Bandito padre Stefano

Caro direttore,
sapendoti sensibile ai temi
russi ti comunico una notizia
allarmante. È possibile
farla arrivare anche ai lettori
di Missioni Consolata?
Padre Stefano Caprio,
un sacerdote legato alla
fondazione Russia Cristiana,
da 12 anni in Russia, si
è visto stracciare il visto e
rifiutare il permesso di
rientrare nel paese.
Viene da pensare che il
fatto sia da ricondurre al
recente conflitto tra il Patriarcato
ortodosso di Mosca
e la Santa Sede circa la
creazione di diocesi cattoliche
in territorio russo.
Possibile che la Chiesa ortodossa
ricorra a metodi
stalinisti pur di sbarazzarsi
di sacerdoti cattolici intraprendenti?
Padre Stefano,
infatti, ha ricostruito due
chiese (di cui è parroco), è
attivo presso la Caritas locale
e insegna in due università.

Il trattamento subìto
mostra in quale conto siano
tenute le libertà della
persona presso il governo
di Putin. Che fastidio vedere
i baci e gli abbracci
che gli riservano i governanti
dell’occidente!

I rapporti tra la Santa
Sede e il Patriarcato ordosso
di Mosca non sono
mai stati facili: oggi meno
che mai. E, di fronte ai diritti
umani, la Realpolitik
è talora spregiudicata.

Biancamaria Balestra




Mamma Letizia

Caro direttore,
avendo un figlio missionario
della Consolata, ricevo
la rivista da tanti anni. Nel
passato, a causa della famiglia
numerosa, non avevo
sempre il tempo di leggerla
con attenzione. Ora
che sono sola, alla bella
età di 83 anni, ho tanto
tempo e provo un vero
piacere nel leggere Missioni
Consolata dalla prima
all’ultima pagina. Sono
pure riuscita ad abbonare
delle mie conoscenti, sicura
che la apprezzeranno.
Trovo la rivista ricca di
valori cristiani, che mi
riempiono il cuore e mi
aiutano anche a dialogare
meglio con i figli e nipoti…
Il Signore vi ricompensi
per tutto quello che
fate e vi accompagni nel
vostro non facile lavoro.
Io vi assicuro la mia matea
preghiera.

Mamma di padre Luciano
(missionario e professore
universitario in
Kenya), Letizia è missionaria
pure lei. Come ogni
mamma di missionario.

