Voci e lacrime attraverso il muro

Essere cristiani in Terra Santa oggi

Esperienze di viaggio, pellegrinaggio e permanenza  in Terra Santa si trasformano nella narrazione di piccole storie quotidiane. Racconti che parlano di fatica, violenza, sofferenza e resistenza dei cristiani che vivono nei territori occupati.

Il 10 ottobre 2008, il Centro di animazione missionaria dell’Istituto Missioni Consolata di Torino ha ospitato l’incontro-dibattito «Essere cristiani in Terra Santa: affrontare l’occupazione, riscattare la speranza».
La serata è stata promossa dalla rivista «Missioni Consolata», dalle edizioni Paoline, da Pax Christi e dalla redazione di «Infopal.it».
Erano presenti don Nandino Capovilla, referente di Pax Christi per la Palestina; Betta Tusset, di Pax Christi; Gianluca Solera, cornordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture; p. Ugo Pozzoli, direttore di «Missioni Consolata»; Filippo Fortunato Pilato, direttore di «www.Jerusalem-Holy-Land.org»; Angela Lano, direttrice dell’agenzia stampa «Infopal.it», moderatrice dell’incontro.
Durante la conferenza sono stati presentati i libri: «Bocche scucite», di N. Capovilla e B. Tusset, edizioni Paoline; «Voce che grida nel deserto», di Michel Sabbah, (a cura di Nandino Capovilla), edizioni Paoline; «Muri, lacrime e za’tar», di Gianluca Solera, edizioni Nuovadimensione. 
Abbiamo rivolto alcune domande a Solera e Capovilla sulla situazione che descrivono in dettaglio nei loro libri.

La difficile quotidianità dei cristiani in Terra Santa

Essere cristiani in Terra Santa, quali sono le difficoltà e le sfide, che, nella vostra esperienza di viaggio e pellegrinaggio, avete potuto constatare?

Gianluca Solera: «Credo che la grande sfida consista nel saper vivere la fede in una situazione di oppressione politico-militare che determina tutta la storia di un popolo, e farlo parlando di speranza e riscatto alla propria gente.
Vorrei rispondere raccontando anche dell’esperienza del pellegrinaggio in sé. Lo spirito dei pellegrinaggi in Terra Santa soffre di un problema di poca permeabilità, dell’incapacità di voler entrare in contatto con le comunità cristiane locali senza ridursi a percorrere itinerari «museali» tra Santo Sepolcro e Monte delle Beatitudini. Come vincere questa resistenza alla permeabilità? Innanzitutto bisogna sconfiggere una pigrizia di fondo da parte dei promotori di pellegrinaggi, che spesso sono ciechi alla condivisione dell’esperienza del pellegrinaggio con la chiesa incarnata di Terra Santa. Per un qualsiasi pellegrino che non conosce la realtà locale, è molto difficile entrare in contatto e comunione con le comunità cristiane del posto. In secondo luogo bisogna sfidare la politica di separazione e isolamento imposta dalle autorità israeliane su villaggi e città palestinesi, che rende complicato l’accesso alle comunità cristiane in Cisgiordania. Sono convinto che un pellegrinaggio che non sfida quest’isolamento, è un pellegrinaggio povero umanamente e già morto in partenza nello spirito».
Don Nandino Capovilla: «I cristiani di Terra Santa sono essi stessi un appello vivente, fortissimo, alla presenza, alla condivisione delle loro sofferenze. Dai vescovi al credente: tutti aspettano con trepidazione che, dall’Occidente, arrivi qualcuno a sostenerli, a portare solidarietà, a conoscere la drammatica situazione in cui sono costretti a vivere sotto occupazione».

Sia in «Muri, lacrime e za’tar» sia in «Voce che grida dal deserto» e in «Bocche scucite» emerge, a un certo punto, il tema dell’«insicurezza» dei cristiani che vivono a Gerusalemme e in Israele. Essi si sentono trattati dalle autorità israeliane come «cittadini di serie B». Qual è la vostra esperienza?

Solera: «Ho percepito i cristiani soffrire in silenzio, quel silenzio che è proprio di chi si sente minoranza. L’insicurezza dei cristiani è anche quella dei musulmani, ovvero di tutti gli arabi israeliani che vivono in un regime di effettiva discriminazione e di isolamento. D’altro lato, i cristiani in quanto minoranza sono più esposti al rischio di scomparire, di vedere i loro diritti umani e civili calpestati giorno dopo giorno, di vivere la tentazione del ripiegamento nel privato. Il sinodo diocesano delle chiese cattoliche di Terra Santa, conclusosi nel 2000, ha sollevato questa questione e ha chiesto un impegno pubblico maggiore da parte della comunità cristiana araba in Israele. I risultati delle ultime elezioni politiche nel paese hanno manifestato questa volontà di emergere e di farsi ascoltare, con l’elezione, per la prima volta, di tre arabi cristiani a membri della Knesset (parlamento israeliano, ndr). Credo che sia la pista giusta. Maggiore senso di responsabilità pubblica da parte dei cristiani arabi di Israele e Gerusalemme significherebbe maggiore attenzione ai problemi effettivi della convivenza e coesistenza inter-religiosa e soprattutto maggiore azione sociale contro la discriminazione etnica in Israele».
Capovilla: «Sì, in Israele si sentono cittadini di serie B, perché lo stato continua a sostenere l’ebraicità come valore assoluto, quindi sia i cittadini cristiani sia i musulmani – cioè, gli arabi palestinesi – soffrono per le discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti della loro vita. Interessante è la sintesi tracciata da Sabbah nel suo libro:  “Noi siamo discriminati in quanto palestinesi, non in quanto cristiani”».

Persecuzioni islamiche
anti-cristiane?

In entrambi i testi sopracitati si parla di cristiani che lasciano la Palestina. Una certa informazione, anche italiana, punta il dito contro i musulmani. Tuttavia, sia monsignor Sabbah sia i religiosi intervistati da Solera smorzano queste tesi e accusano, invece, l’occupazione israeliana. Qual è la vostra opinione?

Solera: «Credo che non vi sia una volontà egemonica da parte dei musulmani palestinesi. La questione è che i numeri fanno la differenza, e i musulmani si fanno demograficamente più numerosi che i cristiani, con conseguenze materiali sulle regole e gli spazi della convivenza. Ma credo che la convivenza sia possibile, anzi necessaria per preservare la diversità, che è una delle ricchezze fondanti del “carattere palestinese”. Che le autorità israeliane possano usare possibili tensioni intee alla società palestinese non è da escludere, e fa parte delle armi utilizzate per indebolire la coesione sociale palestinese e quindi la capacità di lotta nazionale. Ho personalmente conosciuto dei palestinesi cristiani che, alle ultime elezioni politiche hanno votato Hamas in distretti quali Betlemme o Ramallah, e questo la dice lunga sulla complessità delle relazioni intee, che non si possono semplificare in una visione conflittuale interreligiosa».
Capovilla: «I cristiani non lasciano la Palestina a causa dei musulmani. Lo confermano le dichiarazioni autorevoli di Sabbah che, in “Voce che grida dal deserto”, scrive:  “Da alcuni anni è in atto una campagna che vorrebbe far risaltare un’ipotetica persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani. Che vi siano difficoltà nei rapporti, per una ragione o per l’altra, tra maggioranza e minoranza, è comprensibile e avviene qui come in ogni altro contesto. Noi palestinesi, cristiani e musulmani, siamo un solo popolo. Abbiamo le radici nella stessa terra, la Palestina. Le apparteniamo entrambi”.  Le sue parole sono una garanzia del nostro dovere di smontare tale propaganda, che è favorevole e funzionale, in Occidente, ad alimentare lo “scontro di civiltà” e quindi la “crociata anti-Islam” attualmente in corso. Il patriarca ripete sempre: “Siamo una piccola minoranza e quindi ci sono problemi di convivenza, come in qualsiasi  società, ma è ben altra cosa approfittare di piccoli episodi di criminalità trasformandoli in atti di discriminazione anti-cristiani e in propaganda”».

Cos’è cambiato da quando Hamas ha vinto le elezioni, nel gennaio 2006, e come viene considerato il movimento islamico tra i cristiani?

Solera: «Ripeto, molti cristiani votarono Hamas per ragioni politiche. Non so se farebbero lo stesso ora, dopo aver conosciuto le conseguenze dell’embargo imposto dalla comunità internazionale, ma questa è un’altra storia. Tra alcuni cristiani vi è apprensione, si teme che un movimento politico di ispirazione islamica possa marginalizzare la comunità cristiana e stimolare passioni irrazionali anti-cristiane. A metà settembre, quando stavo a Gaza, incontrai alcuni cristiani e feci la stessa domanda: ne ricevetti una risposta insperata, ovvero che non si sentivano minacciati da Hamas, ma piuttosto dai conflitti intestini, e che “Hamas li lasciava in pace”. La conclusione che ne traggo è che la comunità cristiana soffre certamente dell’animosità Hamas – Fatah, esponendo i suoi membri ai rischi della spirale di una lotta politica fratricida, ma che l’emersione di Hamas quale movimento di ispirazione islamica non comporta necessariamente l’affermazione di una politica di persecuzione su basi religiose».
Capovilla: «Purtroppo, il nostro modo di percepire e comprendere le varie dimensioni del conflitto è spesso lontano dai fatti reali. I cristiani, pur essendo contrari a radicalismi fondamentalisti che si scontrano con la natura laica della Palestina, non hanno problemi con Hamas. Il loro rapporto non è negativo: ad esempio, le autorità di Hamas nella Striscia di Gaza dimostrano rispetto nei loro confronti».

Il Muro che nasconde
la sofferenza dei palestinesi

I pellegrini si accorgono del «Muro di annessione»?

Solera: «Purtroppo no, nella maggior parte dei casi. Anche quando raggiungono Betlemme provenienti da Gerusalemme, passando con l’autobus attraverso quell’orrendo muro alto quasi nove metri, non si rendono conto di cosa significhi essere circondati da una barriera di cemento. Non fanno l’esperienza fisica dell’isolamento a cui è sottoposto un qualsiasi cittadino di Betlemme. Purtroppo, per “accorgersi” del Muro, è necessario vivee almeno un poco le conseguenze, mentre le facilitazioni al transito concesse esclusivamente ai pellegrini contribuiscono a rendere falsa l’immagine che uno straniero porta a casa della politica di segregazione imposta con la costruzione del Muro. Un poco di condivisione della sofferenza della segregazione in Terra Santa non farebbe male ai nostri pellegrini, e lo dico con franchezza».
Capovilla: «Lo vedono con gli occhi, ma non lo percepiscono. Vengono subito istruiti dalla guida sui “motivi di sicurezza” sottostanti… Ormai, con questa scusa tutto è possibile: anche chiudere milioni di persone in una grande prigione. Da qualche anno a questa parte, tutti i venerdì, alle 17, a Betlemme, in prossimità dell’apertura del Muro destinata a lasciar passare gli autobus dei pellegrini, un gruppo di suore organizza un rosario. Una preghiera contro il Muro. Nonviolenta. I pellegrini vengono invitati a scendere dai pullman e a unirsi alla preghiera, ma nessuno lo fa…».

Cosa si può fare, o si sta già facendo, per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, in particolare quella cattolica?

Solera: «Si sta facendo molto, ma sempre poco se compariamo gli sforzi di informazione e sensibilizzazione compiuti con il numero importante di pellegrini che visitano la Terra Santa senza un’adeguata preparazione culturale e politica. Quando si prega per la pace in Terra Santa, lo si fa spesso con quell’astrattezza e neutralità che rivela una mancanza di conoscenza della reale quotidianità delle comunità cristiane di Terra Santa. Credo che un buon modo di pregare per la pace sarebbe quello di gemellarsi con una delle molteplici parrocchie della Palestina, a cominciare da quelle più isolate, come quelle di Gaza o di Nablus. In altre parole, vedo necessaria una campagna di “adozione” delle parrocchie palestinesi da parte delle nostre e un lavoro pubblico che non esiterei a definire di contro-informazione sui cristiani di quella regione».
Capovilla:  «È importante preparare i pellegrini che partono, attraverso un lavoro paziente, spirituale e anche storico. Questa “apertura degli occhi” è un dovere morale e spirituale, pastorale, ancor più doveroso per noi, come cristiani».

Ebrei e israeliani «contro l’occupazione»

In Israele ci sono gruppi, movimenti, singoli cittadini ebrei che sostengono e lottano a fianco dei palestinesi. Sono gli «israeliani che chiedono giustizia»: Parents’ Circle, Icahd di Jeff Halper, i Refuseniks, i Naturei Karta, Bat Shalom, giornalisti come Amira Hass e Gideon Levy, storici come Ilan Pappe e tanti altri di cui i nostri media non parlano mai. Che peso hanno, secondo voi, queste organizzazioni e queste persone, in Israele?

