Rinascita democratica?

«Anniversari» in Burkina Faso

Le manifestazioni per commemorare i 20 anni dalla morte di Thomas Sankara si sono svolte in tutto il Burkina Faso. Intanto il «potere» ha festeggiato due decenni di dominio incontrastato.

Il 4 agosto 1983 quattro giovani ufficiali presero il potere in Alto Volta e impegnarono il paese lungo una via di trasformazione rivoluzionaria. Avevano come idolo Fidel Castro, Che Guevara, ma anche Mao Zedong e l’albanese Envers Hoxa. L’Alto Volta era in quel momento caratterizzato da un’instabilità politica segnata da tre colpi di stato, realizzatisi in maniera più o meno pacifica. Thomas Sankara si rivelava come capo incontestato della nuova giunta al potere.
Nel governo precedente aveva funzioni di primo ministro, ma le relazioni con il presidente Jean-Baptiste Ouedraogo erano piuttosto difficili, al punto che quest’ultimo ordina l’arresto del suo premier, su suggerimento di Guy Penne, allora consigliere del presidente francese François Mitterand. Con questo arresto gli avvenimenti si accelerano. Il paese entra in una fase pre – rivoluzionaria marcata da manifestazioni di strada che le forze di sicurezza dell’epoca non riescono a contenere. L’esercito era pure agitato da convulsioni animate dai protagonisti dei due campi. La rivoluzione era nell’aria e finisce per scoppiare il 4 agosto 1983.

il popolo al potere?

Il potere popolare fu instaurato attraverso l’organizzazione dei «comitati di difesa della rivoluzione» (cdr).
Questo marcherà profondamente il paese, tanto per le sue trasformazioni materiali rapide, che per i suoi metodi in totale rottura con quelli tradizionali. Ma molto rapidamente le contraddizioni affiorano tra i capi della rivoluzione. La nascita di fazioni intee fa degenerare la situazione. Il 15 ottobre 1987 Thomas Sankara è assassinato durante una riunione con dodici dei suoi compagni. La notizia della sua morte provoca una indignazione generale nella popolazione, anche se gli ultimi anni del suo potere avevano provocato molte frustrazioni, a causa dei numerosi soprusi perpetrati dai cdr.
In Burkina non si era mai vista una tale violenza politica. La morte di Thomas Sankara, capo dello Stato, non poteva che scioccare. La data della sua scomparsa è commemorata ogni anno da cerimonie al cimitero di Dagnoèn, dove riposa con i suoi 12 compagni di sfortuna.

dal messico al burkina

Questa figura storica della rivoluzione burkinabè era già il riferimento della gioventù del paese e dell’Africa. La sua morte amplifica il fenomeno facendo di lui un eroe.
 In questo ventesimo anniversario, i rivoluzionari di tutto il mondo hanno voluto dare all’evento un aspetto particolare. Intanto l’anno 2007 è stato proclamato dai suoi sostenitori «anno Thomas Sankara».
Tra le manifestazioni è importante sottolineare l’organizzazione di una carovana partita dal Messico per il Burkina Faso, con tappe nei paesi dell’America Latina, Europa e Africa. Un simposio internazionale è stato organizzato la settimana del 15 ottobre.
Il giorno anniversario della morte è stato segnato da una processione al cimitero. Le attività previste hanno avuto luogo, nonostante le difficoltà di ogni tipo che gli organizzatori hanno incontrato. Va notato, in particolare, che le sale pubbliche sono state rifiutate per gli eventi dagli uomini di potere. La televisione nazionale ha rifiutato di diffondere uno spot con contenuto informativo che gli organizzatori avevano presentato nel pieno rispetto delle regole.
Malgrado tutto questo ostruzionismo, l’avvenimento ha avuto eco nazionale e internazionale tale che lo scontento era ben visibile tra i partigiani di Blaise Compaoré (attuale presidente, salito al potere il giorno dell’assassinio di Sankara, ndr). Non dimenticheranno mai il colpo di grazia che ha costituito la venuta in Burkina di Mariam Sankara, la vedova del presidente defunto. Erano quasi 20 anni che aveva lasciato il paese in seguito all’assassinio di suo marito, senza più rimetterci piede. È stata accolta all’aeroporto di Ouagadougou da una popolazione numerosa, in un clima quasi d’isteria collettiva. Il giorno seguente, il 15 ottobre, un cimitero nero di gente ha assistito alla cerimonia per il deposito di corone di fiori sulla tomba.
Tutto questo non è piaciuto a Blaise Compaoré e i suoi uomini che avevano messo tutti i mezzi dalla loro parte sperando di marginalizzare le attività dei sankaristi.
le contro –
manifestazioni

Le manifestazioni del potere erano state organizzate nelle 45 province del paese con comitati provinciali. Parola d’ordine «festeggiare la rinascita democratica del Burkina», che Blaise vuole inizi proprio quel 15 ottobre.
A Ouagadougou una conferenza internazionale sulla buona governance è stata convocata, invitando personalità africane (e non) ad alti livelli. Di passaggio in Africa, è venuto anche il presidente del Brasile: Lula. Le star africane della musica hanno fatto l’animazione. Le organizzazioni dei giovani legate al potere sono state mobilitate dal ministero di competenza e portate a Pô, la città da dove partì la rivoluzione, per un meeting che si voleva storico. Si trattava di spiegare a questi giovani che la rivoluzione è stata fatta da Blaise Compaoré e che Sankara l’ha diretta per procura. Per l’occasione hanno portato delle persone a testimoniare e il tutto si è fatto in un’atmosfera di malafede e di finta amnesia.
A festa finita ognuno fa il suo bilancio. Ci si può domandare a che cosa ha portato questo confronto sulla data del 15 ottobre.
Il 30 marzo 2001, una giornata detta di riconciliazione nazionale era stata organizzata sotto la guida di Blaise Compaoré stesso. In quell’occasione, Thomas Sankara, era stato elevato al rango di eroe nazionale. Strano eroe nazionale se il ventesimo anniversario della morte resta oggetto, dal lato ufficiale di un ostracismo incallito!

Di Germain Bitiu Nama

Voci dalla strada

1987-2007. Una ricorrenza preparata da tempo da chi sostiene, ancora oggi, lo spirito che aveva animato il breve periodo di governo Sankara e sentita anche dalla gente comune.

La signora Fanta fa la sarta e all’epoca aveva vent’anni. Nel suo piccolo atelier ricorda quegli anni con un po’ di nostalgia: «Grazie a Tom Sank, il mio Capitano – dice, facendo l’occhiolino – le donne hanno avuto molto, la nostra condizione è migliorata».
Chi ha vissuto gli anni della rivoluzione non può dimenticare le campagne di vaccinazioni  per i bambini, la lotta contro l’analfabetismo, le battaglie contro la pratica delle mutilazioni genitali femminili e molto altro ancora. Non solo nostalgia: «Sankara ha fatto sicuramente delle cose buone ma un governo militare non è mai buono per un paese, se fosse durato più a lungo non sarebbe stato positivo» racconta Mamadou, taxista cinquantenne a Ouagadougou.
«Non si parla mai abbastanza di queste cose, ma non dobbiamo smettere di ricordare, per fare conoscere. Noi che abbiamo conosciuto Thomas abbiamo il dovere storico di parlare di lui. Oggi ci sono giovani di vent’anni che non hanno visto quel periodo. Noi che l’abbiamo vissuto dobbiamo raccontarlo». Sono le parole di Fidel Toé, ministro del lavoro durante il governo Sankara, suo amico d’infanzia, amico fedele anche dopo la sua morte.  Non ha ceduto alle pressioni di chi voleva fargli dichiarare che Sankara stesse organizzando un complotto contro Compaoré. Ricordare il 15 ottobre significa ricordare che Sankara è stato ucciso da uomini facenti parte di quello stesso paese per lo sviluppo del quale lui si era battuto.

Jean Hubert Bazie, giornalista, che oggi si occupa di formazione, è membro del comitato organizzativo della commemorazione per Sankara, con cui aveva lavorato. Con passione racconta: «L’anniversario è stato preparato tranquillamente da noi, con discrezione, prenotando in anticipo la Maison du Peuple (centro per manifestazioni, ndr), ma può essere che gli uomini del presidente abbiano capito che c’è molto interesse per questo avvenimento, e abbiano avuto paura. Dunque, hanno reagito inventando la festa per i vent’anni della rinascita democratica. Trovo questa decisione una scelta stolta. Se è vero che il presidente ha portato la democrazia è strano voler festeggiare il giorno in cui il potere è stato preso uccidendo Sankara, dovrebbero piuttosto celebrare il giorno dell’elezione del presidente. È fondamentalmente un errore festeggiare il giorno in cui un uomo è stato ucciso». Alla marcia popolare del 15 ottobre, alla tomba di Sankara lui è presente, insieme alla moglie di Sankara, rientrata dalla Francia per l’occasione, e a migliaia di persone che, con forza, hanno manifestato.  Per testimoniare che la morte del leader non ha cancellato le sue idee. Contemporaneamente, a place de la Nation (ex place de la Révolution, negli anni di Sankara), si è svolta la kermesse per festeggiare la democrazia.

di Tiziana Mussano, da Ouagadougou

Germain Nama




Il ritorno dell’ebola

Malattie dimenticate (13): ebola

La febbre emorragica di ebola è stata segnalata di nuovo nella Repubblica Democratica del Congo, con un’epidemia iniziata prima dell’estate.

Ancora una volta si è fatto vivo, e ha portato paura e morte. Paura, perché i virus che causano le febbri emorragiche, come Ebola e Marburg, portano con loro non solo la preoccupazione della morte, ma anche lo spavento per qualcosa di contagioso, che non si capisce; per la vista di uomini in tute bianche, completamente coperti, con guanti, stivali, maschere, che vengono in casa per vedere malati o per portare via i morti. Morti che non possono essere toccati dai parenti, che vengono seppelliti secondo precise norme per bloccare la diffusione della malattia.

Epidemia dimenticata
L’allarme è scattato in settembre nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’epidemia di febbre emorragica da virus Ebola, a quanto sembra più contenuta di quella del simile virus di Marburg di qualche anno fa in Angola, ha seminato preoccupazione e morte. Ma se l’epidemia di Marburg in Angola aveva trovato un po’ di spazio nelle cronache italiane, davvero poca risonanza ha avuto questa nuova comparsa del virus Ebola, dimenticata e relegata al paese lontano.
Non sono noti i numeri precisi delle persone infettate e di quelle che hanno perso la vita a causa del virus, e quindi le dimensioni dell’epidemia attuale. Secondo gli ultimi conteggi di inizio ottobre, dall’inizio di maggio ci sarebbero stati oltre 380 casi sospetti, fra cui 176 morti.
L’aggettivo «sospetti» viene mantenuto, perché solo in una minima percentuale di casi è stato possibile avere la conferma di laboratorio. Il dato numerico è ulteriormente in sospeso perché in questo stesso periodo l’Ebola non è l’unica infezione che circola: è stato infatti trovato un altro germe, la Shigella, responsabile di un’infezione intestinale con dissenteria. Oltre alla Shigella, l’Ong Medici senza frontiere segnala come nella zona vi siano altre malattie con manifestazioni simili a quelle iniziali della febbre di Ebola, come malaria e febbre tifoide.
In ogni caso, all’inizio di ottobre i casi di Ebola confermati dagli esami di laboratorio erano 24 e l’ultima vittima del virus risalirebbe al 22 settembre: un paziente morto nel reparto di isolamento allestito da Medici senza frontiere a Kampungu, un villaggio nella zona più colpita del paese.

La febbre mortale
Il virus responsabile della febbre emorragica di Ebola viene trasmesso dal contatto con materiale infetto, come sangue, vomito, diarrea e così via. Possono dunque essere pericolose per la trasmissione della malattia anche le cerimonie funebri, per il contatto diretto dei parenti con la persona cara morta a causa dell’Ebola.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta come, dopo un periodo di incubazione che può variare da due giorni a tre settimane, l’infezione si manifesti con febbre, debolezza importante, dolori muscolari, mal di gola, spesso seguiti da vomito, diarrea, manifestazioni sulla pelle, disturbi alla funzione del rene e del fegato e, in alcuni casi, emorragie intee ed estee. Da qui il nome di febbre emorragica.
La malattia è mortale nel 50-90% dei casi. Non vi sono terapie specifiche, se non cure di supporto, per esempio, per la disidratazione; al momento non sono nemmeno disponibili vaccini. I casi in cui si sospetta l’infezione da virus Ebola vengono isolati, per impedire la diffusione del contagio. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, Medici senza frontiere ha allestito a Kampungu un centro di isolamento, che prevede tre diverse parti: una dove vi sono i casi da isolare, una dove il personale si veste con le tute che lo isolano e si sveste dopo il contatto con i malati, e una per la disinfestazione.

Primi casi ad aprile
La conferma ufficiale dell’epidemia di febbre emorragica da Ebola nel paese africano è arrivata solo il 10 settembre ma, come riporta Medici senza frontiere, già dalla fine di aprile erano stati segnalati casi di una malattia sospetta. La conferma di laboratorio della presenza del virus Ebola è arrivata dai laboratori di Atlanta negli Stati Uniti e di Fancesville in Gabon.
Oltre all’identificazione dei casi sospetti e delle persone venute in contatto con possibili malati, alle misure di isolamento e all’utilizzo di pratiche sicure nel seppellire i morti, è stato portato avanti un lavoro di informazione sulla popolazione rispetto alla malattia, l’epidemia e come si diffonde il contagio, come riconoscere i primi sintomi e chi avvisare.
Gruppi di persone addette alla comunicazione, giornalisti, utilizzo di trasmissioni radio: grazie a queste ultime, l’Oms stima di avere raggiunto oltre il 60 per cento della popolazione locale. Sono stati svolti anche lavori di informazione con gruppi della società civile, non solo per mettere sull’avviso rispetto ai possibili rischi di trasmissione dell’infezione, ma anche per tranquillizzare, ridurre la paura e il panico nei confronti di questa malattia.

Cauto ottimismo
Con i primi di ottobre sia l’Oms sia Msf, che ha seguito l’epidemia sul posto, hanno riportato segnali positivi sull’andamento dell’epidemia, come una riduzione nel numero di persone nel centro di isolamento di Kampungu, dove nel mese di settembre vi erano stati 32 ricoveri.
Nonostante le prove quanto meno di un rallentamento dell’epidemia di Ebola, viene sottolineata l’importanza di mantenere alta l’attenzione, con l’identificazione e l’isolamento dei casi sospetti. In questo senso, Medici senza frontiere ha segnalato come ci siano nel paese villaggi isolati e difficili da raggiungere, con casi sospetti di questa febbre emorragica. E per dichiarare di avere sotto controllo l’epidemia devono passare 42 giorni dall’isolamento dell’ultimo paziente cui è stata confermata la diagnosi di Ebola, pari a due volte l’intervallo di tempo di possibile incubazione della malattia, prima della comparsa dei sintomi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Ai pellegrini non s’ha da dire

Incontro con don Nandino Capovilla (Pax Christi)

L’occupazione non esiste. I problemi nemmeno.
La disinformazione sul conflitto non risparmia i pellegrini che si recano in Terra Santa.  Quanto al turismo, non deve lasciare neanche le briciole ai palestinesi. A tutto ciò si è ribellato un prete che ha detto «basta» e che ha iniziato ad organizzare pellegrinaggi «alternativi». Questa è la storia della sua sfida.

La Palestina è sotto assedio da sessant’anni, ma dopo gli accordi (fallimentari) di Oslo, nel 2003, la situazione è precipitata, anziché migliorare.
I pellegrini che affollano i luoghi santi della cristianità non s’accorgono della tragedia in cui il popolo palestinese è costretto a vivere a causa di una delle occupazioni più spietate della storia: quella israeliana.
La gestione dei «pellegrinaggi in Terra Santa», una volta fonte di sussistenza per tanti palestinesi a Betlemme, Gerusalemme e in altre città, da alcuni anni è esclusivo appannaggio di aziende israeliane, emanazione del ministero del turismo.
Ne abbiamo parlato con don Nandino Capovilla, parroco a Murano e referente di Pax Christi per i «pellegrinaggi di giustizia».

Don Nandino, da un paio di anni Pax Christi organizza i «Pellegrinaggi di giustizia». Di che si tratta?
«Sono pellegrinaggi “alternativi” a quelli tradizionali organizzati dalle grandi agenzie israeliane, i cui manuali raccontano che si tratta di viaggi “spirituali” e non “politici”».

In pratica, il «buon pellegrino» non deve accorgersi che la Cisgiordania è assediata e spezzettata dal muro di separazione e che i cristiani, come i musulmani, vivono in condizioni drammatiche?
«Esatto. Chi si reca in Palestina non deve vedere cosa accade ai palestinesi, non deve porsi domande, non deve studiare quella che gli organizzatori definiscono eufemisticamente “complessa situazione politica”. A Betlemme non si può sostare neanche una notte, perché in questo modo si utilizzerebbero le risorse palestinesi, e il governo israeliano non lo vuole. Le strutture palestinesi vengono bypassate. Al pellegrino viene nascosta la mastodontica situazione di occupazione. Il muro, che ormai è molto ben visibile, viene giustificato con la necessità della “sicurezza”.  Viene raccontato che è stato costruito anche per proteggere i turisti, i pellegrini, dagli attentati terroristici dei palestinesi».

Come sono promossi i pellegrinaggi tradizionali?
«Emissari del ministero del turismo israeliano si recano nelle varie diocesi italiane e offrono “pacchetti di pellegrinaggi” in Terra Santa, comprensivi di alberghi e pullman israeliani. Nel “kit del pellegrino” è inclusa una cartina geografica dove la Palestina non esiste. La Cisgiordania e Gaza non esistono. Ci sono solo la Galilea e la Samaria e i nomi riportati sono quelli biblici. La maggior parte del tempo viene trascorso nei territori israeliani».

E i vostri pellegrinaggi in cosa si distinguono?
«Noi facciamo il contrario: i nostri pellegrini incontrano i palestinesi, cristiani e musulmani. Ogni sera vengono organizzati incontri con testimoni, associazioni, realtà palestinesi.
Come per i pellegrinaggi “tradizionali”, anche noi iniziamo il percorso da Nazareth, ma poi ci spostiamo nei villaggi del ’48 distrutti da Israele. Queste visite creano subito un forte impatto, fanno riflettere. Poi proseguiamo per Qalqiliya, Aboud, Taibe…».

Com’è iniziato questo vostro progetto «alternativo» e indubbiamente coraggioso?
«Nel 2002, durante i giorni dell’assedio dell’esercito israeliano alla Basilica della Natività. Non riuscivo più a sopportare quella situazione, quelle notizie. Ho iniziato a recarmi in Palestina con AssoPace e con il presidio del Medical Relief di Nablus. Nel 2004 sono tornato con alcune persone di Pax Christi. Quell’anno abbiamo prodotto il video Né muri né silenzi. A quel punto, Pax Christi mi ha affidato l’incarico di strutturare programmi di viaggi e di tenere le relazioni con la Palestina.
Ero stufo di vedere tutti quegli autobus che scaricavano turisti o pellegrini davanti alle basiliche cristiane palestinesi, persone che non avrebbero mai conosciuto la vera realtà della popolazione, cristiana e musulmana. Così, ho iniziato a proporre periodici pellegrinaggi “di giustizia”.
Ciò che ci porta in Palestina è il desiderio di vedere e capire quanto sta accadendo in questa terra, la Terra Santa, méta di migliaia di pellegrini da tutto il mondo con il solo desiderio di visitare i luoghi sacri della cristianità.
Li vediamo giungere a gruppi numerosissimi e su autobus con targa israeliana, passare velocemente i controlli ai check point e altrettanto velocemente procedere verso quella che sembra la loro unica méta.
Allora, ci viene spontaneo domandarci come sia possibile andare in Palestina senza prendere consapevolezza di quello che sta accadendo. Per questo motivo per noi è importante sforzarci di osservare e denunciare un’ingiustizia così evidente».

I media spesso denunciano le persecuzioni dei cristiani ad opera dei musulmani in Terra Santa. Qual è la sua opinione?
«Musulmani e cristiani condividono la stessa tragedia e sono uniti nella sofferenza e nella lotta contro l’occupazione, sono entrambi vittime di un’aggressione tra le più scandalose di tutta la storia umana.
I rapporti tra di loro sono buoni. I cristiani affrontano le difficoltà tipiche delle minoranze: rappresentano il 2% della popolazione palestinese. Quanto alle persecuzioni, sono gli stessi cristiani, preti, suore, vescovi, che ci chiedono di smentire queste voci che aiutano molto Israele, come tutta la disinformazione sul conflitto israelo-palestinese.
Queste notizie, smentite dai diretti interessati, sono funzionali allo scontro di civiltà tra islam e cristianesimo, e certamente all’occupazione israeliana che cerca di spaccare l’unità tra cristiani e musulmani in Palestina. I media enfatizzano molto piccoli episodi, seppur tragici, come, ad esempio, l’assassinio del cristiano evangelico a Gaza, lo scorso ottobre. Tutto va ad alimentare la propaganda e distoglie l’attenzione dalle operazioni dell’esercito israeliano».

Gerusalemme Est sta perdendo le proprie caratteristiche arabe, cristiane e musulmane: gli scavi sotto la «Spianata delle moschee» stanno procedendo indisturbati, nel silenzio o nel disinteresse internazionale. I palestinesi musulmani non possono pregare nella splendida Moschea di al-Aqsa (terzo luogo santo per l’islam, dopo quelli di Mecca e Medina) e «patrimonio architettonico dell’umanità», e i cristiani fanno fatica a entrare nella basilica del Santo sepolcro. Che futuro prevede?
«È probabile che gli israeliani si impossesseranno di tutta la città, ma benché potente, lo stato di Israele non potrà eliminare tutti i palestinesi, cristiani e musulmani, dalla faccia di Gerusalemme.
L’anno scorso abbiamo organizzato una sorta di protesta contro il tentativo di cancellare l’identità palestinese da parte di Israele: abbiamo sepolto di cartoline un nostro amico, un anziano leader del movimento nonviolento gerusalemita. Nell’intestazione abbiamo scritto “Palestina” e non “Israele”.  Gliene abbiamo spedite da tutta l’Italia, tantissime. Ebbene, i postini hanno cancellato la parola “Palestine” e l’hanno sostituita con “Israel”». 

A cura di Angela Lano

Angela Lano




Conosciuto ma dimenticato

Malattie dimenticate: colera

Il colera continua a mietere vittime dove manca l’accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici di base.

I l settimo Obiettivo di sviluppo del millennio, fra quelli stabiliti alle Nazioni Unite nel 2000 e da raggiungere entro il 2015, riguarda l’ambiente. Un obiettivo importante perché comprende problematiche quali l’accesso all’acqua pulita, la possibilità di avere servizi igienici adeguati e fognature, con separazione dell’acqua sporca da quella usata per bere e mangiare.
Ma secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) in un resoconto dello scorso anno, la strada è ancora lunga, vista la necessità di aumentare di un terzo gli sforzi per l’accesso all’acqua pulita e addirittura raddoppiarli sul versante servizi igienici e fognature. Ed è collegato all’acqua contaminata il colera, malattia dimenticata nel momento in cui vengono garantite le norme igieniche, ma che si ripresenta quando tali condizioni di sicurezza vengono a mancare. L’Oms riporta infatti il colera come uno degli indicatori chiave per quanto concee lo sviluppo sociale, una minaccia che svanisce nel momento in cui viene raggiunto un livello igienico minimo.
Nonostante questo, epidemie di colera, dimenticate, continuano a imperversare nei paesi poveri, non solo, sottolinea l’Oms, seminando sofferenza e morte, ma danneggiando anche la struttura economica e sociale delle comunità colpite e ostacolandone lo sviluppo.

Acqua da bere
e dA eliminare
Secondo quanto riportato dal resoconto di Oms e Unicef, supera il miliardo il numero di persone in aree urbane e rurali senza ancora un accesso ad acqua pulita e sarebbero oltre due miliardi e mezzo quelle senza servizi igienici e fognari adeguati.
A fare le spese di questa situazione sono soprattutto i bambini: nel solo 2005 ogni giorno 4.500 piccoli con meno di 5 anni sono morti per cause collegate all’acqua non sicura e a norme igieniche inadeguate, per un totale di 1,6 milioni. In particolare rappresentano una minaccia le malattie con diarrea e quelle parassitarie, con un rischio aumentato di epidemie di colera, tifo e dissenteria.
E proprio fra i bambini, nell’ambito di una situazione sanitaria sempre più precaria, sono stati segnalati a giugno i primi casi sospetti di colera in Iraq, dove veniva calcolato che meno di un piccolo su tre (il 30%) avesse l’accesso ad acqua sicura.

Il batterio e la tossina
Il responsabile del colera, malattia infettiva intestinale, è un batterio dal nome Vibrio cholerae, che arriva all’uomo attraverso l’acqua o il cibo contaminato. Solo raramente vi può essere una trasmissione diretta fra le persone.
Le epidemie di grandi dimensioni con inizio improvviso, tuttavia, sono in genere collegate all’utilizzo di acqua contaminata. La diarrea acquosa è causata da una tossina prodotta dal batterio e può portare a una perdita importante di liquidi dell’organismo, con disidratazione grave e morte se il malato non viene curato. Insieme con la diarrea vi può essere anche vomito.
Tuttavia, la maggior parte delle persone infettate non presenta la malattia, nonostante elimini con le feci il batterio, e lo diffonda quindi nell’ambiente, per una o due settimane. Inoltre, nel caso in cui vi sia la malattia, si ha il quadro clinico di colera con disidratazione moderata o grave in un paziente su dieci circa, mentre negli altri il quadro è meno importante e può essere sovrapponibile ad altri tipi di diarrea acuta.

rischio alto se impreparati
Il numero di morti causati dal Vibrio cholerae è molto differente a seconda degli interventi che vengono messi in atto e della loro tempestività. Si tratta infatti di una condizione che se si verifica in una zona pronta a rispondere in modo adeguato, con reidratazione del malato e se necessario con farmaci, i casi mortali sono meno di uno su 100; quando però l’infezione intestinale si diffonde in comunità non preparate e viene a mancare il trattamento o l’intervento rapido, il numero di morti sale, arrivando anche al 50% dei casi, uno su due.
Accanto poi ai provvedimenti nei confronti delle persone malate, vi sono le misure igienico-sanitarie, personali e della comunità, e di utilizzo di acqua e cibo sicuri per bloccare la diffusione del batterio e dell’infezione.

Decine di migliaia di casi
Il colera è diffuso e rappresenta un rischio costante di malattia, e morte, in diversi paesi. Vi sono anche epidemie isolate, favorite da tutte quelle condizioni che mettono a rischio l’accesso ad acqua e cibo sicuri e le condizioni igieniche di base, per esempio in zone con sovraffollamento o nei campi profughi. In queste situazioni il rischio di morte per colera è alto: l’Organizzazione mondiale della sanità riporta come nel 1994, nel campo rifugiati a Goma (Congo) durante la crisi rwandese, il Vibrio cholerae in un solo mese sia stato responsabile di 48 mila casi e 23.800 decessi.
Nonostante il suo possibile carico di morti evitabili, il colera viene dimenticato, confinato nelle periferie povere delle città, fra i profughi, nelle zone dove l’acqua pulita non è scontata. Alla fine di gennaio dello scorso anno, per esempio, sono stati segnalati i primi casi di colera nel Sud del Sudan: in meno di un mese le infezioni sarebbero state oltre 3.700, con decine di morti. Il numero complessivo di casi di diarrea acquosa nella prima metà del 2006 (fra il 28 gennaio e il 14 giugno) avrebbe superato i 16 mila, con 476 morti in otto su dieci stati del Sud Sudan.
Sempre in Africa, l’infezione avrebbe colpito in Angola oltre 40 mila persone, uccidendone migliaia. Comparso a Luanda a metà febbraio, anche qui come in Sud Sudan collegato a consumo di acqua non sicura, il colera si sarebbe poi diffuso a 14 delle 18 province, arrivando a una media di 25 morti ogni giorno. La popolazione si è trovata impreparata di fronte a una malattia per la quale da diversi anni non venivano segnalate epidemie nel paese. E quella del 2006 è stata definita da Richard Veerman, capo missione nel paese dell’organizzazione non governativa Medici senza frontiere, come «una delle peggiori mai viste in Angola».
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità, il 21 giugno, quando la diffusione dell’epidemia era in calo (seppur con ancora 125 casi segnalati ogni giorno), il totale delle infezioni riportate era arrivato a 46.758 casi, con 1.893 morti.
Ma lo scorso anno il colera in Africa ha imperversato anche in altre zone del continente: nel Nord del Sudan (con oltre 6.200 casi di infezione e circa 200 morti in quattro mesi) e nel Darfur, o ancora in Liberia, con la segnalazione di Medici senza frontiere ad agosto, di un aumento improvviso di casi nella capitale, in un paese in cui la malattia si presenta regolarmente con epidemie nella stagione delle piogge.

Insegnare ai bambini
Nel caso dell’epidemia in Angola, secondo quanto riportato da Medici senza frontiere, la conoscenza da parte delle persone di quello che era possibile fare per proteggersi dall’infezione era limitata, come pure nel caso dell’epidemia nel Sud Sudan, dove il colera non è solitamente diffuso.
Accanto a sovraffollamento, condizioni igieniche precarie e così via, assumerebbe un ruolo anche la conoscenza delle popolazioni dell’infezione, di come si trasmette, di cosa fare per bloccarne la diffusione. Sulla mancata conoscenza delle norme igieniche più semplici e le possibili conseguenze sulla diffusione di malattie hanno pensato di lavorare, per esempio, due cooperanti dell’organizzazione non governativa Coopi, proponendo un percorso ludico e nello stesso tempo istruttivo. Con un progetto di educazione sanitaria, indirizzata ai bambini in un quartiere povero di Kampala, capitale dell’Uganda, hanno cercato di renderli consapevoli dell’importanza delle condizioni igieniche e sanitarie nella vita di tutti i giorni, insegnando per esempio a non buttare la spazzatura nei canali di drenaggio sotto casa. Un gioco con tanto di pedine, percorso che rappresenta la città, dado da tirare per muoversi, carte con domande su salute, igiene e ambiente, a cui rispondere e su cui discutere insieme, imparando mentre si divertono.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Morte di un visionario

Sankara, l’eroe assassinato (italiano/ français)

Sono già 20 anni da quando Thomas Sankara, presidente del Consiglio superiore della rivoluzione, scompariva in un colpo di stato sanguinoso, perpetrato dal suo amico e fratello d’armi, Blaise Compaoré.
La rivoluzione burkinabè era una curiosità per alcuni e una speranza
di rinnovamento africano per numerosi giovani del continente e della diaspora. Morto Sankara, il dubbio e lo scetticismo si inculcano nello spirito di una frangia della popolazione africana. Come la fenice che rinasce dalle ceneri, l’eroe è più che mai di ritorno nel cuore dei giovani.

Thomas Sankara è caduto il 15 ottobre 1987 sotto i colpi di un commando incaricato della sua sicurezza. Si sapeva che le cose non andavano bene tra i principali dirigenti della rivoluzione, ma difficilmente si sarebbe immaginato quello che poi è successo. Si sperava piuttosto che i belligeranti avrebbero infine trovato un compromesso, non solo nell’interesse del loro progetto rivoluzionario, ma anche nella salvaguardia dell’amicizia che legava i due uomini: Blaise e Sankara. Ma nulla di tutto questo è valso. Bisogna credere che le contraddizioni erano tali che non c’era più alcun mezzo di riconciliarli.
Sankara aveva già nel suo spirito, il corso tragico che gli eventi avrebbero preso: «Fino a che c’è la rivoluzione – aveva dichiarato in uno dei suoi interventi improvvisati – ci sarà la reazione, la contro-rivoluzione. E l’opposizione alla rivoluzione prenderà tutti i tipi di forme e beneficerà di tutti i tipi di sostegno. Il primo nemico della rivoluzione è l’imperialismo all’opera. Non posso dirvi che abbiamo definitivamente eliminato tutti i rischi. L’imperialismo può in ogni momento tentare di fare qualcosa. Tenterà di appoggiarsi su questa o quella persona che è contro la rivoluzione, all’esterno o all’interno del Burkina Faso …».
Allora, la morte di Sankara è stata un colpo dell’imperialismo? La domanda resta senza risposta. Si constata che la rivoluzione non gli è sopravvissuta, ma alcuni si chiedono se lo stesso Sankara non avrebbe preso un’altra  strada, visto che il processo era a un impasse. Una parte importante della gioventù africana preferisce tenersi lontana da queste ipotesi e congetture, per attaccarsi a una certezza: Sankara era un rivoluzionario determinato e Blaise il braccio armato della contro-rivoluzione. Persuasa che l’Africa continua ad aver bisogno di una rivoluzione, Sankara ne resta la figura mitica agli occhi della gioventù, con le sue idee e il suo supporto ideologico.

Molti africani non hanno conosciuto fisicamente Sankara. Ma le sue prese di posizione sulla dipendenza dell’Africa dall’Occidente, la sua concezione di sviluppo endogeno, il posto della cultura nello sviluppo, l’emancipazione della donna africana hanno contribuito alla sua notorietà su tutto il continente africano e in America Latina.
Sul piano artistico il «sankarismo» conosce oggi un certo successo. Ci sono sempre più artisti che si ispirano al suo esempio,  nel campo musicale e nella produzione letteraria.
 
In certe capitali africane, come Accra e Brazzaville, delle piazze e delle vie portano il suo nome. Nonostante ciò in Burkina Faso, suo paese natale, c’è ancora intolleranza. Non mausolei né strade in suo omaggio. Dopo la crisi nata dall’assassinio del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998, ndr), una giornata nazionale del perdono è stata istituita. Ne è risultato un monumento dedicato a tutti i martiri. Ma non sembra che si sia ancora pronti a riconoscere il ruolo eccezionale che lui ha giocato come leader della rivoluzione burkinabè attraverso opere pubbliche a lui dedicate.
Sul piano politico si contano una decina di associazioni e partiti che rivendicano la sua eredità, ma la rappresentazione in parlamento resta debole. Nonostante questo si assiste in Africa, in Europa e in America Latina alla nascita di club Thomas Sankara che si attivano per preparare il ventesimo anniversario della morte dell’eroe. Occorre anche notare la Campagna internazionale giustizia per Sankara. Si tratta di una procedura giuridica portata avanti da avvocati burkinabè e inteazionali allo scopo di ottenere giustizia per Thomas Sankara.
Un’altra manifestazione internazionale è stata la creazione del villaggio della gioventù «Thomas Sankara» al Forum sociale policentrico di Bamako nel 2005. Nel corso del quale i partecipanti decisero di creare una cornordinazione internazionale per la preparazione del ventesimo anniversario.
Questo avvenimento che avrà una portata mondiale sarà l’occasione di rilanciare il «movimento sankarista» in un momento in cui il partito al potere sta cercando di riprendere in mano in modo totale la vita politica del paese.

Di Germain Bitiu Nama

Sankara, le héros assassiné

Par Germain Bitiou Nama

Voilà déjà 20 ans que Thomas  Sankara, président du Conseil supérieur de la Révolution disparaissait dans un coup d’Etat sanglant perpétré par son ami et frère d’armes, Blaise Compaoré.  La Révolution burkinabè était une curiosité pour les uns et un espoir de renouveau africain pour de nombreux jeunes du continent et de la diaspora. Sankara mort, le doute et le scepticisme s’installèrent un temps dans l’esprit d’une frange de la population africaine. A l’instar du phoenix qui renaît de ses cendres, le héros est plus que jamais de retour dans les cœurs des jeunes.

Thomas Sankara est tombé le 15 octobre 1987 sous les balles d’un commando du régiment chargé de sa sécurité. On savait que les choses n’allaient plus entre les principaux dirigeants de la Révolution, mais on avait de la peine à imaginer ce qui est arrivé. On avait plutôt espéré que les belligérants allaient finir par trouver un compromis, non seulement  dans l’intérêt de leur projet révolutionnaire, mais aussi dans celui de la sauvegarde de l’amitié qui unissait deux hommes : Blaise et Sankara. Mais rien de cela n’a tenu. Il faut croire que les contradictions étaient telles qu’il n’y avait plus aucun moyen de les réconcilier. Sankara avait intégré dans son esprit, le cours tragique qu’elle a pris : « Tant qu’il y a la révolution avait-il déclaré dans une de ses interventions improvisées, il y aura la réaction, il y aura la contre-révolution. Et l’opposition à la révolution prendra toutes sortes de formes et bénéficiera de toutes sortes de soutiens. Le premier ennemi de la révolution, c’est l’impérialisme qui travaille. Je ne peux pas vous dire que nous avons définitivement écarté tout risque. L’impérialisme peut à tout moment tenter de faire quelque chose. Il tentera de s’appuyer sur telle ou telle personne qui est contre la révolution, à l’extérieur, à l’intérieur du Burkina Faso… »Alors, la mort de Sankara était-elle vraiment un mauvais coup de l’impérialisme ? La question reste posée. L’on constate toutefois que la révolution ne lui a pas survécu, mais certains se demandent si Sankara lui-même n’aurait pas opéré un virage, vu que le processus était dans une impasse. Une partie importante de la jeunesse africaine préfère se tenir loin de ces hypothèses et conjectures pour se cramponner à une certitude : Sankara était un révolutionnaire déterminé et Blaise, le bras armé de la contre-révolution. Persuadée que l’Afrique a besoin d’une révolution, Sankara en est la figure mythique aux yeux de la jeunesse, ses idées, le support idéologique.

Que reste t-il aujourd’hui de Sankara ?

Beaucoup d’Africains n’ont pas physiquement connu Sankara. Mais ses prises de position sur la dépendance de l’Afrique vis-à-vis de l’Occident, sa conception du développement endogène, la place de la culture dans le développement, l’émancipation de la femme africaine ont fait sa notoriété politique sur l’ensemble du continent africain et en Amérique latine. Sur le plan artistique, le sankarisme connaît un certain succès. Les artistes sont de plus en plus nombreux à s’inspirer de son exemple dans le domaine musical et de la production littéraire. Dans certaines capitales africaines comme Accra, Brazzaville, des places et des rues portent son nom. Cependant au Burkina Faso, son pays natal, c’est encore la crispation. Pas de mausolée ni de rue à son hommage. Après la crise née de l’assassinat du joualiste Norbert Zongo, une Jouée nationale de pardon a été instituée. Il en est résulté un monument dédié à tous les martyrs. Mais on ne semble pas encore prêt à reconnaître le rôle exceptionnel qu’il a joué en tant que leader de la révolution burkinabè à travers notamment des œuvres publiques qui lui sont personnellement dédiées. Sur le plan politique, on compte une dizaine d’associations et de partis politiques qui revendiquent son héritage mais leur représentation reste assez faible au niveau du Parlement. Néanmoins on assiste en Afrique, en Europe et en Amérique latine à la naissance de clubs Thomas Sankara qui s’activent à la préparation du 20 ème anniversaire de la mort du héros. Il faut aussi noter la Campagne Inteationale Justice pour Sankara. Il s’agit d’une procédure juridique développée par des avocats burkinabè et inteationaux en vue d’obtenir justice pour Thomas Sankara. Autre manifestation inteationale, c’est la création du village de la jeunesse « Thomas Sankara » au forum social polycentrique de Bamako en 2005 au cours duquel les participants décidèrent la mise en place d’une cornordination inteationale pour la préparation du 20 ème anniversaire. Cet événement qui aura une portée mondiale sera l’occasion de relancer le mouvement sankariste à un moment où le parti au pouvoir est en train d’opérer une reprise en main totale de la vie politique nationale.


Germain Nama




Quando il ritardo è fatale

Malattie dimenticate (11): tripanosomiasi (malattia del sonno)

Sono ancora decine di migliaia i pazienti con la malattia del sonno, decine di milioni le persone che rischiano di ammalarsi.

Migrazioni, guerra, povertà. Tre elementi strettamente collegati alla malattia del sonno. Una malattia mortale, se non trattata, che continua a imperversare nelle zone dell’Africa subsahariana, la cui diffusione, e il riemergere di epidemie, viene spesso collegata ai conflitti.
Non sono note le cifre precise sul numero di malati, ma secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), potrebbero variare da 50 mila a 70 mila le persone infettate, mentre sarebbero 60 milioni quelle che vivono in zone a rischio e potrebbero ammalarsi.

Due differenti possibilità, stesso destino
La tripanosomiasi umana africana, più conosciuta come malattia del sonno, è diffusa in 36 paesi nell’Africa subsahariana, dove è presente la mosca tse tse, che con il suo morso può trasmettere l’infezione: una zona di oltre 9 milioni di chilometri quadrati, pari a circa un terzo dell’intera superficie del continente africano.
Il responsabile è un tripanosoma, che può essere di due tipi, con una distribuzione geografica, e caratteristiche temporali differenti della malattia. Il Trypanosoma brucei gambiense, cui vengono attribuiti 9 casi su 10 di malattia del sonno, è diffuso nell’Africa occidentale e centrale e causa un’infezione cronica: possono passare mesi o anni prima della comparsa dei segni e sintomi più gravi, che segnalano lo stadio avanzato della malattia, con coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
Invece, il Trypanosoma brucei rhodesiense viene localizzato a oriente e nel sud dell’Africa e causa una malattia assai più rapida, che si manifesta nel giro di pochi mesi o anche settimane e si diffonde al sistema nervoso centrale.

Dal sangue al cervello
Il tripanosoma viene trasmesso dalla puntura della mosca tse tse, che predilige vivere in zone ricche di vegetazione vicino a fiumi e laghi, in ambienti umidi, con penombra e temperature alte. Nel caso del Trypanosoma rhodesiense, animali quali antilopi, iene, pecore e bovini possono fungere da «serbatornio» della malattia, da cui la mosca tse tse può prendere il tripanosoma che poi trasmette all’uomo con la sua puntura.
La mosca tse tse, e con essa la malattia del sonno, è recentemente salita all’attenzione dei media per la sua «passione» nei confronti dei colori nerazzurri, caratteristici delle maglie di alcune squadre di calcio italiane. Sembra infatti che le mosche tse tse siano attirate da questa combinazione di colori, utilizzata per la costruzione di trappole in cui attirarle.
Una volta entrato nell’organismo, il tripanosoma si diffonde nei tessuti sotto la pelle, nel sangue e nel sistema linfatico, per poi superare la barriera ematoencefalica e arrivare al sistema nervoso centrale. Vengono lasciate aperte altre possibilità di passaggio dell’infezione, come dalla madre al bambino in gravidanza, accidentale in laboratorio, attraverso trasfusioni e trapianti d’organo.
La malattia del sonno, se non viene riconosciuta e trattata, porta alla morte del paziente e le manifestazioni dell’infezione sono suddivise in due fasi. La prima, definita emolinfatica, con febbre e sintomi poco specifici, come mal di testa, dolori alle articolazioni e prurito (in un quarto dei casi vi può essere rigonfiamento dei linfonodi cervicali). La seconda, neurologica, si manifesta, come accennato prima, a intervalli di tempo differenti a seconda del tripanosoma responsabile, a seguito dell’arrivo dell’infezione al sistema nervoso centrale.
È caratterizzata dalla comparsa dei sintomi da cui prende il nome di malattia del sonno. Infatti, accanto a disturbi psichici e neurologici (come confusione, disturbi sensoriali e di cornordinazione), compaiono le alterazioni del ritmo sonno-veglia: i pazienti tendono a dormire di giorno e fanno fatica di notte.

Il ritorno della malattia
Le popolazioni a rischio di infezione sono quelle che vivono nelle zone rurali, dedicate ad agricoltura, pesca, allevamento o caccia. Altri fattori segnalati dall’Oms collegati alla diffusione della malattia sono gli spostamenti delle popolazioni, la guerra e la povertà.
Negli ultimi 100 anni sono state segnalate nel continente africano tre principali epidemie: fra il 1896 e il 1906, nel 1920 e nel 1970, quest’ultima non ancora sotto controllo.
In occasione dell’epidemia del 1920, l’utilizzo di squadre mobili per monitorare le popolazioni a rischio aveva permesso di arrivare al controllo della diffusione dell’infezione a metà degli anni ‘60. Ma il venir meno dei controlli ha permesso al tripanosoma di tornare a manifestarsi negli anni successivi in diverse regioni: i dati del 2005 contano fra i 50 mila e i 70 mila casi.
La diffusione della malattia varia fra i diversi paesi e, anche all’interno degli stessi, fra le diverse zone. Nel 2005 sono state segnalate epidemie importanti in Angola, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, e la tripanosomiasi umana africana rimane un problema di salute pubblica per Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Uganda e Tanzania. In altri paesi il numero di casi riportati è più basso o non vi sono segnalazioni, ma non si hanno certezze, perché manca una sorveglianza adeguata con diagnosi dei possibili casi.
Vi sarebbero tuttavia segnali positivi: l’Oms riporta che gli sforzi da lei compiuti insieme con quelli dei governi e di organizzazioni non governative hanno permesso di interrompere la continua salita nel numero di nuovi casi.

Il ritardo
peggiora la prognosi
L’ambiente in cui è maggiore il rischio di essere infettati dal tripanosoma è anche quello che condiziona l’andamento peggiore della malattia. Infatti i malati spesso vivono in zone isolate, lontano dai centri sanitari e quindi dalla possibilità di essere visitati e di avere una diagnosi nelle prime fasi della malattia. Il ritardo nella diagnosi restringe le possibilità di cura, perché le prospettive di guarigione diminuiscono con il procedere dell’infezione.
Dal punto di vista terapeutico infatti, i farmaci indicati per la prima fase della malattia del sonno non solo sono più efficaci, ma hanno anche meno effetti collaterali dannosi per il paziente e sono più semplici da somministrare. Viceversa, una volta che il tripanosoma ha superato la barriera ematoencefalica ed è arrivato al sistema nervoso centrale, i farmaci a disposizione possono arrecare maggiore danno al paziente e sono anche più complicati come modalità di somministrazione. Uno, per esempio, è un derivato dall’arsenico e può causare un danno grave al cervello, che può essere mortale in una percentuale che varia dal 3 al 10% dei casi.
Proprio nell’ottica di migliorare la diagnosi e anticiparla si colloca l’annuncio, dato a febbraio del 2006 dall’Oms e dalla Fondazione per la diagnostica innovativa (Find, Foundation for Innovative New Diagnostic), della partenza di ricerche per arrivare a nuovi esami per la diagnosi. Infatti, nei primi stadi della malattia la diagnosi è più difficile per la presenza di pochi sintomi, tanto che si ritiene sia identificato correttamente solo un paziente su dieci.
Lo scopo delle nuove ricerche è arrivare a esami che migliorino le possibilità di una diagnosi precoce e con esse di un trattamento tempestivo e con maggiori possibilità di successo.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Nella prigione del dollaro

El Salvador

Nei paesi in via di sviluppo, dollaro è quasi sempre sinonimo di ricchezza. Ma ci sono situazioni in cui la realtà è opposta, come nel caso della cosiddetta «dollarizzazione»…

A San Salvador, capitale del paese centroamericano,   tutte le mattine il centrocittà viene invaso da una marea di ambulanti, che occupano le strade tra povertà, cantilene e commerci, più o meno legali. Mentre il macellaio squarta la carne ai piedi della chiesa in stile coloniale, nella strada di fronte, accanto alla succursale della banca nazionale, s’improvvisa un ristorante all’aperto di piatti tipici, largo quanto il marciapiede. Il centro storico e questo mercato improvvisato sono diventati un tutt’uno, immersi in una moltitudine ondeggiante, che si muove come al ritmo d’un vecchio bolero popolare salvadoregno.
In Salvador, la dollarizzazione dell’economia è arrivata il 1o gennaio 2001, accompagnata da varie promesse, come l’aumento degli investimenti stranieri e delle esportazioni di prodotti nazionali. Da allora invece sono aumentati soltanto il costo della vita e la disoccupazione, con sullo sfondo un paesaggio sociale che si deteriora giorno dopo giorno. La mancanza di lavoro si è tradotta in un aumento del settore informale, che evidenzia la incongruenza tra la dollarizzazione e il Dna di un paese povero come El Salvador. Come risposta ai problemi economici, il governo di Elías Antonio Saca ha approvato il tanto discusso «articolo 15» che penalizza la vendita informale. A metà maggio, i 17.000 ambulanti della capitale hanno realizzato manifestazioni di protesta, chiedendo l’abrogazione della legge e la liberazione di Vicente Ramirez (dirigente dell’«Associazione dei lavoratori, venditori e piccoli commercianti salvadoregni», accusato di atti terroristici) sotto lo slogan «Siamo venditori, non terroristi».
In un paese come questo, la dollarizzazione ha significato non soltanto la moltiplicazione della povertà, ma anche l’impossibilità di svalutare la valuta nazionale. Pertanto, l’unico modo per accrescere la competitività del paese a livello internazionale (cioè per aumentare le esportazioni) è quello della «deflazione» (ridurre i prezzi delle merci). Per diminuire i prezzi delle merci occorre però precarizzare ancora di più le condizioni dei lavoratori, dando sempre più potere alle maquilas del settore tessile e alle multinazionali della frutta, che non pagano neppure il salario minimo. Nella situazione attuale, con le importazioni che superano le esportazioni, il mercato nazionale è letteralmente invaso da prodotti importati, specialmente nordamericani, dalle scarpe fino ai prodotti cerealicoli a basso prezzo (perché sovvenzionati) e geneticamente modificati. Questa invasione ha spazzato via l’autosufficienza alimentare: i contadini salvadoregni non producono più per il mercato interno, perché i cereali importati costano meno; questa situazione spinge i contadini ad abbandonare le campagne (dove ormai si concentra il 97% della povertà). D’altra parte, migliaia di artigiani e di piccoli produttori del settore calzaturiero sono rimasti disoccupati: le scarpe statunitensi costano meno, perché sono prodotte in quantitativi enormi e quasi sempre in Asia, dove i salari sono ancora più bassi che nel Salvador.

Sugli effetti quotidiani prodotti dalla dollarizzazione parliamo con la dottoressa Beatrice Alamanni de Carrillo, procuratore generale per i diritti umani della Repubblica del Salvador. «Come difensore dei diritti umani in Salvador – ci spiega – posso dirle che, per la gente, la dollarizzazione è stato un colpo terribile che si è ripercosso sulla vita quotidiana di ognuno. In pratica, si è passati all’equivalenza tra colon salvadoregno e dollaro Usa, una cosa insostenibile, perché le retribuzioni sono sempre calcolate in colones. Questo significa che i salari hanno perso 8 volte di valore, un fatto insostenibile per la gran maggioranza della popolazione. Con un salario minimo pari a 140 dollari è impossibile sopravvivere. Purtroppo, la tragedia della dollarizzazione pare un fatto irreversibile. Occorre affrontarla con interventi economici adeguati e con molta creatività».
La minoranza ricca del Salvador, assieme alla classe politica attualmente al potere, hanno voluto a tutti i costi la dollarizzazione dell’economia, per tutelarsi da un’eventuale salita al potere del Fmln («Farabundo Martì per la liberazione nazionale», la ex guerriglia ora diventata un partito politico di opposizione). Attraverso la dollarizzazione costoro possono controllare il paese anche dall’esterno, manovrando i flussi e deflussi di capitale. In sintesi, la dollarizzazione dell’economia non ha fatto che accrescere gli squilibri preesistenti, traducendosi a livello di macroeconomia in una camicia di forza, dato che l’economia salvadoregna ormai funziona come un «pilota automatico» alle dipendenze dei poteri economici statunitensi. 

Di Carlos Bonino

Carlos Bonino




Cristiani in Kurdistan

Intervista a mons. Rabban Al Qas, vescovo di Amadhiya, Kurdistan iracheno

L’appoggio logistico dato dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto
del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Goveo regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parole del vescovo di Amadhiya.

Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida si trovano in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Goveo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte da chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano nel nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.

Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil – accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dal centro e dal sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Grc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuol fare di Ankawa una città modea e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.
In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti.  La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ‘60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Grc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano». Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte del Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio del 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Barzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan,  chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento. Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Barzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa estea all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, non solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collocazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti dei cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze inteazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana, e quali?
Questa è una domanda che bisognerebbe rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati Usa che vi risiedono dicono che per loro è come «essere in vacanza». Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace. 

Di Luigia Storti

Luigia Storti




Latitud Barrilete

Viaggiando in America Latina

È possibile descrivere l’America Latina partendo dalla quotidianità della gente?
Sì, è possibile, come dimostra l’esperienza di Martin Flores e Ana Sofia Quintana.

Nell’immaginario di ciascuno di noi ci sono luoghi pericolosi e dunque poco indicati per essere visitati o esplorati. Proprio da quest’immaginario nasce la paura per le strade e i sentirneri dell’America Latina. Per confutare tale visione, ho parlato con Martin Flores e Ana Sofia Quintana, due viaggiatori che, partendo da una proposta di giornalismo alternativo chiamato «Latitud Barrilete», ci regalano una visione meno stereotipata del continente latinoamericano.
Parlando con loro, prima di ogni altra cosa cerco di sapere in cosa consiste il loro progetto e quando è nata l’idea. Risponde Martin: «Latitud Barrilete è, prima di tutto, il desiderio di avvicinarsi alla gente che fa la storia, giorno dopo giorno. In pratica, vuole essere un progetto di giornalismo poetico-documentale senza fini di lucro, che si propone di testimoniare le problematiche esistenti nella nostra America Latina e soprattutto i modi in cui esse sono affrontate dalla gente. Noi cerchiamo di fare un lavoro sul campo. Ci avviciniamo ai barrios e alle comunità e cerchiamo di convivere con le persone, in modo da poter capire la loro realtà e quotidianità. Il progetto nasce durante un lungo viaggio attraverso la Patagonia effettuato tra il 2005 e il 2006, quando ci proponemmo di diffondere nei grandi centri urbani le realtà che non diventano notizia. Ci ha profondamente coinvolti essere testimoni di avvenimenti che, per una ragione o per l’altra, il sistema nasconde o falsifica. Anche se avevamo sulle spalle già 10 anni di viaggi per l’America Latina, sempre confrontandoci con la storia e con la gente, fu là nel Sud che cominciò a prendere forma quello che più tardi chiamammo Latitud Barrilete».
Ascoltando Martin e Ana Sofia mi coglie una sorta di «invidia», soprattutto venendo a conoscere i territori che i due viaggiatori hanno percorso (magari gli stessi che, per paura, io non sperimentai quando ancora vivevo in Colombia). Continua Martin: «I nostri viaggi sono stati come onde che crescono e poi si rompono, ogni volta più grandi, ogni volta più lontane. Ogni volta cercando di raggiungere una visione propria e di conoscere i protagonisti dei fatti che non diventano notizia per un sistema che produce soltanto solitudine e paura».
Martin e Ana Sofia hanno viaggiato attraverso il Cono Sud (Argentina, Cile, Uruguay) e la regione andina (Bolivia, Perù, Ecuador), ma si sono spinti anche in Colombia, Venezuela e Brasile. Hanno viaggiato senza programmare una via precisa. Sono andati e tornati varie volte, ma sempre avendo Buenos Aires come base che permette a loro di lavorare, studiare, diffondere ciò che fanno.

Come ognuno di noi, anche Martin e Ana Sofia hanno una loro idea sulla propria terra d’origine, un’idea molto bella: «L’America Latina rappresenta uno scenario unico nel mondo, poiché qui si sono sviluppati processi storici che non si sono visti in altri angoli del pianeta. Per lo scontro tanto drastico tra due culture che non si conoscevano; per il processo di meticciamento tra indigeni, africani ed europei, che ha prodotto una realtà vasta e profonda. Senza dimenticare la sua quotidianità donchisciottesca, la forza unica della sua cultura, la sua natura esuberante; e, dall’altro lato, le sue musiche, i suoi balli e i suoi colori, che fanno di questa terra una metafora collettiva, sempre cangiante, rinnovata e feconda».
A questo punto, non posso non chiedere a Martin e Ana Sofia cosa pensano dei fenomeni sociali latinoamericani dei quali siamo stati testimoni in questi anni: «L’America non si rassegna a quella visione tradizionale che le hanno attribuito, quella cioè di continente satellite dei grandi centri mondiali. Non siamo stati sconfitti, né siamo un continente povero. Se finora non abbiamo ottenuto ciò che cercavamo non è perché siamo rassegnati, ma perché ci siamo persi lungo la strada. Tuttavia, se c’è una qualità che ci distingue come latinoamericani, è la nostra volontà di cominciare di nuovo».
«Davanti alle continue convulsioni sociali e alla resistenza della gente, i nuovi governi adattano le loro strategie apparentemente per generare aspettative di cambiamento, ma in realtà perché tutto rimanga eguale: il saccheggio delle risorse, la disoccupazione, la distruzione dell’istruzione (pubblica), con il conseguente risultato della povertà e della marginalità. In ogni caso, è confortante vedere come la gente risponde a questa ripetizione di un modello oramai esaurito. L’organizzazione autonoma, orizzontale e partecipativa cresce nei barrios e nelle comunità, perché una parte sempre maggiore della popolazione non crede nella capacità della politica tradizionale di trasformare la realtà».

A chiusura del nostro incontro, Martin e Ana Sofia mi confermano con felicità che, dopo aver viaggiato per tanto tempo, hanno avuto la conferma che la gente più amabile è quella più umile. «È una costante – spiegano -: la solidarietà si trova maggiormente tra le persone che possiedono meno. È molto comune che qualcuno ti ceda il proprio letto o ti chieda di dividere con lei l’unico pezzo di pane che ha». 

Di Maria Helena Granada

Maria Helena Granada




A un passo dall’eradicazione

Malattie dimenticate (1): dracunculiasi

Per l’Organizzazione mondiale della salute,  fra meno di due anni la dracunculiasi sparirà con il suo carico di sofferenza e povertà.

Una malattia nota fin dai tempi più lontani, una malattia tropicale dimenticata, collegata alla povertà, che affligge ancora migliaia di persone in villaggi dell’Africa, potrebbe diventare un ricordo nel giro di due anni. La dracunculiasi (o malattia del verme di Guinea) potrebbe essere infatti la seconda malattia, dopo il vaiolo, dichiarata scomparsa dal pianeta e non più diffusa fra gli uomini, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un comunicato alla fine di marzo di quest’anno.
Sparirebbe dunque una malattia segnalata addirittura nelle mummie egiziane e menzionata da filosofi e medici greci, romani e arabo-persiani.

Da milioni a migliaia di casi
Secondo quanto riportato dall’Oms all’inizio di marzo, la Commissione internazionale incaricata di seguire e certificare i risultati nei confronti dell’eradicazione della dracunculiasi (Inteational Commission for the Certification of Dracunculiasis Eradication, Iccde) ha dichiarato liberi dalla malattia altri 12 paesi. Si tratta in particolare di Afghanistan, Algeria, Camerun, Repubblica Centrafricana, Djibouti, Gabon, Liberia, Mozambico, Sierra Leone, Swaziland, Tanzania e Zambia.
Dal momento della sua istituzione, avvenuta nel 1995, la Commissione ha dichiarato senza dracunculiasi 180 nazioni: se all’inizio degli anni Ottanta il verme di Guinea affliggeva circa 3 milioni di persone, allo stato attuale i casi segnalati si aggirano intorno a 25 mila, concentrati in 9 paesi: sembra più vicino il traguardo di eradicazione nel 2009.

Il verme più lungo
La dracunculiasi è una malattia infettiva causata da un verme (Dracunculus medinensis o verme di Guinea) simile a uno spaghetto, che supera il mezzo metro di lunghezza (fra 0,5 e 0,8 metri) e ha un diametro di 2 millimetri. Fra quelli che infettano i tessuti umani è il parassita di dimensioni maggiori. Migra lungo i tessuti sottocutanei delle persone infettate, provocando dolori anche importanti, soprattutto quando raggiunge le articolazioni. Può emergere alla superficie della pelle con gonfiori e ulcere dolorose, insieme con febbre, nausea e vomito. Le ulcere possono essere ampie, di solito localizzate agli arti inferiori e in nove casi su dieci ai piedi.
Il bruciore intenso causato dall’infezione porta i malati e cercare sollievo immergendo in acqua le parti del corpo colpite. Spesso si tratta della stessa acqua utilizzata poi dalle comunità come fonte per bere, ed è in questa azione che risiede la catena di trasmissione di malattia da spezzare. Infatti nell’acqua il verme presente nella zona infetta rilascia migliaia di larve, che vengono poi ingerite da pulci d’acqua, diffuse in tutto il mondo.
Nel momento in cui queste acque non filtrate e contaminate vengono bevute dalla popolazione, le pulci presenti sono distrutte dall’acidità dello stomaco, si liberano le larve che passano attraverso la parete intestinale, dando così origine a una nuova infezione e riparte il giro. In pratica, dice l’Organizzazione mondiale della sanità, «quando le persone bevono l’acqua stanno in effetti bevendo la malattia».

Il circolo della povertà
La dracunculiasi è diffusa ancora in Africa, in particolare in villaggi dell’Africa subsahariana. Seppure raramente mortale, il verme di Guinea porta con sé non solo i sintomi e le manifestazioni cliniche per il singolo individuo, ma anche ricadute importanti e a lungo termine di tipo socioeconomico, sulle famiglie e la società. Le persone infettate sono infatti rese invalide e impossibilitate a lavorare, anche per lunghi periodi: rimangono malate diversi mesi e alla dracunculiasi possono sommarsi sovrainfezioni causate da batteri.
Un’ulteriore aggravante è data dal carattere stagionale della malattia, che tende a presentarsi in particolare durante le stagioni del raccolto, tanto da meritare il nome di «malattia del granaio vuoto».
Secondo uno studio effettuato in Nigeria, riportato dall’Oms, circa una persona su due non è in grado di alzarsi dal letto per mesi e in Sudan, nelle famiglie dove più della metà degli adulti ha preso la dracunculiasi durante l’anno, i bambini con meno di sei anni corrono un rischio triplicato di malnutrizione. Questo perché gli agricoltori non riescono a svolgere il lavoro di raccolta nei campi. Le ricadute sui bambini non finiscono qui, perché, nel caso in cui vengano infettati, la malattia è responsabile di assenze prolungate, anche di mesi, da scuola.
Tutto questo, impossibilità al lavoro, malnutrizione, mancanza di istruzione, aggrava sempre più lo stato di povertà delle persone malate nei villaggi: «La malattia tiene le sue vittime imprigionate in un ciclo di dolore e povertà», sottolinea l’Oms.

Eradicabile perché
Associata all’utilizzo di acqua da bere infetta, la dracunculiasi viene definita dall’Oms una malattia «vulnerabile», nel senso che il suo ciclo di trasmissione dipende esclusivamente dall’uomo ed è nelle sue mani la possibilità di interferire con la sua diffusione.
Non ci sono al momento farmaci per prevenire e curare l’infezione da verme di Guinea, ma il suo stretto legame con l’elemento acqua per la trasmissione la rendono relativamente facile da contrastare con interventi di basso costo, come rendere sicure le fonti di acqua, trattare i pozzi per eliminare le pulci, filtrare l’acqua da bere per impedie il passaggio con il loro possibile carico di larve, contenere i casi con la cura delle ulcere e la prevenzione della contaminazione delle acque causata dall’immersione del paziente in cerca di sollievo al bruciore, portare avanti una educazione sanitaria.
Vi sono diverse caratteristiche, indicate dall’Oms, per le quali il verme di Guinea è considerato un buon candidato all’eliminazione, come è avvenuto in passato per il virus del vaiolo. Prima di tutto, la diagnosi è facile e sostanzialmente certa, per la possibilità di vedere direttamente il verme responsabile, che può emergere esteamente dalle lesioni. La trasmissione delle larve, e con esse della malattia, è legata alle pulci che si trovano nell’acqua, e non come per altre malattie a insetti con maggiori possibilità di movimenti e spostamenti, come le zanzare.
La malattia colpisce solo l’uomo; non è nota l’infezione in animali, e la sua incubazione, sia nelle pulci, sia nelle persone, non è lunga, come pure è limitata la distribuzione geografica e i periodi dell’anno in cui si manifesta. Gli interventi possibili per contrastare la dracunculiasi sono efficaci, non costosi e possono essere aumentati facilmente.
Infine, vi è la disponibilità a impegnarsi da parte dei governi ed è stato già dimostrato in Asia e Medio Oriente che è possibile arrivare alla sua eliminazione. «La Commissione ha concluso che l’eradicazione rimane una meta raggiungibile» chiude il comunicato dell’Oms di fine marzo. «L’impegno recente del Direttore Generale di dedicarsi alle malattie tropicali dimenticate, come parte delle strategie di riduzione della povertà, dando particolare attenzione all’Africa, apre una finestra di opportunità più che mai necessaria per raggiungere questo obiettivo».

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri