Donne, piano anticrisi

Eticamente

La discriminazione delle donne in Italia e nel mondo è lontana dall’essere debellata. Anche sul piano economico. Eppure le aziende guidate da donne ottengono le migliori performance. Dando un contributo sostanziale.

Ogni anno al palazzo di vetro si riunisce la commissione dell’Onu sullo stato delle donne (Csw, Commission on the status of women) che ha il compito di monitorare la condizione femminile nel mondo. Anche per il 2012, la Csw ha lanciato un allarme: le donne non solo sono le più colpite dalla crisi, ma partecipano con più difficoltà ai piani di recupero e di rilancio dell’economia.
La popolazione femminile ha subito più danni sul fronte dell’occupazione, l’ultimo rapporto dell’Oil (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che, dallo scoppio della crisi del 2007 a oggi, 22 milioni di donne, soprattutto nei paesi industrializzati, abbiano perso il lavoro.

Esistono vari indici per misurare la condizione femminile, due i più importanti e riconosciuti a livello internazionale: il Ggg (Global Gender Gap) che misura quattro fattori differenziali: la partecipazione economica, il livello di educazione, il potere politico, lo stato di salute.
E il Gei (Gender Equity Index) ideato e utilizzato dalla rete non governativa Social Watch,  che tiene conto delle differenze nel campo dell’istruzione, del reddito e della rappresentanza nei luoghi decisionali.
Secondo il Gei 2012, l’Italia è al settantesimo posto su 154 paesi.
La situazione delle donne italiane è ben descritta nello studio «Lavori in corsa», pubblicato in occasione del trentennale della Cedaw, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Le discriminazioni che le donne italiane subiscono sono molte, ma, limitandosi al settore economico e finanziario, si nota come le principali riguardino il mondo del lavoro. In Italia lavora solo una donna su due. Metà delle donne italiane non solo non ha lavoro, ma, a quanto dice l’Istat, neppure lo cerca.
Per le lavoratrici italiane resta enorme il problema della conciliazione dei tempi di lavoro con la vita famigliare a causa della mancanza di servizi essenziali come gli asili nido, questo porta una donna su cinque a lasciare il posto dopo la mateità. E ancora, grandi sono le disparità salariali che possono toccare fino al 20% dello stipendio, inoltre la carriera professionale è più discontinua e meno gratificante e, quando la lavoratrice va in pensione, riceve un assegno più basso e questo espone le donne anziane a un maggiore rischio di povertà.

Anche se scelgono la strada del lavoro autonomo, le donne sono più discriminate. Secondo un recente studio del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) le imprenditrici pagano un costo più alto per ottenere prestiti (fino a 50 punti base in più rispetto agli uomini) e una donna che presenta come garanzia quella di un’altra donna è considerata dalle banche come il «peggior cliente», questo a dispetto del fatto che le imprese femminili hanno un tasso di fallimento più basso di quelle maschili e sono più redditizie: fino al 27% in più nella redditività commerciale e del capitale investito.
Uno studio della Banca d’Italia dimostra che se l’occupazione raggiungesse il 60% delle donne in età produttiva (come stabilito dagli obiettivi europei di Lisbona), il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, anche perché per ogni 100 donne che lavorano si creerebbero 15 posti in più nei servizi.
All’origine di tutte queste forme di discriminazione e di esclusione economica, c’è senza dubbio la scarsa rappresentanza della popolazione femminile nei centri decisionali dell’economia, della politica e, addirittura, della cultura. Meno del 20% sono donne tra i dirigenti di azienda, i componenti dei consigli di amministrazione, i direttori scolastici, i cattedratici, per non parlare delle istituzioni, dove le donne non superano il 17%. Persino nel terzo settore e nella cooperazione sociale, la situazione non cambia. Le donne sono tante, talvolta la maggioranza tra gli operatori e i volontari, ma sono un’infima minoranza se si cerca tra i responsabili.
Ciononostante, le donne sono protagoniste di iniziative economiche solide, caratterizzate, in prevalenza, da due fattori di successo. Il primo tocca la dimensione comunitaria, le imprese delle donne non sono quasi mai individualiste: contano sempre sulla presenza di una rete o famigliare o di gruppo. Il secondo riguarda l’innovazione, molte imprese «in rosa» sono ingegnose e arricchiscono l’attività produttiva con idee nuove e vincenti.
Recentemente il parlamento italiano ha approvato una legge che obbliga, in linea con gli altri paesi europei, a portare la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa a un terzo dei componenti. Legge che ha dovuto superare molti dubbi e pesanti critiche.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Terzo polmone del cristianesimo

Cristiani in Siria: tra due fuochi

La Siria è, insieme al Libano, la terra che esprime pienamente la ricchezza e la complessità della storia cristiana: orientali, cattolici e ortodossi, ci sono tutti; un crogiolo di confessioni, riti e culture che, attraverso i secoli, è diventato un laboratorio di dialogo ecumenico e tolleranza interreligiosa; un’esperienza bimillenaria presa tra due fuochi: le violenze settarie dei ribelli e la repressione feroce del regime.

Da oltre un anno si susseguono le notizie sulla carneficina in corso in Siria. Tra le loro pieghe, ogni tanto si sentono accenni a cristiani in fuga: caldei, assiri, siro-ortodossi, siro-cattolici… Per la maggior parte della gente questi cristiani sono un mondo sconosciuto; i più informati li considerano residuati di un mondo esotico e complesso, conosciuti per i loro riti pittoreschi e le tante giurisdizioni: nella sola città di Aleppo ci sono 11 chiese diverse, la maggior parte delle quali con a capo un vescovo.
Di fronte a una guerra civile ormai in corso, con bombardamenti dell’esercito regolare e autobombe degli insorti, i cristiani si trovano tra due fuochi. Incombe sulla Siria la minaccia comune a molti paesi del Medio Oriente: la fuga dei cristiani e l’estinzione delle più antiche Chiese cristiane, risalenti all’epoca apostolica. Sarebbe una perdita enorme per l’intera umanità, che non può permettersi di vedere disperso un ricchissimo patrimonio culturale e religioso tramandato ininterrottamente per duemila anni.

il polmone siro-orientale
La prima evangelizzazione della Siria, secondo l’antica tradizione ecclesiastica, risale all’apostolo Giuda Taddeo, del clan familiare di Gesù, e all’apostolo Tommaso, nel suo viaggio verso la Persia.
La Siria, a quei tempi, comprendeva i territori dell’omonima provincia romana, dalla Palestina alle regioni dell’Eufrate, e aveva come capitale Antiochia di Siria. L’area geografica si allarga di molto se pensiamo alla lingua parlata in quelle regioni: il siriaco, un dialetto strettamente legato all’aramaico, la lingua parlata da Gesù e dagli apostoli.
Ad Antiochia soggioò a lungo l’apostolo Pietro, prima di stabilirsi a Roma; sempre ad Antiochia tutti i discepoli di Gesù, giudei e pagani, da allora e per sempre vennero chiamati «cristiani».
Intoo all’anno 36, sulla via di Damasco, folgorato da Gesù stesso, Saulo di Tarso divenne l’apostolo delle genti e fece di Antiochia di Siria il punto di partenza dei suoi viaggi missionari. E dopo la distruzione di Gerusalemme per mano dei romani (70 d.C.), Antiochia diventò il centro delle chiese di lingua siriaca e scuola del pensiero cristiano d’Oriente, come Alessandria (poi Costantinopoli) lo fu delle chiese di lingua greca e Roma di quelle di lingua latina.
Già nel II secolo la teologia siriaca, non ancora influenzata dal pensiero greco, si sviluppò con caratteristiche autoctone, grazie alla riflessione di grandi figure come gli apologeti Teofilo di Antiochia e Taziano il Siro, Afraate monaco, asceta e vescovo, e soprattutto il grande sant’Efrem il Siro (306-373), teologo, poeta e padre della chiesa.
Alla fine del III secolo, la chiesa siriaca era profondamente radicata nelle città e nelle campagne, grazie soprattutto alla straordinaria fioritura del fenomeno ascetico-monastico, le cui caratteristiche indigene, come la forma eremitica degli stiliti, distinsero la chiesa siriaca e la resero famosa su tutte le altre. San Simeone Stilita (521-592) e san Marone sono alcuni dei più noti tra i tanti monaci che vissero in questa regione. Testimoni di tale fioritura sono migliaia di luoghi di preghiera, risalenti al IV e V secolo, i cui ruderi ancora visibili sono disseminati nelle famose «90 città morte» a ovest di Aleppo.
Ben presto la Siria fu teatro delle controversie cristologiche che causarono la divisione religiosa in Oriente: quando il concilio di Calcedonia (451) condannò il monofisismo (Cristo avrebbe una sola natura), condanna ribadita nel secondo concilio di Costantinopoli (553), la maggior parte dei cristiani siriaci rifiutarono le decisioni conciliari, dando vita alla chiesa siro-ortodossa (monofisita). Più che a divergenze teologiche, lo scisma fu dovuto a fraintendimenti linguistici e, soprattutto, alla reazione nazional-religiosa contro i dominatori greco-bizantini. Una parte della società, più colta e ellenizzata, accettò senza difficoltà le decisioni conciliari, dando origine alla chiesa melchita (melek=re).
Per tutto il millennio (cioè finché le condizioni lo permisero) i siriaci, soprattutto orientali, svolsero una stupefacente attività missionaria, espandendo il vangelo nella penisola arabica, fino a raggiungere varie tribù mongole dell’Asia centrale, il Tibet e la Cina.
Di valore eccezionale è la produzione di testi teologici e spirituali delle chiese siriache: un patrimonio letterario ricchissimo, purtroppo poco conosciuto e in parte perduto, che non ha nulla da invidiare alla letteratura greca e latina, tanto che uno dei massimi studiosi di questa tradizione, Sebastian Brock, riprendendo una immagine di Giovanni Paolo II, afferma che la cristianità respira con tre polmoni: quello latino, quello orientale e quello siriaco.

Impatto con l’islam
In seguito alla conquista araba (VII secolo) i cristiani bizantini e siri esercitarono un enorme influsso anche sulla nascente civiltà islamica, sia quando Damasco divenne la capitale dei califfi Omayyadi, sia quando la capitale fu spostata a Baghdad dalla dinastia degli Abbasidi (750). Funzionari cristiani ed ebrei pullulavano nell’establishment dei vari califfati. Uno di essi fu san Giovanni Damasceno (675-749), di nobile famiglia arabo-cristiana, amico e consigliere del califfo e responsabile economico del califfato fino a quando si ritirò nella laura di San Saba in Palestina.
L’incontro tra cristianesimo e islam portò per forza alla presentazione delle rispettive dottrine di fede. Lo stesso Damasceno analizzò il Corano, lo paragonò alla Bibbia e ne dedusse che l’islam era un’eresia cristiana.
Ben presto l’arabo divenne idioma cristiano, usato nel dibattito culturale e nelle differenti controversie religiose nell’area islamica: il vescovo Teodoro Abucara (741-825), discepolo del Damasceno, compose in arabo le sue opere, tra cui il trattato sulla Difesa delle icone, traendo argomenti dal Corano e dai detti del Profeta.
Per tre secoli, numerosi cristiani siriaci (ed ebrei) animarono le famose accademie musulmane fiorite in Siria e in Mesopotamia e, su incarico dei califfi, intrapresero una sistematica traduzione dal greco in arabo, attraverso il siriaco, dei testi letterari, filosofici e scientifici dell’antichità classica. In tal modo la conoscenza del mondo greco-romano divenne uno dei fondamenti della cultura arabo-islamica.
Durante il Medio Evo gli arabi, attraverso la Spagna, riportarono i testi classici della filosofia greca in Europa, che aveva quasi del tutto dimenticato questa tradizione.
Nel secondo millennio, sotto il dominio dei mamelucchi e poi dei turchi ottomani, la storia dei cristiani della Siria fu costellata di violenze e pogrom anticristiani; ma nei momenti di calma essi riuscirono a contribuire allo sviluppo della regione con le loro attività commerciali e intellettuali, culminate in iniziative culturali, verso la metà del secolo XIX, come scuole, tipografie, giornali, testi scolastici e di letteratura… che hanno creato in Libano e in Siria il senso di «arabità», collante comune a cristiani e musulmani in chiave anti ottomana e terreno di coltura del nascente nazionalismo siriano.
Durante il mandato francese (1921-46), un giurista cristiano libanese, Edmond Rabbath, ispirò la Costituzione del 1930: sfruttando il senso di arabità, fu prescritta una rigorosa neutralità del potere civile nei confronti delle varie confessioni religiose. Il modello «laicizzante» rimase anche dopo la dichiarazione d’indipendenza (1944) e nella nuova Costituzione elaborata all’inizio degli anni ‘50: nonostante le pressioni dei Fratelli musulmani, l’islam non fu menzionato come religione di Stato; mentre fu prescritta l’assoluta appartenenza alla religione islamica del presidente della repubblica (art. 3).
Altri cristiani contribuirono all’indipendenza della Siria, come Michel Aflaq, militante nazionalista, che nel 1947 fondò il Partito Baath arabo socialista (o semplicemente Baath, ossia, risurrezione). Un altro cristiano, Fares al-Khoury, anche lui tenace nazionalista, fu eletto presidente della Repubblica per due volte (1945 e 1954) e fu acclamato padre della patria, ma, a differenza di Aflaq, si oppose al pan-arabismo di Nasser e alla unione tra Egitto e Siria (1958-1961).

Caleidoscopio di riti e culture
Trent’anni fa in Siria vivevano 9 milioni di abitanti; oggi sono quasi 23 milioni, compresi 472 mila rifugiati palestinesi e 1,5 milioni di sfollati iracheni: un mosaico di «47 gruppi etnici e religiosi», secondo un professore di relazioni inteazionali di Damasco.
Sotto l’aspetto etnico il popolo siriano è composto da arabi e aramei arabizzati (86%), curdi (7%), armeni (2%), turchi, circassi, caldei, assiri, turkmeni, ceceni e altri. Sotto l’aspetto religioso la società siriana risulta ancora più frastagliata. La maggioranza dei siriani sono musulmani sunniti (74%) il resto è formato da minoranze di sciiti, alawiti, drusi, ismailiti e altri gruppi islamici.
I cristiani sono circa 2 milioni (quasi 10%) e costituiscono a loro volta un autentico caleidoscopio di riti e tradizioni, con 11 gerarchie e comunità differenti, con ben 3 patriarchi di chiese orientali che hanno la propria sede a Damasco, erede della sede apostolica antiochena.
Metà di essi appartiene alla chiesa antiochena (greci ortodossi); circa 500 mila costituiscono la chiesa ortodossa siriaca; 125 mila la chiesa apostolica armena; poche migliaia di nestoriani o assiri e protestanti.
I cattolici siriani sono circa 430 mila, divisi in varie chiese con giurisdizioni diverse per i fedeli di ciascun rito: greco-cattolici o melchiti, siriaci, maroniti, armeni, latini, caldei. 
La Siria è, insieme al Libano, l’unico paese arabo in cui l’islam non è definito religione di stato dalla Costituzione e la religione non è riportata sulle carte d’identità. I cristiani, quindi godono di totale libertà di culto e possono svolgere i loro riti e funzioni (messe, processioni, pellegrinaggi…) liberamente e pubblicamente, purché non disturbino l’ordine pubblico; le solennità cristiane come Natale e Pasqua sono giorni festivi per tutto il paese; croci, insegne religiose, edicole mariane… sono apertamente esposte nei quartieri cristiani. Non esiste alcuno ostacolo all’edificazione di nuove chiese e strutture religiose; anzi, talvolta è il governo a facilitae la costruzione, particolarmente nelle aree suburbane di Aleppo, Damasco, Homs, offrendo il terreno e accelerando i permessi. Senza dimenticare che, al pari di moschee e strutture islamiche, chiese e edifici cristiani sono esenti da tasse e godono della foitura gratuita di elettricità e acqua.
Un decreto presidenziale del 2006 garantisce ai cattolici la possibilità di regolare questioni di diritto familiare ed ereditario secondo norme e criteri differenti da quelli derivanti dalla legge coranica. Tutto ciò ha garantito e stabilizzato la presenza cristiana nel paese e scoraggiato l’emigrazione.
Sulla libertà di coscienza, però, pesano le regole dettate dalla tradizione musulmana. Nessuna legge proibisce il proselitismo cristiano, ma il governo lo scoraggia, fino a perseguitare i missionari cristiani; la conversione al cristianesimo è ritenuto un reato dall’establishment religioso e sociale; come in tutte le società islamiche, una donna musulmana non può sposare un cristiano; se una cristiana sposa un musulmano i suoi figli sono automaticamente considerati musulmani.
Per tenere insieme questo mosaico di gruppi etnici e religiosi la società siriana ha saputo sviluppare una mirabile ma fragilissima armonia sociale e interreligiosa, basata sul nazionalismo arabo di matrice laica, ma anche imposta, da oltre 40 anni, con l’uso della repressione poliziesca. Da quando, cioè, governo ed esercito, con il colpo di stato che nel 1970 portò al potere Hafez al Assad, sono passati nelle mani degli alawiti, una minoranza di matrice sciita, rinnegata come eretica dalla maggioranza sunnita.

Futuro di paura
Da oltre un anno i cristiani si sentono in pericolo, da quando cioè sono scoppiate le proteste antigovernative, poi degenerate in atroci violenze. Con una girandola di disinformazione mediatica, governo e oppositori si rimpallano le responsabilità della mattanza, che sarebbe già costata più di 9 mila vittime, con centinaia di bambini. Al di là di tutte le informazioni e disinformazioni che provengono dalla Siria, la situazione è molto complessa. Da una parte c’è il regime autoritario, poliziesco, oppressivo di Bashar al Assad, che dal 2000 ha ereditato potere e metodi dal padre Hafez: nessuno in Siria scorda la feroce repressione della rivolta guidata dai Fratelli musulmani, nel 1982 ad Hama, costata circa 20 mila morti.
Dall’altra c’è l’opposizione che, sull’onda della cosiddetta primavera araba, lotta per una maggiore libertà e democrazia, in modo da affrontare gli enormi problemi economici in cui si dibatte il paese. In pratica però, si tratta di un’opposizione molto frastagliata all’interno, che va dai movimenti laici liberali ai gruppi fondamentalisti, in cui il desiderio di libertà si confonde con quello della rivincita dei sunniti contro la minoranza alawita; un coacervo di movimenti senza veri leader di riferimento; gruppi degenerati in bande armate che infieriscono contro la popolazione civile di ogni confessione.
Alla divisione intea si aggiunge una lotta di influenze, quasi una guerra per procura fra potenze mondiali e paesi confinanti: Usa e paesi sunniti (Arabia Saudita ed emirati del Golfo) dalla parte dei ribelli islamici; Russia, Cina e paesi sciiti (Iran) schierati con Assad.
Nel clima di caos e violenze a pagare il prezzo maggiore sono la popolazione civile e le minoranze non schierate nel conflitto tra sunniti e sciiti; tra queste minoranze ci sono i cristiani, presi tra due fuochi: tra la brutalità del regime e la lotta senza quartiere dei ribelli islamici.
Dall’inizio del 2012, infatti, si stanno registrando parecchi episodi palesemente anticristiani: il 25 gennaio è stato ucciso padre Basilios Nassar, sacerdote greco ortodosso, mentre prestava soccorso a un ferito in una strada di Hama; a Homs i ribelli hanno ucciso 230 cristiani; chiese, scuole e case di cristiani sono state saccheggiate e distrutte; in qualche manifestazione di protesta del venerdì è risuonato lo slogan: «Alawiti alla tomba e cristiani in Libano».
Non siamo ancora all’esodo, ma i cristiani hanno iniziato la fuga: essi temono che, tolto di mezzo il regime degli Assad, che fino ad ora li ha riparati dalle violenze e discriminazioni perpetrate in altri paesi islamici, si ripeta lo scenario dell’Iraq, dove le milizie sunnite praticano apertamente la caccia al cristiano.
Fermare la repressione del regime è un imperativo, quanto fermare una deriva settaria che caratterizza la lotta in corso. «Credo che la Siria, dopo un anno di questa esperienza, non sarà più la stessa – afferma il patriarca melchita Gregorio II Laham -. Credo che ci sarà un cambiamento di base, e credo che anche il presidente Bashar al Assad lo voglia».
Di fronte alle critiche di chi rimprovera la Chiesa in Siria di non schierarsi contro il sistema, il patriarca chiama al dialogo «tutti i partiti in Siria e fuori della Siria» e, rivolgendosi soprattutto ai paesi Europei e del Mediterraneo dice: «Non pensate a cambiare il regime, ma aiutate il regime a cambiare. Credo che sia questa la giusta visione delle cose. E per questo la chiesa è là, e ha fatto molto… Per noi non è il momento di chiedere i nostri diritti, ma di riscoprire la nostra missione in un mondo arabo, che vive una nuova nascita. Predicare la pace, la legalità, la giustizia è la nostra maniera di accompagnare gli avvenimenti, sia all’interno che all’esterno».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Terra Santa oltre il Giordano

Comunità cristiane in Giordania

La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani in Giordania è un modello di dialogo interreligioso per il resto del Medio Oriente. E ciò grazie alla stabilità politica del regno ashemita e alla vivacità e maturità della Chiesa, una minoranza religiosa molto stimata per lo straordinario contributo delle sue opere culturali e sociali, non ultima l’assistenza ai profughi iracheni.

«La Giordania fa parte del Patriarcato Latino di Gerusalemme – esordisce il patriarca mons. Fouad Twal durante un incontro a margine del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, tenutosi a Roma nell’ottobre 2010 -. Anzi è il polmone, il cuore del patriarcato per il numero di famiglie e scuole cristiane, di preti e seminaristi (80% circa)». 
«In Giordania il Signore capisce l’arabo; anzi, lo parla – continua sorridendo mons. Salim Sayegh, vicario patriarcale per la Giordania -. La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani è una realtà; benché immerso in una delle aree più conflittuali del pianeta, il paese è un esempio di dialogo e convivenza tra religioni per tutto il Medio Oriente tanto che ormai si parla di “modello Giordania”».

Un pezzo di terra santa
«Non bisogna dimenticare che la Giordania è parte integrante della Terra Santa: non a caso i pontefici, nei loro pellegrinaggi ai luoghi santi hanno sempre iniziato dalla Giordania: Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto nel 2009. Anche qui pietre e paesaggi recano grandi tracce dell’Antico e del Nuovo Testamento» continua il patriarca Twal.
Le regioni a est del Giordano furono di fatto teatro di numerosi eventi della storia della salvezza fin dal tempo dei patriarchi. Nel nord, lungo la valle del torrente Yabbok passarono Abramo e suo nipote Lot diretti alla terra di Canaan; Giacobbe fece il cammino inverso per sfuggire all’ira del fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, e rifugiarsi presso lo zio Labano. Sulle sponde dello stesso Yabbok il patriarca fece alleanza con lo zio, si riconciliò con il fratello, si trovò coinvolto nella misteriosa lotta con l’angelo di Dio e ricevette il nuovo nome: «Israele». Molti secoli dopo quelle regioni furono occupate dai suoi discendenti: le tribù di Ruben, Gad e Manasse.
Nel sud della Giordania, a est del Mar Morto, si rifugiarono Lot e le sue figlie, fuggiti da Sodoma e Gomorra, dando origine ai Moabiti e Ammoniti; qui si stabilì anche Esaù dal quale sarebbero discesi gli Edomiti: tutte popolazioni e luoghi associati all’alleanza tra Dio e il suo popolo, alla storia di Mosè e all’epopea dell’Esodo, la lunga marcia dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della terra promessa.
Gli archeologi hanno portato e continuano a portare alla luce numerosi siti biblici che ricordano questo evento chiave nella storia della salvezza; il più importante di essi è certamente il Monte Nebo, dove sorge uno dei santuari più suggestivi della Terra Santa, memoriale degli ultimi momenti della vita di Mosè, morto e sepolto alle soglie della terra promessa, ma non prima di averla contemplata dalla cima di quel monte.
La Giordania fu patria di importanti figure della Prima Alleanza, come la moabita Rut, bisnonna di Davide, e di Elia, padre del profetismo biblico, nato a Tisbe in Galaad e rapito in cielo da un carro di fuoco, ma destinato a ritornare per preparare l’avvento del Messia.
Otto secoli dopo, «a Betania oltre il Giordano» (Gv 1,28), poco distante dal luogo del rapimento, Giovanni Battista iniziò a preparare la venuta del Salvatore, predicando un battesimo di conversione; Gesù stesso vi si fece battezzare, dando così inizio alla sua vita pubblica. Nello stesso sito Gesù si rifugiò fuggendo da Gerusalemme per salvarsi dalla lapidazione (Gv 10,40). Sempre in Giordania il Battista terminò la sua missione con la decapitazione per ordine di Erode Antipa (Mt 14,3-11), nella fortezza di Macheronte, a est del Mar Morto, come testimonia Giuseppe Flavio.
Altri luoghi santi sono sparsi in tutta la Transgiordania, nelle regioni della Decapoli e di Perea, dove Gesù passò insegnando, sfamò le folle che lo seguivano (Mc 8,1-9), guarì malati e scacciò demoni, come fece a Gadara (Mt 8.28-34) o nella «regione dei Geraseni» (Mc 5,1-20), dove gli spiriti maligni, cacciati da due indemoniati, affogarono una mandria di porci nel lago di Galilea.

Pietre vive
Lo storico della chiesa Eusebio di Cesarea (264-340) informa che nel 67-68 d.C., durante la guerra giudaica, i cristiani fuggirono da Gerusalemme prima che fosse distrutta dai romani, attraversarono il Giordano e si rifugiarono a Pella, poi si estesero in altre città della Decapoli.
Alla fine del IV secolo il cristianesimo si era sparso in tutti i centri urbani ellenizzati della Giordania: al concilio di Nicea, nel 325, erano presenti i vescovi di città come Filadelfia (oggi Amman), Esbus e Aila (Aqaba). Ben presto accolsero il cristianesimo anche varie tribù arabe nomadi e seminomadi del deserto, come i Ghassanidi nel centro nord e quelle dei Nabatei nel sud, la cui capitale, Petra, ebbe la sua cattedrale nel 447.
A testimoniare la grande fioritura del cristianesimo rimangono le rovine, tuttora visibili, di innumerevoli chiese del IV-V secolo, abbellite da pavimenti con elaborati mosaici, da decorazioni sontuose e da altri ricchi arredi.
Edificata con pietre vive, anche dopo la conquista islamica della Terra Santa (VII sec.), la chiesa in Giordania continuò a fiorire con nuove chiese, monasteri ed eremitaggi nei deserti, popolati da migliaia di uomini e donne in cerca di silenzio e preghiera.
Per due secoli la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana vissero fianco a fianco, grazie anche ai clan arabo-cristiani che strinsero alleanze con gli invasori consanguinei. Ma nei secoli seguenti le città bizantine si spopolarono e decaddero e la presenza cristiana si ridusse a esigua minoranza; i territori d’Oltregiordano diventarono marginali, quando, passati dal califfato degli Omayyadi a quello dell’Egitto, le rotte carovaniere furono soppiantate da quelle marittime.
Sotto l’Impero ottomano (1517-1918) i cristiani continuarono a diminuire, conservando un tenue legame di appartenenza al cristianesimo più che altro per distinguersi dalle tribù beduine passate all’islam. Giuridicamente essi dipendevano dai patriarcati di Gerusalemme, ma non ricevevano alcuna cura pastorale, finché a metà dell’Ottocento preti latini e di altre chiese cristiane si spinsero oltre il Giordano alla ricerca dei propri fedeli autoctoni. Il Patriarcato latino si mostrò subito il più dinamico, aprendo scuole, chiese e altre opere caritative a favore di tutta la popolazione giordana, che alla fine dell’Impero ottomano contava circa 40 mila abitanti, di cui il 18% cristiani.

Scuole aperte a tutti
Oggi la Giordania ha una popolazione di circa 6,5 milioni di abitanti, molti di origine palestinese, 94% musulmani e 6% cristiani, secondo le statistiche governative. Fonti indipendenti, tuttavia, stimano che i cristiani di tutte le denominazioni presenti in Giordania siano circa 340 mila; la maggioranza aderisce alle chiese ortodosse orientali; circa 110 mila sono i cattolici di vari riti (latini, melchiti, maroniti, armeni, caldei, siriaci…). Piccola ma in molti aspetti vivace, la chiesa cattolica conta in Giordania 64 parrocchie, 4 vescovi, 103 sacerdoti, 266 religiosi e religiose; giordani sono oggi la maggioranza dei seminaristi nel seminario del Patriarcato latino a Beit Jala, in Palestina. «La Giordania fornisce vescovi, sacerdoti e seminaristi a tutto il Patriarcato» sorride mons. Twal, lui stesso cittadino giordano, originario di Madaba.
Fin dalla metà dell’Ottocento, quando dai preti del Patriarcato latino furono aperte le prime scuole, in un mondo chiuso e marginale, limitato da strette leggi tribali, il settore scolastico è sempre stato il fiore all’occhiello della Chiesa cattolica in Giordania: oggi 70 mila alunni, cristiani e musulmani, frequentano 123 scuole matee e primarie, medie inferiori e secondarie, gestite da enti religiosi.
«Fino a ora, l’impegno educativo della Chiesa cattolica, per quanto grande, finiva con la maturità, mancando nel Paese una università cristiana – spiega mons. Twal -. Il 17 ottobre 2011 l’American University of Madaba ha aperto ufficialmente le porte ai primi studenti. Per ora conta 7 facoltà e può ospitare fino a 8 mila studenti».
Un’altra iniziativa in corso, appoggiata dalle autorità giordane è la costituzione del Parco archeologico di Wadi Kharrar, il luogo del battesimo di Gesù: un territorio di oltre 350 ettari, che il re di Giordania ha messo a disposizione delle varie confessioni religiose, con facoltà di costruire ognuna la propria chiesa. «Il progetto cattolico va anche oltre ed è quasi ultimato – spiega mons. Twal -. Accanto alla chiesa, sorge un grande complesso con monastero per una comunità contemplativa che si prenderà cura del sito, edifici e strutture che permettano ai pellegrini di fermarsi per ritiri spirituali e vivere un’esperienza seria di fede e di preghiera».