Solera: «A metà settembre di quest’anno, ho incontrato Gideon Levy a Tel Aviv e Amira Hass a Ramallah, e ho posto loro la stessa domanda. Questi movimenti sono l’anima critica, la parte più sana della società civile israeliana che rifiuta di cadere nella logica dominante di disumanizzazione dei palestinesi e di compressione dei valori e delle libertà civili all’interno di Israele. Certo sono una minoranza, ma una minoranza necessaria, che rifiuta di parlare di pace senza giustizia. Debbo anche riconoscere, tuttavia, che la frustrazione e il pessimismo si sono accumulati in questi anni anche tra queste voci coraggiose. Gideon Levy riceve continuamente minacce verbali dal pubblico ebreo israeliano, e questo logoramento indebolisce anche lo spirito di un giornalista come lui. Amira Hass, che continua a vivere a Ramallah, è ancora più pessimista sul livello di apertura dei suoi concittadini verso un dibattito franco sulle cause profonde della crisi israelo-palestinese, e si aspetta un ciclico ritorno alla violenza, quasi che solamente la sofferenza possa scuotere le coscienze. Durante lo stesso viaggio, ho incontrato molte delle organizzazioni israeliane che lottano contro l’occupazione. Tutte hanno segnalato il rischio che alcuni settori del potere israeliano cerchino di “normalizzare” i rapporti israelo-palestinesi anche attraverso iniziative della cosiddetta società civile. La “normalizzazione” è una parola che non piace alle organizzazioni anti-occupazione, e l’unico modo per evitarla è avere propositi chiari ed espliciti ed azioni coerenti con essi, perché la “normalizzazione” è percepita dai palestinesi come un tentativo di pacificare senza giustizia. Oggi come oggi, queste organizzazioni sono in difficoltà anche logistica, e richiedono il nostro sostegno politico, civico e anche finanziario. Il loro successo starà nella capacità di creare spazi “binazionali” in cui ebrei israeliani e arabi lavorino insieme per un’alternativa alla politica di segregazione (come fanno ad esempio Parents’ Circle e Combatants for Peace). La loro missione consiste nel continuare a protestare sui cantieri del Muro e nel sensibilizzare israeliani e palestinesi sulla necessità di trasformare il loro modo di pensare il conflitto.
Queste organizzazioni sono accomunate da una visione critica del processo di pace e dell’iniziativa di Annapolis (Usa), del novembre 2007; credono che le parti che negoziano siano deboli e delegittimate di fronte all’opinione pubblica, e vogliono lavorare su un terreno più ampio che quello dell’opposizione alla costruzione degli insediamenti o del Muro di separazione. Ovvero, sulla memoria, sulla pianificazione territoriale alternativa, sulla demilitarizzazione della società, sugli stereotipi culturali, sulla preservazione delle risorse naturali come l’acqua, e soprattutto sulla formazione di un pensiero critico tra le persone. Gideon Levy mi diceva: “La società israeliana ha bisogno di uno scossone (breakthrough) emotivo”. Per questo, il lavoro coraggioso di queste organizzazioni che alcuni israeliani vorrebbero bollare come “traditrici della patria” è così importante».
Capovilla: «Io credo che la loro presenza incida più di quello che vediamo. Mons. Sabbah risponde a questa domanda puntando lo sguardo sulle future generazioni. Speriamo che esse possano superare i blocchi del passato e aprirsi alla dignità di tutti gli esseri umani e al rispetto dei diritti civili».

Violenza e nonviolenza
in Palestina

Il tema della «resistenza nonviolenta» è caro a molti cristiani e musulmani impegnati per la giusta soluzione alla causa palestinese, e mons. Sabbah ne parla ripetutamente nel suo libro. I villaggi palestinesi di Nil’in e Bil’in, ma non solo, ne sono un coraggioso esempio. Che cosa ne pensate?

Solera: «È sicuramente una strada da percorrere, e l’esempio di Bil’in, dove tutti i venerdì, da tre anni, gli abitanti del piccolo villaggio palestinese di Bil’in manifestano contro la costruzione del Muro è straordinario. Tuttavia, credo che non possa essere esclusiva. Come mi diceva Molly Malekar, direttrice dell’associazione di donne israeliane Bat Shalom che lavora per una giusta riconciliazione, i soldati del suo paese hanno picchiato pure lei durante una manifestazione non-violenta contro il Muro. Ovvero, il messaggio di Malekar era: “Non dobbiamo illuderci che la pratica non-violenta possa essere sufficiente a debellare la macchina dell’oppressione e a indebolire la forza militare e la volontà politica israeliana”. Condivido questa preoccupazione. Credo che si debba simultaneamente lavorare alla costruzione di un pensiero critico e alternativo dentro la società israeliana. D’altro lato, non possiamo neppure negare il diritto alla resistenza dei palestinesi, che potrebbe manifestarsi anche in modo armato, sempreché rispettino i canoni del diritto internazionale, che richiede, ad esempio, di non coinvolgere civili e inermi in eventuali scontri o azioni di difesa. Se da un lato dobbiamo ammettere che la resistenza palestinese non sia stata sufficientemente creativa e si sia definitivamente screditata con l’utilizzo dei kamikaze, d’altro lato dobbiamo riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodifesa, e aiutarli a trovare il modo più efficace di esercitarlo, senza ulteriormente alimentare il vortice cieco della vendetta e della ritorsione violenta. Come cristiani è un dibattito difficile, ma necessario. Credo che la cultura della nonviolenza possa contribuire a ridisegnare i termini della legalità dell’uso della violenza stessa, che attualmente poteri statali come quello israeliano pretendono esercitare con diritto in forma esclusiva».
Capovilla:  «Con la nonviolenza si può: Michel Sabbah ha fiducia in questo mezzo. La forza sta nel lavoro sotterraneo e nel non valutare il risultato dall’effetto immediato, che è tipico, invece, della violenza».

«La pace è nelle mani di Israele», afferma Sabbah, che aggiunge: «l’ostacolo più grande alla pace è rappresentato dall’occupazione militare israeliana». Perché in Occidente si pensa che, invece, tutto dipenda dai palestinesi e che Israele non abbia «interlocutori validi»?

Solera: «Credo che tre siano le ragioni: il senso di responsabilità storica nei confronti degli ebrei, che ci porta a esser parziali nel nostro giudizio; il senso di prossimità culturale maggiore nei confronti degli israeliani, percepiti come europei rispetto agli arabi o ai musulmani, per i quali proviamo invece un inconscio sentimento di diffidenza, se non di ostilità; infine, la scarsa informazione disponibile in Occidente sulla vita che si svolge nei territori occupati. Quest’ultima ragione ha giocato un ruolo decisivo nel convincermi a scrivere il mio libro. Contribuire a diffondere in Occidente un’informazione corretta e prossima alle ragioni dei più oppressi è un imperativo per coloro che come noi hanno conosciuto la realtà dei territori occupati».
Capovilla: «Dobbiamo rilevare con amarezza che di fronte allo stato di Israele, ogni critica è avvertita come un attacco al popolo ebraico. Questo impedisce di accettare che la pace sia davvero nelle mani di Israele, come dice Sabbah».

Cisgiordania e Gaza sotto assedio

La popolazione palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, è ormai allo stremo. Quali azioni di solidarietà ritenete valide e possibili?
Solera: «Due sono le azioni necessarie: rompere l’embargo e l’assedio a cui è sottoposta soprattutto la Striscia di Gaza, e sostenere politicamente i movimenti palestinesi. Molti dei palestinesi che ho incontrato mi dicevano:  “Non vogliamo il vostro pane, ma il vostro sostegno politico”. Ridurre la Palestina a un problema umanitario significa confondere le conseguenze con le cause, e contribuire indirettamente a mantenere lo status quo».
Capovilla: «Ci sono tantissime iniziative di solidarietà con il popolo palestinese, ma i media non ne parlano mai. Hanno prestato attenzione alla missione del Free Gaza Movement, forse perché più eclatante o forse perché a bordo delle due imbarcazioni, che ad agosto sono giunte al porto di Gaza rompendo virtualmente l’assedio, c’erano alcuni personaggi di spicco internazionale. In generale, i mezzi di informazione non parlano delle azioni di sostegno alla popolazione assediata, quindi, molti pensano che non si faccia nulla…».

Gerusalemme assiste a una forte ebraicizzazione, sia dal punto di vista urbanistico sia culturale e sociale. I luoghi santi cristiani e musulmani sono a rischio?

Solera: «Certamente lo sono in quanto luoghi di fede vivi, spazi sociali per cristiani e musulmani. Non credo che i luoghi sacri rischino la distruzione fisica. Ciò che mi preoccupa è che vengano trasformati in “reliquari” di archeologia religiosa, a cui non possono accedere i credenti locali per pregare o per incontrarsi. La giudaizzazione di Gerusalemme è anche questo: decomporre gli spazi comunitari e collettivi delle comunità cristiana e musulmana locali e banalizzare il patrimonio storico religioso a recinti di memoria».
Capovilla: «Non penso sia questo il problema reale, quanto piuttosto il fatto che il volto della Città Santa è ormai sfigurato. E ciò la mette a rischio di non poter diventare, un giorno, la capitale dello Stato palestinese. La stessa diplomazia internazionale che non concede a Israele di spostare a Gerusalemme le sedi delle ambasciate straniere dovrebbe impegnarsi affinché essa non diventi possesso di un solo Stato, di una sola comunità». 

Di Angela Lano

Angela Lano




Osanna nelle alture

Le montagne di dio nella bibbia e nelle religioni non cristiane

In quasi tutte le religioni il monte, a motivo della sua altezza e mistero di cui è circondato, è ritenuto
il punto in cui il cielo incontra la terra. Ogni paese ha il suo monte santo, dove abitano le divinità
da cui viene la salvezza. La bibbia ha conservato tali credenze, ma le ha purificate.

T ra tutti i fenomeni della natura la montagna come luogo sacro e seducente ha sempre affascinato gli uomini. Essa è considerata in modo del tutto particolare luogo delle ierofanie, delle manifestazioni del sacro. Fin dai tempi più remoti, in quasi tutte le religioni e in tutte le civiltà si credeva che l’altitudine avesse una virtù consacrante, che le regioni superiori fossero sature di forze sacre.
Tutto quello che più si avvicinava al cielo, partecipava con intensità variabile alla trascendenza. L’altitudine (monti, cime, colline, alture) veniva assimilata al trascendente, al sovrumano, punto d’incontro del cielo e della terra, simbolo della presenza del sacro e dell’ascensione umana verso Dio.
NEL MONDO BIBLICO
Le montagne hanno un compito importante nelle vicende del popolo d’Israele. Non sono solo menzionate come luoghi geografici; hanno anche un valore simbolico. Sono pieni di sacralità, producono determinati effetti religiosi, diventano luoghi di culto dai quali si rende gloria a Dio. Per tutti questi motivi i monti sono l’abitazione di Dio: «Dio ha scelto a sua dimora il monte di Basan, il monte delle alte cime; il Signore lo abiterà per sempre» (Sal 67, 14-17).
Nella bibbia, specialmente là dove si narrano gli avvenimenti più antichi del popolo ebraico, moltissimi luoghi di culto si trovano sulle «alture», parola che traduce il plurale ebraico bāmôt, luoghi normalmente situati sulla cima di una collina o di un monte, dove Dio abita e si rivela:  dal monte Ararat, sulla cui cima l’arca di Noé si arenò dopo il diluvio e dove Noé offrì olocausti al Signore (Gn 8, 1-22), al monte Sinai, il cuore dell’Esodo, la montagna «tutta fumante, perché su di essa era sceso il Signore nel fuoco» (Es 19,16-20).
Anche il Dio d’Israele, Jahvè, è sovente collegato strettamente alle montagne sacre. «Il loro Dio – dicevano gli aramei degli israeliti – è un Dio delle montagne, per questo ci sono stati superiori» (1Re 20,23).
I monti Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion erano per eccellenza di Jahvè, gli appartenevano. In Sion era la cittadella di Dio, che dava sicurezza al suo popolo; era il monte santo, la dimora di Dio, la città del grande Sovrano (Sal 47,2-4; 52,7; Is 62,5). Su di esso abitava la magnificenza di Dio e da esso veniva «il mio aiuto» (Sal 120,1-2). Lo salirà solo «chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna e non giura a danno del suo prossimo» (Sal 23,3-4).
Il monte Sinai rappresenta ed è veramente il cuore di tutta la vicenda del popolo ebraico. È il monte della rivelazione di Dio e dell’alleanza con il suo popolo, è il monte Oreb della tradizione elohista e deuteronomista. Prima della grande teofania sul monte Sinai, Mosé si tolse i sandali dai piedi, «perché il luogo sul quale tu sali è una terra santa» (Es 3,5). Da Jahvè ricevette l’ordine di fissare tutto intorno al monte un confine. Nessuno doveva salire sul monte e neppure toccarne le falde (Es 19,12). Dopo questi avvertimenti, Jahvè parlò al suo popolo da un fuoco in mezzo al cielo, senza vedere alcuna figura, ma solo una voce (Es 20,22; Dt 4,12-18).
Nel racconto del Sinai hanno un particolare valore simbolico le espressioni come fuoco, fulmine e tuono. Sono immagini che sottolineano la potenza della parola di Dio. Così pure, tenebre, oscurità, nuvole e pioggia indicano il nascondimento di Dio. Il suono dei coi e delle trombe rinviano alla liturgia che si celebrava a Gerusalemme, sul monte Sion, dove Jahvè voleva essere sempre presente.
I monti sono il luogo delle manifestazioni di Dio anche  nel Nuovo Testamento. È il caso dell’alto monte delle tentazioni di Gesù (Mt 4, 8-10; Lc 3, 5-8). Su un’altra montagna, rimasta senza una precisa connotazione geografica, ma non certo priva di un linguaggio simbolico, quello del Sinai, Gesù fece il discorso delle beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Sul monte Tabor avvenne la trasfigurazione, benché molti esegeti pensino a una diversa montagna, quella dell’Ermon.
TRA GLI ANTICHI POPOLI MEDIORIENTALI
Molte forme del culto delle alture furono mutuate, specialmente durante l’epoca dei re, dalle popolazioni con cui gli ebrei nel loro peregrinare vennero a contatto, dalla Mesopotamia all’Egitto, dai sumeri agli ittiti, soprattutto dai cananei, che esercitarono una notevole influenza sulle tradizioni religiose ebraiche.
Il dio Baal di Ugarit, città sulla costa della Siria, che costituisce per noi la migliore testimonianza della civiltà cananea più antica, viene menzionato molte volte nella bibbia. Era il dio della tempesta, del tuono, dei fulmini, della pioggia, della fertilità e della fecondità, e come tale fu protagonista di un grande ciclo mitologico. Sua dimora era il Monte Lapanu, visibile da Ugarit con la sua cima avvolta dalle nubi.
Assai popolare in Canaan, il dio Baal costituì una tentazione permanente per Israele e Israele ne subì il fascino, così come accadde di fronte alle tradizioni religiose della civiltà egizia, babilonese e altre ancora.
La cosmogonia egizia esordisce con l’affiorare di un’altura dalle Acque primordiali. L’apparizione di questo «primo luogo» al di sopra dell’immensità delle acque significa l’emergere della terra, ma anche della luce e della vita. A Heliopolis la località chiamata «Collina della Sabbia» era identificata con la «Collina primordiale». Di fatto ogni città, ogni santuario, era considerato un «Centro del mondo», luogo in cui aveva avuto principio la creazione. L’altura primordiale talvolta diveniva la Montagna Cosmica, sulla quale il faraone saliva per incontrare il dio sole.
Per i cananei gli oggetti più comuni che rappresentavano simbolicamente la divinità erano le massebe (massebôth) e le ascere (asherim). Le massebe erano stele o cippi o pilastri, ritti, alti, stretti, rozzamente levigati, spesso con qualche emblema raffigurante la mascolinità, quando si trattava di pietre dedicate a un dio, o la femminilità, quando il cippo doveva raffigurare una dea. Non vi era, si può dire, «altura» (bāmôth) in terra di Canaan senza una o più massebe.
Nell’area indoiranica
Il tema della montagna come luogo abitato dalla divinità è evocato anche nella religione dell’antico Iran. I persiani usavano salire sulle più alte vette dei monti per offrire i sacrifici al loro dio. Questo fatto indica come nell’ideologia religiosa iranica le montagne avessero un posto molto importante. Ai monti si elevavano lodi e nel calendario zoroastriano il ventesimo giorno del mese era consacrato alla Terra, alle montagne e allo Khvarenah. Dietro questa concezione stava l’idea di una montagna cosmica come Axis Mundi, comune a tutta l’area indoiranica.
Al centro del mondo gli iranici collocavano il picco della grande catena montuosa dell’alta Harā, così come gli indiani dell’India ponevano il monte Meru, la vetta più alta della catena Lokāloka. La cima della Harā e il monte Meru (sameru nella cosmografia buddista) erano collocati «al centro di un continente o di una regione, Khavaniratha in Iran o Jambūdvīpa in India, a sua volta circondato da altri sei continenti o regioni, come sei grandi porzioni circolari in cui si suddivideva la terra».
In India la natura nel suo complesso è concepita come vibrante di vita: alberi, rocce, montagne, acque e cascate sono centri di forza per il sacro, e diventano santuari dove i fedeli trovano e danno senso alla loro esistenza. Le montagne e le foreste parlano agli indiani delle potenze divine che contrastano gli sforzi umani, e richiamano così alla loro mente la lotta che si svolge tra il bene e il male, tra le potenze divine e quelle demoniache.
Il mito di una montagna, di un albero, di una scala o di una corda, che collega la Terra al Cielo come Axis Mundi, lo si ritrova anche nelle religioni dell’Asia centrale e settentrionale. Antichissima è l’idea che il monte meriti venerazione come centro di forza della terra e che la terra viva là dove si solleva. Il «monte del mondo» che emerse dalle acque del caos primordiale, e sulla cui sommità troneggia En-lil, è il simbolo della terra per i babilonesi e ha la sua immagine nelle ziqqurat, torri a gradoni che s’innalzavano verso il cielo, come la torre di Babele (Gen 11,1-9). Si credeva infatti che la ziqqurat poggiasse la sua base sull’ombelico della terra e toccasse il cielo con la sommità e che come tale fosse un monte cosmico, un’immagine simbolica e viva del cosmo.
tra i popoli africani
Abitate dagli dei o venerate come divinità sono soprattutto le montagne vulcaniche e quelle coperte di nevi perenni, come il monte Kenya e il Kilimangiaro in Africa o l’Aconcagua e i picchi più elevati della Cordigliera delle Ande nell’America meridionale. «Gli uomini abitano nella valle, sui monti dimorano gli dei», dicono le popolazioni che vi abitano. Presso i popoli antichi esisteva la credenza che la terra vivesse là dove si sollevava.
La montagna, associata alla divinità e al simbolismo ascensionale celeste come evocazione della presenza di Dio, è tipico soprattutto dei popoli pastori, per esempio i masai, ma anche degli agricoltori, come i kikuyu del Kenya e gli yoruba della Nigeria. La montagna domina infatti il paesaggio. Da qualsiasi punto della pianura, della steppa o della savana, si vede la sua sommità. Essa emerge nella luce quando la terra è nell’ombra ed evoca l’elevazione dell’anima a Dio. Il culto a Dio può svolgersi sulla montagna oppure rivolto a essa. Su di essa si formano i temporali: il tuono che è voce del cielo e le piogge che distruggono o vivificano. Si deve però sottolineare che la montagna di per sé non raffigura Dio; essa non fa che evocare l’esperienza di una presenza trascendente il mondo e l’uomo.
Nell’Africa del sud alcune colline sono note come luoghi dove vive la divinità. Su di esse non pascola il bestiame e la gente raramente vi sale. «Solo quando imploriamo la pioggia saliamo su questa altura. Saliamo in silenzio, pieni di timore, tenendo gli occhi abbassati e camminando con umiltà. Non parliamo, perché colui alla cui presenza ci troviamo è terribile».
in america latina
Le popolazioni montane delle Ande vedono in Pachamama, la Terra Madre, la fonte e la protettrice della vita. Sulle cime alte innevate vivono gli spiriti Apu, «signori», che controllano ogni cosa. Gli spiriti delle cime più basse sono detti Anki e non sono potenti come gli Apu. Sia gli Apu che gli Anki portano il nome della montagna o collina su cui vivono. Essi sono gli dei principali della popolazione delle Ande.
Gli aztechi del Messico veneravano la grande montagna Iztacihmath (donna bianca) e il suo compagno Popocatepetl (montagna fumante); i tlascaltechi la montagna Matlalcueye (veste azzurra), ora chiamata Malinche.
Nel mese decimoterzo del loro calendario celebravano la festa dei numi delle montagne, rappresentati da quattro donne e un uomo; ognuno di essi, durante la festa e prima di essere sacrificato, portava il nome della sua divinità, ossia Tepechoch, Matlalquac, Xuchitecatl, Mayahuel e Minohuatl.
in asia centro-orientale
I monti più sacri sono, a seconda della tradizione religiosa del luogo, l’Olimpo in Grecia, il Fuji in Giappone, il Kailāš in India, i Monti Altai (mongolico: Ultain Ula, montagna d’oro) e i Monti celesti (Tängri Dag Tien Cian) nell’Asia centrale.
A Tängri, un nome che indicava sia il dio dei mongoli sia il cielo azzurro, venivano indirizzate preghiere di oranti solitari che s’inchinavano al suo cospetto sulle cime delle montagne, mentre in suo onore si bruciava incenso di ginepro. L’antica religione del Tibet si chiama bön. A somiglianza di molte religioni ritiene che le montagne, come il Kangchenjunga, siano la dimora degli dei.
Anche in Giappone lo shintornismo ha considerato oggetto privilegiato di venerazione le montagne, ritenute abitazione delle divinità o kami. Dallo shintornismo deriva l’amore che i giapponesi hanno per la natura, per la bellezza del paesaggio e la maestosità delle montagne, fonte di riconoscenza verso i kami e di godimento estetico.
Molte sono le montagne che ospitano santuari sulla loro cima. Famosissimo è il monte Fuji, una sorta di simbolo religioso della nazione. Secondo un’antica tradizione, Amaterasu, la dea solare, l’augusta dea che illumina il cielo, mandò suo figlio a governare le isole giapponesi. Egli sposò la figlia del Monte Fuji e un nipote divenne il primo imperatore del Giappone. Una delle principali correnti religiose scintorniste, la Jikko, rivolgendosi al Monte Fuji, prega per il bene e la continuità della famiglia imperiale, l’esistenza della nazione e l’assistenza divina nell’adempimento del proprio dovere.
Il culto delle montagne incoraggiò anche uno dei movimenti sincretistici più affascinanti della storia della religione, il movimento shugendo, che fuse insieme buddismo e shintornismo.
Proveniente dalla Corea e dalla Cina, il buddismo in Giappone è datato dall’inizio del VI secolo d.C. Nell’805 circa, sul Monte Hiei, vicino alla nuova capitale Kyoto, sorse uno dei più importanti insediamenti buddisti, che s’ispirava alla scuola cinese t’ien t’ai. Quasi subito dopo sul Monte Koya, a sud di Kyoto, fu fondato un altro insediamento che si ispirava al buddismo shingon, la scuola istituita dal monaco Kukai (744-835), venerato come un santo.

G li esempi segnalati non esauriscono il tema della montagna come abitazione della divinità. Sono comunque sufficienti per dimostrare una certa omogeneità d’ispirazione religiosa, un comune linguaggio sacrale, portatore di una comune nozione circolante fra i popoli del vicino Oriente nel II-I millennio prima di Cristo e diffusa in molte altre civiltà, anche se formulata in modo diverso a seconda delle tradizioni religiose. Questo fatto ci introduce in una comparazione storico-culturale e apre una prospettiva larghissima su orizzonti di gran lunga più vasti di quello del mondo ebraico, sui quali ci siamo soffermati brevemente.
Ci si potrebbe per esempio chiedere se il Dio che abita le alture sottintenda il classico «monoteismo biblico» o semplicemente la nozione di un «essere supremo», quale si riscontra sulla maggior parte delle religioni tradizionali. La pura e semplice affermazione dell’esistenza di un rigido monoteismo del Dio delle alture va certo almeno in parte ridimensionata, sia perché non vanno dimenticate le influenze della civiltà egizia, mesopotamica e specialmente cananea sulla religione ebraica, sia perché non si possono trasferire in blocco nell’idea di Dio propria della nostra civiltà occidentale, elaborata nell’Antico Testamento, passata nel Nuovo e poi definita chiaramente in seno al cristianesimo.

Così pure ci si potrebbe interrogare sugli attributi del Dio delle «alture», come l’onniscenza nella sua forma divina o magica. Le due forme sembrano talvolta coesistere nella stessa figura del Dio delle alture, all’interno di concezioni diverse a seconda dei gradi di civiltà dei popoli della terra: nomadi, pastori, cacciatori, agricoltori. 

Di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Handan se ne deve andare

Reportage / Breve viaggio nei quartieri di Istanbul (2a): Ayazma e Tarlabashi

Dopo Sulukule (cfr. MC, maggio), dove gli abitanti sono (o erano rom), adesso sgombrare tocca a Ayazma e Tarlabashi, quartieri di Istanbul in cui vivono molti profughi. Anche in questo caso le autorità turche parlano di una riqualificazione urbanistica che porterà benefici per tutti. Ma anche in questo caso sono gli affari che muovono tutto. Con in più una motivazione politica: gli abitanti sono in maggioranza curdi…

Istanbul. «Era notte fonda quando è arrivata la polizia. Svegliati di soprassalto, siamo stati costretti a uscire dalle case. Io non volevo uscire così. Era dicembre ed era freddo: mi sono rifiutata. Sono stata picchiata e a mio padre hanno rotto un braccio». Handan è curda e dimostra più dei suoi 15 anni. È cresciuta in fretta ed ha l’aspetto di una donna. Le ciabatte che indossa sbucano dal lungo vestito colorato. Mentre cammina tra le macerie, la sua voce è rotta dall’emozione. Racconta, sistemandosi il velo e indicando le pietre e i calcinacci che ci circondano. «Siamo usciti tutti e, dopo qualche ora, le nostre case non c’erano più».
Siamo ad Ayazma, gecekondu curda nella periferia di Istanbul, vicino allo stadio Atatürk dove si giocò la finale di Champions League nel 2005. Gecekondu significa «sorto in una notte», ed è un’espressione che indica le baraccopoli (1). Continuiamo a camminare facendo gimcana tra i cumuli di macerie.  Quando incontriamo una baracca o una tornilette improvvisata (una «turca» in mezzo al nulla e senza acqua corrente, per cui ogni volta che la si usa c’è un andirivieni con i secchi), Handan mi spiega che «prima non era così, non eravamo costretti a uscire per andare in bagno, ma soprattutto non dovevamo arrivare fin qui per prendere l’acqua». Mi indica un contatore fissato su un tubo che viene fuori dal terreno e mi fa capire a gesti che per quell’acqua pagano una bolletta troppo cara.

«Portami in Italia» 

Entriamo in una delle baracche, dove troviamo il padre di Handan e un amico. Ci sediamo su un tappeto che copre tutto il terreno, in un ambiente ordinato e pulito nonostante gli spazi ridotti. I due uomini mi mostrano un documento ufficiale firmato dal sindaco della municipalità di Küçükçekmece, Aziz Yeniay, in cui si dichiara che le demolizioni saranno l’occasione per gli abitanti di Ayazma per cambiare vita. La municipalità di Istanbul, quella di Küçükçekmece e Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», provvederanno a fornire soluzioni abitative tagliate sulle esigenze di ogni nucleo familiare, sia esso proprietario di immobile o affittuario. Nuove modee case con tutte le comodità sono la soluzione proposta agli abitanti di Ayazma, che, sempre secondo il documento, non si saranno dispersi ma rimarranno uniti in una nuova comunità. Segue una sfilza di documenti da presentare al comune per avere diritto ad una nuova abitazione. Molti residenti non hanno quelle carte, perché la maggior parte degli immobili è ancora abusiva. E 18 famiglie hanno deciso di rimanere ad Ayazma per denunciare l’operazione delle autorità, che fingono di non sapere che la maggior parte degli abitanti della gecekondu è costituita da profughi, scappati senza nulla dal sud-est della Turchia.  Mentre lascio il campo Handan mi prende da parte, sorride, e mi rivolge una preghiera: «Portami in Italia…».
Anche Ahmad è curdo, ha una piccola attività dove vende pezzi di ricambio per lavandini e oggetti di ferramenta, vive nello storico quartiere di Tarlabashi, a 2 fermate di tram da Taksim, il cuore commerciale di Istanbul. «Sono arrivato nel 1994. Abitavo in un villaggio del sud est della Turchia vicino Diyarbakir, ma la tensione e la presenza costante dei militari erano stressanti, molti dei nostri villaggi sono stati distrutti. Inoltre in quella zona non c’è lavoro, quindi mi sono trasferito qui, a Tarlabashi». La vita della comunità curda di questo quartiere ruota intorno a una via centrale con piccole attività commerciali, bar, una piazza e una moschea. In questo modo si è ricreato il tessuto sociale dei villaggi d’origine interessati dalle forti migrazioni intee degli anni ’90 (2) .
Nel piccolo retro del negozio dove Ahmad ci offre il tè si raccoglie un gruppetto di giovani: è raro che stranieri e turchi si fermino a parlare con i curdi nel cuore di Tarlabashi. La zona è considerata pericolosa, il tasso di criminalità, secondo la municipalità di Istanbul, è uno dei più alti in città.

Terroristi o criminali 

«Ayazma è bollata come roccaforte del Pkk (3), mentre a Tarlabashi semplicemente sono tutti criminali. Ecco come le istituzioni turche cercano di creare il consenso tra la popolazione per realizzare i loro progetti di riqualificazione urbana», sostiene Cihan Baysal, attivista turca che sta scrivendo la sua tesi di laurea sui diritti dei residenti di Ayazma per la Istanbul Bilgi University. «Ayazma nasce negli anni ’80, ma cresce nella metà degli anni ‘90 in seguito alle migrazioni intee. Le circa 2.000 case del quartiere divennero molto affollate allora. La gente costruì le case sul terreno statale, fuori dalla legalità, ma nel tempo, con i condoni edilizi, molti sono riusciti a ottenere la proprietà degli immobili».
I quartieri, sebbene molto diversi perché uno ha l’aspetto di un campo profughi mentre l’altro ha un ricco patrimonio architettonico, sorgono entrambi su un terreno che si è apprezzato. Il piano di riqualificazione delle aree urbane storiche e fatiscenti  (4) coinvolge entrambi, e uno degli attori principali è il Toki: «Il Toki è un ente pubblico – spiega Cihan – che dovrebbe costruire case popolari per gli strati meno abbienti della popolazione, ma negli ultimi anni, soprattutto dopo l’ascesa al potere dell’Akp (il “Partito per la giustizia e lo sviluppo” di Tayyip Erdogan oggi al potere, ndr) , si è trasformato in un’impresa al servizio degli strati più ricchi della popolazione: costruisce case eleganti e molto costose».
È proprio il Toki l’organismo incaricato di reclutare le società di costruzione che dovranno ricostruire Tarlabashi e Ayazma: da una ricerca dell’associazione turca Human Settlement Association le imprese che vincono i bandi risultano essere direttamente collegate all’Akp di Tayyip Erdogan e portano avanti forti speculazioni edilizie. 
«Sulla carta i residenti di Ayazma e Tarlabashi hanno gli stessi diritti della popolazione turca, quelli sanciti dalla Costituzione – continua Cihan -, in quanto sono cittadini della Repubblica turca, ma la realtà è molto diversa. Non hanno neanche i diritti sociali ed economici di un cittadino medio, per esempio dovrebbero avere la cosiddetta “carta verde” per avere diritto all’assistenza sanitaria gratuita, ma molti di loro non riescono ad ottenerla. Spesso fanno lavori umili e pesanti senza contributi e senza tutele, con stipendi da fame». La discriminazione si esprime al meglio quando si giocano le partite della nazionale turca nello Atatürk Stadium, sulla collina di fronte ad Ayazma: gli abitanti vengono intimati dalla polizia a non uscire dalle baracche per evitare che il pubblico internazionale veda cosa c’è fuori dallo stadio. Tra non molto questa misura d’ordine pubblico non avrà più nessuna importanza: Ayazma sarà sinonimo di villette a due o tre piani con giardino, dove le classi abbienti potranno muoversi liberamente. 

Intanto, a Tarlabashi …

Il quartiere di Tarlabashi è leggermente più agiato di Ayazma e non si trova in periferia, ma nel cuore commerciale di Istanbul.
A Tarlabashi la Bilgi University di Istanbul è presente con un ufficio. Nel quartiere, i problemi relativi a educazione, povertà e discriminazione vengono affrontati con l’aiuto di operatori e assistenti sociali. Ceren lavora con i bambini: «I problemi principali sono la mancanza di scolarizzazione e di strutture per bambini e anziani, e ovviamente la povertà».
Il professor Alper Unlu della Istanbul Technical University ha tenuto conto di queste problematiche e ha capito che qualsiasi piano di riqualificazione urbana deve passare attraverso una loro soluzione. Il progetto di recupero dell’area che ha presentato alla municipalità prevede la costruzione di scuole, centri culturali e sportivi per i residenti, insieme al restauro degli edifici, ma la municipalità di Beyoğlu ha preferito il piano presentato da un commerciante che possiede un hotel nella zona e che è riuscito a mettersi d’accordo con gli enti locali. «Istanbul dovrebbe essere capitale europea della cultura nel 2010, ma, quando si valuteranno i risultati di questi progetti, il comune e gli enti locali dovranno affrontare problemi seri».
Dello stesso parere è Jean-François Perouse, sociologo urbano direttore dell’Osservatorio urbano di Istanbul, facente parte dell’Istituto francese di studi sull’Anatolia: «Gli enti locali hanno come obiettivo primario far lavorare le società di costruzione legate all’Akp, lo sviluppo del turismo e la diversificazione sociale. Presentano questo progetto come un restauro dell’intera città per il 2010, ma aree come Tarlabashi e Ayazma devono essere svuotate per essere riempite di residenti appartenenti alla classe borghese, che ha un reddito più elevato e può migliorare l’immagine della città, secondo le autorità locali. Ayazma verrà ricostruita con casette a pochi piani per nuovi ricchi. È una politica molto miope».
Le autorità centrali e locali promuovono il progetto di riqualificazione urbana facendolo passare per un’iniziativa sociale senza precedenti, un punto di svolta nella vita di migliaia di famiglie. I nuovi quartieri di Bezirganbahce e Basibuyuk, dove la maggior parte dei residenti verrà trasferita, si presentano come sobborghi con palazzoni coloratissimi a 20 e più piani, molto vicini l’uno all’altro. E nelle strade neanche un albero. A metà aprile il sindaco di Istanbul, Kadir Topbaş, ha accompagnato una delegazione di giornalisti della televisione giapponese, a Istanbul per girare un documentario sulla città, nel quartiere di Bezirganbahce: la visita doveva essere un’occasione per mostrare l’operato della sua amministrazione, e quanto i nuovi appartamenti del Toki siano modei e confortevoli. L’accoglienza dei nuovi abitanti è stata una violenta protesta infarcita di improperi che è finita su tutti i giornali, e che in qualche modo il sindaco avrà dovuto spiegare agli attoniti ospiti. La visita successiva, che sarebbe dovuta svolgersi ad Ayazma per illustrare il progetto di riqualificazione dell’area, è stata prontamente annullata.
Lo stipendio medio di una famiglia di Bezirganbahce si aggira intorno alle 600-650 lire turche, mentre le spese di un appartamento, gas, acqua, elettricità e affitto, superano le 750 lire turche. Coloro che non possono pagare sono perseguitati dalle banche: se non si paga l’affitto per più di cinque mesi la banca manda un avviso a domicilio. Se il debito non viene saldato entro i termini prescritti, l’appartamento viene confiscato. «Se una donna rimane vedova questo è l’ineluttabile destino che l’aspetta», spiega Cihan Baysal. «Inoltre, la vita in questi quartieri è molto diversa da quella di comunità all’aperto di Ayazma, dove bastava uscire di casa per incontrare i vicini e far giocare i bambini nei prati. Ora le persone si sentono come prigioniere in piccoli spazi al 18° piano di palazzoni di cemento».

Case nuove e scadenti

Matteo Pasi è un videomaker che, insieme a Marcello Dapporto, ha realizzato il documentario «Ayazma. Ghetto curdo nel cuore di Istanbul». Una parte del suo lavoro riguarda i nuovi edifici dove gli sfollati ottengono un appartamento, dove tra non molto anche Handan e Ahmad saranno costretti a trasferirsi.
«I nuovi edifici nel distretto di Bezirganbahce – racconta Matteo – sembrano accettabili e vivibili, ma abbiamo potuto verificare che sono costruiti con materiali di secondo ordine. Continuamente si riscontrano problemi idraulici e di manutenzione, sia per la singola abitazione che per l’intero condominio. Alcuni condomini anziani buttano la spazzatura dal sesto piano perché l’ascensore non funziona per settimane. Diventeranno quartieri discarica, abbandonati a loro stessi e con persone senza alcuna possibilità economica, il cui problema non potrà più essere la questione culturale e politica curda, ma la sopravvivenza». 

Di Alessandra Cappelletti

 

Alessandra Cappelletti




Costruire insieme un futuro

Convegno della Fondazione Ivo de Caeri a Pemba

A Pavia, a partire dall’esperienza sanitaria della Fondazione de Caeri in Africa,
si è parlato di cooperazione, malattie dimenticate ed etica.

Sono passati 30 anni, ma la frase riportata nella Dichiarazione di Alma Ata, alla Conferenza internazionale sulle cure primarie del settembre 1978, non ha trovato la sua realizzazione. Era riportata la possibilità di un «livello di salute accettabile» per tutti, entro il 2000.
Il termine è passato, la Dichiarazione dopo 30 anni è ancora attuale. Salute di base, sistemi sanitari, interventi di cooperazione e loro sostenibilità, malattie dimenticate e popolazioni dimenticate sono temi che hanno animato una giornata di relazioni a Pavia, presso l’Almo collegio Borromeo. Il Convegno, «La Fondazione Ivo de Caeri a Pemba: un’esperienza sanitaria locale per un confronto globale», organizzato dal Collegio stesso e dalla Fondazione Ivo de Caeri di Milano, con il patrocinio della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, si è svolto il 16 aprile scorso: a partire dal lavoro della Fondazione sull’isola di Pemba (arcipelago di Zanzibar, Tanzania), ha proposto un percorso di riflessioni sulla situazione sanitaria dei più poveri del mondo.

SULL’ISOLA DI PEMBA

«È tutt’ora prevedibile che molte parassitosi continueranno ancora per molti anni ad affliggere gli strati più poveri delle nostre popolazioni e intere nazioni in zona tropicale». Sono parole di Ivo de Caeri, professore di parassitologia all’Università degli studi di Pavia e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dalla prefazione della prima edizione del suo testo sulle malattie parassitarie, anno 1961.
Le ha ricordate Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione de Caeri (www.fondazionedecarneri.it), nata nel 1994 in memoria del parassitologo (scomparso l’anno prima), nella relazione sulle attività di cooperazione e formazione sanitaria e sostegno alla ricerca scientifica.
La missione della Fondazione («promozione dei piani di lotta alle malattie parassitarie nei paesi in via di sviluppo e incremento degli studi di parassitologia») ha portato a costruire un Laboratorio di sanità pubblica a Pemba, a sostenee strategie, attività e ad avviare interventi a fianco della popolazione locale, dal sostegno a un dispensario materno infantile al progetto di controllo delle malattie trasmesse dall’acqua, con la formazione di laboratorio e la riabilitazione della rete idrica, all’invio di chirurghi per il sostegno e la formazione di personale locale.
Il laboratorio si propone come esperienza di cooperazione nuova e per certi versi difficile. A otto anni dall’avvio delle attività, Marco Albonico, direttore scientifico della Fondazione e consulente dell’Oms, ha stimolato la riflessione sui punti di forza e i nodi da risolvere in un progetto di sostegno alla sanità pubblica e di un centro di esami di qualità. Il laboratorio sostiene le attività di salute pubblica del ministero della Sanità di Zanzibar: svolge attività di monitoraggio e valutazione dei programmi di controllo, esegue controlli di qualità per le diagnosi dei laboratori periferici, promuove la ricerca secondo le priorità locali, raccoglie e analizza i dati epidemiologici sociosanitari, è attivo nella sorveglianza delle epidemie e svolge attività di aggioamento e formazione.
Vi sono diversi aspetti positivi dell’esperienza. Vi è impiegato personale locale con un salario dignitoso e possibilità di formazione. Il profilo scientifico è alto e, ha raccontato Albonico, «i progetti hanno dato buoni risultati: studi scientifici, raccomandazioni per politiche sanitarie, pubblicazioni scientifiche»; nel corso degli anni è «sempre più un servizio trasversale che affronta molteplici problemi sanitari, col potenziale di migliorare il cornordinamento e la supervisione dei centri di salute periferici e degli ospedali».
Al tempo stesso, tuttavia, non è stata ancora raggiunta un’autonomia da parte del personale stesso, un senso di appartenenza che porti a costruire in modo autonomo possibilità di lavoro e di ricerca. Il laboratorio in questi anni è stato anche fonte di dibattito fra gli operatori della sanità locale e ha incontrato difficoltà nell’essere compreso dalla popolazione come elemento importante per la sanità. Il percorso non è dunque concluso, ma si hanno di fronte le sfide da cogliere, prima fra tutte la completa autonomia locale del progetto.

MALATTIE UNITE ALLA POVERTÀ

Quando Ivo de Caeri arrivò la prima volta a Pemba erano in atto ricerche sulla schistosomiasi, che fa parte del gruppo delle malattie tropicali dimenticate. Queste malattie, oggetto di una relazione al Convegno, hanno come denominatore comune la povertà, nella quale prosperano e che loro stesse alimentano, ostacolando l’istruzione, le possibilità di lavoro, diventando causa di emarginazione e isolamento per le lesioni e disabilità che provocano, ostacolando lo sviluppo economico.
Ne sono elencate indicativamente 14 dall’Oms (colera/malattie diarroiche, dengue/febbre emorragica di dengue, dracunculosi, elmintiasi, filariasi linfatica, lebbra, leishmaniosi, malattia di Chagas, oncocercosi, schistosomiasi, tracoma, treponematosi, tripanosomiasi umana africana, ulcera di Buruli), indicativamente perché la lista può comprenderne altre.
Nel mondo circa un miliardo di persone presenta una o più malattie dimenticate, presenti soprattutto in comunità povere e isolate; la maggior parte di queste malattie può essere prevenuta o eliminata. Rappresentano una minaccia per la salute locale, ma hanno poco peso politico, sono economicamente poco interessanti. Per alcune vi sono concrete possibilità di diagnosi e terapia, programmi di controllo su più malattie; per altre invece il percorso è più difficile, i farmaci sono vecchi, costosi o tossici. Molte sono trasmesse da vettori (insetti) e hanno collegamenti con l’ambiente; sono ben presenti in posti con acqua non sicura, condizioni igieniche sanitarie scadenti e accesso limitato a cure sanitarie di base.
Le strategie nei confronti delle malattie dimenticate seguite dall’Oms sono state oggetto della relazione di Albis Gabrielli, dell’Oms. Vengono distinte in due gruppi principali: le elmintiasi, causate da elminti (vermi), visibili a occhio nudo, e le protozoosi, causate da protozoi, non visibili a occhio nudo: «L’Oms è impegnata nell’elaborazione di strategie globali che siano adattabili ai paesi in cui queste malattie sono presenti, cioè per la massima parte del Sud del mondo. La strategia per le elmintiasi, chiamata chemioterapia preventiva, consiste nel trattare a intervalli regolari, con farmaci sicuri, efficaci e accessibili dal punto di vista del costo, interi gruppi di popolazioni che vivono in aree dove le malattie sono diffuse. La strategia contro le protozoosi prende invece il nome di approccio clinico intensificato. A causa di strumenti diagnostici e terapeutici vecchi e costosi, di difficile utilizzo e tossicità alta, non è possibile il trattamento di popolazioni, bensì individuale, a opera di personale specializzato, che deve agire con una strumentazione adeguata. La strategia si focalizza pertanto sul garantire un accesso al trattamento al numero più alto possibile di persone».
Ma uno degli aspetti critici della sanità nei paesi poveri è proprio la carenza di personale locale. Maurizio Bonati, dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha tracciato un quadro del ridotto numero di operatori sanitari, a partire dall’esperienza personale, da un lato di cooperazione in paesi del Sudamerica, con interventi in villaggi sperduti ove si cerca di portare aiuto ma anche di formare personale che possa proseguire nel lavoro, dall’altro di formazione in Italia di persone che dovrebbero poi portare le proprie conoscenze a vantaggio del paese di origine. Dovrebbero, perché talora le condizioni locali non permettono l’utilizzo delle conoscenze acquisite o la persona stessa, una volta raggiunte capacità superiori, preferisce cercare lavoro in posizioni migliori all’estero.
Si aprono dunque spunti di riflessione sull’importanza non solo della formazione di personale nei paesi del Sud del mondo ma anche di condizioni locali di lavoro che ne favoriscano il ritorno o la permanenza.

LO SGUARDO DELL’ETICA

Cooperazione, malattie dimenticate, operatori sanitari, Sud del mondo. Nel filo conduttore del Convegno è stata data la voce all’etica della salute e degli interventi. Laura Palazzani, della Lumsa (Libera università Maria ss. Assunta) di Roma ha approfondito il tema della bioetica, a partire dai diversi tipi: etnocentrica, multietnica e interculturale; quest’ultima delineatasi in contrapposizione alle prime due: «La rilevanza della bioetica interculturale consiste nella ricerca critica di una continua mediazione e integrazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle diverse culture, nel tentativo di evitare la prevaricazione, per affermare la logica relazionale della diversità nell’uguaglianza. In tal senso, il dialogo interculturale in bioetica non sarebbe né conflitto né accettazione passiva di un compromesso, ma piuttosto ricerca costruttiva di integrazione».
Una comprensione della bioetica interculturale come punto di partenza per ragionare sulla cooperazione sanitaria, l’equità sanitaria, la salute come diritto. Aspetti ripresi da Gaia Marsico, dell’Università di Padova (Bioetica-Scienze politiche), che ha parlato di accesso ai farmaci, ricerca nel Sud del mondo e ruolo della bioetica. Perché le domande sulla ricerca nei paesi poveri non possono prescindere dal chiedersi quali sono i bisogni reali e gli orientamenti della ricerca in generale: «Se vogliamo interrogarci sulle criticità e gli aspetti etici della ricerca nel Sud globale (non solo in senso geografico), dovremmo partire dal senso, dalla rilevanza e modalità della ricerca in generale; delle ricerche che promuoviamo e vediamo svilupparsi nei nostri paesi. Da chi è disegnato questo progresso, in funzione di chi lo si costruisce?».
Tanti interrogativi e questioni aperte. Mettersi in discussione di fronte alla sofferenza dimenticata di centinaia di milioni di persone, per capire il modo migliore di porsi e costruire, insieme, una possibilità di vita uguale per tutti, indipendentemente dal luogo di nascita.

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



«Mamma bianca»

Beata Maria Caterina Troiani (1813-1887)

Orfana a 6 anni, monaca a 17, missionaria in Egitto a 46, Caterina Troiani fu definita da Giovanni Paolo ii
«missionaria in clausura, contemplativa in missione». Per la sua carità verso tutte le vittime di sfruttamento, emarginazione e schiavitù, in cui vedeva il volto di «Cristo crocifisso», la chiamavano «mamma bianca» cattolici, ortodossi, musulmani.

Nata il 19 gennaio 1813, a Giuliano di Roma (Frosinone), terza dei quattro figli di Tommaso Troiani e Teresa Panici, Costanza, questo il suo nome di battesimo, a sei anni fu travolta da una tragedia familiare: la madre morta, il padre in prigione per uxoricidio, i fratelli affidati a una zia matea e collocati in differenti istituzioni (vedi riquadro).
Costanza fu messa nel Conservatorio della Carità a Ferentino, un collegio femminile gestito da religiose di diritto diocesano, le Oblate clarisse, popolarmente chiamate «monachelle», per distinguerle dalle omonime claustrali presenti nel paese.

NUOVA FAMIGLIA

La vita al Conservatorio era povera e austera, ritmata dalle attività scolastiche, apprendimento di lavori femminili, iniziazione alla preghiera e alla vita cristiana: la piccola Costanza, intelligente e sensibile, carattere molto vivace, vi si sentiva a proprio agio. Anzi, vi trovò la sua nuova famiglia, composta da sei suore, alcune collegiali sue coetanee e un’anziana maestra pensionante, tanto che, quando alcuni parenti le proposero di ritornare nella società, non ne volle sapere, felice di restare nel suo convento, affascinata dal fervore spirituale che vi si respirava.
Era un’atmosfera permeata, naturalmente, dalla spiritualità francescana, alla quale si aggiungeva la contemplazione dell’umanità sofferente del Cristo. Questa devozione era propagata da due ordini religiosi, fiorenti nel Centro Italia di quegli anni: i passionisti e i missionari del Preziosissimo Sangue, fondati da san Gaspare del Bufalo.
I primi erano di casa al Conservatorio come confessori e direttori spirituali. Il secondo, don Gaspare, nel 1824 percorse palmo palmo la diocesi di Ferentino, predicando le missioni in tutte le parrocchie e gli esercizi spirituali a tutti i religiosi e religiose. Le monachelle furono tanto infiammate nello spirito di penitenza, riparazione e partecipazione alle sofferenze di Cristo, da tradurre la devozione in forme esteriori al limite del parossismo.
È in tale clima di fervore che Costanza, a sedici anni, l’8 dicembre 1829 vestì l’abito delle monachelle, con il nome di suor Maria Caterina di santa Rosa da Viterbo, e l’anno seguente pronunciò i voti religiosi, felice di diventare «sposa dell’Amore Crocifisso per noi». Contemplazione della passione di Cristo, conformità allo «Sposo Crocifisso, nudo e abbandonato sulla croce», ricerca appassionata della volontà di Dio… erano le linee guida del suo cammino spirituale.
Voleva «essere l’ultima nella casa di Dio», ma fin dal noviziato il vescovo le affidò l’insegnamento alle alunne estee e, dopo la professione religiosa fu scelta come segretaria della madre superiora, soprattutto di suor Aloisia Castelli.
Costei, già novizia al Conservatorio nel 1819, ne era uscita per le sue aspirazioni claustrali. Rientrata nel 1823 ed eletta superiora nel 1931, brigò per 10 anni per trasformare il Conservatorio in monastero di clausura. E poiché i vescovi di Ferentino si opponevano, fu deciso di rivolgersi direttamente alle Congregazioni e prelati romani competenti.
Suor Caterina fu incaricata di raccogliere i documenti relativi la storia dell’istituto, redigere memoriali e petizioni e per due volte accompagnò la superiora a Roma, muovendo mari e monti, finché nel 1842 papa Pio ix firmò il decreto che approvava le nuove costituzioni: il Conservatorio veniva dichiarato Monastero, alle monache venivano concesse tutte le indulgenze di cui godevano le clarisse. In realtà, però, la comunità restava sotto la giurisdizione del vescovo e le monache continuavano a fare scuola.
Ma per suor Aloisia fu un successo: riconfermata nella sua carica, poteva finalmente essere chiamata badessa. Suor Caterina, eletta «camerlenga», fu incaricata di curare archivio e biblioteca e redigere la cronaca del monastero dalle origini (1803) fino al 1857. In più, rispolverando un talento paterno e presi i contatti con un medico locale, avviò la spezieria, occupandosi con passione nella confezione di medicinali omeopatici.

UNA GRAZIA SPECIALISSIMA

Ma l’evento più sconvolgente nella storia di suor Caterina fu la venuta al Conservatorio, nel 1935, del passionista Domenico Barberi, in partenza per una missione in Inghilterra, dove i tempi sembravano propizi per il ritorno di tutti i cristiani nell’ovile di Pietro: re Giorgio iv aveva restituito ai cattolici inglesi tutti i diritti civili e il Movimento di Oxford propugna il ritorno del clero anglicano alla chiesa cattolica; già si registravano le prime conversioni. Padre Barberi impegnava vari monasteri del Lazio in una crociata di preghiere e sacrifici per la sua missione.
Le parole del passionista rimasero indelebili nell’animo di suor Caterina, come si legge nella biografia del Barberi: «A quella predica essa si sentì venir meno, uscì di chiesa, si ritirò in cella, dove l’assalì un pianto dirotto e un alto singhiozzo che richiamò le sorelle stupite. “Non potei – essa dice – né mangiare, né dormire, e non avrei fatto altro che ruggire come un leone ferito”».
Sempre alla ricerca della volontà di Dio, suor Caterina sentì tale esperienza come una chiamata speciale. «Nel 1835 il Signore mi fece intendere volere da me una cosa alla sua maggior gloria e per la salvezza delle anime – scriverà più tardi -. L’opera alla maggior gloria di Dio era la conversione dei popoli oltre mare».
Chiusa in un istituto claustrale, come poteva lavorare per «la salvezza dei popoli oltre mare»? Suor Caterina provò una crisi di identità: forse avrebbe dovuto cambiare istituto. Ma il confessore, lo stesso Barberi, le disse di restare al suo posto e aspettare che il Signore le avesse indicato come fare. Nel 1844, lo stesso passionista promise di costruire un monastero vicino a Londra; suor Caterina intensificò preghiere e digiuni; ma il progetto non decollava, finché tramontò del tutto con la morte del Barberi (1849).
Un altro spiraglio per le sue speranze missionarie sembrava aprirsi nel 1855, quando un suo cugino, mons. Bovieri, la mise in contatto con una marchesa parigina, Paolina Nicolay, la quale voleva recarsi a Gerusalemme per aprirvi un piccolo ospizio per i poveri e chiudervi i suoi giorni. Iniziò un lungo carteggio e Paolina venne a Ferentino per presentare il suo progetto; ma quando pretese di portare con sé solo suor Caterina, il sogno andò in fumo.

RISCATTO DELLE MORETTE

Alla fine del 1855 si apriva intanto un nuovo orizzonte: il confessore del monastero, padre Giuseppe Modena, che si recava regolarmente a predicare in Egitto, riportò alla comunità che il vicario apostolico, mons. Perpetuo Guasco, desiderava avere delle suore italiane e francescane per l’educazione cristiana della gioventù. Furono subito avviate le necessarie procedure con la congregazione di Propaganda fide per avere l’autorizzazione di aprire una missione in Egitto, con il vicario apostolico per stabilire le condizioni di lavoro, con il vescovo di Ferentino per avere il permesso di lasciare il monastero; furono contattate varie persone e istituzioni per raccogliere i fondi necessari con cui comperare la casa e sostenere l’opera. Mons. Guasco, infatti, aveva detto chiaro che non aveva un soldo: finanze e personale erano a carico del monastero di Ferentino.
Il 4 settembre 1859, un drappello di sei suore, accompagnate da padre Modena e guidate dalla badessa in persona, nel frattempo convertita dalla stretta clausura alla missione, salpava da Civitavecchia. Suor Caterina era nel numero: all’età di 46 anni, poteva finalmente realizzare il sogno coltivato per 24 anni: «Convertire i popoli oltre mare».
Allo scalo di Malta, giunse la notizia della morte del vicario. Era il caso di continuare il viaggio? Suor Caterina rincuorò il piccolo gruppo: «Non ci siamo messe in cammino per corrispondere al desiderio di un prelato, ma alla chiamata di Dio».
Giunsero al Cairo il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della croce, e si stabilirono nella casa comperata a Clot Bey, nel Cairo Nuovo. Il 1° ottobre fu loro affida un’orfanella egiziana: nasceva così l’educandato per orfane cristiane e musulmane e veniva avviata la scuola per alunne intee ed estee di ogni nazionalità, condizione sociale e religione, con particolare preferenza alle più povere.
L’accoglienza della nuova scuola fu piuttosto fredda: essendo le suore tutte italiane, «poco gradimento s’incontrava da coloro che erano abituati a trattare col gusto francese» scriverà suor Caterina. Ma, superato il primo anno e visti i risultati, la scuola si guadagnò fama e prestigio, tanto che lo stesso viceré, Ismail Pascià, nel 1863, volle conoscere le suore e, dichiarando di «essere loro padre», chiese di esporgli le loro necessità. «Abbiamo bisogno di pane e casa» rispose suor Caterina. E il pascià promise che «a tutto avrebbe pensato e provveduto». E cominciò a fornire una certa quantità di grano, diede il terreno per ingrandire la seconda casa già aperta nel Cairo Vecchio, vicino alla grotta che, secondo la tradizione, sarebbe stato il luogo di rifugio della Sacra famiglia.
La prima opera che fece sentire suor Caterina veramente missionaria fu la fondazione della «Vigna di san Giuseppe», destinata all’accoglienza e istruzione delle «morette», le fanciulle nere liberate dalla schiavitù; una iniziativa suggerita e sostenuta anche finanziariamente da un prete milanese, don Biagio Verri, impegnato nell’Opera del riscatto.
Per sopperire alla scarsità di personale, fu aperto anche un noviziato nella casa di Clot Bey, che divenne un attivissimo centro di istruzione,  evangelizzazione e, soprattutto, di carità verso i poveri e sofferenti.
Aperta come scuola, la casa nel Cairo Vecchio fu trasformata in orfanotrofio per raccogliere le fanciulle minorate di ogni nazionalità e religione, rifiutate dagli altri istituti.

NUOVA FONDAZIONE

Il 1863 e 1864 furono anni di crescita e benedizioni, seppur condite da difficoltà di vario genere. Una malattia, forse un ictus, aveva colpito la badessa, suor Aloisia, menomando le sue condizioni fisiche e mentali. Il nuovo vicario, mons. Vuicic, le affiancò suor Caterina come superiora locale, spaccando in due la piccola comunità. Poi, il vicario cambiò le costituzioni, non ritenendo adatte quelle portate dall’Italia. Tale cambiamento, le aperture del noviziato e della seconda casa, decise senza le dovute autorizzazioni del vescovo di Ferentino e della casa madre, rovinarono i rapporti con il monastero di provenienza, che ordinò alle missionarie di tornare in Italia. 
Ormai impegnata anima e corpo nell’attività apostolica, suor Caterina decise di continuare la sua missione, convinta che quella era la volontà di Dio. E si diede da fare per uscire dall’incresciosa situazione, invischiata in un groviglio di competenze giuridiche. In quanto monache, avevano giurato sul vangelo totale dipendenza dal monastero e vescovo di Ferentino; come francescane ricevevano ordini dal ministro generale dei frati minori; come missionarie dovevano obbedienza al vicario apostolico d’Egitto.
Dopo vari contatti e accordi tra le autorità competenti, suor Caterina si recò a Roma e a Ferentino, per risolvere il problema nel modo più pacifico possibile. Nel luglio del 1868 fu sanzionato il distacco dal monastero di origine e l’erezione dell’Istituto delle missionarie francescane d’Egitto, sotto la giurisdizione di Propaganda fide e sotto la patea e vigile cura del vicario apostolico. 
Toata al Cairo, Caterina fu accolta festosamente come fondatrice della missione e della nuova famiglia religiosa, anche se padre Modena si credeva il vero fondatore e mons. Vuicic voleva fare della nuova istituzione una sua creatura. Nel capitolo del 1869, suor Caterina fu eletta superiora, carica che ricoprì fino alla morte.
Lo strappo dalla famiglia religiosa, in cui era vissuta fin dall’infanzia, fu per Caterina un autentico Getzemani; ma anche in questo sacrificio vide realizzarsi una nuova dimensione dell’«opera a grande gloria di Dio: la conversione dei popoli oltre mare».

CROCI E DELIZIE

Grazie al nuovo assetto canonico, suor Caterina si sentiva più libera nella sua azione missionaria. Le vocazioni affluivano in gran numero, permettendo di estendere le opere già esistenti e avviae di nuove: nel 1879, oltre le due case al Cairo, le missionarie francescane avevano aperto altre cinque opere in varie parti dell’Egitto. Per sostenerle ricorreva alla questua francescana presso amici, istituzioni ecclesiastiche, autorità civili, come l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, ai potenti della zona, anche musulmani, come il vice re del Cairo e il sultano di Costantinopoli.
Fiore all’occhiello del cuore materno di suor Caterina fu soprattutto l’Opera dei trovatelli, per raccogliere i bimbi abbandonati. Le stesse suore andavano a cercarli a dorso d’asino; altri venivano lasciati davanti alla porta delle loro case. Spesso i neonati arrivavano in fin di vita ed erano subito battezzati e spediti in Paradiso. Per quelli in buona salute veniva trovata una balia e, una volta cresciuti, erano sistemati presso famiglie che potessero assicurare loro un futuro dignitoso. 
«Il fine primario che ci condusse in Egitto fu di faticare onde guadagnare anime a Dio» ricordava suor Caterina quando qualche consorella si sentiva stanca o sfiduciata. Ma le fatiche più gravose non erano quelle fisiche, ma le difficoltà, opposizioni, complicazioni provenienti dall’esterno, in campo civile e religioso.
Già i rapporti con mons. Vuicic, per esempio, non erano stati sempre idilliaci: tra l’altro, aveva deviato a un istituto di suore francesi una grossa somma che suor Caterina aveva ottenuto per le sue opere dall’imperatore d’Austria. Altrettanto tesi, almeno inizialmente, erano i rapporti con il successore, mons. Ciurcia, per le calunnie che gli venivano riportate.
«Oggigiorno in qualsiasi modo si agisca sempre si incontrano critiche – scriveva suor caterina -. Tutte queste cose non le dicono i secolari, ma i religiosi». Tra i religiosi c’erano soprattutto i cappellani. Padre Giuseppe Modena, per esempio, aveva diviso la comunità: allontanato dal Cairo per ordine di mons. Vuicic, sparlava e scriveva contro le suore, ritenendole colpevoli del suo allontanamento.
Il suo successore faceva di peggio: con i suoi ordini e consigli «allontanava dall’osservanza delle costituzioni» si lamentava la madre in una lettera indirizzata al ministro generale dei francescani; per cui lo pregava di mandare «uno zelante confessore… uno secondo il cuore di Dio».

ESODO E RITORNO

Nel 1882, mentre madre Caterina stava programmando tre nuove fondazioni, il nazionalismo arabo provocò varie ribellioni contro l’ingerenza straniera nel paese. E quando le navi inglesi e francesi bombardarono Alessandria, la rivolta si trasformò in autentica caccia allo straniero.
Il console italiano chiese alle suore del Cairo di prepararsi a partire, poiché non era più in grado di assicurare la loro incolumità. Dopo aver sistemato qualche bambina presso famiglie amiche, la fondatrice, le suore e varie bambine lasciarono Il Cairo. Salirono su un treno merci e, dopo mille paure, si imbarcano alla volta di Gerusalemme, Marsiglia, Napoli. Sul battello esse non avevano neppure di che ristorarsi. Per incoraggiare le sue suore, la madre diceva loro con dolcezza: «A Gesù crocifisso, venne rifiutata una goccia d’acqua. Vorreste che a noi ci fosse accordato tutto quel che desideriamo?».
Toata la calma (in pochi mesi le truppe inglesi avevano occupato l’Egitto militarmente), madre Caterina mandò al Cairo tre suore in avanscoperta e, visto che tutto era rimasto intatto, organizzò il ritorno delle altre. Da ultima arrivò anche lei. «Piangeva di contentezza nel vedersi intorno giubilanti e festose tutte le sue figlie». Soprattutto le morette erano felici di riabbracciare la loro «mamma bianca».
Nel 1883, fu aperta una scuola ad Alessandria, in un quartiere di povera gente, specie italiani e maltesi. Fu l’opera più grande costruita da madre Caterina, che divenne un centro propulsore per tutte le opere caritative della città.
Quello stesso anno, nel mese di aprile si celebrò il secondo capitolo dell’Istituto e madre Caterina fu riconfermata all’unanimità. Tutti se ne rallegrarono, ma non lei, che accettò l’incarico piangendo, seppur con «perfetta rassegnazione alla santissima divina volontà». Ma le lacrime non erano finite: nel mese di luglio il colera le strappò due giovani suore, due grandi promesse per l’Istituto. Alla fine di ottobre moriva don Biagio Verri e la «Vigna di san Giuseppe» dovette chiudere i battenti.

TRAMONTO

Nel 1886 fu celebrata una consulta, a tre anni dal capitolo generale, per fare il punto della situazione. Il consuntivo era più che positivo. A 27 anni dall’arrivo al Cairo, l’Istituto contava sette case in Egitto, due in Italia, una a Gerusalemme e una stava per aprirsi a Malta; ben 102 suore avevano fatto la professione come missionarie francescane; 1.574 morette erano state riscattate; incalcolabile il numero di alunne formate nelle varie scuole, di orfani e trovatelli cui era stato assicurato un futuro dignitoso; innumerevoli i poveri che a vario titolo avevano ricevuto amore e assistenza.
Il 10 aprile 1887, la sera di pasqua, madre Caterina fu costretta a mettersi a letto: il suo organismo era sfinito. Il 6 maggio, dopo aver ricevuto un’ultima volta l’eucaristia, piegò placidamente il capo e rese lo spirito. Aveva 74 anni. Il giorno seguente, i funerali si trasformarono in trionfo. Erano presenti le autorità civili egiziane, diplomatici e governanti europei in alta uniforme; la gente comune, soprattutto, cristiani e musulmani era accorsa a render l’ultimo omaggio alla loro «madre bianca».
La voce del popolo ne riconobbe la santità in vita e in morte, finché Giovanni Paolo ii la dichiarò beata il 14 aprile 1985.

Ben presto le Missionarie francescane d’Egitto, prima congregazione missionaria femminile italiana, si sparsero in altre nazioni e continenti; per questo hanno cambiato la loro denominazione di origine: dal 1950 si chiamano Francescane missionarie del Cuore Immacolato di Maria.
Oggi circa 700 figlie della beata Caterina Troiani continuano l’opera di evangelizzazione e promozione umana in 88 case, sparse in Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America, seguendo l’ideale della fondatrice: missionarie in contemplazione, contemplative in missione. 

Di Benedetto Bellesi

SENZA FAMIGLIA

L’unico riferimento di Caterina Troiani alla sua famiglia è in una lettera del 1881, quando apprese la notizia della morte del fratello don Francesco. «Lo raccomando alle sue preghiere – scriveva a don Verri -. Egli era l’unico mio fratello di padre e madre; ne ho altri di altra madre e stesso padre… anche questi raccomando alle sue orazioni».
Il padre si chiamava Tommaso, sposato nel 1805 con Teresa Panici. «Speziale» di professione, ma instabile per indole, Tommaso aveva dilapidato il patrimonio paterno e offriva i suoi servigi al migliore offerente. Proprio per ragioni di lavoro, all’inizio del 1816, si trasferì con la moglie e i quattro figli da Giuliano di Roma al paese limitrofo di Santo Stefano. Qui s’invaghì di un’altra donna. La relazione gli procurò anche qualche giorno di prigione; ne uscì con la promessa di emendarsi.
Ma fu inutile: una notte del giugno 1819 la moglie Teresa lo sorprese in fragrante e «ne ricevé delle briscole», come narrano le cronache del tempo. Da quel momento Tommaso decise di disfarsi della moglie. Alla fine dello stesso mese Teresa era nella tomba per un probabile avvelenamento.
Processato e condannato all’ergastolo per uxoricidio premeditato, Tommaso fu scarcerato dopo 12 anni per buona condotta. Tornato in libertà, non trovò nessuno ad aspettarlo. Dei quattro figli, tornati a Giuliano e affidati alla zia matea, due erano morti tre anni dopo la scomparsa della madre; Costanza era diventata suora con il nome di Caterina; Francesco era in seminario, dove sarà ordinato prete nel 1836.
Vivendo da buon cristiano, il Troiani cercò di rifarsi una vita e a 60 anni, nel 1842, si risposò; ebbe altri quattro figli, che lascerà in tenera età nel 1853, colpito da ictus cerebrale.

Benedetto Bellesi




Chi vuole uccidere sulukule?

Reportage: breve viaggio nei quartieri di Istambul

È un antico distretto a poca distanza dal Topkapi, il palazzo del sultano. Insediamento rom da oltre mille anni, un tempo Sulukule era frequentato da turisti, che vi trovavano cibo, musica e danze. Poi arrivò il degrado, non spontaneo. Oggi le ruspe (e i gas lacrimogeni) lo stanno radendo al suolo. In nome della politica e della speculazione edilizia.

Istanbul. «Per la fine della primavera verranno a demolire le case rimaste, la prossima estate non saremo più qui», la signora Uyar parla con Ferdin Davaroglu in una stradina di Sulukule, i lembi del suo lungo vestito toccano l’asfalto, mentre si accarezza i pochi capelli che escono dal velo colorato. Con fronte corrugata e sguardo rassegnato continua: «Ma noi non sappiamo dove andare».
Ferdin, che ha vissuto in Svizzera ed è tornato a Istanbul per stare vicino agli anziani genitori, risponde: «Avete accettato di vendere le vostre case, ora cosa possiamo fare? Dovevate parlarne prima, dieci anni fa, quando l’area di Sulukule è stata inserita nel progetto di riqualificazione urbana del Comune di Fatih, essendo considerata una delle zone fatiscenti della città di Istanbul. Ma voi vi svegliate solo ora, oramai non vi resta che andarvene». Il piccolo gruppo di residenti che si è raccolto intorno a noi rimane in silenzio. I bambini continuano a giocare tra le macerie e nel frattempo passa un signore, Ferdin lo ferma: «Murat è stato coraggioso, non ha venduto la sua casa e forse c’è ancora qualche speranza». Murat annuisce ma non nasconde una certa ansia, mentre parla la sigaretta che tiene in mano trema leggermente: «Ho fatto la mia scelta, ma non nutro speranze, so che la legge non tutela noi residenti, ma serve a dare sempre più potere al Comune e alle società private che vincono gli appalti. Non so cosa succederà, l’unica cosa che posso fare è aspettare».

La notte di Sulukule 

È un susseguirsi di voci, passaparola, lettere e avvisi ufficiali: scadenze, ultimatum, numeri civici, cognomi, proprietari e affittuari, municipalità, gli elementi del dramma ci sono tutti, e si confondono in un’unica forte paura, poiché nessuno può dire con certezza cosa succederà nel futuro immediato a Sulukule. L’unica certezza si ha quando ci si sveglia la mattina e tre, quattro case vicine sono state demolite, come se la notte e il buio concedessero l’impunità a questi operatori nottui, e la luce del giorno, le voci e l’attività facessero svanire, come dopo un brutto sogno, i lati più controversi della questione.
Purtroppo non è così, e in una bella mattina primaverile di metà marzo gli abitanti di Sulukule sono usciti e hanno trovato delle croci rosse sui muri delle case.
«La Municipalità di Fatih ha fatto marchiare le case con grosse croci rosse realizzate con bombolette spray, – spiega Cihan Baysal, attivista che sta scrivendo un rapporto sulla difesa dei diritti dei residenti di varie parti della città per la Istanbul Bilgi Üniversitesi, famosa perché si occupa di temi sensibili per la Turchia, come il genocidio degli armeni – sono gli edifici che saranno demoliti nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore. È una vera vergogna. Stiamo riunendo vari gruppi per contestare questa pratica, dipingeremo sulle croci e faremo stendere grandi lenzuoli bianchi fuori dai balconi. Nel distretto di Basibuyuk sono stati usati gas lacrimogeni contro i residenti, molti sono stati picchiati e feriti gravemente. Abbiamo tutti paura che succeda anche a Sulukule. Erdoğan ha fatto una conferenza stampa in cui ha accusato i manifestanti di non essere al corrente nel modo giusto dei piani del governo, ma è apparso nervoso e a disagio».

Quando James Bond 
era di casa

Antico distretto della città di Istanbul, Sulukule sorge a ridosso delle mura costruite dall’imperatore Teodosio nel V sec. d.C., nella municipalità di Fatih, a qualche fermata di autobus dal centro turistico di Sultan Hamet e da Topkapi, il palazzo del sultano.
Fonti scritte risalenti al 1054 attestano la presenza di musici, acrobati, giocolieri e domatori di orsi arrivati su cavalli, bambini e donne con lunghe gonne che praticano la chiromanzia, accampati lungo le mura bizantine. Scambiati al tempo per egiziani, in realtà arrivavano dal nord-est dell’India e fuggivano dalle invasioni musulmane. Sotto Mehmet il Conquistatore, nel XV sec., l’abitato da temporaneo divenne permanente: oggi rappresenta il più antico insediamento rom del mondo. Luogo unico, dal forte valore simbolico per una popolazione vittima di discriminazione e per un’Europa in cui la convivenza tra culture è un dichiarato obiettivo politico, i suoi 3.500 residenti ne rappresentano il vero patrimonio.
Nei secoli, all’ombra delle antiche mura, la comunità è cresciuta e ha dato vita a un tessuto sociale attivo e vivace: l’interazione degli abitanti di Sulukule con la città è uno dei rari esempi di integrazione riuscita di una comunità rom, che vive nel rispetto delle tradizioni e del proprio stile di vita.
È necessario fare un passo indietro fino al periodo precedente il 1992, quando gli abitanti erano circa 20.000 e il quartiere uno dei più vivaci e turistici di Istanbul. Il cuore della cultura rom, musica e danza, si era riproposto in vere e proprie attività redditizie: le case d’intrattenimento erano almeno 40, e costituivano il nucleo della socialità e dell’economia locali. In un’atmosfera calda e accogliente, il capo famiglia e i figli maschi suonavano, la moglie cucinava e le figlie danzavano. Gli abitanti di Istanbul e i numerosi turisti erano attratti dalle melodie e dalle danze orientali di famosi musicisti e danzatrici. «Nel 1992, quando Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul, il Comune e la Polizia hanno chiuso le attività, sostenendo che fossero illegali perché non si pagavano le tasse –  spiega Hacer Foggo di Sulukule Platform, gruppo di attivisti nato dalla Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association -. Gli abitanti sostengono che le tasse venivano pagate regolarmente, ma che non veniva rilasciata alcuna ricevuta di pagamento».
Da allora il quartiere si è spopolato e impoverito, alcune famiglie non possono permettersi di pagare i servizi base come acqua e luce. La disoccupazione e il tasso di criminalità sono aumentati, e l’area si è gradualmente trasformata in un vero e proprio slum in cui non mancano prostituzione, spaccio e delinquenza.
La storia di Sulukule è ora al capolinea: le sue stradine in salita, gli edifici bassi e colorati che si rincorrono lungo i vicoli fiancheggiati dalle antiche mura, le case in legno e pietra con gli interni variopinti e le decorazioni floreali dei soffitti, tra non molto rimarranno solo nella memoria degli anziani e nelle scene del film «Arkadas» di Yilmaz Guney girato nel 1974, o in quelle di «Agente 007. Dalla Russia con amore» del 1963, in cui James Bond si ritrova in una rissa in una Sulukule dall’atmosfera noir. Per il 2010, quando Istanbul sarà la capitale europea della cultura e il progetto della municipalità di Fatih sarà completato, nell’area ci saranno 480 nuove casette in stile ottomano, un palazzo di uffici, un centro culturale, un hotel e un grande parcheggio. 

Espropriazioni con la forza

Il progetto è stato definito nel 2003, ma è nel 2005 che il Parlamento turco approva la legge 5.366 sul recupero e il riutilizzo delle zone storiche fatiscenti, meglio conosciuta come «legge sugli espropri». «La legge 5.366 dà tutti i privilegi agli enti locali, mentre gli individui e i proprietari degli immobili non sono considerati – spiega il prof. Alper Unlu della Istanbul Technical University, uno degli istituti più prestigiosi del paese per gli studi di architettura e ingegneria -, così i diritti della popolazione rom sono brutalmente calpestati. Si sta verificando una sorta di inganno: il progetto è presentato come un piano di recupero sociale ma in realtà le autorità stanno mandando via le persone in modo poco chiaro. Le basi legali per procedere all’espropriazione e alla demolizioni non esistevano, gli enti locali hanno preso decisioni ad hoc per legittimare gli espropri».
Appellandosi a questa legge, il 13 luglio 2006 il Comune di Istanbul, la municipalità di Fatih e il Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», firmano un accordo in cui si rende operativo il progetto di recupero di diverse zone della Istanbul storica, tra cui Sulukule. Lo slogan del progetto è People first. A nulla servono le proteste degli abitanti del quartiere, che, non invitati a partecipare all’incontro, si riuniscono davanti alla sede centrale del Comune di Istanbul. Ong e associazioni per la tutela dei diritti umani vengono coinvolte, comincia una vera e propria campagna in difesa dei diritti dei residenti rom e per la tutela della loro cultura e del loro spazio vitale. La risposta del governo turco arriva nell’ottobre 2006: con un provvedimento ad hoc si autorizzano le espropriazioni forzate dei terreni di Sulukule, lasciando così un’unica possibilità, la vendita degli immobili.
«Queste persone dovrebbero avere la possibilità di integrarsi nel tessuto urbano: mancano occasioni di incontro, scuole, posti di lavoro – continua Alper Unlu -. La legge è dalla parte dei developers, le società private che prendono in gestione interi terreni e ne “riqualificano” lo status costruendo e vendendo gli immobili. Nei loro progetti l’aspetto sociale non è considerato. Non si tratta neanche di un vero restauro: si conservano le facciate degli edifici ma si demolisce tutto quello che c’è dietro, e si ricostruisce non rispettando le funzionalità originarie dell’immobile. Questo modo di procedere è contrario all’etica professionale e darà ai residenti il diritto di andare in tribunale. Dobbiamo aspettarci grossi conflitti».     
Nonostante il professor Unlu sostenga che, alle porte del 2010, quando Istanbul sarà «Capitale europea della cultura» (con Essen e Pécs) , Comunità europea e Unesco valuteranno negativamente i risultati di questo progetto mettendo in imbarazzo il governo turco, il sindaco di Istanbul Kadir Topbaş continua a presentare il progetto come una iniziativa sociale senza precedenti, dichiarando che la sua attuazione rappresenta la via diretta alla risoluzione dei problemi dei residenti. Le case saranno ricostruite e saranno dotate di tutti i servizi, il quartiere verrà rivalutato e gli immobili si apprezzeranno.

Una guerra 
contro i poveri

«Qui siamo poveri e ignoranti, il livello di scolarizzazione è molto basso, solo il 50% dei bambini va a scuola, le famiglie non hanno soldi per comprare i libri. Per questo la gente non si rende conto di quello che sta succedendo – dice Ferdin Davaroğlu – se non fosse stato per due o tre di noi che si sono ribellati saremmo già tutti sulla strada. Quello che dice il governo è pura propaganda, nessuno di noi qui ha i soldi per acquistare un immobile o pagare rate mensili. La maggior parte di noi non ha i servizi essenziali, vive in condizioni di pura sussistenza ed è impensabile chiederci dei soldi. Vogliono mandarci via ma noi non ce ne andremo, la mia famiglia vive qui da generazioni, non me ne andrò mai. Sono turco e amo questo paese, ma in questa situazione mi sento rom».
Il primo round di demolizioni riguarda 620 immobili di proprietà e 432 immobili in affitto, i terreni diventano proprietà statale. In ogni immobile vivono dalle due alle dieci famiglie, considerando che le condizioni di povertà costringono spesso più nuclei famigliari a una convivenza forzata. I 620 immobili verranno demoliti e ricostruiti, i proprietari possono decidere se andarsene e ricevere una compensazione calcolata su 500 lire turche al metro quadro, accontentandosi di un totale che varia dalle 7.000 alle 25.000 lire turche a seconda delle dimensioni dell’immobile, oppure possono acquistare il nuovo immobile a prezzi agevolati e con, a detta delle autorità, numerose facilitazioni. Il comune ha già ricevuto 314 richieste per comprare i nuovi immobili, solo 8 di queste sono state avanzate da famiglie rom. Il prezzo dei nuovi immobili è il triplo e spesso il quadruplo della compensazione. 
Gli affittuari dei 432 immobili da demolire saranno invece dislocati in appartamenti di periferia dove le rate mensili sono comunque troppo alte.
«Il piano sta procedendo molto velocemente – spiega Asli Kiyak, architetto e attivista di Human Settlement Association e Sulukule Platform -, siamo in tribunale ogni giorno per contestare il modo di procedere del Comune che non rispetta i diritti dei residenti e demolisce edifici storici senza autorizzazioni dal Ministero dei beni culturali.  Le persone sono state convocate singolarmente per colloqui con i responsabili della municipalità, per evitare che si creassero gruppi o comitati di solidarietà. La stampa è stata usata per far vedere che il Comune stava definendo il progetto insieme ai residenti, ma in realtà è stata un’operazione propagandistica per creare consenso e far sì che le case venissero vendute prima degli espropri».
 «Siamo stati minacciati – dice Hüseyin Küçükatasayci, 53 anni, guida di un carro trainato da cavalli -. Ho avuto paura che la mia casa venisse espropriata da un giorno all’altro, così ho venduto tutto. Ora vivo lontano da qui, in un palazzo in periferia, ma quando i vicini hanno visto il carro con i cavalli parcheggiato davanti al portone hanno protestato, e io sono tornato a Sulukule con la mia famiglia e il mio carro. Dormiamo da mia madre». Il lavoro di Hüseyin è trasportare i turisti, l’estate lavora nelle Princes Islands.
Nonostante i ricorsi alla Corte di giustizia e gli appelli alla Commissione europea per i diritti umani, 35 edifici sono stati demoliti. In Sulukule street è stata demolita la casa di legno a due piani della famiglia Güldür, che quel 21 febbraio 2007 alle 9.30 si trovava ad Ankara. La Municipalità di Fatih ha successivamente presentato scuse ufficiali alla famiglia.

«Lo facciamo per voi» 

Duecento  famiglie hanno venduto le loro case a privati e società, che da una ricerca dell’associazione Sulukule Platform risultano essere collegati all’AKP di Tayyip Erdoğan e che hanno intenzione di speculare sui nuovi immobili. «Sulukule non è un caso isolato – dice Hacer Foggo di Sulukule Platform – i distretti di Küçükbakkalköy e Kağıthane, abitati prevalentemente da rom, sono già stati distrutti e ricostruiti, e la popolazione dislocata». Il sospetto è che le autorità vogliano portare nelle periferie i rom, socialmente e politicamente molto deboli e senza strumenti per difendere i propri diritti. «Le nuove case che costruiranno a Sulukule hanno tutte il garage, considerando che qui solo il 5% della popolazione ha una macchina, è chiaro che il progetto non è fatto per gli attuali residenti. Se si va avanti di questo passo, le famiglie rom scompariranno dal quartiere» conclude Hacer.
La protesta ha raggiunto gli alti ranghi della politica e il CHP, il Partito repubblicano del popolo all’opposizione, ha invitato un gruppo di rappresentanti degli abitanti del quartiere al Parlamento di Ankara, dove il presidente della Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association, Şükrü Pündük, ha potuto illustrare la situazione e ha dichiarato di non essere contrario al recupero di Sulukule, ma di voler creare un tavolo di lavoro in cui insieme a governo e Comune di Istanbul sieda anche la popolazione rom.
«Non siamo contrari al risanamento degli immobili – afferma Şükrü,  ci sono situazioni veramente drammatiche e c’è bisogno di un intervento delle istituzioni. Pensiamo però che le decisioni non possano passare sulla testa di noi residenti, e che la popolazione rom abbia il diritto di proporre una propria soluzione che non rischi di tagliarci fuori da Sulukule».
Il parlamentare europeo Joost Lagendijk ha visitato l’area e ha proposto alle autorità un approccio partecipativo al problema. Due giorni dopo altri nove edifici sono stati demoliti. «Questa mossa ha confuso tutti» spiega Asli.
Il 20 marzo 2008 Tayyip Erdoğan, in uno dei suoi discorsi televisivi alla popolazione, afferma: «È molto strano quello che sta succedendo in merito al progetto su Sulukule. Quelli che protestano non ci sono mai stati, non ci hanno mai vissuto. Altrimenti si esprimerebbero in un altro modo. Se fossero sinceri e sensibili ci direbbero grazie, per aver salvato Sulukule dallo sfacelo e per trasformarlo in uno spazio moderno, in linea con la contemporaneità, dotato di tutti i servizi ma nello stesso tempo, storico. Questo è quello che stiamo facendo perché noi amiamo Istanbul». Nel frattempo elettricità e acqua sono state tagliate in molte altre case, dove «ancora bollivano le pentole sui fornelli», come riporta un comunicato stampa dei residenti. (1a puntata – continua)

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Utopia o realtà

Pensieri sulla democrazia

Il dibattito sulla democrazia in Africa continua. A prima vista, c’è un plebiscito per il modello occidentale da parte delle élite politiche africane. Ma alcuni decenni di pratica democratica sul continente testimoniano il fallimento di queste utopie. Cosa copre questo umanismo di facciata? E quali sono le ragioni del fallimento delle esperienze democratiche africane?

La svolta degli anni ’90 con la conferenza di la Baule aveva messo gli africani faccia a faccia con un dilemma: optare per  la democrazia, e quindi beneficiare dell’aiuto occidentale, oppure continuare con le loro politiche autoritarie, con le implicazioni dal punto di vista della governance economica e sociale. In questo caso avrebbero rinunciato essi stessi al sostegno dei paesi sviluppati. Quando François Mitterand lanciava questo ultimatum, la maggior parte dei paesi africani versava in una crisi economica e sociale senza precedenti. Il carattere strutturale di queste crisi non ha lasciato scelta ai paesi, che hanno tutti deciso di abbracciare la democrazia pluralista, per ottenere la manna finanziaria occidentale.

Ma ci si è presto resi conto che questa accettazione della democrazia era avvenuta a denti stretti. In realtà la situazione economica e sociale era così catastrofica che le misure terapeutiche previste dalle istituzioni finanziarie inteazionali accentuarono ulteriormente i problemi.
Analizzando il nuovo contesto dei paesi africani, l’intellettuale camerunese Achille Mbmbe vi denota tre fattori caratteristici.
Primo. La democratizzazione è stata accompagnata dall’informalizzazione delle economie  e delle strutture statali: dispersione del potere, mutilazione dello stato nel senso di indebolimento delle capacità amministrative, assenza di visione prospettiva che alimentava reazioni di panico di fronte a situazioni di rischio impreviste, da cui il ricorso sistematico alla violenza.
Secondo. Si assiste a una specie di fenomeno di «diffrazione sociale», ovvero la comparsa di eventi come le guerre, lo spostamento forzato di popolazioni, i massacri, ma anche il sorgere di poli diversi di autorità e giurisdizione, la molteplicità delle identità e delle alleanze, tutte cose che accrescono l’instabilità strutturale.

Terzo. Si nota, infine, l’assenza del modello teorico e di una tradizione di riflessione critica e autonoma sullo stato di diritto, le forme di cittadinanza e le istituzioni della democrazia sul continente. Ne risulta l’assenza di un progetto politico degno di questo nome, ideato da uomini e donne con una vera ambizione per l’Africa. Bisogna ammettere che le esperienze democratiche africane sono, la maggior parte almeno, dei fallimenti. Ma è soprattutto il fiasco delle élite politiche che non hanno saputo essere all’altezza delle loro responsabilità storiche. Queste consistevano prima di tutto a dare allo Stato-Nazione un contenuto e un valore, che trascendesse gli interessi identitari o di comunità.

Certi analisti hanno subito preso il pretesto di questi insuccessi per dichiarare, imprudentemente, che l’Africa non è adatta alla democrazia. Se consideriamo gli standard democratici come la separazione dei poteri, le elezioni libere e trasparenti, il multi partitismo e la protezione delle minoranze, è difficile affermare che questi sono esclusiva di una razza di uomini, di un continente o di un gruppo di paesi o di continenti. Corrispondono, pensiamo, a delle aspirazioni universali, fondate sulla storia stessa degli uomini. Così, l’appropriazione di questi standard può rispondere a degli approcci diversi, non solo in funzione della cultura politica di ogni popolo, ma anche, e soprattutto in funzione dell’ideale socio-politico che ogni popolo vuole fare proprio.
Il problema è quindi meno nei principi democratici, forzatamente generali, e più nella capacità degli africani ad abbandonare la via del mimetismo per essere veramente creativi. Lo si vede dove le élite politiche del continente fanno prova d’immaginazione e soprattutto di volontà politica di far loro l’ideale democratico. Qui la base istituzionale della democrazia è più solida.

Certe teorie politiche, che constatano il fallimento degli Stati-Nazione hanno pensato di cambiare la democrazia classica con un approccio consensualista. L’hanno chiamata «democrazia consensuale». Ma questa presenta talmente tante similitudini con il sistema dei capi tradizionali, che fa temere il ritorno al monolitismo e al potere personificato. Il popolo francese, ad esempio, non ha sempre vissuto in uno stato democratico. Ha conosciuto poteri monarchici con varianti assolutiste.  È proprio sul fondamento di questo passato che le lotte sociali si sono sviluppate e hanno portato la democrazia.
Non possiamo fondarci su dei pensatori socio-storici per definire l’evoluzione politica di un paese o di una nazione. Il male dell’Africa sta dunque in una carenza endemica delle élite politiche, incapaci di elevarsi al livello di visione nazionale per integrare armoniosamente l’insieme di entità etniche che compongono le comunità nazionali africane. Mancanza di trascendenza politica e di una reale volontà delle élite di portare le masse africane verso la costruzione di veri Stati-Nazione, la democrazia resterà sempre un’aspirazione e una linea d’orizzonte.

Di Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Presenza scomoda

Cristiani a Urmia, nel Nord dell’Iran

La storia dei cristiani assiri, caldei, armeni è costellata di ostilità e persecuzioni; quelli che vivono a Urmia, nell’Azerbaigian occidentale (Iran), non fanno eccezione. L’emorragia di giovani in cerca di libertà continua; eppure la presenza cristiana nel mondo islamico ha ancora senso e costituisce un esempio per i cristiani che vivono nei paesi liberi.

Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITà CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero – medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni – oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia. 
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del xii secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del xiv secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non toò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha iv a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.

LIBERI…  A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio iii. Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso…
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi – continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.

Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso. 

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Il coraggio della verità

Lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Grinzane Cavour 2002 nella sezione Narrativa straniera e premio Nobel per la letteratura 2006, è stato portato davanti ai giudici per «avere offeso la turchità».

Orhan Pamuk, che nei suoi romanzi spazia dalla realtà al sogno, ha vissuto un vero e proprio incubo nel dicembre 2005, quando fu costretto a comparire davanti al giudice di un tribunale turco con l’accusa «di avere offeso la turchità», poiché, come dichiara lo stesso scrittore, «in un’intervista per una rivista svizzera nel febbraio dello stesso anno ho detto che in Turchia sono stati uccisi 1 milione di armeni e 30 mila curdi. Ho detto anche che nel nostro paese non si parla di queste cose perché rappresentano un tabù. Mi riferivo a quello che è accaduto agli armeni ottomani a partire dal 1915… Alcuni giornali hanno dato il via a una campagna d’odio; alcuni editorialisti hanno detto apertamente che era il momento di farmi tacere; gruppi di fanatici nazionalisti mi hanno insultato per le strade e hanno organizzato dimostrazioni; i miei libri e le mie fotografie sono stati bruciati».
Pamuk ha rischiato tre anni di carcere ma, grazie anche al sostegno a livello internazionale, il processo è stato interrotto e le accuse sono state ritirate il 22 gennaio 2006.
È stata, perciò, una splendida realtà vedere cento e più persone in coda per far firmare copie dei suoi libri a Orhan Pamuk, dopo una conferenza organizzata a Torino, giovedì 6 settembre 2007, dal Premio Grinzane Cavour nel bel cortile di palazzo Chiablese, conferenza a cui ha partecipato un pubblico di circa 400 persone. 
Durante tale conferenza Pamuk, con la consueta sincerità e chiarezza, ha sviscerato il suo rapporto amore-odio nei confronti dell’Occidente, ricordando come nei primi volumi del Diario di André Gide, premio Nobel per la letteratura 1947, «s’incontrano punte beffarde e irose scagliate contro la Turchia, da lui visitata nel 1914, dopo le guerre balcaniche». Eppure Gide è ammirato da tanti intellettuali turchi come Tanpinar, che prova «stupore» davanti al suo «disprezzo per i turchi».
Lo stesso Gide, però, ammira Dostoevskij che, nel suo Diario di uno scrittore parla «dell’ipocrisia francese, di come i grandi principi di questa terra siano svaniti, estinti di fronte al denaro». Uno scrittore può, quindi, amarci o non amarci, ma ci attrae «per i mondi, i valori, la maestria».
Pamuk sviscera i suoi sentimenti affermando: «Dalla finestra da cui mi pongo a osservare l’idea d’Europa o d’Occidente si manifesta appunto fra le ombre di quel rapporto. Essa non è solare, brillante. Immaginare l’Europa, per me, significa trovarmi in forte tensione tra ripugnanza e amore, attiva nostalgia e disprezzo patito». Ricorda, poi, le riforme influenzate dall’Occidente, effettuate da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica, il padre della nazione turca modea, dal 1923 agli anni Trenta. Infatti, «accanto a cambiamenti formali, quali il passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino, l’adozione del calendario “cristiano”, lo spostamento alla domenica del giorno festivo settimanale, ne esistono altri che hanno lasciato tracce più marcate nella società, come il miglioramento dei diritti delle donne».  Riforme, ancora oggi, oggetto di tante dispute tra gli intellettuali turchi.

Mentre Pamuk mi firmava una copia de Il libro nero gli ho detto, in inglese, che quando leggo i suoi libri non posso fare a meno di pensare a Pirandello. Lo scrittore turco si è fatto una bella risata, affermando che era arrivato a Pirandello tramite Borges. Ha poi risposto con un vigoroso assenso con il capo quando gli ho chiesto se è stato influenzato dal drammaturgo siciliano.
Infatti, solo pensando a Pirandello, che spazia sul continente e trasforma i suoi personaggi al massimo in Enrico iv, sono finalmente riuscita a capire Il castello bianco di Pamuk, ambientato nel 1600, dove la trasformazione avviene tra Oriente e Occidente, ovvero il sosia turco di un dotto prigioniero schiavo veneziano ne assume sembianze e sapere.
Chi è lo scrittore Orhan Pamuk, amato ed odiato, certamente perseguitato per la sua sete di «verità»?
Sin da giovanissimo Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel 1952, ha navigato tra i 1.500 libri della biblioteca di suo padre, erede di un’agiata famiglia e lui stesso imprenditore di altee fortune con l’animo del poeta. Durante i suoi frequenti viaggi, molti a Parigi, Pamuk padre prendeva appunti, scriveva poesie, ascoltava gli amati scrittori francesi, acquistava libri e, sollecitando la fantasia del figlio, inconsciamente forgiava lo scrittore.
Orhan ricorda: «Quando divenni uno scrittore, non ho potuto mai dimenticare che era in parte grazie al fatto che ho avuto un padre che mi parlava degli scrittori del mondo molto più che di pascià o leader religiosi».
Nel 1974, osteggiato dalla madre e incoraggiato dal padre, Pamuk ha iniziato a scrivere regolarmente, dopo aver frequentato la facoltà di architettura all’Università di Istanbul e essersi laureato in giornalismo. Da allora ha vinto prestigiosi premi letterari a livello internazionale, tra cui il Grinzane Cavour nel 2002 con Il mio nome è Rosso, e ha continuato da laico, ma quasi come un eremita, nel faticoso lavoro d’introspezione in se stesso e a produrre romanzi di altissimo livello letterario.
Pur non avendo mai fatto il giornalista, Pamuk conosce tutti i trucchi, le grandezze e le meschinità del mestiere. Lo dimostra bene ne Il libro nero, tratteggiando, anche con un pizzico di ironia, il personaggio «fantasma» del famoso giornalista Celâl, fratellastro di Ruya, la moglie sparita dell’avvocato Galip, che alla ricerca dei due ci conduce dagli interminabili e prevedibili pranzi di famiglia ai meandri più segreti di Istanbul. Pamuk è stato insignito del premio Nobel per la letteratura proprio perché «nella ricerca dell’anima melanconica della sua città natale ha scoperto nuovi simboli per lo scontro e l’intreccio delle culture». 

Nel discorso ufficiale a Stoccolma, dedicato con affetto al padre scomparso nel 2002, Pamuk afferma: «Solo scrivendo libri ho potuto raggiungere la comprensione dei problemi dell’autenticità (come ne Il mio nome è Rosso e Il libro nero) e i problemi della vita in periferia (come in Neve e Istanbul)». Ma ricorda anche il travaglio e la fatica del bravo scrittore: «Il segreto dello scrittore non è l’ispirazione – non è mai chiaro da dove arriva – ma la sua ostinazione e pazienza… Nel mio romanzo Il mio nome è Rosso, quando scrissi degli antichi miniaturisti persiani che hanno disegnato lo stesso cavallo con la stessa passione per molti anni, memorizzando ogni pennellata tanto da poter ricreare lo stesso bellissimo cavallo anche a occhi chiusi, sapevo che stavo parlando della stessa professione dello scrittore e della mia vita». E, finalmente, dopo aver cercato a lungo un «centro» di vita ha capito che: «Per me il centro del mondo è Istanbul. Non perché ho vissuto qui per tutta la vita, ma perché negli ultimi 33 anni, ho raccontato le sue strade, i suoi ponti, la sua gente, i suoi cani, le sue case, i suoi giorni e le sue notti, facendole divenire parte di me, abbracciandole tutte».
Eppure è con il romanzo Neve, ambientato nella città di Kars sul confine orientale della Turchia ai piedi del Caucaso, che Pamuk nel microcosmo di una società ristretta, per di più isolata dalle abbondanti nevicate, ci svela idee, azioni ed emozioni degli attori che animano lo scontro islam-occidente, spaziando dalle azioni violente dei fondamentalisti, della polizia e delle frange comuniste allo sgomento dei poeti, di tante donne e dei veri credenti di Allah.
Il protagonista del romanzo è Ka, un poeta esule in Germania, che dopo tre giorni di viaggio raggiunge Kars per indagare sulla misteriosa vicenda di ragazze suicide, perché non è loro permesso di portare il velo all’università, ma anche per incontrare la bella Ipek di cui è sempre stato innamorato. Quattro anni dopo questo viaggio, che ha risvegliato in lui la creatività del poeta, Ka sarà assassinato in Germania da mani misteriose.
L’amico del poeta, lo scrittore Orhan (alias Pamuk), indaga ripercorrendo, aiutato da un diario, le vicende di Ka.  Omicidi, faide, tradimenti (lo stesso Ka si rivelerà un traditore), dolore, tanto dolore, esaltazioni mistiche e ambizioni di potere accompagnano i protagonisti disperati di questa saga. Malgrado ciò, contemplando la neve, il poeta sente che «quei fiocchi suscitavano in lui un sentimento che gli ricordava la bellezza e la brevità della vita e gli faceva pensare che, malgrado le ostilità, gli uomini si somigliassero: l’universo e il tempo erano vasti, mentre il mondo dell’uomo era piccolo». •

Silvana Bottignole