Letizia F. Mattei




1 PECCATORE PENTITO E 99 GIUSTI

Grazie per la coraggiosa impostazione
di Missioni Consolata… La rubrica
«Cari missionari» è uno spazio veramente
aperto, al servizio delle idee (e
coscienze) di tutti, senza distinzioni di
opinione e forma.
Ho letto il numero di aprile, con le tre
lettere che criticano la mia rilettura della
parabola del «buon samaritano» alla
luce della guerra in Afghanistan; in
particolare, del sostegno (votato dai
partiti cristiani del parlamento italiano)
all’intervento militare in quel martoriato
paese. Ringrazio le persone che
hanno scritto: hanno esteato il loro
dissenso e sdegno, senza limitarsi a coltivarli
nel proprio animo (come spesso
succede), rendendo così il proprio giudizio
inappellabile ed elevando piccole
barriere di incomprensione e diffidenza,
che possono diventare muraglie invalicabili
(Kosovo, Palestina e «Brigate
Rosse» insegnano).
Quanto è difficile parlarsi! E, invece,
com’è facile essere fraintesi, anche nelle
migliori intenzioni! Ma, proprio per
questo, è vitale insistere su tale strada
senza scoraggiarsi, facendo dell’ascolto
e del dialogo una priorità assoluta,
anche (e soprattutto) quando gli interlocutori
sono scomodi.
Non era mia intenzione fare l’apologia
del comunismo. Anche Gesù, con la
sua parabola, non voleva fare l’apologia
dei samaritani, bensì mettere in crisi le
coscienze degli ebrei del suo tempo, invitandoli
a riflettere su un punto cruciale:
non la dottrina o l’abito o la carica
o l’appartenenza ad un gruppo, ma i
comportamenti (e solo questi) qualificano
come giusta di fronte a Dio un’azione;
e ogni azione è giusta o ingiusta
di per sé, non in funzione dei meriti o
demeriti del passato. «Non chi dice “Signore,
Signore” entrerà nel regno dei
cieli, ma colui che fa la volontà del Padre
mio» (Mt 7, 21).
Il giorno in cui si decideva se andare
o non andare in guerra ad uccidere (in
risposta ad altri che già avevano ucciso)
chi ha fatto la volontà del Padre?
Non mi risulta che nel vangelo esista
una parola a legittimazione di uccisioni
a scopo di difesa o a giustificazione
di guerre per costruire la pace. Mi
chiedo: siamo consapevoli di cosa significhi
la Croce, elevata a simbolo della
nostra fede? Non significa forse che
Qualcuno si è lasciato calunniare, umiliare,
torturare ed uccidere (senza invocare
«bombardamenti chirurgici» da
parte delle sue schiere celesti), per insegnarci
nella sua carne (non a parole)
la via per arrivare, noi tutti, alla vera
pace, cioè a Lui stesso?
Affermo questo con l’umiltà di chi si
sforza di compiere ciò che ci è stato richiesto
come cristiani, rendendo testimonianza
agli insegnamenti ricevuti. E
con la consapevolezza dell’enormità di
quanto ci viene domandato, di quanto
sia «contro natura», di quanto sia fuori
da questo mondo. Però non ci è chiesto
di capire, ma di avere fiducia e di
non vergognarci di chiedere aiuto a Colui
che ci indica tale via, anche quando
essa sembra fuori della nostra portata.
Sta scritto: «Non si può servire insieme
Dio e mammona» (Lc 13, 16). Oggi,
parafrasando, potremmo dire: non si
può servire, nello stesso tempo, Dio e
Machiavelli. Nel vangelo non esistono
fini che giustifichino i mezzi.
Too ai comunisti che votano contro
la guerra. Se oggi qualcuno (che si
riconosce in una ideologia che, per quasi
un secolo, ha predicato l’ateismo e la
legittimità di contrastare con la violenza
le violenze subite) si batte contro la
guerra, questo non dovrebbe essere motivo
di gioia? Oppure preferiamo cercare
conforto ai nostri tentennamenti,
coltivando il dubbio che sia ipocrita ed
agisca per sordidi secondi fini?
Non dovrebbe essere nostro dovere di
cristiani incoraggiarlo a proseguire sulla
buona strada, invece di disprezzarlo
per gli errori che, tra l’altro, non lui, ma
il suo gruppo può avere commesso? Se
un ateo crede nella solidarietà, nella
giustizia e nella pace, non sarà forse
che crede pure in Dio, anche se ancora
non lo dice?
«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore
convertito che per 99 giusti che
non hanno bisogno di penitenza» (Lc
15, 7)… Cerchiamo anche noi, almeno,
di desiderare questa gioia.

GIANCARLO TELLOLI




II pomodorro dei caporali

Leggo con molto interesse la rubrica «Il mondo
in un libro», a cura di Benedetto Bellesi, dedicata
alle pubblicazioni dell’Editrice missionaria italiana
(Emi). I libri sono uno strumento importante
per far compiere un salto di qualità a chi accetta
di impegnarsi per la costruzione di una società più
cristiana e più umana. Apprezzo, in particolare, i
libri che denunciano le ingiustizie e gli abusi nella
produzione e nel commercio di beni, alimentari
e no, provenienti dai paesi del Sud del mondo e
che invitano i consumatori a scelte responsabili
quando fanno la spesa nei supermercati.
Però mi domando: l’Emi ha la stessa attenzione
al Sud d’Italia? Siamo sicuri che ananas, banane,
cacao e caffè delle multinazionali debbano essere
boicottati più dei pomodori e dei loro derivati prodotti
nel nostro meridione?
Non siete convinti anche voi che il latifondismo
e il caporalato (che flagellano Campania, Puglia,
Basilicata) siano da condannarsi almeno quanto i
fazendeiros del Brasile e i loro squadroni della morte?
Non credete che il consumatore coerente con
la sua morale cristiana, prima di acquistare conserve
e passate di pomodoro, debba fare una riflessione
sulle vittime dei caporali nel brindisino
e nel napoletano, così come le fa sui lavoratori,
sulle donne e sui bambini vittime della Nestlé, Chiquita
o Del Monte in Nigeria, Guatemala e Kenya?
Dico la verità: dopo aver letto alcuni articoli e
visto diversi filmati, non sono affatto sicura che
certe pappe al pomodoro, così esaltate da alcuni
vegetariani ed ambientalisti, siano innocue come
una bistecca ricavata con i metodi rispettosi della
tradizione agroalimentare nostrana.
Insomma: dico NO all’hamburger dei fast-food,
condannato nei libri dell’Emi, ma dico NO anche al
pomodoro dei caporali di Oria, Foggia e Sao, che
umiliano (e talvolta uccidono) le donne, avvelenano
i fiumi e sconvolgono l’assetto idrogeologico del
territorio, creando i presupposti per nuove calamità,
nuove stragi, nuove speculazioni da parte delle
organizzazioni di stampo mafioso.