L’altra faccia di maometto
Benché nel regno ashemita l’islam sia religione di stato e non passi alcuna decisione governativa se prima non viene provata la conformità ai precetti islamici, la convivenza tra cristiani e musulmani è un esempio per tutti i paesi islamici. La Costituzione del 1952 garantisce «la libera espressione di tutte le forme di culto e di religione, in conformità con i costumi osservati in Giordania» e sancisce l’uguaglianza di tutti i giordani davanti alla legge senza discriminazioni basate «su razza e religione».
I cristiani sono quindi bene integrati nella società giordana; quasi tutti appartengono alle classi media e alta e godono di migliori opportunità economiche, maggiore visibilità pubblica e rilevanza sociale e politica che in qualsiasi altro paese islamico: ai cristiani sono riservati 9 seggi su 110 in Parlamento, sono affidati prominenti posizioni ministeriali e militari, cariche diplomatiche e amministrative, nella corte reale e ai vertici di imprese e banche nazionali.
«La Giordania è un Paese sereno – afferma mons. Sayegh – nel quale la Chiesa è una cosa necessaria per far vivere insieme cristiani e musulmani. Pensiamo alle scuole: i musulmani desiderano che i loro figli frequentino le scuole cristiane, e di questo la comunità cristiana è orgogliosa. I rapporti sono buoni e da noi il fondamentalismo è un fatto molto limitato. E speriamo anche di migliorare».
Ci sono state tensioni nei decenni passati, quando i Fratelli musulmani, ottenuto il controllo del Ministero dell’Educazione, hanno cercato d’islamizzare la società attraverso la scuola, rispolverando cliché di propaganda islamica, con richiami alla jihad contro i miscredenti.
A troncare ogni rigurgito fondamentalista è intervenuto il re Abdullah, nel novembre 2004, con il famoso «Messaggio di Amman», in cui «chiarisce al mondo cosa è e cosa non è il vero islam», riaffermando, in quando discendente di Maometto, la sua funzione di interprete e garante della «retta comprensione» della fede islamica, presentata come «messaggio di fratellanza e umanità, che sostiene ciò che è buono e proibisce ciò che è sbagliato, accettando gli altri e onorando ogni essere umano».
Gli islamisti più zelanti continuano il loro mobbing spirituale in vari settori della società; al tempo stesso il dialogo tra i vari leader religiosi continua fecondo, diventando un modello per tutto il mondo islamico. Ne è un esempio il documento A Common Word, la lettera dei 138 saggi musulmani, promossa proprio dal principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal.
Un’altra iniziativa che ha attirato l’attenzione dei mass media, apprezzata sia dai musulmani che dai cristiani è la moschea sorta a Madaba e dedicata a Gesù Cristo, la prima del mondo arabo.

Dialogo delle opere
Il contributo che i cristiani danno alla società civile giordana è incalcolabile, soprattutto praticando «il dialogo delle opere, che sono tante» afferma al signora Huda Muhasher, presidente della Caritas giordana. «La Caritas è nata inizialmente per rispondere ai gravi problemi causati dalla guerra dei sei giorni (1967); da lì in poi ha fatto fronte a tutte le più gravi emergenze nazionali, compresa, oggi, quella degli immigrati e soprattutto dei profughi iracheni».
Fin dai tempi biblici i territori oltre il Giordano sono stati una valvola di sfogo per i conflitti dei paesi vicini: oltre metà dei residenti giordani sono di origine palestinese, migrati qui dopo le guerre del 1948 e del 1967 con Israele. L’invasione americana dell’Iraq ha portato in questi anni oltre mezzo milione di profughi, molti dei quali cristiani, accolti in maggioranza nei quartieri più poveri e periferici della capitale, Amman, ma senza alcun accesso ai servizi sociali fondamentali, perché il governo non riconosce loro lo status di rifugiati. «Ad Amman viviamo ormai da anni in prima linea l’accoglienza ai cristiani fuggiti dall’Iraq» testimonia Huda Muhasher. La loro situazione è veramente tragica: senza lo status di rifugiati gli uomini non possono lavorare né è permesso loro espatriare in Occidente. Senza lavoro non possono mantenere i loro famigliari; alcuni lavorano in nero, con il rischio di essere scoperti, arrestati e rimandati in Iraq. Per molti di essi, che a casa esercitavano una professione o un lavoro di alto livello, come professori e ingegneri, l’inattività è distruttiva, e dover vivere di aiuti è difficile da accettare: per questo aumentano tra gli iracheni le malattie legate al cuore e alla depressione.
Dal 2002 la Caritas giordana promuove programmi per creare una rete di gruppi di volontari per essere presente capillarmente sul territorio e rispondere ai bisogni delle persone più povere e vulnerabili. A oggi, sono stati costituiti 25 gruppi, che operano in 31 parrocchie di differenti città e villaggi, per un totale di circa 250 volontari. La rete estende la sua attività di sensibilizzazione soprattutto nelle scuole, per formare gruppi di volontari tra gli studenti dei vari istituti cristiani.
«La Caritas giordana, tra le altre cose, ha progetti importanti per l’assistenza ai disabili, ai quali collaborano anche i musulmani; è l’unica organizzazione impegnata nelle carceri locali» afferma ancora la signora Huda Muhasher.
Altro simbolo della solidarietà cristiana è il Centro Regina Pacis, voluto dal patriarcato latino, sostenuto da tante Ong inteazionali, tra cui il Sermig di Torino: presente ad Amman e a Madaba, con comitati formati da cristiani e musulmani, il Centro si occupa degli handicappati e del loro reinserimento sociale; essi costituiscono circa il 10% della popolazione del paese a causa dell’elevato numero di matrimoni tra consanguinei dentro le tribù.
Un’altra emergenza della società giordana è quella dell’immigrazione. Circa 70 mila donne immigrate in Giordania lavorano nelle famiglie come badanti o domestiche; vengono soprattutto da Indonesia, Sri Lanka e Filippine e in buona parte sono cristiane. Metà di esse sono senza regolari documenti, anche perché spesso vengono loro sottratti dai datori di lavoro; molte sono maltrattate e senza diritti, come in molti paesi arabi.
Anche in questi casi i centri Caritas cercano di offrire assistenza medica, cibo, consulenze legali e spiegazioni sui loro diritti, di cui spesso non sono consapevoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Voglia di nuovo

Eticamente

In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa. Si va verso un conflitto generazionale. Ma solo i giovani avranno il coraggio di cambiare.

Nel nostro paese i giovani sono un problema: senza lavoro, con poca istruzione, a carico della famiglia, privi di un avvenire.
La disoccupazione giovanile riguarda il 30,1% di uomini e donne tra i 18 e i 30 anni. Da uno studio della Ue siamo lo stato europeo con il più alto differenziale tra occupazione adulta e occupazione giovanile, dei 2 milioni e 150 mila disoccupati conteggiati in Italia, la maggior parte sono giovani.
Anche quando trovano un’occupazione, i giovani sono pagati poco e hanno meno tutele, spesso sono oggetto di nuove forme di sfruttamento, più subdole di quelle che dovette affrontare la classe operaia nel Novecento, molti di loro non hanno coscienza dei propri diritti, non vedono nel sindacato un presidio in grado di tutelarli ma, paradossalmente, un pericolo che può mettere a repentaglio la loro posizione.
Anche i «fortunati» che hanno laurea e master sono costretti ad accettare un lavoro precario che non rappresenta la «gavetta», ma una condizione di sotto inquadramento che dura anni e che non ha prospettive di carriera.

Poi ci sono i Neets (Not in Education, Employment or Training) i giovani che non lavorano e non studiano, un fenomeno recente che si sta allargando nei principali paesi industrializzati, dal Regno Unito al Giappone, investendo persino la Cina. Secondo l’Istat i Neets in Italia sono oltre 2 milioni, il 25,9% delle persone sotto i 29 anni, quasi il doppio della media europea. Hanno abbandonato gli studi, affascinati dall’idea di guadagnare per soddisfare i desideri di oggi senza aspettare le incertezze del domani; la scuola li ha lasciati andare per miopia e per mancanza di risorse, così ingrossano le fila delle agenzie interinali e si ritrovano sulle panchine dei parchi come vecchi senza futuro.
Il risvolto sociale di questa situazione è sotto gli occhi di tutti: giovani che pesano fino a 35 anni sul bilancio della famiglia di origine.
Ma cosa succederà quando i genitori lavoratori o i nonni pensionati non ci saranno più? Come faranno questi giovani a far studiare i loro figli, a curarsi quando saranno malati, a pagarsi l’assistenza quando saranno anziani?
Andiamo verso un conflitto tra generazioni per la spartizione del lavoro e del poco welfare rimasto. Senza un’azione di inclusione ed equità sociale che punti a conciliare i diversi interessi tutto sarà oggetto di conflitto, non solo il lavoro, ma i servizi, le abitazioni, i negozi, gli spazi.

Non possiamo rassegnarci a questa prospettiva, occorre ripartire e ricostruire. Se c’è una cosa che la crisi ci ha insegnato è la vacuità dell’individualismo: non è vero che bisogna arrangiarsi, che ci si salva da soli, una bufera come quella che ha investito l’economia negli ultimi due anni spazza via anche quelli che ce l’avevano fatta.
Dopo la sbornia neoliberista, economisti e politici si affannano a trovare altre ricette, riaggiustando conti e idee, ma senza il coraggio del nuovo.
Questo coraggio non appartiene agli adulti, ancorati a vecchie mentalità e a visioni superate, può venire solo dai giovani, sono loro che possono portare energia vitale nella società e innescare un vero cambiamento.
Occorre dare loro spazio non solo nei movimenti e nelle manifestazioni di protesta, ma ai tavoli della politica e nei centri della cultura.
Spesso non si affacciano in questi luoghi perché sanno di non ricevere ascolto e perché rifuggono i territori degli adulti, bisogna andarli a cercare, tirarli via dall’isolamento e convincerli che la via d’uscita è nello stare insieme, nell’impegno comune.

Per tanti giovani rassegnati altrettanti reagiscono, si indignano e si impegnano, proprio come abbiamo fatto noi, nei tempi andati. Loro hanno una qualità in più: la coerenza tra comportamenti pubblici e comportamenti privati; il convincimento che il mutamento deve avvenire su due piani, quello collettivo e quello individuale, incarnano l’idea che la responsabilità è di tutti e a ognuno spetti un ruolo.
Un approccio fresco che rinnova e reinterpreta l’idea di democrazia: non più un esercizio passivo che delega tutte le scelte a governi e istituzioni, ma partecipazione in prima persona.
Spetta ancora una volta alla politica intercettare questo cambio di pensiero e tradurlo in forme nuove di rappresentanza. Solo così si potranno affrontare e magari risolvere gli enormi problemi che abbiamo addossato ai nostri figli e nipoti.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Il «padre bianco» a cavallo

Padre Eusebio Francesco Chini

Ricorre quest’anno il 3° centenario della morte di uno tra i più grandi (e più sconosciuti) pionieri dell’America primitiva: padre Eusebio Francesco Chini (1644-1711), gesuita, cartografo, astronomo, scienziato, esploratore, scrittore, soprattutto missionario e difensore degli indiani; percorse immense distese di territori in Arizona, Califoia e altrove, fondando missioni, costruendo città, seminando fede e civiltà. 

