in gravidanza, che spesso morivano di parto. La missione del Consolata Hospital Ikonda oggi resta quella di fornire assistenza sanitaria generale alla popolazione della zona, anche attraverso una clinica mobile, e di promuovere l’accesso alle cure sanitarie per coloro che sono bisognosi, con una particolare attenzione per i bambini, le donne e le persone affette da malattie croniche. È registrato dal 1997 presso il Ministero della Sanità tanzaniano e fa parte della Cristian Social Services Commission (Cssc). Ma da piccolo ospedale con sessanta posti letto nel 1968, il Consolata Hospital è diventato una grande struttura con 322 posti letto e 274 membri del personale. Nel 2016 ha effettuato oltre 85 mila visite ambulatoriali. I parti effettuati sono stati 1.600, 14 mila le ospedalizzazioni, circa 6.500 gli interventi chirurgici. Gli esami di laboratorio sono stati oltre 220 mila, le visite effettuate dalla clinica Hiv/Aids poco meno di 24 mila.

M.M.

Morning Star School – Ilamba

A un’ora di macchina da Iringa, passando per Ipogoro e risalendo l’altopiano, il viaggiatore si trova immerso in un verde che più verde non si può. Paesaggi mozzafiato si susseguono allo sguardo.

L’aria è gradevole. E non ricorda affatto l’afa insopportabile e il sole impietoso cui si è avvezzi in terra d’Africa. In mezzo a queste colline, a Ilamba, c’è una scuola secondaria, la Morning Star, gestita dalle suore missionarie della Consolata.

Con l’aiuto di generosi benefattori e di alcune associazioni umanitarie italiane e non solo, qui è stato possibile realizzare, a piccoli passi, ma con tenacia, una scuola professionale per i ragazzi e le ragazze del posto, quelli con poche possibilità economiche.

Nella scuola secondaria di Ilamba ci sono vari rami di specializzazione. Per i maschi c’è falegnameria, agricoltura e allevamento; per le ragazze, invece, corsi di maglieria e poi di taglio e cucito. Professionalità utili e di certo spendibili al termine dei corsi.

Ma, oltre alla scuola secondaria professionale, ultimamente è nato un corso di liceo ben frequentato. E, nelle vicinanze, c’è pure un asilo per più piccini.

Il liceo, quello stesso che hanno frequentato negli anni Maria e Consolata Mwikikuti, è il fiore all’occhiello. Aver impiantato il liceo, tra le altre cose, ha avuto, in particolare per la zona, un significato ben preciso. Molti ragazzi e ragazze di Ilamba, pur impegnandosi, non riuscivano a conseguire il titolo di studio frequentando le normali scuole statali cittadine. Tanti, troppi intoppi e di natura differente.

In questo modo si veniva a creare quella che da noi per definizione è la piaga della dispersione scolastica e, soprattutto, a seguire tanta emarginazione.

Cose non buone in un contesto difficile quanto a opportunità d’inserimento nel mondo del lavoro.

Nel liceo della Morning Star c’è disciplina certamente, come deve esserci, e c’è serietà professionale da parte dei docenti ma c’è anche tanta disponibilità ad accogliere e affiancare nel percorso scolastico coloro che, sulle prime, possono incontrare delle difficoltà nell’apprendimento.

Di casi del genere con esito positivo le missionarie possono raccontarcene tanti. Ragazzi e ragazze all’inizio in difficoltà, ben guidati hanno imboccato in seguito il percorso giusto e, dopo il liceo, hanno frequentato persino l’università a Iringa e si sono laureati. Proprio come oggi è nelle aspettative delle sorelle Maria e Consolata Mwikikuti.

Un’ultima nota: il liceo è gestito interamente da personale tanzaniano, dal preside fino all’ultimo insegnante e al personale non docente.

Tuttavia le suore della Morning Star, donne che non mollano, sono comunque attente vigilatrici di tutto l’andamento, affinché ogni cosa vada per il verso giusto. E i «frutti», almeno finora, sono buoni.

M.M.

 




Tanzania: Kabula e i suoi nipoti


Nonna Kabula quando morì contava 113 anni. Forse anche di più, o forse meno, nessuno conosceva la data precisa della sua nascita. Era una nonna speciale, tanto da stupire gli stessi figli, nipoti e pronipoti fino alla sua morte nel 1995. Per non parlare del suo funerale. Infatti, dentro il lenzuolo che avvolgeva il suo corpo, volle che mettessero pure un sacchetto di «farmaci tradizionali africani», un tasbihi islamico, nonché un rosario cattolico.

Kabula nacque nell’isola di Ukerewe, nel cuore del maestoso Lago Vittoria, Tanzania. Apparteneva alla tribù dei Wasukuma.

Da ragazza, era pagana o seguace della «religione tradizionale». Sposandosi con un arabo di Mombasa (Kenya), si convertì all’islam. I due vissero sereni e generarono quattro figli. Improvvisamente lui morì e lei si trovò vedova, ancora giovane e bella.

Un giorno, a Mombasa, Kabula incontrò un modesto commerciante del Tanzania, della tribù dei Wahehe. I due convolarono presto a nozze a Tosamaganga (Iringa), mentre i quattro figli di Kabula rimasero a Mombasa con i parenti del padre defunto. Poi, siccome il nuovo marito era cattolico, la musulmana Kabula non esitò a farsi battezzare.

La donna era entusiasta della nuova fede: andare a messa la domenica vestita a festa, nella magnifica chiesa di Tosamaganga, ascoltare la parola di Dio, pregare cantando e ballando con uomini e donne, giovani e bambini… Ma che bello! E fu pure bello mettere al mondo altri due figli, ovviamente cattolici.

Però un giorno Kabula scoprì che il marito giocava a carte, buttando via tanti scellini, e beveva, beveva, quasi da impazzire.

La moglie non ce la fece a vivere con un uomo scialacquone, beone e folle. Affidò i due figli alla famiglia del marito e ritornò nell’Isola di Ukerewe a respirare la dolce brezza del Lago Vittoria.

Qui fece una scoperta. Kabula avvertì che Dio onnipotente l’aveva arricchita di un dono straordinario. Sì, quella donna era una «guaritrice», che conosceva i segreti arcani di tante erbe e piante terapeutiche. Donne sterili, uomini sessualmente impotenti, «indemoniati» che avevano perso il bene dell’intelletto, persino i lebbrosi… accorrevano da quella dottoressa, guarivano, e riprendevano a sorridere mormorando «asante sana» (grazie).

A 33 anni, Kabula si sposò per la terza volta. Gli abitanti di Ukerewe affermano che non si videro mai nozze come quelle di Kabula, vestita di bianco con l’abito del battesimo di Tosamaganga e il capo incoronato da un velo sontuoso. Il tutto in barba alla cultura dei Wasukuma, che vietano tanta pompa magna ad una donna al terzo matrimonio. Ma Kabula era speciale.

Due nipoti pure speciali

Con il trascorrere delle stagioni, Kabula diventò nonna e bisnonna di uno stuolo di nipoti e pronipoti che accorrevano a lei per un consiglio. Alcuni erano musulmani, altri cristiani e altri pagani.

Pietro è uno dei nipoti cattolici, nato a Tosamaganga. Da ragazzo aveva studiato in seminario per diventare prete. Un giorno domandò a Kabula:

– Nonna, qual è la tua religione?

– La religione di un solo vero Dio, creatore di tutti.

– Nonna, noi crediamo che solo il Cristianesimo sia la religione giusta.

– Lo so, Pietro, perché anch’io sono cristiana, ma sono pure musulmana.

E aggiunse: «C’è un problema spinoso, dovuto al fatto che sia i cristiani sia i musulmani ritengono che solo la loro religione sia vera. Nipote mio, ricorda: i fedeli di ogni religione sono tutti, allo stesso modo, figli amati dello stesso Dio creatore».

Pietro, divenuto sacerdote, poco dopo abbandonò la Chiesa Cattolica. Ne fondò un’altra con il nome di «Chiesa del Cristianesimo vivo» che si opponeva alla Chiesa di Roma, cui rinfacciava di essere schiava del Diritto Canonico e di altri precetti occidentali, mentre dimenticava quelli ben più significativi del Vangelo.

Un altro nipote di Kabula si chiama Amani, musulmano, ma sposato con una donna cattolica. Vivono in piena armonia a Mwanza, ognuno secondo i dettami della propria fede.

Quando Amani informò la famiglia che intendeva sposare una cattolica, sua madre lo apostrofò con furore: «Guai a te! Saresti la nostra vergogna! Avresti il coraggio di unirti ad una selvaggia infedele?».

Il nipote di Kabula non solo sposò «una selvaggia infedele», bensì commise pure un altro reato: tradusse il Corano in swahili, voltando le spalle all’arabo glorioso del profeta Muhammad. Eresse anche una moschea per «i musulmani tolleranti».

Un venerdì Amani predicò: «Il vero musulmano, timorato di Dio, non è colui che prega rivolto verso la Mecca, bensì colui che dona i suoi averi ai bisognosi, agli orfani, ai rifugiati…».

I nemici di Amani aumentarono. Fra questi, persino il fratello minore.

Una notte, senza luna e senza stelle, in casa di Amani esplose un ordigno che incenerì tutto, lui compreso, con moglie e i figli. Subito da un altoparlante si udì: «Allah akbar! Questa è la vendetta sacra dei combattenti di Allah contro i nemici dell’islam vero del profeta Muhammad!».

La bomba era stata posta dal fratello minore di Amani.

C’è una religione giusta?

La storia di «Kabula e i suoi nipoti» è tratta dal romanzo «I timorati di Dio di nonna Kilihona» di Gabriel Ruhumbika1. Nel suo testo Ruhumbika affronta argomenti impegnativi, quali: l’indagine sulla cultura tradizionale africana, il confronto fra le religioni, la riforma della religione e il suo valore intrinseco. Temi cruciali. Per questo l’autore merita apprezzamento.

Nel romanzo un genitore dichiara al proprio figlio: «Vedi, ragazzo mio, senza religione, io non saprei lavorare. E, da quando è morta tua madre, non saprei neppure vivere, oppure diventerei matto».

Il libro termina così: «La religione nasce nel cuore della persona e si manifesta nelle sue opere buone. In chiesa o in moschea non c’è fede, e neppure nei sacrifici agli spiriti della cultura africana. I timorati di Dio di ogni religione sono tutti figli diletti di Dio creatore. Alcuni generano divisioni nella società, allorché dichiarano che solo la loro religione è giusta».

Forse per questo Kabula fu, a pari merito, musulmana, cristiana e seguace della religione tradizionale africana.

E cristiano e pagano

«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni da coercizione da parte di singoli individui, gruppi e qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito ad agire in conformità ad essa». È una dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II2.

Nel riconoscere il diritto alla libertà religiosa, hai pure la facoltà di essere, nello stesso tempo, pagano, musulmano e cristiano? Sì, ce l’hai.

Tuttavia, in Africa, la scelta di «varie fedi religiose» è motivata da altri criteri, senza scomodare il diritto alla libertà religiosa.

Il terrore degli spiriti maligni, la paura dell’altro, l’incertezza sulla salute, l’ansia nel trovare lavoro… fanno sì che l’africano «affianchi» alla fede cristiana o islamica quella della tradizione degli antichi.

Si tratta di una «duplice appartenenza religiosa». Un fenomeno che i vescovi del continente africano, nel loro II Sinodo del 2009, giudicano come un problema, una sfida3.

La «duplice appartenenza religiosa» è giudicata una mancanza di fiducia nel proprio credo.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, commenta: «Dobbiamo maturare nella nostra fede, perché molti cristiani, specialmente durante la malattia, mettono da parte il Dio di Gesù Cristo per affidarsi al guaritore tradizionale e, persino, allo stregone»4.

In altre parole, al mattino si va in chiesa e nel pomeriggio si bussa alla porta dello stregone.

«Solo cristiano» si può

È possibile scegliere e praticare «una sola religione»? È possibile, anche in Africa. Uno splendido esempio ci proviene dall’Uganda con San Mattia Malumba, uno dei 22 martiri locali.

Mattia, prima di scegliere di essere cattolico, rifletté a lungo sull’islam. Si confrontò pure con la Chiesa protestante pentecostale. Infine, a 50 anni, dopo aver meditato sul comportamento dei missionari cattolici, decise di abbracciare per sempre la loro religione. Morì martire nel 1886 tra atroci sofferenze.

Il suo sangue, come quello dei suoi 21 eroici compagni, fu un seme che generò altri cristiani.

Francesco Bernardi*

* Già direttore di MC; in Tanzania è direttore della rivista «Enendeni» (Andate).

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Note:

1) Titolo originale del romanzo di Gabriel Ruhumbika, Wacha Mungu wa Bibi Kilihona, E & D Vision Publishing, Dar Es Salaam 2014. Scritto in swahili, non esiste traduzione in altre lingue.
2) Dignitatis Humanae, 1045.
3) Cfr. Africarne Munus, 93 (Esortazione apostolica di Benedetto XVI, Roma 2009).
4) Enendeni, Januari/Februari 2012. Enendeni è la rivista dei Missionari della Consolata, Tanzania.




Tanzania streghe e stregoni


La stregoneria continua a esistere e a fare danni. Sia quando viene praticata, sia quando viene combattuta. Per questo i missionari si muovono con cautela. Facendo anche attenzione a non sbagliare bersaglio, come in passato a volte accadeva. Ad esempio, i «medici tradizionali» non sono stregoni. Anzi, essi hanno un ruolo e una funzione positivi.

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Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma in Tanzania.

Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: «Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?». Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello «studio dello stregone» proprio mentre stava trattando una paziente. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti.

Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusae. Ma lei resistette. Non solo, con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio della derisione generale. Ebbro di rabbia e di vergogna, si disse: «Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio». Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. «Passeggiava» pure con altre donne. Troppo.

Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: «Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale». E gli puntò al collo un coltello affilato.

Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro.

In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non solo aveva resistito alle sue voglie, ma lo aveva svergognato come nessun altro. «Scovate quella strega – ordinò ai suoi manutengoli – e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre». Così fu.

Medicine e sacrifici

Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel suo libro del 2001 «La piaga endemica degli indigeni»1. Qual era a quel tempo la «piaga endemica» del Tanzania? La stregoneria, appunto, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dell’aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come era toccato allo spregiudicato personaggio ex padre Joni.

Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, che promettevano di accrescere la loro fortuna.

D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, «la medicina» che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in «arti umani», tra cui dita e organi sessuali di persone albine.

Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il «sacrificio cruento» di un loro figlio.

Il sospetto uccide

Questo e altro viene illustrato dal libro di Gabriel Ruhumbika. Ma oggi, dopo quindici anni, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania?

Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a fae le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap, albini ecc.

La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 erano salite a 630.

Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato e fatto a pezzi da ignoti2.

Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un «nemico» la causa del male; allora il «nemico» può essere eliminato con qualsiasi mezzo.

Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi (Il cittadino) ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si siano seppellite persino persone ancora vive e vegete3.

Bussare a due porte

Circa la stregoneria, la Chiesa cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o «battere assicelle» (kupiga bao), erano atti che si compivano pure nella terra di Israele, «nazione eletta» di Dio. Ma erano severamente proibiti dall’Onnipotente.

Il libro dell’Esodo 22,18 recita: «Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria». Il Deuteronomio 18,10-12 precisa: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore».

Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2117 si legge: «Tutte le pratiche di magia e stregoneria… sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole…».

Né si scordi il Secondo Sinodo dei vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione. L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi, inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida4.

Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina va a messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco «l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte».

Stregoni, medici tradizionali e missionari

Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisioni all’interno della comunità, fomentando odi e vendette a non finire. Tuttavia, il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra «stregone» (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e «medico tradizionale» (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può effettivamente guarire da varie malattie.

Detto questo, i missionari della Consolata sanno come comportarsi. E recentemente si sono sentiti gratificare anche da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo ha infatti raccomandato: «Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre»5.

Anche il citato Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia «il grande inizio della povertà». A parere dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e «alla fine si conseguirà la vittoria»6. Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria.

Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia7.

Francesco Beardi
(missionario in Tanzania)

Note

1 – Autore e titolo originale del romanzo in lingua swahili: Gabriel Ruhumbika, Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001.
2 – Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192.
3 – Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013.
4 – Cfr. Africarne Munus, 93.
5 – Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014.
6 – G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193.
7 – Cfr. Giovanni 16,33 e Matteo 28,20.




Tanzania: Tribe «No Name»


I watoto wa mateso, figli del dolore, sono una «tribù» composta da più di 1600 persone, confinata da circa ottant’anni a 2400 metri, sulle montagne dell’Udzungwa. Isolati e cacciati dalla regione di Iringa perché affetti da una forma di epilessia rarissima, sconosciuta quanto loro. A causa dalla malattia venivano considerati posseduti dal demonio.

 

Mi sveglia l’odore della terra bagnata. Piove da giorni ma la notte ne viene giù così tanta che sembra voler sfondare i mabati (le lastre di lamiera che coprono la casa). Ascolto i ragazzi cantare mentre puliscono il cortile, io decisamente meno attiva di loro riesco a pensare solo a un caffè che mi tiri su la pressione. Accendo il computer e inizio la battaglia con la Vodacom nella speranza di aprire la casella di posta elettronica e di leggere un minimo di news.

Arriva Richard, il veterinario, con dei nuovi casi da conoscere. Sono riuscita a coinvolgerlo a tal punto che adesso si sente uno zelante missionario. Non è semplice raggiungere il villaggio, per via delle strade che sembrano aver inghiottito delle saponette tanto si scivola. Sotto la solita pioggia saluto uomini, donne e bambini con le zappe sulla testa che camminano verso i campi.

Incontro Niky, solo, sul ciglio della strada con lo sguardo perso nel suo mondo. Sono stati proprio quegli occhi spudoratamente inespressivi a colpirmi, a tal punto da decidere di studiare questa malattia con il fine di aiutarli. Non mi risponde, è disorientato e non ha preso la medicina. La madre è nella shamba (campo) e lui probabilmente è scappato. Mi chiede un lecca lecca. La prima volta che mi vide era spaventato e non voleva farsi toccare, però alla vista della strana caramella caddero tutte le barriere, e da allora, quando mi incontra mi prende la mano cercando la caramella. Lo accompagno a casa affidandolo alla vicina, e noi proseguiamo. Ci inoltriamo in sentieri nascosti dal mahindi (mais) già alto. La vegetazione sembra aver risucchiato il paesaggio. Il profumo della terra bagnata mi accompagnerà per questi mesi.

Al cospetto del capo

Seguo Richard con passo svelto su e giù per i sentieri, affollati da case nascoste dal verde. Il sole si sveglia all’improvviso. È forte, tipico segno che pioverà ancora. Come una lucertola mi lascio bruciare la pelle ingrigita dalla pioggia.

Arriviamo alla dimora del capo villaggio. Un impasto di fango e terra rossa ricopre la casa imbiancata da disegni e scritte di ringraziamento. Babu (nonno) Aldo Kahemela è seduto a far asciugare le ossa bagnate dall’umidità delle montagne. Ultra ottantenne, con sguardo curioso ci dà il benvenuto nel suo villaggio e ci presenta la grande famiglia. Figli, nipoti e pronipoti di tutte le età ci accerchiano con sorrisi e offerte di ogni tipo, dalla polenta al pombe, il tipico fermentato alcolico ricavato dalla canna da zucchero o dal mais. L’ospite, anche inatteso, qui è visto come una benedizione.

Janeth mi saluta porgendomi la sua unica mano ricoperta da calli, l’altra è ridotta a un moncherino bruciato che sembra un uncino. È babu Aldo a parlare per primo: «Lei è mia nipote, la figlia di mio fratello. Ha iniziato a cadere quando era una ragazzina. Abbiamo capito che era quella malattia perché la kifafa è la maledizione delle nostre montagne. E negli anni Janeth è peggiorata, tanto da cadere più volte al giorno». «Ho avuto un attacco così forte che sono caduta nel fuoco e quello che resta di questa mano ne è il risultato. Non mi hanno portata in ospedale perché era troppo lontano ma mi ha cucita il guaritore tradizionale del villaggio» continua Janeth. «Se prendo le medicine mi accorgo quando sto per avere una crisi. Una ventata di calore m’invade tutta, ogni parte del corpo inizia a tremare e la testa gira così forte che perdo i sensi. In quei momenti, se sono cosciente, cerco di sdraiarmi a terra per non cadere e non farmi male e se sono vicina al fuoco mi allontano». Janeth è visibilmente ustionata in più parti del corpo, ogni bruciatura racconta un giorno della sua vita senza medicina. In Tanzania ogni forma di epilessia viene curata con il phenobarbitone, un antidepressivo che consente agli epilettici di condurre una vita quasi normale, riducendo notevolmente gli attacchi senza però badare alle controindicazioni.

Il phenobarbitone è considerato una medicina salva-vita e il ministero della salute ne aveva previsto la distribuzione gratuita, ma i dispensari e l’ospedale non ne hanno mai, e raramente viene distribuito ai malati. Stranamente però lo si può comprare nelle duke (negozi).

Malattia di origini incerte

Parlo con la dottoressa responsabile dell’unico ospedale della provincia e anche lei sembra non conoscere le percentuali troppo alte dei malati.

«Io riconduco tutto al parassita del maiale, perché questo tipo di epilessia è diffusa solo qui. Sulla costa, dove non hanno i maiali per via del caldo intenso, non ci sono così tanti malati. E i casi riscontrati presentano una forma di epilessia causata da malaria, febbre e convulsioni. Qui non c’è famiglia che non allevi maiali. Quando giro per villaggi insisto che devono pulire la zona dove stanno gli animali, che devono cucinarne bene la carne. E invece i maiali li vedi gironzolare come fossero cani. Questo parassita non si trova solo nella carne non cotta ma anche nei luoghi dove transitano e defecano i quali sono, il più delle volte, gli stessi in cui va la gente.

Le ustioni, le malformazioni gravissime, che vedi sul corpo delle persone, sono dovute al fatto che per cultura e freddo qui c’è sempre il fuoco acceso e loro, in preda alle crisi, incoscienti ci cadono dentro. Le ustioni non sono curate se non con erbe e il risultato sono  infezioni gravi e quindi amputazioni».

Questa è anche la tesi di Richard, effettivamente comprovata in moltissimi casi.

Generalmente i primi attacchi di kifafa compaiono dopo i dieci anni, invece nei bambini sono di origine genetica, causa di una vecchia consanguineità o perché figli di donne che hanno abusato di alcol durante la gravidanza.

Su queste montagne la piaga del bere pombe per riempire lo stomaco, per combattere il freddo o per noia, è diffusissima. Solo una percentuale ridotta di persone ha sviluppato la malattia in seguito a un trauma cranico, a malaria o meningite.

Mungu mwema (Dio buono)

Questa popolazione della foresta vive la quotidianità in una lotta ancestrale per la vita. È una «lotta di preghiera». Sono uomini e donne, la cui cultura è scandita dall’appartenenza a ritmi tribali che regolano ogni azione. Una tribù che lotta e prega per avere un buon raccolto e contro malattie come la kifafa che portano via il cervello, non fanno più ragionare.

Vivendo con loro si respira il rispetto e la fiducia che ripongono nel «Dio buono», la certezza che Dio cammini insieme a loro. Raccontano di un Dio che è amore e non è mai violento.

È interessante ascoltare anche il loro concetto di amore decisamente diverso dal nostro. L’amore coincide con Dio ma è sinonimo di rispetto, bontà, sostegno reciproco, forza, coraggio, fiducia. Sono gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi a determinare, invece, le azioni positive e negative. Non è mai Dio a volere cose negative perché lui è il creatore. Certamente si deve un grande «grazie» ai missionari e alle missionarie che instancabilmente hanno girato queste montagne per far conoscere Dio. E la gente ha integrato la parola di Dio nelle proprie credenze.

Reportage «faticoso»

Potrei continuare a scrivere dei tanti sguardi e corpi spaventati, sorridenti, ubriachi, ustionati, deformi che ho incontrato, del mio senso d’impotenza davanti a una popolazione così malata, a volte rassegnata, però sempre serena nell’animo, ma non riesco a evitare di chiedermi come mai anche questa parte d’Africa lontana e scomoda sia frequentata solo dai missionari e dalle missionarie. In Tanzania le associazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole di volontariato e di assistenza sono ovunque con progetti ambiziosi. Ho letto di una società che sembra sia venuta per impiantare gratuitamente la fibra ottica in tutto il paese. La installeranno insieme ai canali per l’acqua che ancora non ci sono?

Già negli anni settanta molti medici sottoposero all’attenzione internazionale questa diffusione stranamente massiccia di epilettici, tanto da coinvolgere il governo tanzaniano in una politica sanitaria adeguata. Ma mai nessuna associazione di prevenzione e sostegno ha realmente studiato le cause e gli effetti di queste forme di epilessia e proposto un programma sanitario.

In Italia, secondo la Lega Italiana contro l’epilessia (Lice), ogni anno circa 500.000 persone vengono colpite, ma i malati avendo la possibilità di curarsi, conducono vite normali.

In Tanzania invece, la convinzione generalizzata delle grandi Ong è che l’epilessia sia una malattia causata da scarsa igiene o da antichi riti e usanze tribali. Non destando l’attenzione internazionale come invece accade per l’Aids, si ritiene che non sia utile investire in piani di prevenzione e cura.

Questo reportage, «Tribe no name», è faticoso fisicamente ed emotivamente. È una protesta nei riguardi di chi è complice della triste realtà che nel 2014 in Tanzania, ci siano ancora troppe persone che muoiono di epilessia, che non hanno diritto a una vita normale perché viene negata loro una pastiglia salva vita.

Romina Remigio
 

 Questo splendido reportage fotografico di Romina Remigio ha vinto il «Silver award», categoria Storia, al Fiof Awards Contest 2014 di Orvieto. Clicca sul simbolo a destra per vederlo sul nostro sito. Clicca qui per vederlo su sito della Fiaf.

Tags: epilessia, discriminazione, malattia, emarginazione, pregiudizi sociali, Tanzania

 

Romina Remigio