CHIARA BARBADORO




DA BABELE A PENTECOSTE

Fondata negli anni ’60 dai missionari della Sma
(Società missionaria per l’Africa), la missione
di Grand Béréby è stata affidata ai missionari
della Consolata che, oltre a continuare
il lavoro dei predecessori, affrontano
nuove sfide nel campo
dell’evangelizzazione,
sanità e promozione umana.

Dall’alto della collina, dove
sorge la missione di Grand
Béréby, l’oceano sembra a
portata di mano e lo sguardo si estende
all’infinito. Ma tra l’altura e il
mare il panorama non è affatto entusiasmante:
un agglomerato di abitazioni
sgangherate e tetre, come l’asfalto
che le spacca in due, è reso ancora
più triste da un velo di vapori
tropicali che il sole non riesce a
perforare. L’unico edificio che rompe
la monotonia del paesaggio è il
municipio, che spicca con prepotente
dignità per il pulito giallo ocra
della sua tozza mole.
Prima che il sole sparisca nelle acque
dell’oceano, il congolese Rombaut
Ngaba, missionario fratello, mi
accompagna a visitare il paese.

QUASI UN PRESEPIO
Dieu est grand (Dio è grande) recita
la scritta sui parabrezza di scassatissimi
pulmini e taxi, posteggiati ai
bordi della strada. La leggo con devozione,
come una giaculatoria, finché
mi sovviene che è la traduzione
dell’arabo Allah akbar. Continuo a ripeterla
mentalmente, con spirito ecumenico,
ma meno devozione,
mentre osservo botteghe e bottegucce
tuttofare che costeggiano l’asfalto.
L’abbigliamento dei gestori non lascia
dubbi: sono musulmani.
«Commerci e trasporti sono quasi
tutti in mano loro – spiega la mia guida
-. L’amministrazione è appannaggio
dei locali kru; togolesi e beninesi
gestiscono rudimentali ristoranti; ad
altri gruppi stranieri sono riservati lavori
più pesanti o rifiutati dai locali».
«I pescatori vengono dal Ghana»,
continua il fratello, mentre arriviamo
al porto. Alcuni uomini nerboruti
rattoppano le reti; altri, con grosse
ceste sulla testa e acqua alla cintura,
scaricano il pesce dalle barche e lo
ammucchiano sulla terra ferma. I
bambini guardano curiosi e festanti,
mentre un nugolo di donne vocianti
acquistano la merce; altre sono già
al lavoro: puliscono e friggono grossi
pesci per rivenderli al minuto su
banchetti traballanti.
Il sole è tramontato; la notte scende
veloce. Le fioche lampadine penzolanti
nei negozi e le candele delle
bancarelle trasformano il paese in un
presepio. Lo spettacolo è suggestivo,
ma la realtà non cambia. La vita è dura
a Grand Béréby, specie per le donne,
che rimarranno fino a notte fonda
accanto alle loro mercanzie, in attesa
di racimolare qualche centesimo
per sfamare la famiglia.
Altra gente, invece, comincia a divertirsi.
Due discoteche, pomposamente
chiamate «ministeri della cultura
», hanno aumentato il volume
dei giradischi e richiamano i clienti
che, essendo stagione di raccolti,
hanno qualche franco in tasca e tante
cose da dimenticare.
Per i missionari, invece, arriva l’ora
di andare a riposare. Cerchiamo
di chiudere occhi e orecchi, perché
la musica durerà tutta la notte.