«Fu il più caratteristico pioniere e missionario di tutto il Nord-America: esploratore, astronomo, cartografo, costruttore di missioni e fattorie, grande allevatore di bestiame e difensore delle frontiere. La sua vita non è solo quella di un individuo eccezionale: essa illumina la storia della cultura di gran parte dell’emisfero occidentale nella stagione pionieristica». Così il suo primo biografo, Herbert Eugene Bolton, presentava nel 1936 Eusebio Francesco Chini.
Figura poco nota tra noi, ma celebre anche fra i protestanti americani, è uscita da oltre due secoli di oblio grazie agli studi e pubblicazioni del Bolton, fino a meritare una statua nel Campidoglio di Washington, accanto ad altri due pionieri e fondatori di stati americani: il gesuita Jacques Marquette (Michigan) e il francescano Junipero Serra (Califoia).
La sua formazione
Eusebio Chini nacque nel 1645 a Segno, nella VaI di Non, poco distante da Trento, ma abbastanza per mettere in questione la sua nazionalità: «Sono un trentino tirolese; non so se definirmi italiano o tedesco – scriveva alla marchesa di Aveiro nel 1680 -. La città di Trento, anche se si trova ai confini del Tirolo, appartiene per lingua, tradizioni e leggi all’Italia. D’altra parte, il Tirolo appartiene alla Germania… Comunque, per 18 anni sono vissuto quasi nel cuore della Germania».
Ricevuta la prima educazione nel collegio dei gesuiti a Trento, completò la sua formazione al di là delle Alpi: liceo vicino a Innsbruck (1662-65), studi superiori di filosofia e teologia nelle università di Ingolstadt, Friburgo, Monaco, senza trascurare matematica, astronomia, geografia, cartografia.
A 20 anni, nel 1663, entrò nella Compagnia di Gesù, emise la professione nel 1667 e aggiunse al nome di battesimo quello di Francesco, in onore del Saverio, al quale aveva fatto voto di farsi gesuita e missionario in caso di guarigione da una grave malattia. Ogni anno scrisse al superiore generale, manifestando il desiderio di essere un giorno mandato in Cina, dove il suo celebre cugino Martino Martini aveva speso ingegno e vita per una quindicina d’anni.
Ordinato prete nel 1677, venne finalmente esaudito: fu destinato alle «Indie»; ma nel sorteggio tra lui e un compagno, invece di quelle orientali (che includeva la Cina) gli toccarono le Indie occidentali: fu destinato alla Nuova Spagna, cioè al Messico.
Imbarcatosi a Genova con altri 18 compagni nel marzo 1678, arrivò a Cadice a metà luglio, quando la Flotta Reale era già partita per il Nuovo Mondo.
In attesa di una nuova spedizione, rimase a Siviglia per due anni e mezzo: ne approfittò per praticare lo spagnolo; si interessò di agricoltura, farmaceutica e scultura; si occupò di matematica e astronomia: con strumenti costruiti da lui stesso studiò il corso di una cometa apparsa tra il 1680-81, e ne pubblicò la descrizione appena giunto in Messico. A Siviglia cambiò l’ortografia del cognome in Kino, per evitare la cattiva pronuncia spagnola.
missione quasi fallita
Arrivò in Messico nel 1681 mentre si stava preparando una spedizione per esplorare e colonizzare la Bassa Califoia. Padre Kino fu scelto come «cosmografo regio» e cappellano del gruppo. Composta di due navi, 100 soldati e tre gesuiti, la spedizione salpò da Sinaloa nel gennaio 1683; sballottata dai venti, approdò nella baia di La Paz il 1° aprile. Dopo una settimana di esplorazione apparvero i primi indiani guaicuros che minacciosi intimarono agli intrusi di uscire dalla loro terra. Padre Kino e padre Goñi offrirono loro mais, biscotti e collane; pochi giorni dopo essi tornarono con frutta, piume oamentali e altri doni.
Il ghiaccio era rotto; le visite si ripeterono e cominciò l’evangelizzazione; ma i soldati continuarono a diffidare e uccisero senza ragione una decina di indigeni. «L’uso sconsiderato delle armi – scrisse padre Kino il 16 luglio 1663, commentando questo e altri fatti – fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana, aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto. Colpiti infatti dai nostri metodi pacifici, i nativi avevano cominciato a temere e abbandonare tutto ciò che avevamo spiegato loro che non era bene fare. Avevano cominciato a recitare alcune preghiere… a farsi il segno della croce, a mezzogiorno s’inginocchiavano alla recita l’angelus».
Dopo tre mesi la spedizione toò nel continente per vari motivi: paura dei guaicuros, assenza di metalli, pietre preziose e perle (cose che interessavano gli spagnoli), difficoltà di rifoimenti. Intanto padre Kino aveva tracciato alcune mappe e raccolto 500 vocaboli indigeni.
Organizzata una seconda spedizione, il 6 ottobre approdarono più a nord, nel luogo poi chiamato San Bruno, in onore del santo del giorno. L’impresa fu più fortunata della precedente: gli indigeni si mostrarono molto cordiali e aiutarono subito a costruire la cappella; i coloni cominciarono a coltivare la terra per dare autosufficienza alla colonia; il territorio veniva esplorato da costa a costa, fino al Pacifico.
Intanto i missionari imparavano la lingua e annunciavano il vangelo, rispondendo alle domande che gli indiani ponevano guardando il crocifisso che pendeva davanti al loro petto.
Le risposte fluivano con facilità, ma il discorso si inceppò quando dovettero spiegare la risurrezione. Quale parola usare? Come far capire l’idea di risurrezione dai morti? Lo racconta padre Kino in una lettera scritta il 6 ottobre 1684: «La parola “risorgere dai morti”, tanto importante per la nostra fede… sono riuscito a ricavarla… prendendo delle mosche che, soffocate nell’acqua, ripulite con certi succhi e ricoperte di cenere, poi messe al sole le ho richiamate in vita; con continue domande sono riuscito a ricavare la parola “ibimu huegite” che significa “risuscitò”».
Ma la Califoia non offriva né perle né oro per pagare le spese di spedizione; il viceré tagliò i fondi e San Bruno fu abbandonato nel maggio 1685, con grande delusione di padre Kino, costretto anche lui a troncare 18 mesi di missione, in cui erano state battezzate solo 14 persone in punto di morte, ma aveva istruito 400 catecumeni. Il missionario promise di tornare; cercò inutilmente di convincere i confratelli a fare una terza spedizione: la missione fu ripresa 12 anni dopo da un suo caro amico Giovanni Maria Salvaterra.
«prete a cavallo»
L’esperienza califoiana incise profondamente nel metodo missionario di padre Kino. Prima di tutto imparò ad apprezzare l’indole dei nativi e si convinse che essi andavano avvicinati con sistemi opposti a quelli usati dai soldati spagnoli, avidi e rozzi. Poi pianificò il modo di operare in modo indipendente, prendendo le distanze dalla burocrazia ufficiale, soprattutto, studiando i modi di sostenere finanziariamente le missioni. Con tale metodo coniugò gradualmente, per 24 anni, evangelizzazione e promozione umana nella Pimeria Alta, la regione dei Pima del Nord, oggi divisa tra Arizona (Usa) e Sonora (Messico). Vi arrivò il 15 marzo 1687 e si stabilì nel villaggio di Cosari, subito ribattezzato Dolores, dal nome della missione di Nuestra Señora de los Dolores, che divenne il suo quartiere generale. Era l’estrema frontiera settentrionale del Cristianesimo negli inesplorati deserti del Nord-Ovest. Oltre al quadro dell’Addolorata, portava con sé una copia della Real Cédula, cioè un decreto regio che esentava per almeno 20 anni dai lavori forzati nelle miniere e dalle imposte i futuri convertiti. 
Padre Kino cominciò subito a esplorare il territorio. Organizzò e guidò 50 spedizioni, in media due viaggi l’anno, da cento a mille chilometri ciascuno; esplorò in lungo e in largo tutta la regione dell’Alta Pimeria, attraversando deserti e aprendo molti nuovi sentirneri, fino a raggiungere, primo europeo, i fiumi Gila e Colorado.
Tali esplorazioni erano anche missioni itineranti. Conquistata amicizia e simpatia degli indiani, egli predicava loro il vangelo, spesso mediante un interprete; dopo una sommaria istruzione battezzava bambini e moribondi; stabiliva una rete di comunità che poi lui stesso o altri visitavano regolarmente per continuare la catechesi, celebrare il culto e formare alla vita cristiana. In 24 anni fondò e fece crescere 24 missioni, sparse su un territorio di 4.200 kmq; percorse a cavallo complessivamente più di 30 mila km, attraverso il deserto più ostile del continente. Lo chiamavano il «padre a cavallo». Convertì più di 30 mila anime: è passato alla storia come «l’apostolo dei Pima». 
missionario e ranchero
Per coniugare il binomio vangelo-promozione umana, padre Kino dedicò particolari cure all’agricoltura e all’allevamento. Dove passava, il deserto rifioriva. Fece arrivare dall’Europa semi di grano e ortaggi, piante da frutta e viti con cui organizzò una quarantina di fattorie agricole; insegnava agli indigeni a canalizzare l’acqua per irrigare le svariate coltivazioni intensive.
Fondò anche una trentina di ranchos, dove allevava con successo numerosi armenti di buoi, pecore e cavalli, da fare impallidire i cowboys arrivati due secoli dopo in quelle stesse zone.
Di suo non possedeva neppure un capo di bestiame; tutto faceva per dare alle missioni fondate o da fondare una base di autonomia economica e assicurare la sussistenza e il progresso degli indigeni delle medesime missioni. Riuscì perfino ad aiutare i confratelli che si trovavano in difficoltà: a padre Salvaterra, che stentava a mandare avanti la sua missione in Califoia, mandò 300 capi di buoi e cavalli in una sola volta; altri 1.400 capi alla missione di San Saverio, non lontana dalla quella di Dolores.
«grande padre» degli indios
Per trasformare i pima e altre etnie (meri, sobaipuri, pápago, gila) in agricoltori e allevatori, padre Kino dovette lottare su più fronti. Tanto ben di Dio attirava l’attenzione e i saccheggi degli apaches, stanziati a oriente delle sue missioni. Per difendersi dai loro saccheggi il missionario dovette insegnare agli indigeni anche l’uso delle armi. Fattosi «voce dei senza voce» padre Kino difese strenuamente i diritti degli indigeni, accusati di essere ladri, incostanti, viziosi, refrattari alla civiltà e spesso sfruttati e umiliati dai militari e coloni spagnoli. Furono anni di sofferenze e frustrazioni enormi, accresciute dalla ribellione dei Pima, nel 1695, che mise a ferro e fuoco ben sei missioni e varie fattorie e che causò, soprattutto, l’uccisione del suo caro amico, il gesuita siciliano padre Saeta. Padre Kino si fece mediatore e riuscì a riportare la calma: fu firmato un trattato di pace tra i capi dei Pima e le autorità coloniali. Ciò nonostante coloni e proprietari di miniere montarono una campagna di accuse, invidie e calunnie, credute dalle autorità civili e religiose, con lo scopo di chiudere le missioni in Pimaria, lasciando la frontiera della Nuova Spagna nelle mani dell’esercito e dei coloni.
Padre Kino intraprese un viaggio di 2 mila chilometri a cavallo e raggiunse Città del Messico, dove incontrò i suoi superiori e il viceré, smontò una per una le calunnie e ottenne ciò che voleva: la missione della Pimaria continuava, con l’invio di cinque nuovi missionari, e lui stesso fu riconfermato nel ruolo di guida delle missioni. Ritornato a Dolores i Pima lo acclamarono loro «grande padre bianco».
Calunnie e invidie continuarono, anche da parte di qualche confratello, che lo accusava di stare più a cavallo che in chiesa, di dedicarsi più all’esplorazione e alla promozione umana che all’evangelizzazione; stava quasi per essere rispedito in Califoia, quando arrivò l’ordine da Roma, del superiore generale, di lasciarlo continuare nella Pimaria Alta. Dalla fine del 1697 fino alla morte poté consolidare il lavoro già svolto e fondare nuove missioni, la più celebre è quella di San Xavier del Bac presso Tucson in Arizona.
l’isola che non c’è
Gioie e dolori, successi e delusioni, incomprensioni, calunnie e persecuzioni… tutto era stimato e proclamato da padre Kino «favori celestiali», come scrisse nelle sue lettere (ce ne sono pervenute 93) e soprattutto nella Cronologia della Pimeria Alta: Favori Celestiali, diario che abbraccia il periodo della sua vita dal 1687 al 1706. Altro libro importante del 1695 è la biografia del suo confratello e protomartire della Pimaria Alta: Inocente, Apostolica y Gloriosa muerte del venerabile padre Francisco Xavier Saeta…
Fin dall’inizio, assieme al lavoro apostolico e organizzativo, il Kino non smise mai di effettuare accurate rilevazioni scientifiche e geografiche, che traduceva in mappe e relazioni che contengono aspetti politici, economici, etnologici, militari, geografici ecclesiastici e missionari.
Oltre agli scritti, ci sono pervenute 32 carte accertate; in esse sono registrati fiumi e valli, monti e selve, villaggi di cristiani e pagani, sentirneri e sorgenti d’acque… dati indispensabili per i futuri missionari, esploratori, viaggiatori e per la sopravvivenza degli stessi indigeni. Tra le 32 mappe, a procurargli più fama fu quella intitolata «Paso por Tierra a la Califoia», in cui dimostrò che la Califoia era una penisola e non un’isola come si credeva da oltre 50 anni (vedi riquadro).
Ormai anziano, stanco e ammalato, la morte lo colse, poco più che 65enne, il 15 marzo 1711, mentre consacrava la missione di Santa Magdalena de Sonora, chiamata poi Magdalena de Kino. Sepolto presso l’altare, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi da parte delle genti da lui evangelizzate. Poi il ricordo si affievolì per la soppressione dei gesuiti e per la cacciata successiva dei francescani (1828) che li avevano sostituiti.
La riscoperta di padre Kino partì dall’Arizona, dopo che questa regione fu incorporata negli Stati Uniti (1912). Nel 1965 una statua del grande missionario, proclamato secondo fondatore dell’Arizona, fu posta nella sala del Campidoglio di Washington, insieme ai grandi della patria.
Nel 1971 l’arcivescovo di Hermosillo ha iniziato il processo per la causa della sua beatificazione. Le popolazioni di entrambi gli stati, Arizona e Sonora, attendono che anche la Chiesa riconosca la santità del loro padre nella fede e nella civiltà.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Una vita da profugo

Libano-Palestina / Viaggio nell’inferno dei campi profughi palestinesi

In Libano, vivono circa 400mila rifugiati palestinesi. Alcuni dal 1948. I campi sono privi di tutto e i rifugiati non godono gli stessi diritti dei libanesi. Ma il mondo, sembra, essersi dimenticato di loro. Reportage.

Dicembre 2010, Beirut. Nella hall dell’hotel ci danno il benvenuto un enorme abete e altri addobbi natalizi. La struttura, tuttavia, non appartiene a proprietari cristiani, bensì a sciiti. Questo è il Libano, multireligioso e multietnico. E pieno di conflitti interni e indotti dall’esterno. La città, molto vasta, è un susseguirsi di quartieri appartenenti a «comunità» etnico-religiose e politiche diverse: sciiti di Amal, sciiti di Hezbollah; sunniti (anch’essi divisi in varie appartenenze politiche), cristiani di diverse confessioni.
Zone visibilmente ricche, con edifici modei ed eleganti, hotel lussuosi e magazzini ricolmi di merci, si alternano ad altre povere e a vere e proprie baraccopoli. Dovunque sono riconoscibili i segni dei bombardamenti israeliani e dei passati e recenti conflitti interlibanesi.
Il nostro  viaggio in Libano ha come obiettivo la visita ai campi profughi dove vivono circa 400 mila rifugiati palestinesi, generazione dopo generazione, da sessant’anni.
Sono sparsi in 12 campi ufficiali e 25 clandestini. Non hanno diritti, né cittadinanza, non possono esercitare una lunga lista di professioni, hanno scarsi mezzi per curarsi e per studiare, sono spesso il capro espiatorio delle tensioni e dei conflitti interni libanesi, ma anche uno degli obiettivi privilegiati dei piani di destabilizzazione dei governi israeliani e statunitensi.
Un recente studio congiunto tra l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia delle Nazioni Unite specifica per questi campi) e l’Università americana di Beirut ha rivelato che il 67% dei profughi vive al di sotto della soglia di povertà.
Tutte le persone che abbiamo incontrato – gente comune e dirigenti politici – hanno affermato che l’Anp (Autorità nazionale palestinese guidata dal presidente Mahmud Abbas) – ha cessato completamente di interessarsi alla loro situazione.
Essi, tra l’altro, sono avversati da tutte le componenti politiche libanesi, che gestiscono il potere in base a fattori etnico-religiosi, mantenendo un difficile e spesso instabile equilibrio.
Per evitare di ritrovarsi nuovamente coinvolti in conflitti inter-palestinesi e in guerre civili, come è successo fino a un passato piuttosto recente, le varie fazioni palestinesi si sono impegnate a mantenere una totale neutralità nei confronti delle lotte intee libanesi.

Campo di Mar Elyas, Beirut
È il «centro» della vita politica palestinese in Libano, in quanto è sede delle rappresentanze di tutti i partiti.
Veniamo ricevuti dal leader locale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Marwan Abdel ‘Aal, che ci parla della difficile condizione di vita dei suoi connazionali in Libano: «La situazione sta peggiorando, sia socialmente, sia a livello lavorativo e scolastico. Il rispetto dei nostri diritti, qui, è molto scarso. Siamo il punto più debole delle leggi libanesi, che ci escludono da tutto, anche dalla possibilità di ottenere la cittadinanza».    
Usciamo dall’ufficio del Fplp e giriamo per i vicoli del campo: un labirinto di case, cortili, magazzini, uno addossato sull’altro, e sviluppato in verticale, a causa del divieto di edificare nuove abitazioni. La mancanza delle più basilari condizioni di igiene e sicurezza sono evidenti.
Ci dirigiamo verso la casa di Mohammad, uno dei 5.000 palestinesi senza documenti, cioè, persone che per il governo libanese «non esistono». Si tratta di una sorta di «clandestini», anche se risiedono nel paese da decenni. Non hanno carta d’identità e quindi appena lasciano il campo sono arrestati. Sono la categoria più bassa della già tragica scala umana del profugo.
«Io sono di Yafa (la Giaffa dell’occupazione israeliana, ndr) – ci racconta Mohammad – e, dopo la Nakba1, con la famiglia mi sono rifugiato in Giordania, dove sono stato registrato come profugo. Sono andato in Libano, a studiare, a metà degli anni ’70. Nel 1982, durante l’invasione sionista, ho abbracciato la resistenza. È questa la mia colpa, che pago con la mancanza di un qualsiasi documento che attesti la mia residenza e identità. Avevo un passaporto giordano, che non mi è stato più rinnovato.
Nel 1983 mi sono sposato e ho avuto cinque figli che avevano bisogno di certificati anagrafici per poter frequentare le scuole, viaggiare, lavorare.
Nel 2008 mi era stato detto che c’era la possibilità di regolarizzare me e tutti i miei familiari, così mi sono presentato per richiedere finalmente i documenti, ma mi hanno arrestato in quanto “clandestino”.
Ai miei figli hanno dato permessi provvisori, di un anno, con cui non possono fare nulla. Uno di loro, che si trovava negli Emirati Arabi con visto scaduto, è stato fermato in aeroporto prima di partire per il Libano, e trattenuto lì dentro per otto mesi. È stato rilasciato a seguito di pressioni inteazionali, e poi, appena ha potuto, se n’è andato in Norvegia, dove ha chiesto asilo politico».
Le autorità libanesi rifiutano intenzionalmente di trovare soluzioni al caso dei 5.000 palestinesi senza documenti. Sanno bene che se vengono respinti alla frontiera, nessuno stato arabo li accoglierà, e che non possono tornare in patria, in Palestina.
Mohammad ci spiega che esistono tre categorie di profughi: quelli registrati dall’Onu, nel ’49, quelli non registrati e i senza documenti. I primi sono in possesso di documenti libanesi che hanno validità di tre o cinque anni; i secondi hanno documenti (con scadenza annuale), ma non risultano nell’elenco dei profughi, mentre gli ultimi sono persone inesistenti per il governo del Libano.

Un km quadrato per 25mila
Proseguiamo il nostro viaggio tra i campi. Burj el-Barajneh è un luogo inquietante: una gabbia di un km quadrato per 25mila esseri umani che vivono sotto un vasto reticolato di fili elettrici e tubi per l’acqua pericolosamente intrecciati sopra le loro teste.  Visitiamo la Al Ghawth, Humanitarian Relief for development society, un’associazione caritatevole – una delle tante, dentro e fuori dai campi – che si occupa del sostegno agli orfani, di adozioni a distanza, assistenza medico-sanitaria attraverso diversi ambulatori e centri per disabili, e di formazione professionale.
Parallelamente all’erogazione dei molti, troppi, servizi che il governo libanese non garantisce, il centro ha promosso un progetto di microcredito per sviluppare piccole attività commerciali, in modo da rendere la gente più autonoma e meno dipendente dall’assistenza.
I nostri ospiti ci portano nell’asilo da loro gestito: sono diverse classi di bambini in età tra i tre e i cinque anni. I piccoli ci accolgono sorridenti, intonando teneri cori di benvenuto.
Continuiamo il giro per i vicoli del campo, attraversando vere e proprie foreste di cavi e tubi, che ogni mese, spiegano gli abitanti, provocano la morte per folgorazione di ragazzini e adulti.
Fango, immondizia e assenza di una qualsiasi forma di raccolta dei rifiuti contribuiscono a creare un clima insalubre in tutta l’area.
Entriamo nella sede del Comitato popolare: è un’istituzione attiva in tutti i campi profughi e rappresenta tutte le forze politiche palestinesi. Essa ha lo scopo di tutelare la sicurezza, arrestando i criminali e consegnandoli alla polizia libanese, e di mediare i conflitti interni.
«I nostri diritti civili e di proprietà non esistono – ci spiega uno dei responsabili -. Non possiamo comprare immobili e la costruzione delle abitazioni si sviluppa in verticale, con finestre che si specchiano in altre, negando ogni privacy e creando tensioni tra vicini di casa. Non abbiamo il permesso neanche di allacciare la corrente e l’acqua, ed è per questo che ci sono ragnatele di fili dovunque. La quantità di energia elettrica concessa dal governo libanese è rimasta invariata rispetto a decenni fa, quando l’area era meno popolata. Ogni 48 ore le famiglie hanno diritto a mezz’ora per riempire serbatorni da 200 litri. Questo avviene in condizioni normali, ma quando manca la corrente per le pompe, si rimane a secco. Inoltre, l’acqua contiene il 60% di sale e per essere bevuta necessita di filtri, che non sono foiti dalle autorità libanesi, ma devono essere comprati da privati. Pochi, dunque, possono permetterseli».
Discriminazione professionale: «Noi palestinesi siamo autorizzati dallo stato libanese a svolgere soltanto alcune professioni, prevalentemente umili. Ben 72 ci sono proibite – tra cui quelle del medico, ingegnere, architetto… La maggior parte di noi lavora nei campi, occupandosi di piccole attività di commercio, o come manovale, in nero e mal pagato. Non ci sono contributi previdenziali e assicurativi.
Per ciò che riguarda l’educazione scolastica, l’Unrwa garantisce la primaria, le medie e le superiori. Le aule sono poche e sovraffollate, e spesso il livello di preparazione non è adeguato. Qui a Beirut ci sono 65mila studenti e una sola scuola superiore.
L’università è a pagamento e chi non ottiene le borse di studio, non può accedervi: su 500 che passano l’esame di maturità, soltanto 100 trovano posto. La maggioranza è costretta ad abbandonare gli studi.
Prima del 1982 (l’invasione israeliana del Libano), il 90% dei palestinesi si iscriveva all’università. Dall’83 in poi, a causa delle continue e prolungate chiusure delle scuole, sono iniziati i problemi, e la mancanza delle rimesse dall’estero, soprattutto dai paesi del Golfo, dopo il 1990 (prima guerra del Golfo), ha notevolmente impoverito i profughi. Per tutti noi questa è una vita piena di rinunce».

Mala-sanità?
Entriamo nell’ospedale Haifa, uno dei cinque istituiti nei campi profughi in Libano. È una struttura della Mezzaluna Rossa palestinese, appartenente all’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) e finanziata dall’Unione Europea, con 42 posti letto destinati a circa 50mila palestinesi.
Il direttore dell’ospedale ci spiega che i bambini soffrono di problemi gastro-intestinali causati dall’alta concentrazione di sale nell’acqua, di allergie e malattie polmonari provocate dall’umidità e dall’aria malsana. Molto alta è la percentuale di persone affette da diabete da eccesso di zuccheri.
Molto diffusi sono anche lo stress e problemi psicologici dovuti alla drammatica condizione in cui le persone del campo sono costrette a vivere.
Per gravi malattie tipo il cancro, l’ospedale Haifa garantisce solo la diagnostica e non le cure, e ai pazienti che non possono permettersi di andare in un ospedale libanese, a pagamento, non restano molte possibilità di sopravvivenza.

Ricordo dei martiri
Il cimitero dei martiri di Sabra e Shatila è un giardino desolato, con una grande tomba, dentro alla quale sono state sepolte, in una enorme fossa comune, circa 1.000 persone, vittime dell’eccidio che si consumò nel 1982, ad opera delle falangi libanesi, aiutate dall’esercito israeliano.
Il campo di Shatila è a un chilometro dal cimitero. Per raggiungerlo bisogna percorrere una strada affollata che passa dentro un mercato frequentatissimo, sporco e pieno di mercanzie.
Ci lasciamo Beirut alle spalle e costeggiamo per qualche chilometro una distesa di slum: edifici fatiscenti, con persone poverissime che lavorano davanti a negozi sporchi e ad officine altrettanto malsane.
Qualche chilometro più in là, iniziano le cittadine con case e villette e campi coltivati. Sembra di essere passati da un mondo all’altro, in poco tempo. Tutto il Libano è così.
Oltrepassiamo Sidone attraverso un check-point militare.
Lungo il percorso, sfilano ai due lati della strada chiese e moschee, istituti islamici e cristiani, uno a fianco all’altro.
Arriviamo a Tiro, dove ci aspetta il direttore locale dell’Unrwa, dalla quale dipendono per la sopravvivenza tre campi profughi e 12 raggruppamenti illegali, per un totale di 95 mila profughi.
«I perimetri dei campi sono rimasti quelli degli anni ’50 – ci spiega il dirigente -. All’epoca ospitavano 7.000 rifugiati, ora invece ne hanno 29mila ciascuno. Ecco perché hanno dovuto svilupparsi verticalmente e in aree illegali, non riconosciute, dove vivono 73 famiglie (circa 300 persone).
La restrizione nell’entrata di materiali edili, mobili e del transito stesso dentro e fuori dal campo, crea gravi difficoltà per i palestinesi. Una recente ricerca svolta dall’Unrwa in collaborazione con l’università americana di Beirut, evidenzia un aumento esponenziale della povertà tra i profughi, in particolare a Tiro».
Lasciamo l’ufficio dell’Unrwa e ci rechiamo a visitare il campo di Burj el-Shamaliy.
All’ingresso troviamo un check-point di forze libanesi. Durante l’occupazione israeliana la postazione era un avamposto militare, ma ora è utilizzato dall’esercito libanese per monitorare i residenti palestinesi.
Ci fermano mezz’ora, per controllare i nostri passaporti.
Finalmente, dopo un’ispezione accurata delle pagine e dei nostri nomi, ci lasciano andare.
Entriamo in un asilo costruito nel 1967 dall’associazione Assumud, finanziata dall’Olp. Tre classi accolgono circa 80 bambini e 4 insegnanti.
La giovane direttrice, Hiba, ci conduce in giro per la struttura e ci presenta i piccoli, tutti vestiti di azzurro, lindi e ordinati, e molto educati.
Nei piani superiori ci sono locali per la formazione professionale dei giovani, con laboratori di informatica e di altre discipline.
Burj el-Shamaliy è stato soprannominato «Campo dei Martiri», per l’alto numero di vittime durante il massacro del 1982: 96 morti.
Qui ci sono 20mila abitanti e un solo ambulatorio con due medici che lavorano quattro ore. Ricevono 400 pazienti al giorno. Danno solo calmanti, per qualsiasi patologia. Il 95% delle medicine è a pagamento. Per le malattie croniche è concessa solo una dose al mese, le altre devono comprarsele.
Le convenzioni con gli ospedali prevedono solo alcuni interventi chirurgici, ma le strutture meno care hanno posti limitati. Per gli interventi cardiaci, l’Unrwa passa 3.000 dollari, ma il costo è di 6.000. Paradossalmente, dopo i 60 anni, la cifra si abbassa a 2.000.
Il 66,4% dei poveri del campo viene sfamato da associazioni caritatevoli e dall’Unrwa. Questa dà 110 dollari all’anno al 12% di loro. Quindi, poco o nulla.

Al «bambino felice»
Ci rechiamo alla scuola matea «Bambino felice». È una struttura costruita nel 1992, che ospita 200 bimbi tra i 3 e i 6 anni, divisi in 8 classi.
Il nome dell’asilo non deve trarre in inganno: qui manca tutto. Non ci sono giochi, non c’è nulla. Le famiglie devono portare frutta e verdura per la mensa. La retta è di 75 dollari all’anno, ma il 30% dei bambini è esente, perché troppo povero.
Un piano della struttura è senza finestre, e d’inverno fa freddo.
Entriamo nelle aule, semispoglie, con bimbi seduti intorno a un tavolo, con un pezzetto di pongo ciascuno che girano e rigirano tra le dita, mentre ci osservano con occhioni sgranati, cantando canzoncine di benvenuto. Non hanno nulla, nemmeno l’essenziale, e ripetono a memoria storie e canti per passare il tempo.
Quando, un’ora dopo, usciamo per strada, abbiamo ancora impressa negli occhi l’immagine delle loro manine che impastano un pezzo quasi invisibile di pongo, e non riusciamo a non pensare che generazioni e generazioni di bambini sono accomunati dalla stessa miseria e ingiustizia, che li vede prigionieri in campi profughi dove non c’è neanche l’indispensabile.
A Sidone i rifugiati sono 120mila: 5.000 vivono a Mi’eh w Mi’eh; 40 mila sono suddivisi tra un quartiere della città e raggruppamenti illegali; 75mila, nel campo di Ein el-Helweh. La maggior parte di loro viene dall’Alta Galilea ed è qui dal 1948.
Il campo di Ein el-Helweh ci colpisce per il «clima», caratterizzato dalla mancanza di luce naturale, da molta sporcizia e caos, e da tanta gente, per lo più miliziani, che se ne va in giro armata.
L’area destinata ai campi è la stessa di 60 anni fa, anche se la popolazione è triplicata. Le case sono una addossata all’altra, il sole non riesce neanche a entrare. Ci sono vicoli completamente bui. Tutto ciò provoca gravi problemi psico-fisici. Appena possono, i ragazzi scappano da qui.
Ein el-Helweh ha poco del nome che si porta appresso, «L’occhio (o la fonte) della bella». Come tutti i campi, è un posto di grande sofferenza, di prova concreta, visibile, dell’ingiustizia subita dai palestinesi 63 anni fa, quando a centinaia di migliaia vennero espulsi dalla Palestina attraverso massacri e pulizia etnica, e si rifugiarono in campi profughi allestiti qua e là nel mondo arabo. Libano compreso.
Questo luogo, tuttavia, ha una tristezza e una cupezza maggiori: le persone ci guardano con diffidenza, ci salutano in inglese e non in arabo, come fossimo degli intrusi, e non degli ospiti.
In questo campo ci sono stati molti conflitti interni tra le varie fazioni palestinesi, e la presenza di paramilitari palestinesi armati di tutto punto ne è un effetto, e forse pure una causa.
Anche qui, come negli altri campi, visitiamo ospedali dove manca quasi tutto, centri assistenziali, e incontriamo esponenti di Fatah e di Hamas, i due principali movimenti politici palestinesi.
I campi profughi sono un esempio di come si possa tenere una popolazione in uno stato di miseria calcolata, voluta, per indurla ad andarsene quanto prima, ed indubbiamente è stata una strategia vincente, poiché da 400mila il numero di rifugiati è sceso a 250mila. Gli altri sono fuggiti da questo inferno, per cercare accoglienza in Occidente e in altri paesi arabi e islamici.

Angela Lano

1- La catastrofe che portò alla cacciata dei palestinesi dalla loro terra nel 1948.

Angela Lano




Non c’è solo il Pil

Il Pil è un indice inadeguato del benessere di un paese. Per questo altri
misuratori (spesso proposti dalla società civile) si fanno strada.

Non se ne parla molto, ma autorevoli istituzioni come la Commissione europea, l’Ocse, l’Istat e altrettanto autorevoli economisti, capeggiati da tre Premi Nobel (Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz)  riconoscono che il Pil (Prodotto interno lordo) è un indice insufficiente per rendere conto dello stato economico e sociale di un paese.
La semplice misura della produzione di beni e servizi non considera, infatti, fattori che sono cruciali per il progresso di una nazione: il livello di istruzione, lo stato di salute, l’accesso alle conoscenze informatiche, l’apporto delle donne, la valorizzazione del patrimonio ambientale, la distribuzione della ricchezza.

Non che il tema sia recente, basti ricordare che già nel 1968 Robert Kennedy  pronunciava un memorabile discorso in cui affermava che «Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Negli anni Novanta, ad andare oltre il Pil, ci ha provato l’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con il suo Indice di Sviluppo Umano (Hdi): non solo reddito pro capite, ma aspettativa di vita e indice di istruzione. I Rapporti annuali dell’Undp hanno finalmente chiarito che lo sviluppo non coincide con la crescita economica, ma riguarda altri aspetti della vita umana:  la convivenza pacifica, l’accesso ai beni e ai servizi, la partecipazione democratica, l’equità nelle opportunità.
L’Undp per primo ha lanciato l’allarme sull’aumento della disuguaglianza che accompagna la crescita economica senza regole e la globalizzazione senza diritti, chiedendo agli stati di non preoccuparsi solo dell’incremento della ricchezza ma anche della sua distribuzione; e ancora, grazie all’Undp è, per così dire, tornato di moda l’indice Gini che misura la concentrazione della ricchezza e che ha preso il nome del suo ideatore Corrado Gini, un giurista con il pallino della statistica che 1927 fondò in Italia l’Istat.

