La musica secondo Ennio Morricone


Mi ha molto colpito la tenerezza con cui il maestro Ennio Morricone ha dedicato a sua moglie Maria la conquista dell’Oscar 2016 per la colonna sonora tratta dal film di Quentin Tarantino The Hateful Eight.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_82Ennio è da mezzo secolo un’eccellenza italiana nel mondo, e il premio dell’Academy lo meritava già da quasi tre decenni, da quando, nell’87, un dio del jazz come Herbie Hancock, gli soffiò sul filo di lana la statuetta che avrebbe meritato per la fantastica colonna sonora di Mission, il film sulla lotta dei gesuiti in favore degli indios (foto in pagina, ndr). Nel corso degli anni Morricone avrebbe regalato le sue inimitabili note a centinaia di film. Senza pretese e lamentele. Non solo per la sua ben nota timidezza, ma per la capacità (unica) di rispettare il prossimo riconoscendo sempre i meriti di chi concorre con lui in qualche cosa.

Quando si è trattato, però, di dare un piccolo spazio alla sua gioia, questo maestro 87enne, allievo di Goffredo Petrassi per i corsi di composizione, non ha avuto timore, fuori da ogni schema, di apparire normale e di ringraziare la compagna della sua vita, la madre dei suoi 4 figli, fra cui Andrea, direttore d’orchestra come lui, che la notte del 28 febbraio lo ha accompagnato sul palcoscenico di Los Angeles. In una sala rutilante dove quasi tutti avevano inventato per l’occasione il loro copione, Ennio ha scelto il basso profilo: Maria, i ragazzi, la musica, le invenzioni stilistiche negli arrangiamenti che lo hanno consacrato alla grandezza.

È sempre stato così Ennio.

C’è stato un tempo, per esempio, in cui la sua capacità di arricchire le canzoni dei cantautori della casa discografica Rca (attiva in Italia dal 1949 al 1987, ndr) lo aveva già fatto scegliere come un collaboratore indispensabile per i vari Gino Paoli, Luigi Tenco, Edoardo Vianello, Umberto Bindi e tanti altri. Morricone prendeva queste composizioni scarne, anche se singolari, e le trasformava in vestiti della domenica, della nascente musica pop italiana, pur senza mai gloriarsene. Sapore di sale come Abbronzatissima o Lontano Lontano erano creature dei giovani artisti che stavano nascendo in quell’inimitabile laboratorio che fu la casa discografica di via Tiburtina.

Morricone inventava perfino i riff (in una composizione è la frase musicale ripetuta, ndr) per arricchire queste canzoni. In molti ne usufruirono, ma Ennio non se ne è mai vantato. Era il suo lavoro e basta.

Lo stesso atteggiamento ebbe quando cominciò a divenire un mito per la scrittura e per gli arrangiamenti dei «weste all’italiana», quel mondo inventato dai film di Sergio Leone. In quelle colonne sonore entrarono schiocchi di frusta, rumori inattesi, «assoli» di tromba e di armonica a bocca, invenzioni di un maestro che, come ha ricordato Andrea Penna sul Manifesto, ha pure militato per decenni e con impegno tra le file del gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza (associazione per la promozione della musica, ndr), alzando spesso la voce per l’assenza della musica negli insegnamenti scolastici.

Visto che Ennio mi onora della sua amicizia, mi piace ricordare alcuni aneddoti personali. All’epoca dell’affermazione della Rca italiana, nacque a Mentana, non lontano da Roma, una specie di villaggio della musica: avevano infatti preso casa in campagna Sergio Endrigo, Sergio Bardotti (noto paroliere e cantautore morto nel 2007, ndr) e due futuri Oscar come Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov (nel 1996 per Il postino, ndr). Senza contare che poco lontano, a Tor Lupara, ci stavano pure Gianni Morandi e Franco Migliacci e che, a un certo momento, in fuga dalla dittatura instauratasi nel loro paese, arrivarono anche artisti brasiliani, in particolare Chico Buarque e Toquinho. Li ospitò tutti Bardotti, che trovò, nel sottoscala, un posto anche per Lucio Dalla. Ciò che agglutinò quella banda di musicisti fu il calcio, specie le partite del sabato in cui, nel campo regolamentare fatto costruire da Morandi, ci si riempiva di calci e dove eccelleva Pierpaolo Pasolini. L’unico che faceva l’osservatore con commenti tecnici era il maestro Morricone, già geniale con la sua musica, ma non versato per i dribbling e per gli schemi. Fu una stagione indimenticabile. Qualche tempo dopo incominciai a condurre Blitz, la domenica pomeriggio di Rai2, e sicuro dell’amicizia di questi artisti, quasi ogni domenica invitavo Ennio Morricone che però non veniva mai. Un giorno gli chiesi perché. Fu drastico e definitivo nella risposta: «Mi stupisco di te che fai pure il giornalista sportivo. Tu mi inviti sempre quando la magica Roma gioca in casa e io, in questa congiuntura, non sono agibile perché sono all’Olimpico e non posso, e non voglio, cambiare programmi». Dovetti mettermi a studiare il calendario-gare della Roma per averlo in studio.

Anni dopo, nello spirito d’amicizia di cui mi ha sempre onorato, insieme ai 45 componenti dell’Orchestra Roma Sinfonietta venne a tenere un concerto in Irpinia, a Torella Dei Lombardi, il paese natale di Sergio Leone, dove per 5 stagioni ho diretto il «Festival del cinema weste». Ennio in quell’occasione vinse la sua timidezza e, a sorpresa, incominciò a raccontare la sua vita. Quando non riusciva a spiegarmi i segreti della sua professione, scendeva dal palcoscenico, si metteva al piano e chiedeva aiuto alla musica, al suo modo di amarla, di spiegarla, di interpretarla. Sua moglie Maria, che come sempre lo accompagnava, mi disse alla fine che non lo aveva mai visto così soddisfatto. La stessa Maria a cui Ennio ha pubblicamente e teneramente dedicato il suo Oscar.

Gianni Minà




La nobiltà umana di Ettore Scola

 

Se dovessi definire il carattere di una persona di grande talento, eppure generosa fino all’umiltà, citerei immediatamente Ettore Scola, che forse ha formato il proprio modo di essere con l’abitudine di scrivere per gli altri, imparata nei suoi primordi di soggettista e sceneggiatore, quando scrisse, per esempio, «Un americano a Roma», il film che lanciò Alberto Sordi, diretto da Steno, il padre dei fratelli Vanzina.

Ma questa riflessione è ancor più commovente, se penso che Scola, maestro di quella che hanno chiamato «la commedia all’italiana», ha scritto con Maccari, per Dino Risi, «Il sorpasso», la fotografia più precisa dell’Italia del boom economico e della voglia di stare al mondo in qualunque modo dopo una grande tragedia come la seconda guerra mondiale.

Ettore, che era arrivato a Roma da un paesotto dell’Irpinia, Trevico, così come Sergio Leone e i De Laurentiis da Torella dei Lombardi, aveva fin da subito, da giovane redattore del Marc’Aurelio, rivista satirica, sposato la collaborazione con chi gli stava vicino, il piacere di costruire insieme un’idea, un racconto, la capacità di lavorare in gruppo e di consegnarsi spesso ai sogni degli altri.

È per questo che il suo addio al mondo non ha portato solo il rammarico per una grande intelligenza e un grande talento che ci hanno lasciati, ma anche la nostalgia di una persona dal cuore nobile.

Mi è rimasta impressa la disponibilità con cui si mise a disposizione del regista brasiliano Walter Salles e mia per tratteggiare la figura del giovane Che Guevara, che ci accingevamo a studiare nella sua complessità per il film «I diari della motocicletta» che poi fu un successo. Era la storia del viaggio giovanile dell’eroe argentino attraverso il continente latinoamericano.

Ricordo, in particolare, il primo pomeriggio in cui, sul terrazzo di casa mia, praticamente, Ettore ci mise a lezione proponendoci poi un finale in cui era riuscito a riunire semplicemente tutto quello che il Che era diventato nel mondo e in quell’epoca. I due ragazzi, Eesto Guevara e Alberto Granado, al termine del loro viaggio, si lasciavano durante una manifestazione giovanile a Caracas e nell’immagine successiva «riapparivano» alla testa di un corteo di protesta di coetanei ventenni di tutto il mondo sventolando una bandiera con l’immagine dello stesso Che, proposta da un ragazzo con la faccia dell’eroe argentino.

Poi Salles scelse un finale un po’ più semplice, ma la suggestione fu fortissima.

Ettore Scola sapeva domandarsi nei suoi film le cose apparentemente più elementari, anche se incastrate nei dubbi più profondi che un uomo intelligente si pone. Memorabile il tenerissimo dubbio di un proletario innamorato (Marcello Mastroianni), iscritto al partito comunista, nel film interpretato anche da Monica Vitti e Giancarlo Giannini, «Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca»: doveva considerare disdicevole il fatto che un militante come lui si facesse distruggere dall’amore? In caso contrario, il partito avrebbe capito?

Era la grande dote di un cineasta, non a caso adorato in Francia, e dei suoi fedelissimi compagni di «scrittura», Age e Scarpelli, quella di tentare di dar risposte, facendo finta di niente, su dubbi apparentemente irrisolvibili della società che si ricomponeva nella stagione del Dopoguerra.

Per avere la conferma di quello che affermo, basta ricordare opere come: «C’eravamo tanto amati», «Brutti, sporchi e cattivi», «La terrazza», ma anche i suoi due capolavori: «La ciociara», con Sofia Loren, e «Una giornata particolare», con la stessa Loren e Marcello Mastroianni, due opere in cui la vita è raccontata con la forza inesauribile del nuovo cinema neorealista. In particolare nel secondo film, dove una semplice radiocronaca di Guido Nodari, la voce ufficiale del regime, rende l’idea di un paese prigioniero del fascismo, senza mai far vedere la tragedia incipiente, ma ascoltando la cronaca di una sofferenza che sta per spiegare tutto.

D’altronde Ettore Scola non si fece mai sfuggire, sia che facesse parodia, ironia o cronaca, l’occasione di documentare quello che stava accadendo.

Ricordo in questo senso il suo coraggio nell’andare con altri colleghi come Monicelli a documentare il G8 di Genova, la vergogna del comportamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che pretendevano verità.

«Ho maledetto tutte le sigarette che ho fumato nella mia vita mentre, correndo nella polvere espulsa dalle strade battute dalle forze dell’ordine, tentavo di essere coerente con me stesso nel filmare quello che il sistema non voleva fosse visto» – mi disse qualche giorno dopo quando qualcuno tentava di sostenere che la protesta fosse dovuta a pochi facinorosi.

Lui sì, poteva essere candidato quattro volte all’Oscar per il miglior film straniero e nello stesso tempo documentare i guasti di una democrazia malata che non bisognava nascondere. Ci mancherà.

Gianni Minà