PROBLEMI E PROBLEMI
Baciato dalla luce del mattino,
Grand Béréby appare meno scalcinato.
Ma a rituffarmi nella realtà del
luogo arriva Paul Ino, capo tradizionale
e presidente del consiglio parrocchiale.
Parla dell’isolamento della
regione, perché la strada asfaltata
è dissestata e quelle che si addentrano
nella foresta non meritano tal nome;
della vita sempre cara, dal momento
che, fuorché il pesce, Grand
Béréby deve importare tutto da lontano.
Si passa al problema dell’istruzione:
le scuole elementari sono insufficienti;
quella secondaria è praticamente
interdetta alla popolazione
dell’interno, a causa delle distanze e
alla mancanza di alloggi per studenti,
maestri e altri funzionari. Come altri
capi, anche il signor Ino prospetta
l’esigenza di una scuola cattolica.
«Il problema più grave è quello
della sanità – continua il capo -. Comune
di circa 5 mila abitanti e capitale
di regione che si estende per oltre
80 km verso la Liberia e altrettanti
nell’interno, Grand Béréby dispone
di un dottore e un dispensario, con
un reparto di mateità, per decine
di migliaia di persone. Mancano le
medicine essenziali e, per i casi gravi,
bisogna ricorrere a San Pedro, a più
di 50 km di distanza. Ma se i casi sono
più di uno, dato che disponiamo
di una sola ambulanza, la gente deve
servirsi di taxi, che costano un occhio
della testa».
Conoscendo un poco la situazione
creatasi negli ultimi mesi, stuzzico il
capo sul problema dei rapporti sociali.
«Grand Béréby è un paese cosmopolita» attacca il capo, ripetendo
un ritornello che mi ronza nelle orecchie
da parecchi giorni. Dopo aver
sciorinato la babele di etnie e lingue
sotto la sua giurisdizione, continua
imperterrito: «Da Grand Béréby
alla Liberia e oltre i confini, è terra dei
kru, da secoli popolazione di marinai.
Ora che tutto è automatizzato, essi
non hanno più lavoro e neppure i
campi da coltivare, da generazioni in
mano agli stranieri: i kru li rivogliono
indietro».

L’ALTRA CAMPANA…
Quella dei missionari ha un suono
differente: i kru sono sfaticati; per
questo hanno affittato la terra agli
stranieri. I burkinabé, invece, sono
grandi lavoratori: hanno sudato sangue
per dissodare la foresta e organizzare
belle piantagioni; proprio ora
che ne raccolgono i frutti e vedono
realizzarsi il sogno di una vita, si sentono
minacciati di espulsione: non ci
stanno a cedere su un piatto d’argento
tanti anni di fatica.
Se non ci fossero gli immigrati,
specie i burkinabé, l’economia della
Costa d’Avorio crollerebbe all’istante:
sono essi a fare i lavori più pesante
o rifiutati dai locali. «Anche la parrocchia
di Grand Béréby sarebbe ridotta
al lumicino» aggiunge padre
Willy, missionario della Consolata
congolese.
Tra i kru, infatti, i cristiani sono pochissimi:
alcuni sono arruolati nei
gruppi evangelici protestanti; la maggioranza
ha abbracciato l’harrismo,
un movimento sincretista affermatosi
lungo la costa avoriana all’inizio del
1990 (vedi riquadro). «La chiesa cattolica
è arrivata troppo tardi» sentenzia
il capo Ino. «Cultura e tradizioni,
specie la poligamia, ostacolano
la loro conversione al cristianesimo»
spiega invece padre Willy.
L’evangelizzazione della regione fu
avviata negli anni ’50 dai missionari
della Sma, provenienti da San Pedro;
essi si occuparono più di alcune zone
dell’interno che del centro. La
presenza di un missionario a Grand
Béréby è iniziata negli anni ’60.
Dall’aprile del 2000 la parrocchia
è affidata ai missionari della Consolata.
Essa conta oltre 5 mila cristiani,
distribuiti in 21 comunità sparse per
lo più nella foresta. Sotto l’aspetto
geografico il territorio è diviso in 7
zone, in cui i villaggi minori ruotano
attorno alle comunità più grandi. Il
centro di Dobo, per esempio, comprende
vari villaggi per un raggio di
30 km; ha una comunità bene organizzata,
una chiesa più bella di
Grand Béréby e potrebbe diventare
parrocchia indipendente.

MINISTERO DI CONSOLAZIONE
Alle 8 del mattino i primi clienti
sono in fila davanti al dispensario, sistemato
accanto alla chiesa. Dentro,
in maglietta e ventilatore al massimo,
fratel Rombaut, specializzato in infermieristica,
esamina gli occhi di un
uomo magro come un chiodo. Appena
mi vede, indossa il camice bianco
per la rituale fotografia; se lo toglie
e ritorna a interrogare il suo
cliente. «La tua malattia si chiama fame
» sentenzia sorridendo, mentre
ordina alla sua assistente di preparare
alcune confezioni di vitamine e
raccomanda alla moglie del paziente
di cucinargli tanto pesce.
«All’inizio la gente arrivava col
contagocce – racconta il fratello -.
Pensava che il dispensario si prendesse
cura solo dei cattolici. Poi una
mamma musulmana ha portato il
proprio figlio e la fama si è sparsa in
un baleno. Oggi abbiamo una ventina
di pazienti al giorno; il sabato raddoppiano,
attirati anche dal fatto che
diamo medicine a un prezzo più basso
che nelle farmacie e, quando qualcuno
non riesce a pagare tutto, chiudiamo
un occhio».
Il dispensario è parte del progetto
sanitario esteso a tutti i villaggi del
territorio parrocchiale. In ognuno di
essi c’è la «caisse pharmacie», una
specie di pronto soccorso, dotato di
medicinali di prima necessità e gestito
da due «agenti di sanità comunitaria
», appositamente preparati per
far fronte ai casi più frequenti: malaria,
diarrea, ferite e infezioni varie.
Ogni settimana fratel Rombaut visita
i villaggi, per continuare la formazione
degli agenti e fare «animazione
sanitaria» tra la gente, con corsi
d’igiene per mamme e levatrici
tradizionali. Ha iniziato pure una
campagna di vaccinazione dei bambini
contro la poliomielite, difterite,
morbillo, tetano. «Dovrebbe essere
un dovere dello stato – continua fratel Rombaut – ma i responsabili della
sanità non hanno mezzi o voglia di
spingersi nell’interno della foresta
per le vaccinazioni. Mi sono messo
d’accordo col centro sanitario di San
Pedro, offrendomi di fare il suo lavoro;
ho scoperto dei lebbrosi e foisco
medicine pure a loro».
Oltre al lavoro professionale, il fratello
dà una valida mano in quello
prettamente religioso. Il sabato pomeriggio
spiega il catechismo ai giovani
della scuola secondaria di
Grand Béréby; la domenica si reca
in uno dei villaggi per animare la comunità,
spiegare la parola di Dio,
portare l’eucaristia agli ammalati.
«Tale attività mi procura tanta soddisfazione
– conclude -. All’inizio il
lavoro con i giovani è stato duro; ma
ora il contatto è aperto e cordiale.
Nei villaggi, poi, non ci sono mai state
difficoltà: straniero tra stranieri, ci
capiamo di primo acchito».

INSEGNARE A «PESCARE»

«Il progetto sanitario ci fa conoscere
come evangelizzatori – aggiunge
padre Willy -. È un servizio di
consolazione concreta, anche se con
dei limiti, poiché per i casi più gravi
bisogna ricorrere all’ospedale. Molte
altre realtà umane sfidano la nostra
presenza, ma non possiamo abbracciarle
tutte. Siamo appena arrivati;
le domande su cosa fare sono
più delle risposte».
Nonostante la modestia, a Grand
Béréby c’è già molta carne al fuoco.
I missionari hanno avviato una scuola
di alfabetizzazione, dove i giovani
imparano a leggere e scrivere e qualche
parola di francese. «È umiliante
per un giovane dover dire di non saper
leggere, quando è invitato a fare
una lettura nei nostri incontri – continua
il padre -. E sono molti i ragazzi
analfabeti, perché la scuola costa
e i genitori non hanno la possibilità
di mandarvi i figli».
Le donne hanno chiesto di fare
qualche cosa anche per loro: nella sede
parrocchiale si tengono corsi di
taglio e cucito e maglieria, in cui un
gruppetto di signore imparano il mestiere
e, tornate nei propri villaggi, lo
insegnano ad altre donne, si aiutano
a vicenda e organizzano una piccola
cornoperativa. La missione, quando
può, fornisce lana e materiale che arriva
dai benefattori.

Buona parte del tempo è assorbito
dall’organizzazione delle comunità
di base e dalla formazione umana
e religiosa di animatori e catechisti.
Ogni anno si tengono tre corsi
sistematici. «È una formazione continua,
poiché la gente va e viene –
spiega padre Willy, incaricato di tale
compito -. A Grand Béréby abbiamo
già qualche catechista locale; ma
nei villaggi sono tutti immigrati dall’interno
del paese e da altre nazioni,
specie il Burkina Faso. Se un leader
torna a casa, bisogna procurare un
sostituto. Grazie a Dio, non è difficile
trovare persone motivate per
servire la comunità; resta sempre il
problema di prepararle adeguatamente.
Intanto la chiesa cresce. Ogni
anno abbiamo circa 400 battesimi
» sospira padre Willy.

IL SOFFIO DELLO SPIRITO
La catechesi è l’attività principale
della parrocchia; il catecumenato
quella dei singoli villaggi. I catecumeni
sono coinvolti in tutte le attività
comunitarie: s’incontrano, pregano,
cantano, giorniscono insieme agli
altri cristiani.
Una volta al mese le cappelle minori
si uniscono alla comunità più
grande, dove il padre si reca a celebrare
la messa. Così tutti gli animatori,
catechisti e comitati ecclesiali
della zona si ritrovano e discutono
tutto ciò che riguarda la loro vita cristiana:
catechesi, catecumenati, formazione
e altre attività.
Tutte le domeniche l’eucaristia diventa
un evento pentecostale. Anche
se il francese fa la parte del leone, le
letture vengono fatte anche in altri idiomi,
a seconda della consistenza
dei gruppi linguistici presenti. Così
pure l’omelia viene tradotta in tre o
quattro lingue.

Dopo la celebrazione, i vari gruppi
linguistici si radunano dentro e
fuori la chiesa e, sotto la guida del catechista,
riprendono e approfondiscono
quanto è avvenuto nella liturgia
domenicale. Così gli autoctoni ascoltano
il messaggio di Dio in lingua
kru; quelli del Burkina Faso in moré,
gourcy e dogary; i gruppi avoriani in
baoulé, bété, abron, koulango; i ghanesi
in fantis. «Non bisogna avere
fretta – conclude serafico padre Willy
-, perché si ripeta anche qui il miracolo
della pentecoste, quando tutti
i popoli “udirono annunciare nella
propria lingua le grandi
opere di Dio” (cfr Atti 2,
6-11)».

Benedetto Bellesi




I NERI NEL SANTUARIO DEI BIANCHI

Torino. Accompagnati dal rettore Franco
Peradotto, entriamo nel santuario della
Consolata rinnovato e ripulito. La fantasia
delle decorazioni, lo splendore dei marmi e il tripudio
dei colori sono esaltanti. Lo sguardo si attarda
con una preghiera sulla «nota immagine», che sovrasta
l’altare maggiore.
Giriamo a destra, per salire i pochi gradini che immettono
alla prima cappella laterale. «Guarda in alto!
» quasi ci comanda il rettore puntando il dito.
Sulla volta spicca un dipinto. Sorprendente.
«È un’opera di Luigi Morgari – spiega monsignor
Peradotto -. Ma è stata completamente ignorata da
tutti. Questa pittura è come se non esistesse.
Infatti, fino ad oggi, nessuno s’è accorto».
«Come mai?» chiediamo.
«Bella domanda!».
Il dipinto fu eseguito in occasione dell’ampliamento
del santuario della Consolata, terminato
nel 1904. La pittura ritrae una scena di evangelizzazione:
da un lato due missionarie davanti ad una
capanna e, dall’altro, tre missionari sul fronte di una
cappella con un quadro della Consolata. E uomini,
donne, bambini. In alto campeggia la litania mariana
«Virgo praedicanda» (Vergine da predicare).
Siamo in Kenya fra il popolo dei «kikuyu», raggiunto
dai missionari della Consolata nel 1902, un
anno dopo la fondazione del loro istituto ad opera di
Giuseppe Allamano, rettore pure del santuario
della Consolata. Ciò significa che la pittura fu
voluta certamente da lui.
Una pittura audace: e per il soggetto insolito
e perché ricordava un’impresa ai primi
passi, che poteva sgonfiarsi come una
bolla di sapone. Infatti la casa di formazione
dei missionari della Consolata,
che nel maggio 1902 si era rallegrata
per la partenza dei primi quattro evangelizzatori
per il Kenya, era subito piombata
nella solitudine per l’abbandono
delle reclute restanti. Però fu una pausa
brevissima. L’avventura ripartì subito con
nuovi missionari.
Ma la prudenza non era mai troppa, e il bene era da
compiersi bene. I neri nel santuario dei bianchi ci
stavano, eccome! Ma senza paparazzi. Per questo (ed
altro) l’immagine fu ignorata.
Giuseppe Allamano mise piede al santuario
della Consolata nel 1880. E trovò «il cuore
» religioso di Torino «asfittico» e brutto.
Urgeva dargli aria: e così fu con l’ampliamento
del santuario. Bisognava pure che la Madre lasciasse
le pareti domestiche per incontrare i suoi figli in fabbrica,
al mercato, nelle scuole, sui campi. Tutti i suoi
figli, compresi quelli più «poveri» della savana africana
e della foresta amazzonica, o quelli più «ricchi»
all’ombra di pagode: e così fu, grazie ai missionari
della Consolata oggi in quattro continenti.
Infine occorreva che i figli della Consolata le restituissero
la visita in casa sua, nel santuario…
Ci piace pensare (forse esagerando) che l’Allamano
abbia anticipato la sfida degli emigrati in Italia. Da
profeta, intuì che un giorno il santuario della
Consolata avrebbe pure accolto la «Salve Regina»
degli extracomunitari, essi soprattutto «esuli… piangenti
in questa valle di lacrime»: specie se clandestini
e senza contratto di lavoro.
E volle quella scena, ieri curiosa. Oggi vera.

FRANCESCO BERNARDI




Vincere l’integralismo

Spettabile redazione,
ho letto l’editoriale di gennaio.
Avete ragione: la
guerra porta solo guerra…
Ma, allora, dovremmo farci
invadere e colonizzare
senza reagire? Perché
questo vogliono gli integralisti:
prima immigrare,
poi il rispetto dei loro usi
(il che comporterebbe, ad
esempio, l’infibulazione)
e, infine, imporsi (come
fecero nel Medio Oriente
secoli fa e come già fanno
quelli che sputano sulla
carta d’identità italiana o
uccidono mogli e figlie
perché si vestono come le
nostre ragazze, cioè, secondo
loro, «da puttane»).

L’integralismo non si
combatte né si vince opponendone
un altro, ma
con l’arma della ragione e
«la giustizia dei fatti».

Mauro Mavea




In attesa della legge sull’immigrazione

Caro direttore,
gradirei alcuni chiarimenti
sul vostro editoriale di
marzo e, in modo particolare,
sul secondo punto
dove si parla delle politiche
migratorie.
Certamente gli immigrati
sono prima persone e
poi «forza lavoro», ma intendo
richiamare la sua attenzione
perché sembra
che nel nostro paese debba
entrare chiunque, anche
se non in regola.
Perché la chiesa si batte
solo ed esclusivamente
per difendere i diritti degli
extracomunitari e molto
poco o niente per i giovani
disoccupati italiani? Secondo
voi, il nostro governo
non deve emanare delle
regole precise per regolare
il fenomeno
dell’immigrazione?

L’editoriale di marzo fu
sottoscritto da 150 missionari/
e di 16 istituti.
In aprile, poi, abbiamo
accennato al disegno di
legge sull’immigrazione,
approvato dal senato, che
ha suscitato riserve anche
nel cardinale Camillo
Ruini. «In particolare – ha
dichiarato l’11 marzo
scorso il presidente della
Conferenza episcopale italiana
– risulta discutibile
sia il collegare in modo
troppo stretto e automatico
il permesso di soggiorno
con il contratto di
lavoro, sia il limitare severamente
le possibilità dei
ricongiungimenti familiari
»… fermi restando «la
doverosa tutela della legalità
e il rispetto delle
compatibilità nell’accoglienza
degli immigrati».
Condividiamo questo
giudizio.
Il tema «lavoro giovanile
» è stato affrontato dai
vescovi in almeno due significativi
documenti: «Evangelizzazione
e testimonianza
della carità»
(1990) e «Comunicare il
vangelo in un mondo che
cambia» (2001).

Giorgio Gagliardo




Quell’«insalata mista»

Spettabile redazione,
ho letto su Missioni Consolata
dello scorso dicembre
di quel don Pietro che,
se è vero, ha lasciato fare a
due «bravi ragazzi» un
presepio in cui hanno
completamente falsato la
santa verità dell’anniversario
della nascita di Gesù,
dandogli come genitori
Fatima e Francesco!!!
Per piacere, i sacerdoti
educhino i loro giovani
parrocchiani a rispettare
le verità del Nuovo Testamento,
senza giocarci con
cervellotici arrangiamenti.
E, invece di benedire un
buonismo di dialogo interreligioso
(di cui non compare
traccia negli insegnamenti
del divino maestro),
propongano sì l’affetto
verso i fratelli non cristiani,
ma questo sia volto ad
aprire i loro occhi alla verità
e non a fare «insalate
miste» fra le religioni.
O – lo ripeto – si è persa
per strada la parola di Gesù
«andate e predicate al
mondo la buona novella»?
Non mi pare che il Salvatore
abbia detto di dialogare
coi sacerdoti di Iside
e Osiride!
Inoltre, nella bella pensata
del presepio, c’è pure
un errore storico: come
può Fatima convertirsi al
cristianesimo con Gesù
ancora in culla e Maometto
lontano 622 anni?… O
volevano far nascere Gesù
nel 2001 coi re magi in
jeep?
Non si dica che certi atteggiamenti
sono pieni di
buone intenzioni, perché
si sa che di queste è lastricata
la via dell’inferno. E
se il re Davide danzava davanti
all’arca dell’alleanza,
non è una buona ragione
per cantare al presepio filastrocche
da fiera paesana.
Scherza coi fanti e lascia
stare i santi.

Oggi, non raramente, il
linguaggio è o astruso o
volgare; nel primo caso ci
rimette la comprensibilità
e, nel secondo, la serietà.
Però il problema di una
comunicazione efficace
ed incisiva «oggi» perdura,
specialmente quando
si vuole trasmettere non
solo «un» messaggio, ma
«la» verità che libera,
converte e consola.
La questione coinvolse
lo stesso Gesù. Egli, per
essere convincente, ricorse
alle parabole, cioè ad
esempi, immagini, allegorie,
non sempre riconducibili
a fatti accaduti. Ma
l’ascoltatore gradiva e capiva
le sue allusioni.
Forse anche il presepio,
con i suoi personaggi (talora
di fantasia), è una parabola
per i tempi modei…
Anni fa un bambino,
Mariuccio, colpito da una
statuina del presepio
tradizionale allestito dal
parroco, domandò: «Don
Pietro, che ci fa in montagna
il pifferaio, a piedi
scalzi e in canottiera, nel
buio e freddo della notte?
». Ciò detto, il bambino
fece due passi indie-
tro, temendo forse uno
scapaccione.
Ma il sacerdote rispose:
«Mariuccio, un giorno
capirai che, grazie a Gesù,
tutto è cambiato nella
vita degli uomini. Si può
persino suonare il piffero,
di notte e a torso nudo,
su una montagna coperta
di neve».

dott. Benedetta Rossi




«Nuova Colombia»

Cari missionari,
benché sia stato volontario
in Africa, oggi faccio
parte dell’associazione
Nuova Colombia, che ha
come scopo di aiutare il
paese nei diversi problemi
che l’affliggono e che sono:
povertà (problema comune
a tutti i paesi sudamericani),
coltivazione di
coca e guerra civile. Vi
chiedo cortesemente di
dedicare un po’ di spazio
alla nostra associazione.
Nuova Colombia è capeggiata
dall’avvocato
Wainer. Al suo interno diversi
giuristi (tra cui il sottoscritto)
hanno contatti
con il governo colombiano
per tutelare i diritti umani
nell’attuale conflitto
che vede opposti militari e
paramilitari ai movimenti
guerriglieri Farc e Eln.
Si sta programmando
anche una collaborazione
con l’associazione contadina
Arauca, per creare un
allevamento di polli e
maiali. Tale allevamento è
una delle tante iniziative
volte a sostituire la coltivazione
di coca, di cui i
missionari della Consolata
sono stati antesignani.
Al progetto partecipano
altre associazioni.

Per maggiori informazioni
su Nuova Colombia:
-ancjos@tiscalinet.it
– gtonti@comune.it
– vburani@libero.it.
– panepacelavoro@tin.it

avv. Alessio Anceschi