Anche la comunità non governativa ha detto la sua sull’argomento, il Social Watch, una rete di oltre 200 Ong di 50 nazioni dal 1996 pubblica un Rapporto annuale in cui classifica i paesi in base a due indici: il Gei  e il Bci. Il Gei, (Gender Equity Index), misura quanto le donne vengono istruite, quando sono rappresentate nelle istituzioni pubbliche e quanto partecipano alle attività economiche; il Bci (Basic Capability Index), indice di capacità di base definisce la povertà non solo in termini di reddito, ma considera altri fattori come la percentuale di bambini che riceve un’istruzione elementare, la sopravvivenza fino a 5 anni di età, il numero di nascite assistite da personale qualificato.
Sempre la società civile ha messo a punto gli indici ambientali: come l’impronta ecologica o l’Esi (Enviromental Sustainability Index) che misura la sostenibilità di un’economia in base alla sua capacità di risparmiare risorse energetiche e idriche, riciclare i rifiuti e salvaguardare la biodiversità.
In Italia, un gruppo di ricercatori legati alla campagna Sbilanciamoci da una decina d’anni utilizza il Quars, l’indicatore sintetico della qualità regionale dello sviluppo che mostra come le regioni più sviluppate non sono necessariamente le più ricche se – per contro – hanno un tasso di inquinamento elevato e i loro cittadini si ammalano più degli altri.
Nell’agosto del 2009, la Commissione europea ha diramato una Comunicazione intitolata «Non solo Pil,  misurare il progresso in un mondo in cambiamento» con la quale ha messo in guardia i paesi membri dall’utilizzo del Pil come unico indicatore: «Esistono validi motivi, dice la comunicazione, per completare il Pil con statistiche che riprendano gli altri aspetti economici, sociali e ambientali dai quali dipende fortemente il benessere dei cittadini», per questo entro il 2013 i paesi membri dell’Unione dovranno presentare una contabilità economico-ambientale.
Il clima di ripensamento del modello economico, seguito alla crisi del settembre 2008, ha favorito il dibattito e l’attenzione del mondo politico ed economico su questo tema, basti pensare che all’impegno profuso dal presidente francese Sarkozy che ha promosso e finanziato il gruppo degli economisti guidato da Stiglitz.
Oggi siamo in una fase di normalizzazione: i governi pensano alle elezioni e gli economisti abbandonano il terreno faticoso dell’innovazione. Il processo per andare oltre il Pil rischia di interrompersi. Per fortuna, c’è chi non si da per vinto e continua a ricercare, esplorare, proporre.
Come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini che ha il pallino dei nuovi indicatori e ne sfoa in continuazione, aiutandoci a capire cosa succede davvero nel nostro paese sotto il profilo del  benessere reale, delle opportunità,   della   condizione
giovanile.

Sabina Siniscalchi




Profezia e utopia

Incontro con Abdessalam Najjar, primo abitante di Nevé Shalom

In territorio israeliano c’è un villaggio dove ebrei e palestinesi vivono insieme: lo ha inventato un domenicano ebreo, Bruno Hussar, profeta di grande fede, per testimoniare e insegnare che la pace non è solo un sogno e i conflitti possono essere superati con accettazione, rispetto e collaborazione reciproca.

«Mi chiamo Abdessalam e da oltre 30 anni sono in questa comunità chiamata Nevé Shalom-Wahat as-Salam, un villaggio in cui vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana, impegnati nel lavoro di educazione per la pace, l’uguaglianza e la comprensione tra le due popolazioni. La nostra esperienza è la dimostrazione tangibile che i due gruppi possono coesistere, vivere in pace e lavorare insieme».
Inizia così l’incontro con il professore Abdessalam Najjar, uno dei fondatori dell’«Oasi di Pace»: è questo il significato letterale della duplice espressione, in ebraico e in arabo,Nevé Shalom-Wahat as-Salam; termine ispirato alla promessa del profeta Isaia: «Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace» (Is 32,18).

SOGNO DI PACE
«L’oasi nasce da un sogno di un domenicano ebreo: padre Bruno Hussar. Uomo di grande fede, arrivato a Gerusalemme nel 1960, aveva subito attratto attorno a sé un gruppo di persone di differente credo religioso e promosso incontri di dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani. All’inizio era spinto da entusiasmo e buona volontà, senza sapere cosa avrebbe raggiunto: diceva che parlare è meglio che litigare».
Sorride Abdessalam e continua: «Dopo tanti incontri, padre Bruno cominciò a riflettere: “Siamo qui seduti in un piccolo gruppo, cristiani, ebrei, musulmani, tutta brava gente, tutti vogliamo la pace… ma perché fuori non c’è pace? Forse il gruppo di dialogo non basta; dobbiamo fare qualcosa di più”».
Alla fine degli anni ‘60 egli ottenne un pezzo di terra in prestito dal monastero trappista di Latrun e cominciò a sognare la sua «oasi di pace», iniziando a tenervi i suoi incontri soprattutto nei fine-settimana. Cominciò ad arrivare varia gente, soprattutto dall’Europa, giovani capelloni, nella loro strada verso l’India o di ritorno dall’India in cerca di un guru. Padre Bruno accoglieva tutti con molta cordialità, ma non era sua intenzione essere un guru. Il suo progetto era ben differente: mirava alle persone in conflitto, ebrei a palestinesi, disposti a vivere insieme, esplorando le cause del conflitto, per superarle ogni giorno, prendendo insieme le decisioni adeguate.
«A quei tempi – continua Abdessalam – quando incontrai per la prima volta padre Bruno, ero impegnato insieme a mia moglie nel dialogo tra studenti universitari ebrei e palestinesi e stavamo progettando una scuola per ebrei e palestinesi insieme. Egli mi invitò a costruirla nel suo villaggio di Nevé Shalom. Non vi immaginate la delusione che provammo quando andammo a visitarlo: mi aspettavo alberi e case come si addice a un’oasi; trovai solo un vecchio autobus in disuso, un pergolato di bambù e alcune pietre per sedersi. Padre Bruno cominciò a parlare del suo villaggio, di bambini che si arrampicavano sugli alberi… Domandai dove fosse realmente tale villaggio: “Ora ci siete voi e abbiamo Nevé Shalom; poi arriveranno anche i bambini” rispose seraficamente. Era fatto così: pensava una cosa ed era convinto che sarebbe diventata subito realtà».
Naturalmente ci vollero altri incontri per esplorare le varie possibilità, finché fu deciso di organizzare un campo estivo, tanto per dare vita a qualcosa di concreto: nell’estate del 1977 c’erano circa 300 giovani, ebrei e arabi, seduti insieme a discutere su che cosa significhi dialogare, lavorare, vivere insieme. Fu un evento importante, ma il sogno di padre Bruno divenne realtà l’anno seguente: alla fine del 1978 si stabilirono le prime quattro famiglie, tre ebree e una palestinese. Da quel momento la comunità continuò a crescere gradualmente, con l’arrivo di due-tre famiglie l’anno. Ora esse sono 60, metà ebree e metà palestinesi, tutte hanno la cittadinanza israeliana. Il progetto continua per raggiungere le 140 famiglie.

EDUCAZIONE BILINGUE
Narrata l’origine di Nevé Shalom, il dottor Najjar passa a spiegare la vita attuale del villaggio, guidandoci nella visita alle varie strutture della comunità, prime tra tutte gli asili nido. «Il problema educativo si è imposto fin dall’inizio, con la nascita dei primi figli. Fu deciso di educarli insieme. Ogni asilo ha una madre ebrea e una madre araba; ognuna parla la propria lingua ai bambini, in modo che ognuno cresca secondo le proprie tradizioni culturali, e al tempo stesso impari la lingua dei compagni di cultura differente. Col crescere dei bambini abbiamo deciso con padre Bruno di aprire la scuola matea, seguita poi da quella elementare. La comunità mi chiese di lasciare l’impiego nella scuola statale per insegnare qui, insieme a una maestra ebrea».
Nasceva così, nel 1984, la scuola bilingue ebreo-araba, la prima del genere in Israele. «Benché non fossimo preparati a tale impresa – continua il dottor Najjar -, dato che non esisteva alcuna struttura per preparare insegnanti di scuole del genere, l’esperienza riscosse un successo superiore alle aspettative: molte famiglie attorno chiesero di accogliere e istruire i loro figli nella nostra scuola».
Oggi la scuola elementare e quella matea contano complessivamente circa 300 bambini, oltre il 90% dei quali provengono dai villaggi vicini sia arabi che ebrei. Un nuovo edificio è stato richiesto per estendere il curriculum scolastico alla scuola media.

MODELLO DA ESPORTARE?
Nel 1997, il Ministero israeliano dell’Educazione riconobbe ufficialmente la scuola matea e l’anno seguente quella elementare; nel 2000 «incorporò» la scuola matea nel sistema scolastico nazionale. «Era uno degli obiettivi del nostro metodo educativo: lanciare un modello che potesse essere imitato particolarmente in città o regioni con popolazione binazionale. I nostri sforzi sembrano avere successo: oggi in Israele abbiamo 5 scuole come questa, bilingue arabo-ebrea. Abbiamo lavorato in altri paesi con situazioni di conflitto, come Irlanda, Cipro e nella ex Yugoslavia».
A Skoplie, in Macedonia, per esempio, è sorto un asilo infantile bilingue: le insegnanti sono state a Nevé Shalom per prepararsi a una scuola del genere. Si è tentata un’esperienza anche in Kosovo, con le comunità di albanesi e serbi, ma con gruppi separati, perché i serbi sono chiusi in enclaves e le restrizioni non permettono ancora di organizzare una scuola biligue.
Più che un modello da esportare, Nevé Shalom vuole essere un esempio, un laboratorio di metodologia educativa, da adattare alle situazioni concrete dei popoli in conflitto. Le pubblicazioni che descrivono i percorsi e i metodi educativi sperimentati a Nevé Shalom sono ora disponibili in ebraico, arabo e inglese.

SCUOLA PER LA PACE
Scopo di Nevé Shalom non era solo di formare una comunità, ma anche di espandee l’impatto educativo all’esterno. Già prima che le famiglie si stabilissero a Nevé Shalom, erano stati organizzati incontri di studenti di scuole arabe e di scuole israeliane per incontrarsi e discutere insieme. «Le chiamavamo “scuole di pace”. Non era una vera scuola, dato che l’incontro durava un giorno solo – racconta Abdessalam -; però si parlava di pace. Molte altre scuole vollero venire a parlare di pace. Quando le discussioni si svolgevano con calma e i giovani tornavano a casa tranquilli, dicevamo che l’incontro aveva avuto un bel successo. Ma una volta ci fu una discussione accesa e sperimentammo fortissime tensioni: non sapevamo cosa fare. La sera concludemmo che era stato un fallimento.
Qualcuno, invece, ci disse che le forti discussioni non significavano fallimento e che era meglio discutere i problemi piuttosto che non affrontarli. Ci spiegò che, trattandosi di problemi emozionali, non basati sulla razionalità, avremmo dovuto chiamare qualche persona qualificata per organizzare i gruppi, adottare le strategie per guidare le discussioni, valutare i risultati finali e i metodi adottati».
Dopo quattro anni di valutazione e studio, si giunse alla conclusione che un giorno era troppo poco, una settimana troppo lunga; la durata ideale per la scuola di pace era di tre giorni, con gruppi misti ristretti di 15-18 partecipanti, con due facilitatori, uno arabo e uno ebreo. La Scuola per la pace (School for peace, Sfp) cominciò ad avere una fisionomia più regolare e metodica anche nella struttura di lavoro, con meno lezione o informazione e più dinamica di gruppo.
Fu cambiato anche il fine da raggiungere: all’inizio si parlava di trasformazione politica. Cosa impossibile. Primo traguardo da raggiungere era prendere coscienza di se stessi, pensare e agire senza stereotipi e generalizzazioni, in modo da comprendere e capire gli altri. «Per raggiungere tale comprensione reciproca, tra ebrei e palestinesi, ci vuole tempo – spiega il dottor Najjar -. Non basta un incontro, ma occorrono più esperienze in altre situazioni e in altri gruppi, dopo di che è possibile che qualcosa cambi».
centro spirituale
La terza istituzione educativa, sogno di padre Bruno, è stato il Centro spirituale pluralista. Anche se in questa terra i conflitti non sono di natura religiosa, negli ultimi anni, purtroppo, la religione ha cominciato a giocarvi un ruolo importante. Padre Bruno si domandava: «Come mai noi popoli del libro ci facciamo guerra in nome di Dio? Deve esserci una interpretazione sbagliata della sacra scrittura. Nulla è più sacro dell’umano: non è la terra che fa la santità di un popolo, ma è il popolo che fa santa la terra. Più che parlare di cose spirituali, bisogna parlare in modo spirituale, poiché ogni aspetto della nostra vita ha una dimensione spirituale» insegnava padre Bruno.
Ci furono molti incontri di dialogo interreligioso, non a livello di contenuto teologico, ma a livcello esistenziale: si discuteva su come devono essere le relazioni umane tra persone di diversa fede religiosa; sul perché in certi periodi i rapporti erano più pacifici o più ostili; su cosa bisogna fare per creare relazioni di pace.
«Anche oggi – continua Abdessalam – le iniziative di dialogo interreligioso sono sempre legate alla realtà che stiamo vivendo; partecipiamo agli incontri come esseri umani, cioè portando con noi tensioni e problemi, conflitti e paure, emozioni e pregiudizi… per cercare di esplorarli psicologicamente e trattarli in modo spirituale, in modo religioso».
Un’altra intuizione di padre Bruno, suggerita dalla sua prima collaboratrice Anne Le Meignen, fu di non edificare una chiesa, una sinagoga o una moschea, ma un luogo speciale, aperto a tutte le religioni: la «Casa del silenzio» (Bet Dumia-Sakina, in ebraico e arabo rispettivamente). L’ispirazione era venuta dalla meditazione sul Salmo 65,2: «Per Te il silenzio (dumìa) è lode, o Dio…».
È una cupola candida, sul dorsale della collina boscosa, affacciata sulla pianura sottostante; unici arredi sono alcuni cuscini per sedersi. Qui ciascun abitante del villaggio, religioso o no, a qualunque fede faccia riferimento, può raccogliersi, per pregare, meditare, riflettere. L’unico linguaggio che vi si parla è, appunto, il silenzio.
«Dio si rivela nel silenzio – spiega Anne Le Meignen -. Ricordate l’esperienza di Elia sull’Oreb: Dio non era nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco, ma nel “qol demama daqqa, una voce di silenzio lieve” (1Re 19,12)».
Nel 2006 attorno alla Dumia è sorto appunto il «Centro spirituale pluralista Bruno Hussar», una struttura per incontri, giornate di studio e corsi dedicati a una riflessione spirituale sui problemi che costituiscono il cuore del conflitto in Medio Oriente e sulla ricerca di una possibile soluzione, attingendo le risorse disponibili nella propria cultura e tradizioni religiose. 
Un altro sogno di padre Bruno sta per realizzarsi: la «Casa degli studi silenziosi», un edificio con sale riunioni, biblioteca, spazi per la creatività artistica… un ulteriore strumento di carattere spirituale per educare al dialogo, alla riconciliazione ed alla pace, attraverso la ricerca dei punti comuni, da rintracciare anche nelle rispettive scritture sacre delle diverse religioni.

La vita a Nevé Shalom
Il villaggio è gestito in modo democratico: ogni anno viene eletto un segretario che lo governa, affiancato da quattro consiglieri; almeno una volta al mese viene convocata l’assemblea plenaria per prendere le decisioni più importanti.
Attualmente vi sono una sessantina di famiglie, metà ebree e metà palestinesi, ma presto se ne aggiungeranno altre. La lista di attesa è lunga; un comitato studia i vari casi, ne analizza le motivazioni, istruisce sulle condizioni ed esigenze per vivere nella comunità, esamina le capacità di resistenza e alla fine fa la selezione.
Ogni famiglia deve costruirsi la propria casa. La terra è della comunità, la casa è proprietà privata, ma non può essere venduta; se una famiglia lascia il villaggio, terra e casa rimangono alla comunità, non viene venduta ad altra famiglia.
Lingua ufficiale è l’ebraico, anche perché gli arabi sono generalmente bilingui; d’altronde, i palestinesi hanno bisogno di conoscere l’ebraico per vari motivi; gli ebrei invece, non conoscono l’arabo; magari sono bilingui di una lingua europea.
Il villaggio non è affiliato ad alcun partito o movimento politico. Fino ad ora nessun governo israeliano ha considerato Nevé Shalom un’iniziativa o progetto di interesse nazionale; c’è rispetto e nulla più. È stato chiesto in concessione un pezzo di terra, come il governo fa per i kibbutz, ma fino ad ora la richiesta è stata rifiutata, con la scusa che non è una iniziativa di necessità nazionale; in realtà non si vuole la presenza di arabi in territorio israeliano.
Dal punto di vista religioso a Nevé Shalom risiedono ebrei, cristiani, musulmani e agnostici. Buona parte di essi non vi sono entrati per motivi religiosi; anzi, molti non sono neppure coscienti della loro identità religiosa. Era una delle critiche mosse a padre Bruno: come prete avrebbe dovuto interessarsi solo di cristiani, invece accoglieva tutti, senza chiedere la loro appartenenza religiosa. Padre Bruno rispondeva: «Da parte mia non rinuncio a nulla della mia fede; quanto a quelli che ancora non hanno trovato la strada che porta a Dio, sono certo che, al momento, agiscono secondo la parola di Dio; un giorno forse troveranno anche la loro via a Dio».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




I sogni ad alta voce

Teatro: scuola di integrazione e di pace

«A noi e alla maggior parte degli israeliani non importa vincere la guerra. C’importa vincere la pace!» dice Angelica Calò Livné; a tale scopo ha dato vita, nel 2002, a Beresheet la Shalom (in principio  la pace), fondazione che comprende una compagnia teatrale di giovani ebrei e mussulmani, cattolici e non credenti dell’Alta Galilea.

Incontrare Angelica Edna Calò Livné è sempre fonte di intensa emozione. In qualità di insegnante ho avuto modo di assistere con i miei studenti a due rappresentazioni del Teatro dell’Arcobaleno al Dal Verme di Milano; in seguito il mio Liceo ha avuto il privilegio di ospitarla per la rappresentazione di Beresheet e per un seminario sulle tecniche teatrali destinate a favorire l’accoglienza reciproca. Ogni volta sono rimasta incantata dalla sua personalità prorompente, dalla passione con cui persegue la sua missione di educatrice, dall’amore per la sua famiglia e per i suoi figli «adottivi» del Teatro.
L’ho rivista il 12 settembre 2010; di passaggio per Milano, è riuscita a trovare alcune ore per incontrare un gruppo di ragazzi della parrocchia di San Giovanni Battista alla Bicocca, che aveva trascorso quindici giorni in Terra Santa, nell’intento di ascoltare le loro esperienze e offrire con la sua testimonianza una conoscenza più completa e articolata di Israele.

Da Roma al kibbutz in Galilea
Angelica ha iniziato a parlare ricordando la sua esperienza di ebrea romana, che ha vissuto l’adolescenza sul «confine», tra ebrei e cristiani, tra ebrei osservanti ed ebrei di ideali sionisti. A 20 anni ha preso la decisione di concretizzare quell’amore per Israele che condivideva con i genitori con una scelta di vita radicale: andare a vivere in kibbutz.
Così da 35 anni vive a Sasa, un kibbutz dell’Alta Galilea, nei pressi del confine libanese, nelle vicinanze del quale sorgono un villaggio druso, uno circasso, un villaggio di arabi prevalentemente cristiani, uno di arabi a maggioranza mussulmana.
Nel kibbutz, uno dei pochi che resistono alle trasformazioni in atto nella società israeliana, ha potuto dar corpo, insieme a suo marito Yehuda, alla sua passione per l’educazione e per il teatro.
Al tempo dell’intifada (1987) ha deciso di porre a servizio della pace la sua missione di educatrice e la sua esperienza di attrice e regista fondando nel 2002 il Teatro dell’Arcobaleno, il cui nome allude alla varietà di ragazzi che lo compongono, di etnia e religione diversa, ed evoca al tempo stesso il simbolo biblico per eccellenza della pace.
Ha ripercorso la storia di quella che è diventata nel frattempo una fondazione, la Fondazione Beresheet la Shalom (in principio la pace), intrecciando nel racconto le vicende del teatro, le difficoltà incontrate a livello economico-amministrativo, i momenti di scoraggiamento, ma anche gli aiuti inaspettati, i riconoscimenti ottenuti…, con la storia dei suoi ragazzi. Grazie a lei, essi hanno imparato il linguaggio universale dell’arte, ma soprattutto hanno imparato a conoscersi, ad accettarsi, al punto da sentirsi come appartenenti a una grande famiglia. Quando il tempo del teatro finisce e inizia quello dell’università e del lavoro per gli arabi e dell’esercito per gli ebrei, ricordano ad Angelica che sono e saranno sempre i suoi figli.

La storia di Mor
Due episodi in particolare sono impressi nella mia memoria. Il primo è legato alla storia di Mor, la ragazzina ebrea che, in vacanza in Kenya, si è trovata con i genitori e i fratelli nell’albergo di Mombasa oggetto nel 2002 di un terribile attentato.
Mor ha visto tutto l’orrore di quella strage e ha deciso di non frequentare più il teatro di Angelica: da quel momento ha odiato gli arabi. Angelica ha insistito perché almeno tornasse a salutare i suoi amici ebrei, Mor ha accettato.
Angelica ha preparato un’azione teatrale che aiutasse ad allentare la tensione che ognuno si portava nel cuore: era un’azione in cui ci si trovava imprigionati in scatole da cui progressivamente ci si doveva liberare. Al termine i ragazzi ad uno ad uno sono saliti sul palcoscenico a parlare di sé, delle proprie «prigioni»: Mor ha ascoltato in silenzio, poi, a sua volta è salita sul palcoscenico e ha dato sfogo a tutto ciò che ha visto, le macerie, il sangue, i corpi mutilati…
A quel punto Sharif, ragazzo arabo cristiano, le si è avvicinato e le ha chiesto di poterla abbracciare: tutti hanno seguito il suo esempio creando intorno a Mor un abbraccio di solidarietà e amore. Mor non è più partita.

Siamo tutti in barella
L’altro episodio ha riguardato un gruppo di studenti di una scuola professionale romana, poco motivati e assai indisciplinati, per i quali Angelica ha accettato di organizzare in Israele una settimana di approfondimento della cucina multietnica mediorientale. I ragazzi hanno partecipato con estrema attenzione e inaspettato senso di responsabilità, facendo amicizia con i ragazzi del Teatro dell’Arcobaleno.
Il momento culminante è stato quello in cui Yotam, uno dei quattro figli di Angelica, che era in quel periodo nell’esercito, ha letto la poesia di Erri De Luca, «Considero valore», e ha chiesto un tempo di silenzio, dopo il quale ha invitato tutti i ragazzi a esprimere a loro volta quello che per loro era il valore più importante.
È stato emozionante ascoltare quei ragazzi, spesso conosciuti soprattutto per le loro trasgressioni, parlare di amicizia, affetti familiari, solidarietà…
Un rappresentante dell’amministrazione comunale di Roma, che accompagnava gli studenti e che aveva sempre espresso la sua simpatia per la causa palestinese, ha chiesto a Yotam come mai un giovane come lui, così dolce e sensibile, non facesse l’obiettore di coscienza.
Yotam ha risposto raccontando quello che ha chiamato l’aneddoto della barella: «Nell’esercito quattro soldati portano sulle spalle una barella e devono marciare per molti chilometri sotto un sole cocente in territori impervi, seguiti da una lunga fila di soldati. Quando il dolore alla spalla si fa insostenibile il soldato alza una mano e dalle fila retrostanti uno prende il suo posto. Il ferito – dice Yotam – che viene portato sulle spalle è il popolo ebraico, in Israele e nel mondo, ma siete anche un po’ tutti voi minacciati dal terrorismo internazionale… Io devo essere pronto a sostituire chi è in difficoltà».
L’assessore al termine del soggiorno affermò di continuare ad avere a cuore la causa palestinese, ma ammise anche di capire Israele.
Angelica non avrebbe voluto che i suoi figli fossero costretti a indossare la divisa; fin da quando era in attesa del primogenito si augurava che non gli toccasse questa sorte e continua a sperarlo per Or, il figlio minore. Vorrebbe per loro e per tutti i ragazzi di Israele, ebrei e arabi, un destino di pace, di armonia, senza kamikaze, senza missili, senza muri.
Proprio perché si realizzi questo sogno ha dato vita alla Fondazione che comprende, oltre al Teatro, Shalom Lecha Salaam Radio Program, un programma radiofonico realizzato e condotto, insieme, da ragazzi israeliani arabi ed ebrei; il Progetto Comuna, che prevede un anno di servizio civile nella Fondazione; il Centro ecologico per la Pace e la Squadra di calcio United Colours of Galilee…

Sognando ad alta voce
Secondo la mistica ebraica un sogno pronunciato a voce alta è destinato ad avverarsi, perciò Angelica continua a sperare e a lottare con determinazione.
Mentre parlava sulla parete scorrevano le immagini di un documentario che proponeva un’intervista ad Angelica, ai suoi ragazzi e immagini di Beresheet, lo spettacolo diventato il simbolo del Teatro dell’Arcobaleno.
Si vedevano i ragazzi entrare in scena indossando abiti bianchi e una maschera: mimavano la condizione dell’umanità, vittima dell’ignoranza e della paura, che gradualmente scopre la sua identità. I ragazzi si liberavano così delle maschere, degli abiti tutti uguali, ma dall’identità ritrovata nasceva il desiderio di prevaricazione su chi ora, senza maschera, appariva «altro, diverso, nemico». Poi faticosamente emergeva la scoperta della comune dimensione umana che affratella nella diversità.
Nella mia mente riemerge il ricordo di quando Beresheet è stato rappresentato nell’auditorium del mio liceo. La rappresentazione ebbe luogo l’8 maggio 2008 e fu particolarmente emozionante perché coincise con il 60° della fondazione di Israele.
Il pubblico seguiva attento, ritmava i canti, accendeva i cellulari illuminando di piccole stelle l’auditorium, si univa alla danza sul palcoscenico, applaudiva, mentre sullo sfondo scorrevano le immagini della vita del kibbutz e scorci di paesaggi e di città israeliane, dove vivono tutt’ora i ragazzi, incantando con la loro bellezza gli spettatori.
Al termine dello spettacolo i ragazzi del Teatro dell’Arcobaleno si sono rivolti al pubblico ponendo ai loro coetanei domande del genere: «Come ci immaginavate? Come ci aspettavate?» e se ciò che avevano visto aveva confermato o modificato le loro idee, i loro convincimenti.
Gli spetattori hanno ammesso  con gratitudine che dopo lo spettacolo avrebbero guardato a Israele con occhi e cuore diversi. Mentre i mass-media imponevano le immagini di un paese militarizzato e profondamente segnato dall’odio, dalla violenza, Angelica e i suoi ragazzi avevano fatto conoscere la vita di gente normale che sogna e lotta per la pace.
A dimostrarlo basterebbero queste parole di Ittay, 17 anni, ebreo: «Mio fratello è nell’esercito da diversi mesi; tutti i giorni penso a lui e alla guerra e faccio quello che posso per testimoniare che la pace è possibile»; così pure Saeed, 17 anni, mussulmano: «Lo spettacolo porta la pace nei cuori. Noi siamo un microcosmo di pace dentro un mondo di guerra. Tutti possono mettere un po’ di amore nelle proprie guerre quotidiane».

Spettatori: giù la maschera!
Beresheet rappresenta una storia di liberazione, di conoscenza di sé e di accettazione dell’altro, che ha una valenza universale e al tempo stesso anche ciò che Angelica realizza con il Teatro dell’Arcobaleno educando a combattere il pregiudizio, a scoprire la bellezza e la ricchezza del vivere con l’«altro».
Ma l’azione teatrale diventa vera ed efficace anche nel momento stesso della sua rappresentazione, coinvolgendo il pubblico a cui si toglie la maschera di una conoscenza approssimativa, deformata da stereotipi e informazioni parziali…

Ballando la pace
Angelica è tornata nel nostro liceo anche nell’ottobre 2009 per incontrare un gruppo di studenti e far conoscere la sua tecnica teatrale. Così quell’incontro rivive nelle parole di Giulia: «Angelica ha voluto fare con noi lo stesso lavoro e le stesse attività che fa con i “suoi” ragazzi in Israele. E così ci siamo ritrovati a ballare e a fare giochi con ragazzi/e di altre classi, che non conoscevamo e di cui soltanto dopo abbiamo conosciuto i nomi e le origini.
Nella seconda parte dell’incontro, dopo essere stati divisi in gruppi, abbiamo preparato delle piccole scene mute, dalle quali però doveva trasparire il concetto di amicizia o di conflitto e riappacificazione. Il fatto più strano è che Angelica, pur non conoscendoci, è riuscita a metterci a nostro agio. Non mi era mai capitato di ballare o recitare davanti e con persone sconosciute, soprattutto in un’aula di scuola con i professori presenti.
In sostanza Angelica è riuscita a unire e a far divertire dei ragazzi di classi diverse, che probabilmente non si sarebbero mai incontrati e conosciuti altrimenti. Quindi è riuscita nel suo intento, perché ha ricreato una situazione simile a quella che vive tutti i giorni in Israele e ha dimostrato come attraverso il teatro e l’arte si possano costruire incontri e gettare le basi di un dialogo duraturo».
E Giovanni aggiunge a sua volta: «Quando Angelica, trafelata, è arrivata nell’aula predisposta, ha fatto spazio spingendo le sedie contro una parete, ha acceso la musica e ha detto: “Iniziamo a muoverci!”. Tutti si sono pietrificati. Pian piano, un arto alla volta, abbiamo iniziato a scioglierci. Ho visto persone, che consideravo da anni dei timidi cronici, ballare e saltare per la stanza e ragazzi sconosciuti svelare volti nascosti e inimmaginabili.
Definire questa esperienza “teatro” è esagerato. Non si diventa attori in due ore scarse di laboratorio e improvvisazione; un termine più corretto sarebbe “esperienza di socializzazione”. Alla fine dell’incontro erano tutti rilassati e sorridenti, ci siamo salutati come vecchi conoscenti e un mio compagno di classe mi ha detto ridendo: “Oggi ci siamo fatti un bel po’ di nuovi amici!”.
È stato un incontro interessante e utile, da riproporre. Non trovo per nulla strano che con questi “giochi” e musiche senza parole si possano unire popoli lontani e nemici come palestinesi e israeliani».
Ora Angelica sta allestendo uno spettacolo sui diritti dei minori, ispirato all’opera di Janus Korczak, il medico polacco di origine ebraica, estensore della carta dei diritti del bambino, morto a Treblinka insieme ai 200 bambini e ragazzi del ghetto di Varsavia che non aveva voluto abbandonare.

Per maggiori informazioni vedi il sito: www.masksoff.org

Maria Teresa Maglioni

Maria Teresa Maglionii




Piccolo popolo, tanti primati

Samariani: pochi, ma «buoni»

Fenomeno più unico che raro, i Samaritani sono sopravvissuti come entità etnica e religiosa a difficoltà e persecuzioni secolari; il loro numero può apparire insignificante; le loro tradizioni sembrano più attrazioni turistiche che espressioni di fede; eppure hanno una forte ambizione: fare da ponte nel conflitto israelo-palestinese… Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di pace soprattutto.

«Siamo la più antica e la più piccola nazione e setta religiosa del mondo. Per questi e altri primati potremmo entrare in molte pagine del Guinnes of Records – esordisce Husney W. Kohen, fondatore e direttore del Museo dei Samaritani a Kiryat Luza, villaggio sulla dorsale del monte Garizim -. Tre mila anni fa i Samaritani erano 3 milioni; nel medioevo erano un milione e 200 mila; nel 1917 contavano appena 146 persone. Oggi sono 729 (1° gennaio 2010); metà vivono sul monte Garizim, il resto a Holon presso Tel Aviv».
Elegante nella sua lunga veste grigia, 66 anni, Husney Kohen si presenta come uno dei 12 sacerdoti custodi della fede dei Samaritani e, sottolineando il suo lignaggio, spiega l’albero genealogico: «Da Adamo a me ci sono 162 generazioni; da Aronne, fratello di Mosè, 132 generazioni».
LE ORIGINI
«Abbiamo anche il calendario più antico del mondo – continua Kohen mostrando un almanacco con le cifre 3647-3648 -. Questi sono gli anni trascorsi da quando gli ebrei passarono il Giordano, entrarono nella terra di Canaan e rinnovarono l’alleanza qui a Sichem (oggi Nablus), secondo il comando di Mosè:  “Quando il Signore tuo Dio ti avrà condotto nella terra che vai a conquistare, tu porrai la benedizione sul monte Garizim e la maledizione sul monte Ebal” (Deut 11,29)».
E così avvenne, come si legge nel libro di Giosuè: tutte le tribù schierate attorno all’arca dell’alleanza, metà voltate verso il monte Garizim pronunciarono le benedizioni per gli osservanti della legge; metà rivolte al monte Ebal lanciarono le maledizioni contro i trasgressori (Cf Gios 8,33).
Nella regione che prenderà il nome di Samaria rimasero i discendenti di Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, e alcuni della tribù di Levi, mentre le altre continuarono la conquista del territorio sotto la guida dei giudici e poi della monarchia. Per 270 anni esse condivisero la stessa storia; seguirono due secoli di storia parallela, in seguito alla divisione (930 a.C.) tra regno di Giuda al sud, con capitale Gerusalemme, e regno d’Israele al nord, con capitale Sichem e poi Samaria.
La separazione politica divenne anche divisione religiosa, a partire dal 722 a.C., quando il regno del nord fu distrutto dagli Assiri e una parte della popolazione (27.290 secondo gli annali dei vincitori) fu deportata e sostituita con coloni della Mesopotamia, provenienti soprattutto da Cutha, che si mischiarono ai 60 mila israeliti rimasti sul luogo. La mescolanza etnica e culturale, con relativo sincretismo religioso, provocò il rigetto da parte dei giudei del sud verso i Samaritani, chiamati con disprezzo «cutheani», cioè gente di sangue misto e semi-pagana.
In realtà, i Samaritani continuarono a ritenersi parte del popolo ebraico e nel 538 a.C., quando i giudei esiliati a Babilonia tornarono a Gerusalemme, i Samaritani offrirono il loro aiuto per ricostruire il tempio e officiarlo insieme, ma furono respinti brutalmente, perché considerati razzialmente impuri. Per questo, nel IV secolo a.C., i Samaritani costruirono il proprio tempio sul monte Garizim, il luogo in cui, secondo il loro credo, erano avvenuti diversi eventi significativi della storia dei patriarchi e del popolo israelitico. Si consumava così lo scisma tra le due popolazioni.
Non passarono due secoli e il tempio fu raso al suolo, nel 128 a.C., dal re di Giuda, Giovanni Ircano, nel tentativo di sottomettere i Samaritani alla tradizione gerosolimitana, portando al culmine, invece, l’incomunicabilità, l’ostilità e l’odio tra giudei e samaritani. E questo era il clima che si respirava al tempo di Gesù (vedi riquadro).
Nei secoli seguenti, con il susseguirsi nella terra santa di varie dominazioni  – romana, bizantina, islamica, turca – i Samaritani sperimentarono momenti di pace alternati a periodi di oppressione e persecuzione, in cui essi furono costretti alla conversione o alla diaspora. Così il loro numero si assottigliava costantemente, fino a raggiungere il minimo storico di 146 persone, grazie anche a una tremenda epidemia scoppiata a Nablus alla fine della guerra mondiale, quando i turchi lasciarono la Palestina.
IDENTITÀ
«Da oltre tre millenni abitiamo in questo luogo; siamo il resto dell’antico regno d’Israele, ci riteniamo e definiamo Bene-Yisrael, figli d’Israele. Siamo i veri israeliti» afferma Husney Kohen in polemica con una corrente storiografica che definisce i Samaritani una setta staccatasi dal giudaismo nel periodo del 2° tempio (538 a.C.-70 d.C.), e continua: «Contrariamente a quanto capita per la maggior parte dei popoli, non è la Samaria a dare il nome ai suoi abitanti, ma il contrario: il termine samaritani deriva infatti dall’ebraico “shamerim”, che significa “custodi, osservanti” dell’insegnamento di Mosè».
Mentre parla, Kohen si avvicina a una parete ricoperta da un drappo rosso con scritte ricamate in oro; rimuove un velo rosso e apre un rotolo di pergamena avvolto in un panno di seta verde, ugualmente ricoperto da una fitta scrittura ricamata in oro. Poi continua, sciorinando altri primati: «Questo è il più antico libro del mondo, il Pentateuco, i cinque libri della Torah, l’unica nostra legge, tramandataci da Mosè. Questo codice è di 150 anni fa, ma ne abbiamo un altro che risale a sei secoli fa, ma non viene mostrato al pubblico; già una volta hanno tentato di rubarlo, quando era nella sinagoga di Nablus. Molti musei vorrebbero comperarlo; il British Museum ha offerto una grossissima somma solo per custodirlo ed esporlo al pubblico, ma non possiamo privarci del nostro tesoro più prezioso».
Oltre al contenuto, la preziosità del codice sta nella sua rarità: è scritto in ebraico antico, con un alfabeto precedente a quello attuale a lettere quadrate, adottato dagli ebrei dopo l’esilio sotto l’influsso della scrittura babilonese. «L’ebraico antico è la madre di tutte le lingue del mondo» continua Kohen, indicando una riproduzione delle lettere dell’alfabeto e spiegando come ognuna di esse corrisponda a un membro del corpo umano.
Il Pentateuco samaritano, la cui redazione è attribuita dalla tradizione ad Abisha, pronipote di Mosè, contiene oltre 7 mila differenze rispetto al testo ebraico masoretico. Per lo più sono diversità ortografiche, ma alcune anche di contenuto «teologico», come la questione del luogo della presenza di Dio. In 22 versetti del Deuteronomio, la versione samaritana usa il verbo al passato: «Nel luogo che l’Onnipotente ha scelto»; mentre la redazione masoretica usa il futuro: «Nel luogo che l’Onnipotente sceglierà» (Dt 16,11).
La differenza è cruciale: per i Samaritani tale scelta è avvenuta ancor prima dell’entrata nella terra promessa ed è il Garizim, unico monte della terra d’Israele espressamente consacrato nel Deuteronomio quale luogo delle benedizioni (Dt 11,29), luogo dove Abramo e Giacobbe hanno costruito altari. Per i giudei, invece, il verbo al futuro esprime solo l’annuncio della scelta, che si realizzerà al tempo di David e Salomone (1000-930 a.C.) e cadrà sul monte del tempio a Gerusalemme.
Un’altra differenza riguarda la redazione del decalogo (Es 20,1-14). Nel testo samaritano il primo comandamento è: «Non avrai altri dei…» (secondo nella versione masoretica); il decimo ordina di costruire un altare sul monte Garizim, comandamento assente nel testo masoretico.
Il luogo del culto è sempre stato il pomo della discordia, da quando Eli scippò al Garizim l’arca dell’alleanza e la trasportò a Silo, fino al tempo di Gesù, come appare dalla domanda della donna samaritana: «I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». E rimane tutt’ora la principale discriminante tra la fede dei Samaritani e quella degli Ebrei, come si apprende dalle labbra stesse di Kohen: «Inutile che certi Ebrei cerchino di ricostruire il terzo tempio a Gerusalemme, quando Dio ha scelto il Garizim».
CREDO E FESTE
«I Samaritani sono guidati da quattro principi di fede – continua -: un solo Dio, il Dio d’Israele; un solo profeta, Mosè figlio di Amran; un solo libro sacro, il Pentateuco, la Torah trasmessa da Mosè; un solo luogo sacro, il monte Garizim. Inoltre crediamo nella venuta del Taheb, “un profeta come Mosè” (cf Dt 18,15), un messia (cf Gv 4,25) della stirpe di Giuseppe e non di discendenza davidica, che verrà alla fine dei tempi, nel giorno della vendetta e della ricompensa».
Samaritani ed Ebrei hanno in comune la celebrazione di sette festività, quelle menzionate nel Pentateuco: la Pasqua con il suo sacrificio (vedi riquadro) per ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto; la festa degli Azzimi, per sette giorni si mangia pane non lievitato; la festa delle Settimane (Shavuoth) o pentecoste; il primo giorno del Settimo Mese (Tishri), per ricordare l’entrata nella terra di Canaan; il Gioo dell’Espiazione (Yom Kippur); la festa delle Capanne (Sukkot), a ricordo delle abitazioni durante l’esodo, che si conclude con la festa della Gioia della Torah.
«In conseguenza della persecuzione islamica dei secoli passati – continua Kohen mentre mostra un grande plastico di frutta multicolore – i Samaritani costruiscono il sukkot in casa e non all’aperto come gli Ebrei. Comperiamo 3-400 chili di frutta della terra santa, la leghiamo a un graticcio di acciaio formando disegni fantasiosi e lo appendiamo al soffitto della stanza principale; l’ottavo giorno, la frutta è ridotta in succo per la delizia dei più piccoli, e non solo, per festeggiare la dolcezza della Torah».
Altri doveri del «buon samaritano» sono: vivere in terra d’Israele o almeno mantenervi la residenza; celebrare la pasqua sul monte Garizim; fare il pellegrinaggio al monte sacro tre volte l’anno (ultimo giorno degli Azimi, Pentecoste; primo giorno del Sukkot); osservare scrupolosamente le leggi della purità alimentare e del sabato. «In tale giorno – continua Kohen – non solo non facciamo alcun lavoro, ma non usiamo l’elettricità né rispondiamo al telefono, non usciamo di casa se non per andare a pregare nella sinagoga; tornati a casa leggiamo un capitolo della Torah».
PROBLEMI E LAMENTELE
«Siamo la popolazione più giovane al mondo – continua Kohen con un altro primato – ma abbiamo un grave problema: da oltre due secoli soffriamo la scarsità di spose, per cui i nostri uomini cercano donne di altre religioni. Attualmente un’ebrea, 5 cristiane provenienti da Russia e Ucraina, 3 musulmane da Turchia e Azerbaigian sono sposate con uomini samaritani di Kiryat Luza. Prima, però, sono state sottoposte a un periodo di prova, si sono convertite alla nostra religione e impegnate a osservarla».
Sono curioso di sapere come vengono combinati tali matrimoni. «Usiamo anche noi internet e facebook – risponde sorridendo -. Siamo molto religiosi, ma aperti al mondo moderno. I miei figli, due maschi e tre femmine, hanno studiato all’università: una giornalismo, un’altra economia e commercio, la terza informatica; un figlio gioca a pallacanestro».
Contro la sopravvivenza dei Samaritani congiurano anche altri problemi economici e sanitari. «La nostra gente ha spesso mal di testa» lamenta Husney Kohen. La causa è attribuita alle radiazioni elettromagnetiche emanate da 7 torri di comunicazione, costruite e gestite dal governo israeliano attorno al villaggio».
Da più di tre anni i Samaritani sopportano l’embargo al loro rinomato tahinia (crema di sesamo). «Il migliore al mondo» afferma Kohen. Israele ne impedisce l’esportazione per motivi di sicurezza, dicono; in pratica priva del lavoro una decina di famiglie».
Ma il problema più grave per il futuro dei Samaritani viene dalla situazione di guerra israelo-palestinese. I musulmani li considerano ebrei; gli ebrei li ritengono arabi; per questo si sentono spesso «tra l’incudine e il martello» e in passato hanno subito angherie da ambo le parti.
«Come abitanti di Kiryat Luza abbiamo la cittadinanza palestinese – spiega Kohen -; nella vita quotidiana parliamo l’arabo, ma il sabato e nelle feste usiamo l’antico ebraico e lo insegniamo ai nostri figli a scuola. In quanto credenti della Torah, abbiamo ricevuto la cittadinanza israeliana, come quelli della comunità di Holon, in territorio israeliano. Non siamo schierati da nessuna delle due parti. Anzi, molti di noi hanno la carta di identità palestinese, il passaporto israeliano e quello giordano, dato che fino al 1967 eravamo sotto il re della Giordania».
Con tale neutralità i Samaritani si propongono come intermediari tra Israele e Palestina; l’irrilevanza numerica favorisce la credibilità della loro mediazione, dal momento che non rivendicano alcun privilegio territoriale, ma solo la libertà di vivere secondo le proprie tradizioni. «Israeliani e palestinesi devono imparare dai Samaritani – conclude Kohen -. Anche noi vogliamo essere motivo di pace tra i due popoli. Senza pace sono a rischio Samaritani, Palestinesi e Israeliani. La guerra non serve a nessuno. Ma non può esserci pace senza riconoscere ai Palestinesi il diritto alla propria patria. Per questo noi lavoriamo e preghiamo. E anche ora prego Dio perché ci conceda la pace».
Che Dio lo ascolti.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi