Volti della nostra storia

Addis Abeba, Etiopia, anni ’30

La ricorrenza dei 100 anni dei missionari e missionarie della Consolata in Etiopia (1916-2016) è stata per noi l’occasione per riguardare vecchie foto «di famiglia». Ne abbiamo trovate di straordinarie. Purtroppo non catalogate e quindi senza data e altre informazioni. Di sicuro precedenti al 1941, anno in cui i missionari sono stati espulsi dal paese per ritornarvi poi nel 1970.

Le due foto di questa pagina ritraggono alcuni ragazzi della scuola italiana di Addis Abeba, probabilmente a fine anni ’30. Se fossero ancora viventi, oggi dovrebbero essere ultra novantenni. Sarebbe eccezionale scoprire che alcuni di loro sono ancora vivi. In ogni caso, ricordarli è non solo bello, ma utile per ravvivare la memoria di un pezzo della nostra storia (quella coloniale e fascista) che abbiamo forse messo nel dimenticatornio. Una memoria vera può aiutare a evitare gli errori compiuti in passato.

Un vostro nonno o nonna, zio o zia ha vissuto la sua infanzia in Etiopia? Lo riconoscete tra questi volti? Se sì e ne conoscete la storia, condividetela con noi. Diamo un nome a questi volti. Raccontateci di loro. Scriveteci.

 

 




Utopia o realtà

Pensieri sulla democrazia

Il dibattito sulla democrazia in Africa continua. A prima vista, c’è un plebiscito per il modello occidentale da parte delle élite politiche africane. Ma alcuni decenni di pratica democratica sul continente testimoniano il fallimento di queste utopie. Cosa copre questo umanismo di facciata? E quali sono le ragioni del fallimento delle esperienze democratiche africane?

La svolta degli anni ’90 con la conferenza di la Baule aveva messo gli africani faccia a faccia con un dilemma: optare per  la democrazia, e quindi beneficiare dell’aiuto occidentale, oppure continuare con le loro politiche autoritarie, con le implicazioni dal punto di vista della governance economica e sociale. In questo caso avrebbero rinunciato essi stessi al sostegno dei paesi sviluppati. Quando François Mitterand lanciava questo ultimatum, la maggior parte dei paesi africani versava in una crisi economica e sociale senza precedenti. Il carattere strutturale di queste crisi non ha lasciato scelta ai paesi, che hanno tutti deciso di abbracciare la democrazia pluralista, per ottenere la manna finanziaria occidentale.

Ma ci si è presto resi conto che questa accettazione della democrazia era avvenuta a denti stretti. In realtà la situazione economica e sociale era così catastrofica che le misure terapeutiche previste dalle istituzioni finanziarie inteazionali accentuarono ulteriormente i problemi.
Analizzando il nuovo contesto dei paesi africani, l’intellettuale camerunese Achille Mbmbe vi denota tre fattori caratteristici.
Primo. La democratizzazione è stata accompagnata dall’informalizzazione delle economie  e delle strutture statali: dispersione del potere, mutilazione dello stato nel senso di indebolimento delle capacità amministrative, assenza di visione prospettiva che alimentava reazioni di panico di fronte a situazioni di rischio impreviste, da cui il ricorso sistematico alla violenza.
Secondo. Si assiste a una specie di fenomeno di «diffrazione sociale», ovvero la comparsa di eventi come le guerre, lo spostamento forzato di popolazioni, i massacri, ma anche il sorgere di poli diversi di autorità e giurisdizione, la molteplicità delle identità e delle alleanze, tutte cose che accrescono l’instabilità strutturale.

Terzo. Si nota, infine, l’assenza del modello teorico e di una tradizione di riflessione critica e autonoma sullo stato di diritto, le forme di cittadinanza e le istituzioni della democrazia sul continente. Ne risulta l’assenza di un progetto politico degno di questo nome, ideato da uomini e donne con una vera ambizione per l’Africa. Bisogna ammettere che le esperienze democratiche africane sono, la maggior parte almeno, dei fallimenti. Ma è soprattutto il fiasco delle élite politiche che non hanno saputo essere all’altezza delle loro responsabilità storiche. Queste consistevano prima di tutto a dare allo Stato-Nazione un contenuto e un valore, che trascendesse gli interessi identitari o di comunità.

Certi analisti hanno subito preso il pretesto di questi insuccessi per dichiarare, imprudentemente, che l’Africa non è adatta alla democrazia. Se consideriamo gli standard democratici come la separazione dei poteri, le elezioni libere e trasparenti, il multi partitismo e la protezione delle minoranze, è difficile affermare che questi sono esclusiva di una razza di uomini, di un continente o di un gruppo di paesi o di continenti. Corrispondono, pensiamo, a delle aspirazioni universali, fondate sulla storia stessa degli uomini. Così, l’appropriazione di questi standard può rispondere a degli approcci diversi, non solo in funzione della cultura politica di ogni popolo, ma anche, e soprattutto in funzione dell’ideale socio-politico che ogni popolo vuole fare proprio.
Il problema è quindi meno nei principi democratici, forzatamente generali, e più nella capacità degli africani ad abbandonare la via del mimetismo per essere veramente creativi. Lo si vede dove le élite politiche del continente fanno prova d’immaginazione e soprattutto di volontà politica di far loro l’ideale democratico. Qui la base istituzionale della democrazia è più solida.

Certe teorie politiche, che constatano il fallimento degli Stati-Nazione hanno pensato di cambiare la democrazia classica con un approccio consensualista. L’hanno chiamata «democrazia consensuale». Ma questa presenta talmente tante similitudini con il sistema dei capi tradizionali, che fa temere il ritorno al monolitismo e al potere personificato. Il popolo francese, ad esempio, non ha sempre vissuto in uno stato democratico. Ha conosciuto poteri monarchici con varianti assolutiste.  È proprio sul fondamento di questo passato che le lotte sociali si sono sviluppate e hanno portato la democrazia.
Non possiamo fondarci su dei pensatori socio-storici per definire l’evoluzione politica di un paese o di una nazione. Il male dell’Africa sta dunque in una carenza endemica delle élite politiche, incapaci di elevarsi al livello di visione nazionale per integrare armoniosamente l’insieme di entità etniche che compongono le comunità nazionali africane. Mancanza di trascendenza politica e di una reale volontà delle élite di portare le masse africane verso la costruzione di veri Stati-Nazione, la democrazia resterà sempre un’aspirazione e una linea d’orizzonte.

Di Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Rinascita democratica?

«Anniversari» in Burkina Faso

Le manifestazioni per commemorare i 20 anni dalla morte di Thomas Sankara si sono svolte in tutto il Burkina Faso. Intanto il «potere» ha festeggiato due decenni di dominio incontrastato.

Il 4 agosto 1983 quattro giovani ufficiali presero il potere in Alto Volta e impegnarono il paese lungo una via di trasformazione rivoluzionaria. Avevano come idolo Fidel Castro, Che Guevara, ma anche Mao Zedong e l’albanese Envers Hoxa. L’Alto Volta era in quel momento caratterizzato da un’instabilità politica segnata da tre colpi di stato, realizzatisi in maniera più o meno pacifica. Thomas Sankara si rivelava come capo incontestato della nuova giunta al potere.
Nel governo precedente aveva funzioni di primo ministro, ma le relazioni con il presidente Jean-Baptiste Ouedraogo erano piuttosto difficili, al punto che quest’ultimo ordina l’arresto del suo premier, su suggerimento di Guy Penne, allora consigliere del presidente francese François Mitterand. Con questo arresto gli avvenimenti si accelerano. Il paese entra in una fase pre – rivoluzionaria marcata da manifestazioni di strada che le forze di sicurezza dell’epoca non riescono a contenere. L’esercito era pure agitato da convulsioni animate dai protagonisti dei due campi. La rivoluzione era nell’aria e finisce per scoppiare il 4 agosto 1983.

il popolo al potere?

Il potere popolare fu instaurato attraverso l’organizzazione dei «comitati di difesa della rivoluzione» (cdr).
Questo marcherà profondamente il paese, tanto per le sue trasformazioni materiali rapide, che per i suoi metodi in totale rottura con quelli tradizionali. Ma molto rapidamente le contraddizioni affiorano tra i capi della rivoluzione. La nascita di fazioni intee fa degenerare la situazione. Il 15 ottobre 1987 Thomas Sankara è assassinato durante una riunione con dodici dei suoi compagni. La notizia della sua morte provoca una indignazione generale nella popolazione, anche se gli ultimi anni del suo potere avevano provocato molte frustrazioni, a causa dei numerosi soprusi perpetrati dai cdr.
In Burkina non si era mai vista una tale violenza politica. La morte di Thomas Sankara, capo dello Stato, non poteva che scioccare. La data della sua scomparsa è commemorata ogni anno da cerimonie al cimitero di Dagnoèn, dove riposa con i suoi 12 compagni di sfortuna.

dal messico al burkina

Questa figura storica della rivoluzione burkinabè era già il riferimento della gioventù del paese e dell’Africa. La sua morte amplifica il fenomeno facendo di lui un eroe.
 In questo ventesimo anniversario, i rivoluzionari di tutto il mondo hanno voluto dare all’evento un aspetto particolare. Intanto l’anno 2007 è stato proclamato dai suoi sostenitori «anno Thomas Sankara».
Tra le manifestazioni è importante sottolineare l’organizzazione di una carovana partita dal Messico per il Burkina Faso, con tappe nei paesi dell’America Latina, Europa e Africa. Un simposio internazionale è stato organizzato la settimana del 15 ottobre.
Il giorno anniversario della morte è stato segnato da una processione al cimitero. Le attività previste hanno avuto luogo, nonostante le difficoltà di ogni tipo che gli organizzatori hanno incontrato. Va notato, in particolare, che le sale pubbliche sono state rifiutate per gli eventi dagli uomini di potere. La televisione nazionale ha rifiutato di diffondere uno spot con contenuto informativo che gli organizzatori avevano presentato nel pieno rispetto delle regole.
Malgrado tutto questo ostruzionismo, l’avvenimento ha avuto eco nazionale e internazionale tale che lo scontento era ben visibile tra i partigiani di Blaise Compaoré (attuale presidente, salito al potere il giorno dell’assassinio di Sankara, ndr). Non dimenticheranno mai il colpo di grazia che ha costituito la venuta in Burkina di Mariam Sankara, la vedova del presidente defunto. Erano quasi 20 anni che aveva lasciato il paese in seguito all’assassinio di suo marito, senza più rimetterci piede. È stata accolta all’aeroporto di Ouagadougou da una popolazione numerosa, in un clima quasi d’isteria collettiva. Il giorno seguente, il 15 ottobre, un cimitero nero di gente ha assistito alla cerimonia per il deposito di corone di fiori sulla tomba.
Tutto questo non è piaciuto a Blaise Compaoré e i suoi uomini che avevano messo tutti i mezzi dalla loro parte sperando di marginalizzare le attività dei sankaristi.
le contro –
manifestazioni

Le manifestazioni del potere erano state organizzate nelle 45 province del paese con comitati provinciali. Parola d’ordine «festeggiare la rinascita democratica del Burkina», che Blaise vuole inizi proprio quel 15 ottobre.
A Ouagadougou una conferenza internazionale sulla buona governance è stata convocata, invitando personalità africane (e non) ad alti livelli. Di passaggio in Africa, è venuto anche il presidente del Brasile: Lula. Le star africane della musica hanno fatto l’animazione. Le organizzazioni dei giovani legate al potere sono state mobilitate dal ministero di competenza e portate a Pô, la città da dove partì la rivoluzione, per un meeting che si voleva storico. Si trattava di spiegare a questi giovani che la rivoluzione è stata fatta da Blaise Compaoré e che Sankara l’ha diretta per procura. Per l’occasione hanno portato delle persone a testimoniare e il tutto si è fatto in un’atmosfera di malafede e di finta amnesia.
A festa finita ognuno fa il suo bilancio. Ci si può domandare a che cosa ha portato questo confronto sulla data del 15 ottobre.
Il 30 marzo 2001, una giornata detta di riconciliazione nazionale era stata organizzata sotto la guida di Blaise Compaoré stesso. In quell’occasione, Thomas Sankara, era stato elevato al rango di eroe nazionale. Strano eroe nazionale se il ventesimo anniversario della morte resta oggetto, dal lato ufficiale di un ostracismo incallito!

Di Germain Bitiu Nama

Voci dalla strada

1987-2007. Una ricorrenza preparata da tempo da chi sostiene, ancora oggi, lo spirito che aveva animato il breve periodo di governo Sankara e sentita anche dalla gente comune.

La signora Fanta fa la sarta e all’epoca aveva vent’anni. Nel suo piccolo atelier ricorda quegli anni con un po’ di nostalgia: «Grazie a Tom Sank, il mio Capitano – dice, facendo l’occhiolino – le donne hanno avuto molto, la nostra condizione è migliorata».
Chi ha vissuto gli anni della rivoluzione non può dimenticare le campagne di vaccinazioni  per i bambini, la lotta contro l’analfabetismo, le battaglie contro la pratica delle mutilazioni genitali femminili e molto altro ancora. Non solo nostalgia: «Sankara ha fatto sicuramente delle cose buone ma un governo militare non è mai buono per un paese, se fosse durato più a lungo non sarebbe stato positivo» racconta Mamadou, taxista cinquantenne a Ouagadougou.
«Non si parla mai abbastanza di queste cose, ma non dobbiamo smettere di ricordare, per fare conoscere. Noi che abbiamo conosciuto Thomas abbiamo il dovere storico di parlare di lui. Oggi ci sono giovani di vent’anni che non hanno visto quel periodo. Noi che l’abbiamo vissuto dobbiamo raccontarlo». Sono le parole di Fidel Toé, ministro del lavoro durante il governo Sankara, suo amico d’infanzia, amico fedele anche dopo la sua morte.  Non ha ceduto alle pressioni di chi voleva fargli dichiarare che Sankara stesse organizzando un complotto contro Compaoré. Ricordare il 15 ottobre significa ricordare che Sankara è stato ucciso da uomini facenti parte di quello stesso paese per lo sviluppo del quale lui si era battuto.

Jean Hubert Bazie, giornalista, che oggi si occupa di formazione, è membro del comitato organizzativo della commemorazione per Sankara, con cui aveva lavorato. Con passione racconta: «L’anniversario è stato preparato tranquillamente da noi, con discrezione, prenotando in anticipo la Maison du Peuple (centro per manifestazioni, ndr), ma può essere che gli uomini del presidente abbiano capito che c’è molto interesse per questo avvenimento, e abbiano avuto paura. Dunque, hanno reagito inventando la festa per i vent’anni della rinascita democratica. Trovo questa decisione una scelta stolta. Se è vero che il presidente ha portato la democrazia è strano voler festeggiare il giorno in cui il potere è stato preso uccidendo Sankara, dovrebbero piuttosto celebrare il giorno dell’elezione del presidente. È fondamentalmente un errore festeggiare il giorno in cui un uomo è stato ucciso». Alla marcia popolare del 15 ottobre, alla tomba di Sankara lui è presente, insieme alla moglie di Sankara, rientrata dalla Francia per l’occasione, e a migliaia di persone che, con forza, hanno manifestato.  Per testimoniare che la morte del leader non ha cancellato le sue idee. Contemporaneamente, a place de la Nation (ex place de la Révolution, negli anni di Sankara), si è svolta la kermesse per festeggiare la democrazia.

di Tiziana Mussano, da Ouagadougou

Germain Nama




Morte di un visionario

Sankara, l’eroe assassinato (italiano/ français)

Sono già 20 anni da quando Thomas Sankara, presidente del Consiglio superiore della rivoluzione, scompariva in un colpo di stato sanguinoso, perpetrato dal suo amico e fratello d’armi, Blaise Compaoré.
La rivoluzione burkinabè era una curiosità per alcuni e una speranza
di rinnovamento africano per numerosi giovani del continente e della diaspora. Morto Sankara, il dubbio e lo scetticismo si inculcano nello spirito di una frangia della popolazione africana. Come la fenice che rinasce dalle ceneri, l’eroe è più che mai di ritorno nel cuore dei giovani.

Thomas Sankara è caduto il 15 ottobre 1987 sotto i colpi di un commando incaricato della sua sicurezza. Si sapeva che le cose non andavano bene tra i principali dirigenti della rivoluzione, ma difficilmente si sarebbe immaginato quello che poi è successo. Si sperava piuttosto che i belligeranti avrebbero infine trovato un compromesso, non solo nell’interesse del loro progetto rivoluzionario, ma anche nella salvaguardia dell’amicizia che legava i due uomini: Blaise e Sankara. Ma nulla di tutto questo è valso. Bisogna credere che le contraddizioni erano tali che non c’era più alcun mezzo di riconciliarli.
Sankara aveva già nel suo spirito, il corso tragico che gli eventi avrebbero preso: «Fino a che c’è la rivoluzione – aveva dichiarato in uno dei suoi interventi improvvisati – ci sarà la reazione, la contro-rivoluzione. E l’opposizione alla rivoluzione prenderà tutti i tipi di forme e beneficerà di tutti i tipi di sostegno. Il primo nemico della rivoluzione è l’imperialismo all’opera. Non posso dirvi che abbiamo definitivamente eliminato tutti i rischi. L’imperialismo può in ogni momento tentare di fare qualcosa. Tenterà di appoggiarsi su questa o quella persona che è contro la rivoluzione, all’esterno o all’interno del Burkina Faso …».
Allora, la morte di Sankara è stata un colpo dell’imperialismo? La domanda resta senza risposta. Si constata che la rivoluzione non gli è sopravvissuta, ma alcuni si chiedono se lo stesso Sankara non avrebbe preso un’altra  strada, visto che il processo era a un impasse. Una parte importante della gioventù africana preferisce tenersi lontana da queste ipotesi e congetture, per attaccarsi a una certezza: Sankara era un rivoluzionario determinato e Blaise il braccio armato della contro-rivoluzione. Persuasa che l’Africa continua ad aver bisogno di una rivoluzione, Sankara ne resta la figura mitica agli occhi della gioventù, con le sue idee e il suo supporto ideologico.

Molti africani non hanno conosciuto fisicamente Sankara. Ma le sue prese di posizione sulla dipendenza dell’Africa dall’Occidente, la sua concezione di sviluppo endogeno, il posto della cultura nello sviluppo, l’emancipazione della donna africana hanno contribuito alla sua notorietà su tutto il continente africano e in America Latina.
Sul piano artistico il «sankarismo» conosce oggi un certo successo. Ci sono sempre più artisti che si ispirano al suo esempio,  nel campo musicale e nella produzione letteraria.
 
In certe capitali africane, come Accra e Brazzaville, delle piazze e delle vie portano il suo nome. Nonostante ciò in Burkina Faso, suo paese natale, c’è ancora intolleranza. Non mausolei né strade in suo omaggio. Dopo la crisi nata dall’assassinio del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998, ndr), una giornata nazionale del perdono è stata istituita. Ne è risultato un monumento dedicato a tutti i martiri. Ma non sembra che si sia ancora pronti a riconoscere il ruolo eccezionale che lui ha giocato come leader della rivoluzione burkinabè attraverso opere pubbliche a lui dedicate.
Sul piano politico si contano una decina di associazioni e partiti che rivendicano la sua eredità, ma la rappresentazione in parlamento resta debole. Nonostante questo si assiste in Africa, in Europa e in America Latina alla nascita di club Thomas Sankara che si attivano per preparare il ventesimo anniversario della morte dell’eroe. Occorre anche notare la Campagna internazionale giustizia per Sankara. Si tratta di una procedura giuridica portata avanti da avvocati burkinabè e inteazionali allo scopo di ottenere giustizia per Thomas Sankara.
Un’altra manifestazione internazionale è stata la creazione del villaggio della gioventù «Thomas Sankara» al Forum sociale policentrico di Bamako nel 2005. Nel corso del quale i partecipanti decisero di creare una cornordinazione internazionale per la preparazione del ventesimo anniversario.
Questo avvenimento che avrà una portata mondiale sarà l’occasione di rilanciare il «movimento sankarista» in un momento in cui il partito al potere sta cercando di riprendere in mano in modo totale la vita politica del paese.

Di Germain Bitiu Nama

Sankara, le héros assassiné

Par Germain Bitiou Nama

Voilà déjà 20 ans que Thomas  Sankara, président du Conseil supérieur de la Révolution disparaissait dans un coup d’Etat sanglant perpétré par son ami et frère d’armes, Blaise Compaoré.  La Révolution burkinabè était une curiosité pour les uns et un espoir de renouveau africain pour de nombreux jeunes du continent et de la diaspora. Sankara mort, le doute et le scepticisme s’installèrent un temps dans l’esprit d’une frange de la population africaine. A l’instar du phoenix qui renaît de ses cendres, le héros est plus que jamais de retour dans les cœurs des jeunes.

Thomas Sankara est tombé le 15 octobre 1987 sous les balles d’un commando du régiment chargé de sa sécurité. On savait que les choses n’allaient plus entre les principaux dirigeants de la Révolution, mais on avait de la peine à imaginer ce qui est arrivé. On avait plutôt espéré que les belligérants allaient finir par trouver un compromis, non seulement  dans l’intérêt de leur projet révolutionnaire, mais aussi dans celui de la sauvegarde de l’amitié qui unissait deux hommes : Blaise et Sankara. Mais rien de cela n’a tenu. Il faut croire que les contradictions étaient telles qu’il n’y avait plus aucun moyen de les réconcilier. Sankara avait intégré dans son esprit, le cours tragique qu’elle a pris : « Tant qu’il y a la révolution avait-il déclaré dans une de ses interventions improvisées, il y aura la réaction, il y aura la contre-révolution. Et l’opposition à la révolution prendra toutes sortes de formes et bénéficiera de toutes sortes de soutiens. Le premier ennemi de la révolution, c’est l’impérialisme qui travaille. Je ne peux pas vous dire que nous avons définitivement écarté tout risque. L’impérialisme peut à tout moment tenter de faire quelque chose. Il tentera de s’appuyer sur telle ou telle personne qui est contre la révolution, à l’extérieur, à l’intérieur du Burkina Faso… »Alors, la mort de Sankara était-elle vraiment un mauvais coup de l’impérialisme ? La question reste posée. L’on constate toutefois que la révolution ne lui a pas survécu, mais certains se demandent si Sankara lui-même n’aurait pas opéré un virage, vu que le processus était dans une impasse. Une partie importante de la jeunesse africaine préfère se tenir loin de ces hypothèses et conjectures pour se cramponner à une certitude : Sankara était un révolutionnaire déterminé et Blaise, le bras armé de la contre-révolution. Persuadée que l’Afrique a besoin d’une révolution, Sankara en est la figure mythique aux yeux de la jeunesse, ses idées, le support idéologique.

Que reste t-il aujourd’hui de Sankara ?

Beaucoup d’Africains n’ont pas physiquement connu Sankara. Mais ses prises de position sur la dépendance de l’Afrique vis-à-vis de l’Occident, sa conception du développement endogène, la place de la culture dans le développement, l’émancipation de la femme africaine ont fait sa notoriété politique sur l’ensemble du continent africain et en Amérique latine. Sur le plan artistique, le sankarisme connaît un certain succès. Les artistes sont de plus en plus nombreux à s’inspirer de son exemple dans le domaine musical et de la production littéraire. Dans certaines capitales africaines comme Accra, Brazzaville, des places et des rues portent son nom. Cependant au Burkina Faso, son pays natal, c’est encore la crispation. Pas de mausolée ni de rue à son hommage. Après la crise née de l’assassinat du joualiste Norbert Zongo, une Jouée nationale de pardon a été instituée. Il en est résulté un monument dédié à tous les martyrs. Mais on ne semble pas encore prêt à reconnaître le rôle exceptionnel qu’il a joué en tant que leader de la révolution burkinabè à travers notamment des œuvres publiques qui lui sont personnellement dédiées. Sur le plan politique, on compte une dizaine d’associations et de partis politiques qui revendiquent son héritage mais leur représentation reste assez faible au niveau du Parlement. Néanmoins on assiste en Afrique, en Europe et en Amérique latine à la naissance de clubs Thomas Sankara qui s’activent à la préparation du 20 ème anniversaire de la mort du héros. Il faut aussi noter la Campagne Inteationale Justice pour Sankara. Il s’agit d’une procédure juridique développée par des avocats burkinabè et inteationaux en vue d’obtenir justice pour Thomas Sankara. Autre manifestation inteationale, c’est la création du village de la jeunesse « Thomas Sankara » au forum social polycentrique de Bamako en 2005 au cours duquel les participants décidèrent la mise en place d’une cornordination inteationale pour la préparation du 20 ème anniversaire. Cet événement qui aura une portée mondiale sera l’occasion de relancer le mouvement sankariste à un moment où le parti au pouvoir est en train d’opérer une reprise en main totale de la vie politique nationale.


Germain Nama




Il potere secondo l’Africa (italiano/ français)

Considerazioni sulla democrazia

La democrazia: un bel concetto. Va di moda anche in Africa. Anzi è ormai condizione indispensabile per ottenere i finanziamenti. Ma occorrerebbe adattarla. E i politici del continente non sanno rinunciare a pratiche «locali». Di nascosto, però.

La democrazia è oggigiorno il riferimento politico supremo. In seguito alle dittature dette «popolari» dell’impero sovietico e le dittature mono partigiane installate in molti stati africani, nessuno vuole più essere escluso da questa corrente che attraversa il pianeta. Nonostante ciò, le realtà che si nascondono dietro le professioni di fede democratica sono talmente diverse e talvolta contraddittorie che non mancano di suscitare interrogativi. In Africa le etnie e le tribù, le famiglie e i clan, hanno dato alla democrazia un colore molto locale, a tal punto che alcuni si chiedono se non occorrerebbe dare un fondamento costituzionale a questi modelli politici.

Il 2007 è per alcuni paesi dell’Africa dell’ovest un anno di elezioni: Mauritania, Mali, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Togo. In un sistema democratico l’elezione è il meccanismo attraverso il quale il popolo sovrano sceglie a intervalli regolari coloro che devono condurre le trasformazioni sociali, indispensabili in materia di sviluppo economico e sociale. Questo suppone una dinamica intea fondata sulla convinzione degli attori sociali che lo sviluppo è affar loro. Ora, per i nostri politici africani, la nozione di popolo si riduce spesso alla tribù, quando non è semplicemente il clan o la famiglia. Immaginiamo in queste condizioni che contenuto può avere il gioco democratico, ben codificato dalle regole di diritto moderno. Se a ogni elezione un buon numero di partiti politici sono sul bordo dell’implosione a causa delle dispute intee, e pure la stabilità degli stati è minacciata, questo è dovuto spesso alle specificità molto africane, non sempre confessabili certo, ma ben radicate nei costumi politici.

L’osservatore straniero non capisce che una struttura ad hoc messa in piedi per organizzare le elezioni, che non è affatto abilitata a risolvere i contenziosi elettorali, possa decidere di una materia di competenza giudiziaria. È quanto appena visto in Nigeria, gigante d’Africa con una tradizione giuridica consolidata. Si possono capire cose del genere solo mettendosi nella mentalità africana, dove tutte le strutture sociali di qualsiasi natura, hanno come senso e finalità di servire il capo. Questi in Africa è un uomo forte per tradizione e per necessità.
È in questo spirito che un presidente africano in carica si è recato di persona in una prigione della capitale del suo paese per ordinare la liberazione del suo amico, giudicato e imprigionato dall’istituzione giudiziaria di cui lui dovrebbe essere garante (riferimento a recenti avvenimenti in Guinea Conakry, ndr).

La democrazia si presenta molto spesso in Africa come un gadget che si acquisisce giusto per far piacere agli occidentali. I dirigenti non accettano di applicare la democrazia che nelle sue forme apparenti. Vi sono tenuti a causa dei criteri di «buon governo», condizione necessaria per ottenere gli aiuti inteazionali, soddisfatti i quali la natura democratica del regime politico è dimostrata.
Ma questo non impedisce che le mentalità africane continuino a essere governate da principi e usi tradizionali, troppo spesso agli antipodi dei sistemi di riferimento delle società modee. È in questo senso che svariati responsabili politici africani ricorrono ai feticci (amuleti) per vincere le elezioni. Mai gli altari tradizionali sono bagnati di sangue d’animale come durante le campagne elettorali. Bovini, ovini e caprini sono ritualmente immolati. Ma anche animali più vicini all’uomo come cani e asini subiscono il barbaro supplizio.
Certe pratiche feticiste prescrivono che siano sepolti vivi. Più la richiesta è forte e maggiore il sacrificio richiesto. È come se bisognasse rispondere a una situazione compromessa con dei mezzi eccezionali.

Tutte queste pratiche causano naturalmente delle spese esorbitanti, ma bisogna credere che gli africani non indietreggiano davanti a nulla, quando c’è in gioco il potere o il denaro, due cose che vanno generalmente insieme.
Sono queste le ottusità, che hanno fatto dire che l’Africa non è pronta per la democrazia. Alcuni hanno perfino affermato che questi aspetti sono talmente scritti nei geni degli africani che bisogna tenerli in conto negli strumenti normativi che codificano la vita politica. È come dimenticare che, in Africa, sono sempre più numerosi coloro che vedono nella persistenza di pratiche occulte, il ricorso al comunitarismo o al clanismo, le cause del ritardo economico e del sotto sviluppo.
Certamente la democrazia non è una ricetta pronta per essere applicata. Ma non si può neppure presentare per ragioni di autenticità, come una riproduzione pura e semplice di un modo d’organizzazione ancestrale.
La democrazia è un principio dinamico che si nutre della storia dei popoli. Sfortunatamente l’Africa è in difficoltà sul pensiero politico. Questa è la principale causa del sottosviluppo.

Di Germain Bitiu Nama

Les pouvoirs africains et la démocratie
                                                                         

La démocratie est de nos jours la référence politique suprême. Après les dictatures dites populaires de l’ancien empire soviétique et les dictatures mono partisanes instaurées dans maints états africains, plus personne ne veut être en marge de ce courant mondial qui balaie toute la planète. Cependant, les réalités qui s’abritent derrière les professions de foi démocratiques sont si différentes et parfois même contradictornires qu’elles ne manquent pas de susciter des interrogations. En Afrique, les ethnies et les tribus, les familles et les clans ont donné à la démocratie une couleur très locale au point que certains se demandent s’il ne faut pas se résoudre à concéder un fondement constitutionnel à ces modèles politiques spécifiques.

L’année 2007 est pour un certain nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, une année d’élections : Mauritanie, Mali, Nigéria, Burkina, Côte d’Ivoire, Togo. En système démocratique, l’élection est le mécanisme par lequel le peuple, souverain par principe, choisit à intervalles réguliers ceux qui doivent conduire les transformations sociales indispensables en matière de développement économique et social. Cela suppose une dynamique intee fondée sur la conviction des acteurs sociaux que le développement est leur affaire. Or pour  nos  politiciens africains, la notion de peuple se réduit souvent à la tribu si ce n’est tout simplement au clan ou à la famille. On imagine dans ces conditions quel contenu peut revêtir le jeu démocratique par ailleurs bien encadré par des règles de droit modee. Si à chaque élection nombre de partis politiques sont au bord de l’implosion et que même la stabilité des Etats se trouve menacée de rupture, cela tient souvent à ces spécificités très africaines, pas toujours avouables certes, mais bien ancrées dans les moeurs politiques. L’observateur étranger ne comprend pas qu’une structure ad hoc mise en place pour organiser des élections et qui n’est nullement habilitée à connaître les contentieux électoraux puisse décider sur une matière qui relève de la compétence judiciaire. C’est ce qu’on vient de vivre dans un pays comme le Nigéria, un géant d’Afrique qui a cependant une tradition juridique bien établie. On ne peut comprendre pareille chose qu’en se situant dans la mentalité africaine où toutes les structures sociales de quelque nature que ce soit ont pour sens et finalité de servir le chef. Le chef en Afrique est un homme fort par tradition et par nécessité. C’est dans cet ordre d’esprit qu’un président africain en exercice est allé en personne dans une prison de la capitale de son pays ordonner la libération de son ami, jugé et écroué par l’institution judiciaire dont il est censé être le garant.

La démocratie se présente bien souvent chez les Africains comme un gadget que l’on acquiert tout juste pour faire plaisir aux Occidentaux. Les dirigeants n’acceptent volontiers d’user de la démocratie que dans ses formes apparentes. Ils y sont tenus en raison de critères de bonne gouveance attachés à l’aide inteationale, au nombre desquels la nature démocratique du régime politique figure en bonne place. Cela n’empêche pas que  les mentalités africaines continuent d’être gouveées  par des principes et usages traditionnels, bien souvent aux antipodes des référentiels des sociétés modees. C’est dans cet esprit que nombre de responsables politiques africains recourent aux fétiches pour gagner une élection. Jamais les autels traditionnels ne sont aussi abreuvés de sang d’animaux qu’en période électorale. Bovins, ovins et caprins sont ainsi rituellement immolés. Même des animaux aussi familiers de l’homme que le chien ou l’âne subissent le supplice le plus barbare qui soit. Certaines pratiques fétichistes amènent à les enterrer vivants. Plus la doléance est forte, plus le sacrifice exigé est élevé.  Comme s’il fallait répondre à une situation compromise par des moyens exceptionnels.

Toutes ces pratiques occasionnent bien sûr des dépenses faramineuses mais il faut croire que les Africains ne reculent devant rien quand il s’agit d’une question de pouvoir et d’argent, deux choses qui vont généralement ensemble.
Ce sont là des pesanteurs qui ont fait dire que l’Afrique n’était pas mûr pour la démocratie. D’autres ont même affirmé que ces tendances étaient si inscrites dans les gènes des Africains qu’il fallait les prendre en compte dans les instruments normatifs qui codifient la vie politique. C’est oublier que dans la même Afrique, de plus en plus nombreux sont ceux qui voient dans la persistance des pratiques occultes, le recours au communautarisme ou au clanisme, les causes du retard économique et du sous-développement. Certes la démocratie n’est pas une recette toute prête qu’il s’agit simplement d’appliquer. Elle ne peut non plus se présenter pour des raisons d’authenticité, comme une reproduction pure et simple d’un mode d’organisation sociale ancestral. La démocratie est un principe dynamique qui se nourrit de l’histornire des peuples. Malheureusement, l’Afrique est en panne de pensée politique. C’est la principale cause de son sous-développement.

Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Ho visto morire Saddam (italiano/ français)

Il nostro mondo ha una visione Nord-centrica. L’Italia, gli Usa,
oggi anche un po’ l’Europa. È questo «il mondo che conta». Esistiamo,
quindi pensiamo, solo noi. L’Africa, sono le guerre, i massacri,
l’Aids, talvolta gli elefanti e le giraffe. L’America Latina ci porta
samba e merengue, spesso il calcio. L’Asia, è la Cina, soprattutto,
perché qualsiasi cosa tocchiamo è stato fabbricato lì. Poi ci sono gli
stranieri, di tutti i colori, che «invadono» la nostra vita.

Eppure in Africa esistono popoli, culture, modi di essere e di vivere.
Nel quotidiano. Gioali, radio, televisioni, siti internet. Una
società ricchissima di varietà, giovane e in cammino costante. Con i s

uoi personaggi di riferimento: politici, di chiesa, di cultura.

Con questa nuova rubrica abbiamo l’ambizione di portare nelle vostre
case almeno un po’ della visione africana del mondo e degli
accadimenti. Un piccolo segno per dire: un altro mondo è possibile, un
altro mondo già esiste. A volte basterebbe ascoltarlo.

Marco Bello

Saddam Hussein è stato impiccato il 31 dicembre scorso. Il giorno della
Tabaski (Aid-el-Kébir, festa del sacrificio di Abramo, durante la quale
si sgozza il montone, ndr). La sua esecuzione è stata largamente
mediatizzata e ha profondamente scioccato l’opinione pubblica
internazionale e, in particolare, in Africa. Lo spettacolo del Rais, in
giacca scura, la corda al collo, che parla ai suoi boia era
particolarmente toccante e rivoltante, anche se non si perdono di vista
i gravi crimini che pesavano sull’uomo. Le reazioni alla sua
impiccagione sono state varie. Qualcuno metteva in causa le condizioni
poco degne della sua esecuzione a dir poco sbrigativa, quando avrebbe
dovuto rispondere a numerosi altri crimini durante il suo regno
sanguinoso, sui quali si sperava di fare luce. Secondo altri, le
immagini insopportabili mostrate alla televisione sono giustamente la
prova che la pena di morte è una pratica di un’altra epoca e che
bisogna bandirla per sempre dal diritto penale. Naturalmente le
reazioni in Africa si sono divise su queste linee, dimostrando anche
che tutti i luoghi del mondo sono entrati in una fase d’uniformazione,
realizzando così il villaggio planetario annunciato da Mac Luhan.
Questi avvenimenti di Baghdad ci danno l’occasione di guardare
l’evoluzione della pena di morte come sanzione penale in Africa.
Prendiamo il caso del Burkina Faso.

Non c’è dubbio che, come tutte le società umane, le società africane
tradizionali considerano la vita come un valore sacro, come del resto
lo dimostra la sorte riservata alle donne, ai bambini e alle persone
anziane durante i conflitti armati tra etnie rivali. La morte non è mai
stata un fatto banale. Essa è inflitta solo in casi eccezionali. Nella
zona mossì (etnia maggioritaria in Burkina Faso, ndr), una pena
intermedia è stata prevista per evitare di giustiziare certi individui
destinati alla pena di morte. Si tratta della castrazione. Questi
uomini castrati restavano a palazzo dove si mettevano al servizio del
re. L’assassinio appariva nelle società tradizionali come il fatto più
grave. In questo caso la sanzione penale è generalmente la morte. Anche
in questo caso poteva applicarsi una pena compensatoria diversa da
quella capitale. Ad esempio tra gli anyanga del Togo, la famiglia
dell’assassino, se voleva salvargli la vita, doveva fornire sette
persone come compensazione. Questi diventano schiavi al servizio della
famiglia della vittima. Nell’ampia scelta di sanzioni in vigore tra i
mossì, le multe sono le meno pesanti, seguono le sevizie corporali
(come l’incatenamento) e la morte. Per quanto riguarda la pena
capitale, una piazza speciale, chiamata boegtoèga era riservata alle
esecuzioni a Ouagadougou, attuale capitale e sede del Moro Naba,
l’imperatore dei mossì. I giustiziati erano in generale delle persone
vicine al re che avevano avuto relazioni colpevoli con le sue spose. Il
boia si chiamava dapoéramba. Bisogna sapere che i condannati a morte
erano trattati in modo diverso a seconda se erano prìncipi o gente
comune. Questi ultimi prima di essere condotti al patibolo venivano
legati con delle corde, mentre per gli altri un pezzo di stoffa era
sufficiente. Questa differenza si spiega con il fatto che davanti alla
morte, il prìncipe a causa della sua nobiltà, deve restare degno per
accogliere la sentenza del reame. Poteva capitare che nelle contese che
opponevano capi tra di loro, l’arbitraggio del Moro Naba portasse alla
pena di morte per il colpevole. In questo caso preciso non c’era
bisogno del plotone d’esecuzione. L’imperatore invitava il colpevole ad
«andarsene», ovvero a darsi la morte. La vittima si suicidava,
piantandosi una freccia avvelenata nel petto o facendosi strangolare da
una banda di cotone bianco. Nel reame mossì di Ouagadougou, Naba Warga
(1666 – 1681) ha la reputazione di essere stato l’imperatore che meglio
ha organizzato la giustizia penale tradizionale.

La legge dei costumi (tradizionale) ha cessato di esercitare molto
prima dell’indipendenza. Il Burkina Faso ha adottato un codice penale
che all’articolo 9 prevede la pena di morte. È prevista l’esecuzione
per fucilazione in un posto designato dal ministero pubblico. Nessuna
esecuzione può essere fatta nei giorni di festa legale né la domenica.
L’esecuzione di una donna condannata a morte è subordinata al rilascio
di un certificato di non gravidanza. Notiamo tuttavia che la
giurisdizione burkinabè non sembra troppo invogliata ad applicare la
pena capitale. L’ultima esecuzione risale al 1988, quando sette
militari furono fucilati dopo essere stati condannati da un tribunale
militare rivoluzionario per aver ucciso, nel novembre di quell’anno, un
ufficiale dell’esercito e sua moglie. Il 12 giugno 1984, l’esecuzione
di cinque militari e due civili fu ordinata sempre da un tribunale
militare, per complotto contro il governo. Altre condanne ci sono
state, pronunciate dalla camera criminale della Corte d’Appello di
Ouagadougou nel 2003 in contumacia per assassinio e mutilazione. Ma il
fatto che è stato al centro della cronaca è l’assassinio nel 2004 di
due ragazze da parte di un giovane. Questi confessa di averlo fatto con
l’obiettivo di raccogliere il loro sangue  per un rito con il
marabut (sacerdote musulmano, ndr) che gli avrebbe procurato ricchezza
e prestigio sociale. Il giovane fu giudicato e condannato a morte, ma
la pena non è stata ancora eseguita. La cosa più interessante è il
dibattito che ha seguito il processo. L’opinione pubblica s’è
appassionata al caso, per la crudeltà del crimine commesso dall’uomo,
le cui vittime erano per di più due amiche.
Due campi si sono allora costituiti sulla questione della pena di
morte. I favorevoli stimano che la criminalità si sia sviluppata perché
la pena capitale non è applicata in tutto il suo rigore. Questa
opinione è condivisa da un magistrato che constata come i mezzi per
combattere il crimine siano insufficienti. Occorre dunque, stima, che
le pene siano abbastanza dissuasive per scoraggiare i malintenzionati.
Questa opinione è contraddetta da un avvocato della parte civile di
questo ultimo caso. Secondo lui la pena capitale è uno spreco umano. Se
lo scopo della giustizia è permettere a una persona di pentirsi e
correggersi, allora la pena di morte non ha senso. Il dibattito è
ancora aperto.
Su 53 stati africani, 13 hanno abolito la pena capitale e 20 la mantengono ma non la applicano.

Germain Bitiu Nama
(tradotto e adattato da Marco Bello, per la versione originale in francese si veda oltre)

Germain Nama è uno dei più noti
intellettuali del Burkina Faso. Ha 57 anni ed è padre di 4 figli.
Professore di filosofia di formazione e giornalista impegnato per i
diritti umani. Ha collaborato con Norbert Zongo, il celebre giornalista
assassinato nel 1998, fin dalla creazione dell’Indépendant nel 1993.
Settimanale di cui è diventato condirettore alla morte di Zongo fino al
2002. È membro fondatore del Movimento burkinabè dei diritti dell’uomo
e dei popoli, nel quale è stato per oltre 10 anni presidente della
commissione arbitrale (struttura di consiglio e studio che assiste il
comitato esecutivo). Nama è direttore del giornale l’Evénement dalla
sua creazione (2001). Il bimensile di attualità politica più seguito
del paese, di cui è co-fondatore. (Per la versione completa online www.evenement-bf.net)
Ha un impengo nella commissione nazionale burkinabè per l’Unesco dal
1993, nel quale è capo divisione. Nel suo paese è molto apprezzato,
dagli amici e dai nemici, per il suo equilibrio e la sua correttezza.
Bitiu significa «legno sacro» e si tratta di un albero feticcio protettore. È il soprannome di Germain Nama.

La peine de mort en Afrique

Saddam Hussein a été pendu le 31 décembre deier, le jour de la
Tabaski. Sa mise à mort fortement médiatisée a profondément choqué
l’opinion inteationale et en particulier en Afrique. Le spectacle du
Raïs, en costume sombre, la corde au cou, parlant à ses bourreaux était
particulièrement saisissant et révoltant, même quand on ne perd pas de
vue les lourdes charges qui pesaient sur l’homme.  Les réactions
consécutives à sa pendaison ont été diverses. Les uns mettaient en
cause les conditions très peu dignes de son exécution du reste
expéditive, alors qu’il devait répondre de nombreux autres crimes dont
on espérait qu’il en sorte une lumière sur les dessous de son règne
sanglant. Pour les autres, les images insupportables montrées à la
télévision sont justement la preuve que la peine de mort est une
pratique d’un autre âge qu’il faut bannir à jamais du droit
pénal.   Naturellement, les réactions en Afrique ont aussi
épousé cette ligne de partage, démontrant ainsi que toutes les contrées
du monde sont entrées dans une phase d’uniformisation, réalisant ainsi
le village planétaire annoncé par Mac Luhan. Ces événements de Bagdad
nous fouissent l’occasion de jeter un regard sur l’évolution de la
question de la peine de mort comme sanction pénale au Burkina Faso

Il n’y a pas de doute qu’à l’instar de toutes les sociétés humaines,
les sociétés africaines traditionnelles tiennent elles aussi la vie
pour une valeur sacrée, comme du reste en témoigne le sort qui est fait
aux femmes, aux enfants et aux personnes âgées pendant les conflits
armés entre tribus ou ethnies opposées. La mort n’a jamais été un fait
banal. Elle n’est prononcée que dans des circonstances exceptionnelles.
En pays mossi, une peine intermédiaire a été prévue pour éviter
d’exécuter certains individus normalement destinés à la mort. C’est le
cas de la castration. Ces hommes castrés restaient dans l’entourage du
palais où ils se mettaient au service du roi. Le meurtre apparaissait
dans les sociétés traditionnelles comme la faute la plus grave. Dans
ces cas de figure, la sanction pénale est généralement la mort. 
Même là, il arrive qu’on applique une peine compensatornire autre que la
mort. C’est ainsi que chez les Anyanga du Togo, la famille du
meurtrier, si elle tient à épargner la vie de son membre, elle doit
fouir sept personnes en guise de compensation. Ces personnes ont
vocation à être des esclaves au service de la famille de la
victime.  Dans la panoplie des sanctions en vigueur en pays mossi,
les amendes apparaissaient comme les plus douces, à côté des sévices
corporelles (dont la mise aux fers) et la mort. En ce qui concee la
peine de mort, une place spéciale appelée boegtoèga était réservée à
l’exécution de la sentence à Ouagadougou où siège le Moro Naba,
l’empereur des mossis. Les suppliciés étaient en règle générale des
proches du roi qui ont entretenu des relations coupables avec ses
épouses. Les bourreaux s’appelaient les « dapoéramba.» Il faut
savoir que les condamnés à mort étaient traités différemment selon
qu’ils sont princes ou roturiers. Ces deiers avant d’être conduits à
la potence se voient attachés les mains à l’aide de cordes, tandis que
pour les princes, un morceau de tissu suffisait. Cette différence
s’explique par le fait que devant la mort, le prince en raison de sa
noblesse, doit rester digne pour accueillir la sentence du royaume. Il
arrive que dans les litiges qui opposent les chefs entre eux,
l’arbitrage du Moro Naba conduise à la sanction de mort contre le
fautif. Dans ce cas précis, il n’est point besoin d’un peloton
d’exécution. L’empereur invite le fautif à « s’en aller »
c’est-à-dire à se donner la mort. La victime se donne elle-même la
mort, soit en se plantant une flèche empoisonnée dans le mollet, soit
en se faisant étrangler avec une bande de cotonnade blanche. Dans le
royaume mossi de Ouagadougou, Naba Warga (1666-1681) est réputé être
l’empereur qui a le mieux organisé la juridiction pénale coutumière.
Le droit modee burkinabè prévoit la peine de mort
La loi coutumière a cessé de s’exercer bien avant l’indépendance. Le
Burkina Faso a adopté un code pénal qui prévoit la peine de mort en son
article 9. Celle-ci s’exécute par fusillade en un lieu désigné par le
ministère public (art15). Aucune exécution ne peut avoir lieu les jours
de fête légale ni le dimanche (art 18). L’exécution d’une femme
condamnée à mort est subordonnée à la délivrance d’un certificat de non
grossesse.  On note cependant malgré ces dispositions que les
juridictions burkinabè ne semblent pas pressées d’appliquer la peine de
mort. Les deières exécutions en date remontent à 1988 où sept
militaires ont été fusillés après avoir été condamnés la veille par un
tribunal militaire révolutionnaire pour avoir tué en novembre de la
même année un officier de l’armée et son épouse. Le 12 juin 1984,
l’exécution de cinq militaires et deux civils fut ordonnée, également
par un tribunal militaire, pour complot contre le gouveement.
D’autres condamnations eurent lieu, cette fois prononcées par la
chambre criminelle de la Cour d’appel de Ouagadougou notamment en
2003 par contumace pour meurtre et mutilation. Mais l’affaire qui
défraya la chronique, c’est le meurtre en 2004 de deux filles par un
jeune homme. Ce deier avoua l’avoir fait dans le but de recueillir
leur sang en vue d’un rite maraboutique censé lui procurer richesses et
considération sociale. Le jeune fut jugé et condamné à mort, mais la
peine n’a pas encore été appliquée. Le plus intéressant, c’est le débat
qui a suivi ce procès. En effet, l’opinion publique se passionna pour
cette affaire, en raison de la cruauté du crime commis par un jeune
homme dont les victimes étaient de surcroît ses amies. Deux camps se
sont constitués autour de la question de la peine de mort. Ceux qui
sont favorables estiment que si la criminalité se développe, c’est
parce que la peine de mort n’est pas appliquée dans toute sa rigueur.
Cette opinion est du reste partagée par un magistrat qui constate à son
tour que la criminalité est très développée alors que les moyens
manquent pour la combattre. Il faut donc estime t-il que les peines
soient suffisamment dissuasives pour décourager les gens à commettre
les crimes graves, passibles de la peine de mort. Cette opinion se
trouve contredite par un avocat de la partie civile de cette deière
affaire en date. En effet pour lui, la peine capitale est un gâchis
humain. Si le but de la justice c’est de permettre à une personne de se
repentir et de se corriger, alors la peine de mort n’a pas sa raison
d’être.» Le débat est donc toujours ouvert.
Notons que sur les 53 Etats africains, 13 ont aboli la peine de mort
pour tous les crimes, 20 la maintiennent mais ne l’appliquent pas.

Germain Bitiu Nama

Germain Bitiu Nama