Cubetti di zucchero

Racconto / in collaborazione con LINGUA MADRE

«Il valore delle cose
non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute.
Per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone
incomparabili». (Feando Pessoa)

 

Mia nonna matea Nura e suor Vilma trascorrevano insieme ogni
sabato mattina. Caffè, tante chiacchiere e un’infinità di sorrisi che, al
ricordo, scaldano la mia anima ancora oggi. Erano ciascuna la migliore amica
dell’altra ed è veramente difficile descrivere l’atmosfera che si creava quando
quelle due grandi donne stavano insieme nella stessa stanza. Accadeva come se
il senso di tutte le cose del mondo fosse concentrato proprio lì, nei 36 metri
quadrati dell’amato appartamento. E noi quattro, i miei genitori, mio fratello
e io, abitavamo lì in quegli anni, fino a quando l’azienda di mio padre non ci
assegnò un appartamento tutto nostro. Quelle mattine di sabato, dunque,
rappresentavano un vero e proprio rituale.

Ancora
prima dell’arrivo di suor Vilma, tutti, come per magia, scomparivano per
qualche commissione, a parte me che, essendo la più piccola, rimanevo avvolta
nel calore di quei momenti, quasi mi ritrovassi immersa nelle soffici nuvole
bianche illuminate dal sole, un sole che altro non era che l’aria che in quel
momento respiravo. Immancabilmente quell’aria si mescolava all’inconfondibile
profumo del caffè fatto «alla turca» che ha tutto un suo modo per essere
bevuto: prima si mette in bocca un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè
rigorosamente versato in una tazzina detta fildžan (si pronuncia «filgian»)
che non ha un manico ma è tonda e si avvolge con la mano in modo da percepire
il calore della bevanda. Subito dopo si prende un sorso di caffè che si mescola
con il cubetto di zucchero sciolto in bocca, ma molto lentamente, tra una
parola e l’altra, fino ad arrivare al fondo il quale, certamente, non è
intelligente bere. Ci si ferma sempre al momento giusto, è nel sangue del
popolo, non c’è che dire! E allora si riempie fildžan di nuovo e avanti
così.

Ogni
sabato mattina, quindi, suor Vilma, suora crornato-cattolica, veniva a trovare
mia nonna, atea di origini musulmane. E di che cosa queste due donne,
apparentemente così diverse nelle loro culture, potevano parlare ogni sabato?
Del come avevano trascorso la settimana, della moda (mia nonna era sarta) che
le ricche signore della città seguivano alla lettera, di catacombe (suor Vilma
aveva visitato il Vaticano ben tre volte), della poesia di un poeta che entrambe
amavano molto, del come si prepara un piatto tipico dell’Erzegovina… Sì, di
questo e di tanto altro, ma spesso non erano le tematiche ad attirare la mia
attenzione quanto l’armonia nella quale venivano trattate e la forma, di un
rispetto dalla dinamica straordinaria. Era musica per le mie orecchie. Come
incantata, mi ritrovavo a guardare i cubetti di zucchero scomparire dalla
ciotola piano piano, quasi il loro compito fosse quello di cadenzare il tempo. «Prendine
uno e inzuppalo nella mia tazzina», mia nonna richiamava la mia presenza a
tavola nella sua piccola cucina e io, seduta su una sedia con l’aiuto di un
cuscino, iniziavo allora a gustarmi quella delizia proibita.

Accadeva
poi che a volte si unisse a loro teta Vida (teta equivale a «zia»
ed è un modo tipico di rivolgersi a tutte le donne adulte conoscenti o amiche
di famiglia). Teta Vida, dunque, laica per eccellenza, era una signora
di origine serbo-ortodossa dall’eleganza ineguagliabile. Gonne plissé, a
scacchi neri e bianchi, giacchettine di velluto nero, guanti raffinati,
berrettini francesi e l’immancabile ombrello, a meno che non fosse estate. Il
tutto indossato con la grazia di una figura alta e snella illuminata da un
sorriso ammaliante che nei suoi occhi chiarissimi rifletteva la pace. E non
parliamo della sua vasca da bagno! Era più piccola di quella che aveva mia
nonna ma a forma di poltrona e quindi di gran lunga più comoda. Io la adoravo
ed era, infatti, teta Vida a fare sempre il bagno alla sua Nanà, come
lei mi chiamava. In poche parole, ero la sua prediletta. Abitava proprio
nell’appartamento di fronte, al primo piano di un palazzo dall’architettura
socialista che sorgeva nel cuore di Sarajevo. A pochi passi, il mondo intero:
la cattedrale cattolica, quella ortodossa, la moschea tra le più antiche della
città e la sinagoga. Insomma, una Gerusalemme in miniatura! Attorniate poi da
un’infinità di palazzi di tutte le epoche: turco-ottomana, austroungarica,
socialista.

Ma se
questo mondo io lo vedevo all’esterno, è dentro casa nostra che lo percepivo
nelle sue essenze. Sento ancora negli occhi i loro sorrisi, vedo ancora le
parole scorrere sulle loro labbra quando vengo distratta dal forte picchiare
sulla porta di un bastone. Eh sì, era teta Anita, una professoressa di
geografia in pensione, profondamente devota alla propria tradizione ebraica e
altrettanto incuriosita da tutte le altre. Un essere tanto ingombrante nella
propria fisionomia quanto delicato nel modo di parlare: «Queste sono un dono
raro, che non ti venga in mente di sfoltirle quando sarai grande!», mi diceva
sempre, accarezzando delicatamente le mie folte sopracciglia. Scesa dal quarto
piano dello stesso palazzo, questa alquanto insolita vicina di casa, a volte,
in segno di un saluto, picchiava sulla porta e se ne andava via, fuori, a farsi
la sua lenta passeggiata quotidiana. Ma se picchiava più di due volte, voleva
dire che anche lei era lì per un caffè e due parole. Ed ecco che mi ritrovavo
il mondo intero in casa nostra ogni sabato mattina.

Quattro
culture, o cinque o sei,  tra origini,
idee, convinzioni e pensieri. Insomma, una vera macedonia. E quale raro gusto
aveva questa macedonia, e tutta per me! Vita raccolta in quattro menti, anime e
cuori nella purezza di quell’umanesimo che incoronava la loro umanità. Tanta
semplicità vedo oggi in quei preziosi momenti, che è stata, in fondo, il vero
filo conduttore della loro esistenza. L’amicizia che scorreva in tutti quegli
anni tra i personaggi di questo racconto raffigura un’anima, l’unica anima di
un mondo che non c’è più. Quale magnifico folclore colorava l’aria e quanta
poeticità esprimevano quegli azzurri occhi di suor Vilma nel guardare mia nonna
con tanta stima e ammirazione. Due donne così apparentemente diverse, una sarta
e una suora. Ecco, mi fermerei a queste definizioni e null’altro conta. Si
erano conosciute all’ospedale di Sarajevo; una cuciva le lenzuola e l’altra
assisteva i malati, all’interno di un sistema guidato da un ideale politico che
nessuna delle due aveva mai abbracciato ma con il quale entrambe avevano convissuto
in pace e nel rispetto. Era come se viaggiassero su un binario parallelo, a un
ritmo tutto loro e a una velocità misurata. Puro teatro erano questi due
personaggi, e nasceva dal nulla.

Immaginatevi
la scena in cui mia nonna prende le misure per il suo abito da religiosa mentre
le dà notizie dei suoi generi, uno italiano e l’altro un comunista di origine
serba, nonché mio padre. Le Nozze di Figaro nasce da un’idea simile:
inizia con una scena in cui Figaro misura la stanza per vedere se dentro ci può
stare un letto nuziale, capite? E quanto parlare di una figlia così lontana e
di un’altra in casa ma così criptica, mentre nel frattempo suor Vilma cercava
di capire il modo migliore per tenere su il suo copricapo ingombrante. Ma
allora, dico io, ho vissuto su un palcoscenico per diciotto anni e mia nonna e
suor Vilma ne sono testimoni? Quale strepitosa pièce teatrale è mai
questa? È forse vero che quando il teatro diventa la nostra casa, esso diventa
anche la nostra realtà? E se questa era la mia realtà, allora la mia vita non è
stata che una commedia, un dramma, un dialogo oppure un monologo?

Se ci
penso, in ognuno di questi modi oggi potrebbe definirsi quello che è stata
l’ormai dimenticata Jugoslavia. Quanto alla Bosnia Erzegovina, non è che una
parte del puzzle di un racconto irraccontabile. Sarajevo ne è un pezzo. Nura e
Vilma, invece, un prezioso dipinto all’interno di quel pezzo del puzzle mentre
quei momenti, in cui mi immergevo come nelle più accoglienti delle acque, sono
oggi per me il viaggio eterno. Mi giro e rivedo tutto, ascolto e sento tutto,
annuso e percepisco ogni profumo, odore, l’aria di un mondo che si è sciolto
come un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè lasciandomi l’inestimabile
ricordo del suo gusto. Custode di attimi, vado avanti nel silenzio che possiamo
sentire soltanto camminando nella notte, lungo le strade coperte di neve di una
città che accoglie ogni fiocco, gentile e discreta. Ah, che freddo generoso di
vita sulle guance. E che pace la neve mentre cade armoniosa come il sipario che
si chiude con grazia.

Sabina Gardovic
In collaborazione con


Il
concorso letterario nazionale Lingua
Madre, ideato da Daniela Finocchi,
giornalista da sempre interessata ai temi inerenti il pensiero femminile, nasce
nel 2005 e trova subito l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e
del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente dedicato alle
donne straniere – anche di seconda o terza generazione – residenti in Italia
che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè l’italiano), vogliono
approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo «altro». Una sezione
speciale è riservata alle donne italiane che vogliano raccontare storie di
donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e che hanno saputo
trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità per dar voce
a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che
nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due volte.
Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette ma
incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso l’uso
della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Per
gentile concessione del Concorso letterario nazionale  Lingua
Madre pubblichiamo il racconto di: Sabina Gardovic, Cubetti di
zucchero,  dal
libro «Lingua Madre Duemilaquattordici – Racconti di donne straniere in Italia»,  Edizioni SEB27. Il racconto di Sabina
Gardovic è stato selezionato al IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

tags: racconto, Boia Erzegovina, amicizia, dialogo, folclore

Sabina Gardovic




La Sacra Sindone 

Note di filatelia religiosa.

Dal 19 aprile al 24 giugno
2015 si svolgerà nella cattedrale torinese una nuova Ostensione della Sindone,
in concomitanza con i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di san
Giovanni Bosco, eventi che hanno convinto Papa Francesco a venire in
pellegrinaggio a Torino.


La Sindone è il sacro lino in cui, secondo la tradizione evangelica,
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il Corpo di Cristo morto, cosparso di
una mistura di mirra e aloe. è
una tela di lino spigato (tessuta cioè a spina di pesce) di m 4,36 di lunghezza
ed 1,10 di larghezza. Il colore, originariamente bianco, risulta ingiallito dal
tempo e dall’incendio subito nel 1532 a Chambery, che provocò 12 buchi nella
tela, in parte rattoppati dalle suore Clarisse di quella città. Le bruciatu­ re
di Chambery formano due linee parallele che «inquadrano» per così dire la
doppia impronta di un corpo umano di circa 1,80 m su cui si scorgono segni che
corrispondo in modo impressionante a quelli che avrebbe avuto il corpo di Gesù
come conseguenza della sua passione e morte descritta dai Vangeli.

La Sindone è stata finora conservata arrotolata in una
cassa d’argento cesellata lunga un metro e mezzo, larga e alta circa 38 cm. Su
questa cassa argentea sono raffigurati, fra l’altro, gli strumenti della
passione.

La storia della Sindone risulta documentata in Occidente
solo a partire dal XIV secolo. Le notizie precedenti non sono molte, ma servono
a testimoniare il passaggio del Sacro Lenzuolo da Oriente a Occidente, ponendo
come punti di riferimento forse la città di Edessa (dal VI al X secolo) e
quella di Costantinopoli almeno fino al XIII secolo (da cui sarebbe stata
trafugata dai crociati).

La storia della reliquia subisce poi un oblio di circa
150 anni, che per ora non si è riusciti a colmare essenzialmente per mancanza
di documenti. Comunque nel 1353 la troviamo presso i canonici di Lirey, a cui
fu consegnata da Goffredo I di Chay. Costui probabilmente ne era entrato in
possesso per successione ereditaria.

Nel 1453 il Lenzuolo sacro venne ceduto a Ludovico di
Savoia, cadetto di Amedeo VIII da parte di Margherita di Chay, vedova di
Umberto di Villersexel nella città di Ginevra. Da quel momento appartenne ai
Savoia fino al 1983, quando fu donata dall’ex re d’Italia, per volontà
testamentaria, alla Santa Sede, e lasciata a Torino per volontà papale.

La Sindone rimase nella cappella di Chambery fino al
1578, tranne nei brevi periodi in cui fu al seguito dei Savoia in Francia, in
Piemonte e in Lombardia. Emanuele Filiberto in quell’anno trasportò la reliquia
a Torino allo scopo dichiarato di ab­ breviare il pellegrinaggio al sacro lino
da parte di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (pellegrinaggio che
l’arcivescovo rinnovò altre tre volte negli anni 1581, 1582 e 1584), ma in
realtà in un ben più vasto quadro di riforme che videro Torino divenire la
capitale sabauda.

La Sindone rimase a Torino prima nella chiesa di San
Francesco, poi a Palazzo Reale ed infine in Duomo. In seguito al rogo della
cappella del Guarini dell’11 aprile 1997 fu trasferita al sicuro, forse in un
monastero della collina torinese, per tornare in Duomo in occasione
dell’Ostensione del 1998.

 
Prima fotografia della Santa Sindone

L’interesse per la Sindone si accentuò quando fu
scattata la prima fotografia in occasione dell’Esposizione Generale d’Arte
Sacra del 1898 da Secondo Pia. Già molto prima di questa data si sapeva che
l’immagine sindonica non era dipinta, a differenza delle numerose copie
circolanti in Europa a partire dal Medio Evo, utilizzate nelle chiese per la
rappresentazione dei misteri pasquali.

La riproduzione fotografica, con sorpresa di tutti,
dimostrò come l’impronta del lenzuolo fosse un negativo. Da quel momento in poi
gli studi sulla Sindone divennero sempre più frequenti fino a portare negli
anni cinquanta a una vera e propria branca della scienza: la sindonologia.

Le analisi più recenti, eseguite dopo l’Ostensione del
1978, hanno rimesso in discussione la datazione della reliquia, ma non sono
tuttavia riuscite a dare delle risposte pienamente convincenti al problema. In
ogni caso rimane fatto indubitabile che i segni presenti sulla Sindone
coincidono con la descrizione della passione dei Vangeli.

Il Beato Giuseppe Allamano come canonico della
cattedrale ebbe il privilegio di portare sulle spalle la cassa in occasione
della Ostensione iniziata il 25 maggio 1898, celebrata per ricordare parecchi
centenari, tra cui il XV centenario del Concilio di Torino (San Massimo 398), e
durante la quale fu scattata la celebre foto da parte dell’avvocato Secondo
Pia, che rivoluzionò la sindonologia. Nel 1901 inviò in omaggio al vicario
apostolico dei Galla in Etiopia, un «artistico vetro della SS. Sindone»; stesso
dono inviò al superiore dei Lazzaristi a Roma; ripetutamente parlava della
Sindone ai Missionarie e alle Missionarie della Consolata.

Angelo Siro
Gruppo Filatelia
Religiosa «Don Pietro Ceresa», Torino-Valdocco www.filateliareligiosa.it

Angelo Siro




Lo scandalo della prescrizione

Toiamo a parlare di
corruzione e dei danni che produce. Pur registrando livelli da primato, nelle
carceri italiane ci sono soltanto una decina di persone (su 54 mila!) detenute
per quel reato. Colpa anche della prescrizione che, da norma di garanzia, si è
trasformata in una scappatornia legale per imputati eccellenti e colletti
bianchi. Le soluzioni ci sarebbero, ma troppo spesso manca la volontà politica.
Così, a 25 anni dall’uscita di «Educare alla legalità», in Italia la situazione
è addirittura peggiorata.

Papa Francesco ha fatto riferimento al tema della
corruzione, dal giorno della sua elezione a Pontefice, in moltissime occasioni,
in particolare nella Evangelii gaudium.
Parole dure egli le ha pronunziate anche in occasione dell’incontro con la
delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre
2014). Secondo il Papa la corruzione, come gravità, viene subito dopo la tratta
delle persone. È un male più grande del peccato e, più che perdonato, va
curato. È diventata «una pratica abituale nelle transazioni commerciali e
finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti
dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà». Quanto alla sanzione
penale, essa «è come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i
grandi liberi nel mare». Meritano maggiore severità le forme di corruzione «che
causano gravi danni in materia economica e sociale». Per esempio, «le gravi
frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione»; ovvero «qualsiasi sorta di ostacolo frapposto
al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per
le proprie malefatte o per quelle di terzi».

Di
corruzione, purtroppo, ce n’è un po’ dovunque, ma in Italia – almeno rispetto
gli altri paesi europei – di più, se è vero che da noi si registra una
corruzione pari al 50% di quella dell’intera Comunità. Le parole del Papa,
dunque, ci interpellano in modo speciale.

 La prima considerazione da fare è che la
corruzione (nonostante le tante inchieste, da «Tangentopoli» in poi) sembra
riprodursi all’infinito. C’è quindi prima di tutto un problema di regole, di
leggi che riescano a rendere la corruzione non conveniente. Questo problema
investe l’adeguamento delle pene (non solo carcerarie; anche e soprattutto  interdittive, quelle in ultima analisi ancor
più temute e  quindi assai efficaci).
Nonché la definizione delle fattispecie, che una recente riforma (attesa per
oltre vent’anni e tradottasi nella cosiddetta «legge Severino») ha finito per
confondere e annacquare, costringendoci a mettere in cantiere una nuova
riforma. Ma ancor più gravi e urgenti sono i problemi connessi alla certezza
della pena. Se i tempi del processo sono biblici e la prescrizione quasi sempre
inghiotte tutto e lo azzera, o si interviene
efficacemente su questo versante o si continua a ballare sul Titanic.
Per salvarsi bisogna avere coraggio: interrompere la prescrizione quanto meno
con la condanna di primo grado, come accade ovunque nel mondo salvo che da noi
(ed ecco perché i processi non finiscono mai…), e abolire il grado di appello,
che di fatto non c’è nei sistemi accusatori cui anche noi ci siamo allineati
col nuovo codice di procedura penale del 1988.

Occorre
poi prendere atto che la corruzione in Italia non è riconducibile a un circolo
delimitato per quanto esteso, ma  è
sempre più un vero e proprio «sistema», che mette in crisi l’intero apparato
economico-sociale del paese. Per poter fotografare questa realtà, la legge
anticorruzione deve allo stesso tempo essere inserita in un sistema di misure e
interventi che la supportino. Per cominciare vanno incentivate le denunzie
delle situazioni illecite. La corruzione è un fenomeno occulto, e il controllo
più efficace è quello interno (nell’ambito pubblico e privato), per cui sono
indispensabili misure  protettive e
premiali per i collaboratori di giustizia. Va inoltre disciplinato l’impiego di
«agenti provocatori» come fonte di prova. Nello stesso tempo anche il nostro
paese deve dotarsi di forme di difesa tipo Whistleblower
(letteralmente «suonatori di fischietto»), ovvero le vedette civiche che con le
loro segnalazioni possono smascherare comportamenti illeciti. Ovviamente tutto
ciò deve viaggiare di pari passo con un monitoraggio e un potenziamento degli
istituti ispettivi che puntino a uno Stato con mura di vetro e porte blindate,
attraverso la trasparenza integrale della pubblica amministrazione (specie in
punto svolgimento ed esiti di gare e concorsi; dati sull’uso delle risorse;
bilanci). Utili possono essere appositi test di integrità per politici,
amministratori e funzionari. Confisca dei beni e reimpiego per fini sociali
vanno estesi dalla mafia alla corruzione. Per la loro decisiva funzione di
reati civetta vanno perseguiti – con efficacia e non per finta – il falso in
bilancio, l’evasione fiscale, vari reati societari e l’autoriciclaggio
(quest’ultimo dopo una lunga attesa segnata da veti contrapposti, alla fine
vietato e punito, ma con la ambigua esclusione del reimpiego del denaro sporco
per… godimento personale).

 

Va da sé infine che la battaglia va combattuta con
determinazione, senza che gli ammonimenti
del Pontefice restino isolati o peggio senza seguito concreto. Come
invece sembra purtroppo essere accaduto per la nota pastorale della Commissione
ecclesiale della Cei «Giustizia e pace» del 4 ottobre 1991 intitolata Educare
alla legalità, che denunziava come inquietante «la nuova
criminalità così detta dei “colletti
bianchi”, che volge ad illecito profitto la funzione di autorità di cui è
investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza
collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a
interessi di parte». Parole energiche e di straordinario valore, ma presto
dimenticate: forse perché non vi è stata quella «mobilitazione delle coscienze»
che i vescovi di allora segnalavano come assolutamente necessaria, e che ancora
oggi è conditio sine qua non per
sperare di  frenare e ridurre i fenomeni
illegali. Perché «non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo
disimpegno ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma
spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si
potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo
criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio”
politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità».
Peccato che queste parole del 1991 sembrano essere state  come cenere al vento, tanto da poter essere
ripetute pari pari ancora oggi. La speranza è che gli interventi di papa
Francesco riescano finalmente a trasformare le buone intenzioni in vere
attitudini cristiane.

Gian Carlo?Caselli

Gian Carlo Caselli




Le donne in prima fila

Diritto al cibo:Le donne, in
qualsiasi parte del mondo, sono le nutrici dell’umanità. Hanno il senso del
bene comune e del futuro. Nelle aree povere sono il primo argine contro la
fame. Nei paesi ricchi sono abili contro gli sprechi. Anche all’Expò se ne
parlerà.

Una delle tante contraddizioni che segnano il
nostro mondo riguarda la relazione tra popolazione femminile e alimentazione.
Ovunque le donne coltivano, cucinano, somministrano il cibo, ma sono proprio
loro, assieme ai bambini, che più soffrono di fame e malnutrizione.

La condizione di povertà, subalteità economica,
emarginazione sociale e, talvolta, di sfruttamento in cui vivono milioni di
donne si riflette sul loro stato nutrizionale. Le bambine che vivono nelle aree
rurali povere, vengono nutrite di meno rispetto ai loro coetanei maschi, anche
se sono loro che aiutano le madri a preparare il cibo e a procurare l’acqua che
serve a dissetare la famiglia.

Gli studi dell’Ifad (il Fondo internazionale per lo
sviluppo agricolo delle Nazioni unite) dimostrano che negli ultimi venti anni
la partecipazione delle donne al lavoro agricolo – anche a causa dei conflitti
e delle migrazioni maschili – è aumentata di un terzo.

In
Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne che producono
l’80% del cibo per auto consumo, ma non hanno titoli di proprietà, né hanno
accesso al credito e alla formazione.

Combattere la fame, assicurare il diritto universale a
un’alimentazione sana e sufficiente passa dal superamento della disuguaglianza
di genere.

Queste sono le ragioni per cui l’Expò di Milano,
che si intitola «Nutrire il pianeta, energia per la vita», intende riconoscere
un particolare rilievo al nesso tra donne e nutrizione.

Il
tema sarà trasversale ai vari eventi e momenti: se ne occuperanno le
organizzazioni della società civile, presenti nel padiglione Cascina Triulza.
Verrà affrontato dalle istituzioni inteazionali, in particolare dalle agenzie
dell’Onu dedicate. Verrà incluso nelle iniziative promosse dai governi, in
primis quello italiano. Allo scopo il ministero degli Affari esteri (Mae) ha
lanciato, già nel 2013 a Torino, We Expo (Women for Expo), un progetto
che mira a tenere accesi i riflettori sulla condizione femminile, arricchendo
il dibattito, ma anche avanzando proposte che possano essere tradotte in azioni
concrete. In un documento del Mae si legge: «chiediamo di rafforzare il potere
delle donne in agricoltura, attraverso l’impiego di tecnologie che rendano meno
usurante il lavoro, assicurando loro pari accesso alla proprietà della terra,
al credito, alla formazione e ai servizi nelle aree rurali, nel caso di lavoro
salariato garantendo loro le stesse paghe degli uomini, applicando norme e
tutele che le proteggano dalla violenza e dallo sfruttamento, garantendo la
loro educazione sia primaria che professionale».

We Expo si propone come uno strumento culturale che
interpella decine di donne chiedendo loro di raccontare un piatto o un alimento
che ha un particolare valore; così donne di paesi, culture, professione, età
diverse stanno mobilitandosi attorno alle grandi questioni al centro
dell’agenda di Milano, attraverso un loro personale racconto di vita. Tra di esse alcune famose come Shirin Ebadi,
l’avvocata iraniana Nobel per la Pace e Vandana Shiva, l’ambientalista indiana
che si oppone alle multinazionali dell’agro industria, la scrittrice Simonetta
Agnello Hoby e l’attrice Lella Costa.

Tutte
si esprimono sul nutrimento, non solo del corpo, ma anche della libertà e della
mente, dimostrando come la sostenibilità del pianeta passi attraverso lo
sguardo, l’intelligenza e le mani delle donne.

Le donne possono realizzare un modo diverso di produrre
e distribuire il cibo, perché fa parte della loro natura considerare il cibo
non tanto una merce o un prodotto, quanto la fonte della vita, per questo se ne
preoccupano in prima persona. Indipendentemente dalla loro estrazione sociale,
culturale, religiosa, le donne sono nutrici, foiscono il cibo alle persone
che vivono loro accanto. Hanno il senso del bene comune e del futuro, sanno
che, per poter continuare a vivere, bisogna aver cura degli altri: dei propri
famigliari, ma anche della comunità, del territorio, delle risorse naturali,
delle generazioni future.

Nelle
aree povere del mondo, dove il cibo scarseggia, l’azione delle donne è il primo
argine, il vero baluardo contro la fame dei più deboli, per questo dovrebbero
essere loro le prime destinatarie degli aiuti.

Nei
paesi ricchi, le donne possono essere le abili avversarie degli sprechi
alimentari, ingiustificati e inaccettabili: in un mondo dove 800 milioni di
persone soffrono di fame cronica un terzo di tutto il cibo, circa 1,3 miliardi
di tonnellate l’anno, viene sprecato o va perso.

Tags: Donne, lavoro, alimentazione, cibo

Sabina Siniscalchi




2015: verso i nuovi obiettivi del millennio

Gli obiettivi per lo
sviluppo sono in scadenza. In 14 anni hanno tenuto alta l’attenzione su temi
cruciali. Alcuni indicatori sono pure migliorati. Ma non basta. Occorre
mantenere viva l’attenzione collettiva e attivare le coscienze.

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Il 2015 sarà un anno cruciale perché forse, il punto di domanda è d’obbligo in una situazione mondiale tanto turbolenta e densa di incertezze, le Nazioni Unite toeranno a essere un luogo dove ragionare e decidere sui veri problemi del mondo. L’occasione sarà data dalla nuova Agenda per lo sviluppo che i governi dovranno discutere e approvare dopo la scadenza degli Obiettivi del Millennio.

Come molti ricordano, gli Obiettivi sono stati individuati nell’Assemblea generale del 2000, quando la tragedia delle torri gemelle non si era ancora compiuta e l’Onu era considerata, dopo il crollo dell’impero comunista e la fine del bipolarismo, un luogo di rappresentanza e di negoziato in grado di dare una risposta ai bisogni vecchi e nuovi dell’umanità.

L’allora Segretario generale Kofi Annan aveva chiesto ai governi di passare dalle parole ai fatti individuando, tra i molti documenti dei summit per lo sviluppo celebrati nel decennio precedente, otto obiettivi concreti, chiari, misurabili, da raggiungere entro una scadenza prestabilita: il 2015 appunto.

Nel 2002, non appena si sono smorzati gli echi della tragedia dell’11 settembre che in quel periodo aveva completamente catalizzato l’attenzione e occupato l’agenda politica, Annan ha cercato l’avallo e il sostegno dell’opinione pubblica, chiamando i cittadini alla mobilitazione. Così migliaia di organizzazioni, Ong, sindacati, gruppi giovanili, scuole, amministrazioni locali e, per il loro tramite, milioni di uomini, donne e ragazzi hanno manifestato, sottoscritto petizioni, promosso iniziative di pressione a favore degli Obiettivi.

Tutti i paesi, dai più poveri ai più ricchi, sono stati attraversati da questo fermento: possiamo considerare quella sui Millennium Goals, la più grande campagna di opinione mai realizzata. All’iniziativa intitolata «Stand Up» (alzati in piedi contro la povertà), organizzata una volta all’anno, hanno partecipato milioni di persone (si calcola che nel 2009 siano stati 44 milioni).

Oltre a essere diventati il principale quadro di riferimento per politiche e programmi di cooperazione, gli Obiettivi sono stati il primo tentativo di riassumere in un documento unitario le molteplici componenti dello sviluppo umano, coniugando istruzione e salute, tutela dell’ambiente e parità di genere, trasferimento delle tecnologie e commercio internazionale.

Ben prima della crisi economica, la campagna ha evidenziato il carattere globale dei problemi: la povertà e la fame non riguardano solo i paesi del Sud del mondo, ma richiedono uno sforzo congiunto, le pandemie come l’Aids, la tubercolosi o le altre malattie contagiose non si fermano alle frontiere, ma possono colpire gli abitanti del mondo intero; l’emergenza climatica e l’esaurimento delle fonti energetiche non minacciano solo i paesi industrializzati, ma accrescono le difficoltà economiche dei paesi produttori di materie prime.

Nonostante la drammatica battuta d’arresto negli sforzi per combattere fame e povertà causata dalla crisi economica del 2008, gli Obiettivi del Millennio hanno prodotto effetti positivi. Secondo l’ultimo rapporto Onu di verifica, mezzo miliardo di persone è uscito dalla povertà assoluta, l’88% dei bambini e delle bambine viene oggi iscritto alla scuola primaria, con tassi di incremento del 15% in Africa e dell’11% in Asia. Il tasso di frequenza scolastica delle bambine nei paesi emergenti è salito dal 60% al 79%; 4 bambini su 5 vengono vaccinati, anche se il totale dei bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno di malaria e altre malattie curabili è di 9 milioni; le morti delle partorienti sono diminuite del 47% anche se sono ancora 287mila ogni anno, e di queste 50mila hanno meno di 19 anni. Grazie alla prevenzione e ai farmaci antiretrovirali, diminuisce il numero delle persone che contraggono il virus Hiv e muoiono di Aids, mentre i morti per la malaria sono diminuiti di un quarto.

Questi passi avanti sono il risultato dell’azione combinata di crescita economica, politiche governative, impegno della società civile e sforzo globale in favore degli Obiettivi del Millennio, dimostrando che, se gli obiettivi sono condivisi e si mettono in campo le risorse necessarie, i risultati arrivano.

Nel 2015 gli Obiettivi scadono e si rischia un vuoto di iniziativa. Per questo le Nazioni Unite hanno promosso il processo Beyond2015 (oltre il 2015), individuando i 12 Nuovi Obiettivi, a cui vale la pena di riservare la nostra attenzione nei prossimi mesi.

Sabina Siniscalchi
Tagks: obiettivi 2015, millennio, sviluppo, povertà
Sabina Siniscalchi




Finanza etica: È possibile?

Papa Francesco denuncia l’economia che fa aumentare le
disuguaglianze. Il mercato che si sostituisce allo stato. Il trionfo
dell’individualismo. La crisi dovrebbe modificare il concetto di sviluppo. E la
finanza etica acquista terreno.

Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione
abbiano dato così poco risalto all’esortazione apostolica di Papa Francesco «Evangelii
Gaudium
». Essa contiene, infatti, una lucida denuncia del sistema economico
contemporaneo, alquanto indigesta per chi da questo sistema è blandito e
foraggiato.

Papa
Francesco esorta i cristiani a rifiutare l’economia che accresce le
disuguaglianze, che sfrutta l’essere umano invece di servirlo, che provoca
sofferenze: «L’economia che uccide».

Ci
sollecita a non credere alle teorie che presuppongono una crescita economica,
favorita dal libero mercato, capace di produrre di per sé una maggiore equità e
inclusione sociale nel mondo.

«Questa
opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia
grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e
nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante».

Negli
ultimi venti anni, chiunque abbia osato mettere in discussione le teorie che
hanno orientato la globalizzazione economica è stato oggetto di accuse spesso
deliranti, persino da parte degli stessi che oggi si stracciano le vesti di
fronte alla crisi finanziaria: siete contrari al progresso, nostalgici del
comunismo, partigiani del pauperismo.

Intanto,
ovunque nel mondo ha preso piede una sorta di nuova ideologia secondo la quale
il mercato può sostituirsi allo stato, il fisco è una rapina, i servizi
pubblici vanno smantellati, la ricchezza non deve avere obblighi, il lavoro
umano è solo un costo e la finanza va svincolata da ogni controllo.

Un
modo di pensare che non ha riguardato solo l’economia, ma è penetrato nella
mente e nel cuore delle persone, producendo quel pericoloso individualismo che
scandalizza oggi Papa Francesco e che causa tanto dolore.

Sono
stati minati i valori che, se ci si pensa bene, hanno favorito lo sviluppo
delle economie in Europa: la percezione dell’interesse collettivo, il senso del
bene comune, il concetto di mutualismo.

Con la crisi queste deleterie convinzioni hanno
cominciato a vacillare e da più parti oggi viene invocata una nuova visione
dello sviluppo, un nuovo pensiero economico.

Si
dimentica, tuttavia, che alcuni questo pensiero lo custodiscono da tempo, senza
farsi scoraggiare dalla supponenza dominante, ma avendo la tenacia di
coltivarlo e incarnarlo in pratiche economiche generatrici di sviluppo sociale,
occupazione, tutela dei territori, valorizzazione delle persone e delle comunità.

Parliamo
delle iniziative messe in campo dalla finanza etica, che non solo operano bene,
ma sono anche solide.

Da poco è stata pubblicata una ricerca, commissionata
dalla Gabv (Global Alliance for banking of values) che dimostra come le
banche eticamente orientate sono più robuste dal punto di vista delle riserve
patrimoniali e, in proporzione al bilancio, prestano più denaro.

Queste banche, presenti in vari paesi (dalla Triodos
olandese al Banco Sol in Bolivia, dal Credit Cooperatif francese
alla Banca Popolare Etica in Italia) hanno fatto quasi il doppio dei crediti
rispetto alle banche tradizionali: il 75,9% contro il 40,1%.

L’indagine mette a confronto le banche della Gabv
con quelle associate al Gsif, Global Systemically Important Financial
Istitutions
, cioè i 28 principali istituti censiti dal Financial
Stability Board
, tra i quali Bank of America, Bank of China,
Unicredit.

Negli
anni della crisi, mentre le banche tradizionali hanno diminuito il credito
erogato mediamente del 2% (il cosiddetto credit crunch), le banche
etiche lo hanno aumentato di circa il 3%.

Queste
ultime hanno anche una raccolta molto più solida e mantengono un miglior
livello di capitalizzazione, addirittura sono migliori anche sotto il profilo
della redditività del capitale investito che risulta dello 0,53%, più elevata
di quella delle grandi banche (0,37%).

Le
ragioni del loro successo, spiega Peter Blom direttore della Gabv vanno
ricercate in un comportamento più
rigoroso, che non cerca il profitto a ogni costo, non fa scelte spericolate e,
soprattutto, non scarica sullo stato e sui risparmiatori i misfatti dei
manager.

Le
banche etiche sono premiate da una clientela che mette al centro delle proprie
scelte economiche il rispetto delle persone e dell’ambiente, insomma sono
banche nelle quali oggi si può riporre la propria fiducia.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Armi: commercio trasparente?

Ad aprile l’Onu ha approvato il trattato
sul commercio delle armi. Gli stati dovranno dichiarare la destinazione delle
armi prodotte. Ma l’accordo entrerà in vigore solo con la ratifica di 50 paesi.

Sembra
paradossale, ma un effetto positivo la crisi lo ha avuto: le spese mondiali per
armamenti nel 2012 sono diminuite dello 0,5%. È la prima volta in dieci anni.
Le nuove guerre del terzo millennio, che si sono sommate a quelle vecchie, e la
lotta al terrorismo hanno fatto crescere smisuratamente gli investimenti in
armi che oggi superano i livelli del periodo della guerra fredda: nel 2012 sono
stati spesi 1.750 miliardi di dollari, il 2% per prodotto mondiale lordo. La
diminuzione rispetto all’anno precedente è dovuta alla contrazione della spesa
nei paesi occidentali colpiti dalla crisi, in compenso hanno speso di più le
nuove potenze economiche: la Cina registra un 8% in più, la Russia ben il 16%.
Insomma non si tratta di un’inversione di tendenza, il pianeta continua a
essere super armato e il commercio delle armi fiorente, al primo posto nella
classifica degli esportatori rimangono gli Stati Uniti, in contrasto con le
crociate di Obama contro le troppe armi in casa propria, poi la Russia e più
distanti Germania e Francia, l’Italia non sfigura piazzandosi all’ottavo posto.
I migliori clienti sono in Asia: India, Cina, Pakistan, Corea, ma anche i paesi
del Nord Africa hanno aumentato le importazioni.

Questo è il commercio, per così dire, legale, in cui le
transazioni sono registrate dai governi, poi c’è quello clandestino che
alimenta i conflitti più spaventosi, come quello della Siria, 200 mila vittime
e un milione e mezzo di rifugiati.

In Italia, timida e inascoltata dalla politica, si è
alzata la voce dei movimenti pacifisti contro gli F-35 che non
solo costano al bilancio della stato decine di miliardi, che investiti
diversamente potrebbero far ripartire l’economia e l’occupazione, ma sono
mostri attrezzati per trasportare armi nucleari telecomandate. Nel nostro paese
mancano le risorse per la ricerca contro le malattie e le varie associazioni, come
l’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) devono contare sulla
generosità dei cittadini, eppure l’industria italiana degli armamenti continua
a disporre, anche grazie ai finanziamenti pubblici, di sostanziosi mezzi per lo
sviluppo tecnologico.

In
questo scenario desolante, lo scorso aprile si è aperto uno spiraglio: dopo
sette anni di complicate mediazioni, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha
approvato a larga maggioranza il Trattato internazionale sul commercio delle
armi
. Scopo dell’accordo non è quello di bloccare l’import e l’export di
armamenti convenzionali: dai carri armati alle pistole, dagli aerei da guerra
ai sistemi di artiglieria, piuttosto di porvi dei limiti, scoraggiando la
vendita a paesi sotto embargo, come la Siria o l’Iraq, o a paesi responsabili
di gravi violazioni dei diritti umani, come l’ Uzbekistan o il Congo
Rd.

Il governo degli Stati Uniti che, pressato dalle lobby
dell’industria bellica, ha contribuito alla lungaggine delle trattative, ha
dichiarato che si tratta di un accordo storico perché contribuirà a «ridurre la
violenza nel mondo». Gli Stati continueranno legittimamente a produrre ed
esportare armi, ma dovranno dichiarare dove sono destinate, evitando che
vengano utilizzate da paesi e gruppi colpevoli di genocidi, crimini contro
l’umanità o atti di terrorismo. Amnesty Inteational, che avrebbe sperato in
un trattato vincolante che prevedesse divieti e sanzioni, ha dichiarato: «Non è
l’accordo che avevamo sperato, ma è un effettivo passo avanti, in quanto
obbliga tutti gli stati ad una maggiore trasparenza»

L’opinione pubblica potrà sapere e intervenire, questo è
l’aspetto più importante dell’accordo che, occorre ricordarlo, entrerà in
vigore solo quando almeno 50 paesi l’avranno ratificato. Sotto questo profilo
l’Italia può fare da scuola, infatti, grazie alla pressione di Ong e Istituti
missionari e all’impegno di molti parlamentari, già nel 1997 ha adottato la legge
n. 185/97 che pone vincoli precisi all’export italiano, obbligando tra l’altro
le banche a segnalare le transazioni che effettuano nel settore, inclusi gli
importi finanziari e i paesi destinatari.

Gli istituti di credito hanno espresso a più riprese la
loro protesta, anche con qualche ragione (l’obbligo riguarda solo le banche
italiane), ma le più attente alla propria reputazione hanno capito che è
controproducente fare affari sulla morte e sulle stragi e si sono dotate di policy
per regolamentare il proprio intervento nel settore delle armi.

Un grande aiuto è venuto dal professor Umberto Veronesi
che, insofferente allo squilibrio tra spese per la difesa e per la ricerca
scientifica, ha dato vita da due anni a questa parte a un tavolo di confronto
tra banche e società civile che ha portato all’adozione di un codice di
condotta condiviso.

Sabina Siniscalchi




Sempre più divisi

Mentre a Davos si celebra l’incontro dei
potenti, le disuguaglianze nel mondo crescono. E questo fatto indebolisce le
democrazie. Ma c’è chi propone soluzioni.
E i ricchi fanno orecchie da mercante.

All’inizio
del 2013, sulle montagne immacolate della Svizzera, si è celebrato ancora una
volta l’appuntamento di Davos. Lo strano convegno di oltre duemila tra capi di
stato, accademici, manager, giornalisti, invitati da una fondazione
privata, non viene scalfito né dal tempo (siamo alla 26esima edizione), né
dalla protesta dei no global (sempre meno clamorosa), né dalla crisi
finanziaria.

Il World Economic Forum (Wef) si riunisce per
migliorare il mondo: «improving the state of the world». Che non serva a
nulla è evidente, visto che il mondo, con tutti i suoi disastri, non cambia; ma
bisogna riconoscere che è uno dei rari momenti in cui i mezzi di informazione
trattano di temi globali, cosa che non succede, purtroppo, quando si tengono le
conferenze dell’Onu. Certo i partecipanti al Forum sono meno ingessati dal
cerimoniale, l’agenda è meno formale, insomma l’evento ha più colore, ma la
vera spiegazione è che a Davos si ritrovano i veri potenti, quelli che
detengono il controllo della finanza, dei mercati e della politica. E il potere
esercita una grande attrazione sui media.

Chi cerca di intrufolarsi, nel tentativo assai difficile
di far valere le proprie tesi, sono le Ong, da quelle ambientaliste come Greenpeace
a quelle che lottano contro la fame come Oxfam. Proprio a quest’ultima
va dato il merito di aver proposto a Davos un tema fastidioso: l’insostenibilità
della ricchezza smodata che va di pari passo con il crescente divario tra
ricchi e poveri.

In occasione del Wef, Oxfam ha presentato un
documento dal titolo «Il costo dell’ineguaglianza: come la ricchezza estrema ci
fa male».

Negli ultimi trent’anni – sostiene Oxfam –  la disuguaglianza si è drammaticamente
accentuata in quasi tutti i paesi del mondo e il reddito di alcuni ha toccato
vette mai viste prima. In Cina il 10% della popolazione possiede oggi il 60%
del reddito, lo stesso accade in Sudafrica.

La
globalizzazione con il suo mito del trickle down, lo sgocciolamento
della ricchezza fino agli strati più bassi delle società, non ha funzionato. La
crescita economica non ha portato migliori condizioni di vita per tutti, ma
l’abbondanza esagerata per pochi. Il mercato dei beni lussuosi raddoppia ogni
anno e anche dopo la crisi, la domanda di yacht, macchine sportive, champagne,
giornielli non ha subito rallentamenti. Ma l’espansione dei consumi di lusso non è
sufficiente a far ripartire l’economia, la concentrazione del potere di
acquisto in poche mani è, dunque, inefficiente dal punto di vista economico.

Anche il problema della povertà non può essere risolto
da una ricchezza così mal distribuita: in Sudafrica, dove il tasso di crescita annuo
del Pil supera il 3%, un milione di persone verranno spinte sotto la soglia
della povertà nei prossimi 5 anni, a meno che il governo non prenda
provvedimenti.

Le società ineguali sono poco dinamiche perché
impediscono la mobilità sociale: se un bambino nasce povero in una società
ingiusta vivrà e morirà da povero. L’ascensore sociale scende verso il basso,
ma non riesce a salire. Il motivo: la qualità dei servizi pubblici peggiora,
mentre le eccellenze nella scuola, nella sanità, nella previdenza, vengono
riservate a chi le può pagare profumatamente.

Durante la «Grande depressione» il presidente Roosevelt
dichiarò: «L’uguaglianza politica che abbiamo conquistato diventa priva di
significato di fronte alla disuguaglianza economica». 

Nelle
società ineguali la democrazia risulta fortemente indebolita, perché la
politica si piega al volere della grande ricchezza: lobby ben oliate e
con potenti mezzi impediscono interventi a favore della ridistribuzione, come
la tassazione progressiva su redditi e patrimoni.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo sviluppo economico
dell’Europa è andato avanti per tre decenni puntando sull’allargamento delle
opportunità e sulla creazione di società più inclusive. La stessa cosa è
avvenuta nelle «tigri asiatiche»: la Corea del Sud ha distribuito i benefici
della crescita ai propri cittadini, incrementandola ulteriormente, anche il
governo brasiliano negli ultimi quindici anni ha basato la propria crescita
inarrestabile sulla lotta alla povertà e sull’aumento del benessere della maggioranza
della popolazione.

Dunque le ricette non mancano, ma il primo passo – dice Oxfam
– per poter risolvere il problema è quello di riconoscerlo e consideralo una
priorità politica. Dovrebbe avvenire così anche in Italia che, tra i paesi
europei, è uno dei più diseguali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Il Paese che non c’è Territorio palestinese. Lezioni di resistenza pacifica

Alcuni villaggi sulle colline a sud di Hebron, in Area C
(territorio palestinese sotto controllo e amministrazione israeliani),
rischiano di scomparire per far posto a insediamenti di coloni e avamposti
militari israeliani, totalmente illegali anche per le leggi d’Israele. La popolazione
locale, per lo più composta da pastori e agricoltori, nonostante le violenze
che subisce da anni, resiste con azioni nonviolente per difendere i propri diritti,
sostenuta dai volontari dell’Operazione Colomba (vedi:
www.operazionecolomba.it). Anche l’autore di questo articolo vi ha portato la
sua esperienza di resistenza pacifica.

«Loro hanno le armi e le pietre,
noi i bastoni del pastore. Loro hanno la polizia dalla loro parte, noi nessuno,
solo le nostre famiglie. Loro fanno quello che vogliono e noi dobbiamo tacere.
Loro vengono e buttano giù le nostre case, distruggono le nostre cistee; noi
le dobbiamo ricostruire di nascosto. Fino a quando?». Il lamento di Abud è il lamento
di un popolo.

Una convivenza difficile

Ormai la nascita di uno stato
palestinese sembra un sogno impossibile. Il territorio di Gaza, sul mare
Mediterraneo con una uscita verso l’Egitto è considerato un’immensa prigione a
cielo aperto. Il territorio della Cisgiordania è una pelle di leopardo, nella
quale i villaggi dei pastori devono convivere con gli insediamenti israeliani
serviti da strade, luce elettrica, acqua in abbondanza.

Un solo ulivo dei coloni beve in
un giorno tanta acqua quanta ne beve un villaggio palestinese con donne, uomini
e bambini. Con l’acqua abbondante chiunque è capace di far fiorire il deserto.

Gerusalemme est e Betlemme con i
territori vicini vede un muro costruito al di fuori di ogni logica, che non sia
quella del disprezzo dei valori e della giustizia, tagliando pascoli, dividendo
famiglie e comunità, distruggendo relazioni, isolando le fonti di acqua a
favore del più forte. Come si può pensare a due stati e due popoli?  Si dovrebbe spostare mezzo
milione di israeliani, che adesso vivono fuori dai confini ufficiali dello
stato d’Israele.

A fine novembre 2012 si è tentato
ancora una volta un qualche riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite,
nonostante la minaccia d’Israele di ridurre alla fame la comunità palestinese.
Eppure il riconoscimento della Palestina come membro osservatore (stesso status
del Vaticano), ruolo finora svolto dall’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (Olp), ha avuto i numeri necessari per diventare realtà. Nel
settembre 2011 Mahmoud Abbas aveva cercato di ottenere il riconoscimento della
Palestina come stato membro, ma era stato bocciato dal veto americano al
Consiglio di Sicurezza, mentre altri stati, tra cui l’Italia, esprimevano la
loro neutralità sulla faccenda. Adesso poi, dopo la guerra dei nove giorni, la
posizione di Fatah, dominante in Cisgiordania, appare più debole rispetto a
quella di Hamas della striscia di Gaza.

E tutti, paesi arabi della
primavera, Stati Uniti, Europa e lo stesso Israele, si lasciano impressionare
di più da chi fa la voce grossa: non certamente l’autorità palestinese
dialogante, ma quella che spara i razzi fabbricati in Iran. Il più forte e il
più rumoroso aggiunge degli argomenti importanti alle proprie ragioni.

Intanto continua l’ostilità
quotidiana: pecore uccise, ulivi tagliati, pietre sui bambini che vanno a
scuola, asini rubati… Sono le azioni dei coloni, normalmente integralisti
ebrei, convinti che tutta questa terra sia stata data loro da Dio. «Terra», sì,
ma con della gente dentro, non una terra vuota.

Segni di cambiamento

Oggi non mancano gli israeliani
che mostrano solidarietà e sensibilità verso i palestinesi. Sono i giovani che fanno
obiezione di coscienza contro il servizio militare obbligatorio per uomini e
donne. Essi sono disposti ad andare in prigione pur di non imbracciare le armi
contro i pastori.

Sono gli avvocati, alcuni già in
pensione, che suggeriscono gli articoli di legge favorevoli ai palestinesi, che
difendono chi viene imprigionato, che esigono, quando possibile, l’abbattimento
di insediamenti israeliani.

Ci sono i poveri di Jaffa ai
quali vengono tolte le case per lasciare spazio a ville e resort lungo
la riva del mare, non importa se palestinesi o israeliani.

Si comincia a vedere la lotta dei
poveri contro i prepotenti. La lotta delle femministe dell’associazione Ahoti
for Women in Israel
(Sorelle per le donne in Israele), che a Tel Aviv
aprono le porte del loro piccolo centro d’incontro a tutti per denunciare,
appoggiare e cercare vie di uscita per i poveracci che, arrivati dall’Africa,
vengono abbandonati senza nessun futuro, nel parco vicino.

È chiaro che i palestinesi hanno
anche i loro problemi interni; il primo e forse il più profondo è la spaccatura
tra Hamas e Fatah. Fino a che punto si può essere
mansueti a Gaza, un luogo invivibile, con 5.800 persone per chilometro quadrato
(in Italia ce ne sono 201), con problemi gravi di acqua, energia elettrica,
mancanza di ospedali, scuole… sotto blocco permanente per terra e per mare,
un territorio tagliato fuori dagli altri territori palestinesi. È evidente che
la maggioranza della popolazione si senta identificata con chi si oppone in
modo più violento alla dominazione israeliana.

Intanto la Cisgiordania è
praticamente divisa in tre zone:

– Territorio a controllo e
amministrazione palestinese (Area A);
– Territorio a controllo
israeliano, ma con amministrazione palestinese (Area B);
– Territorio a controllo e
amministrazione israeliana (Area C).

Mentre il primo copre un 17% del
territorio con il 55% della popolazione palestinese, il secondo copre il 24%
del territorio con il 41% della popolazione, il terzo fa riferimento al 59% del
territorio con appena il 4% di palestinesi.

La nonviolenza

Hafez non è l’unico ma è un
tassello importante e riconosciuto nelle colline a sud di Hebron. Lui stesso
racconta la sua storia.  Quando era poco più che un
ragazzo vide sua madre maltrattata e picchiata da coloni israeliani tanto da
finire in ospedale. Andò a trovarla e le assicurò che avrebbe trovato il modo
di vendicarla. «Cerca un’altra strada – gli
disse lei -. Se ti vuoi vendicare potrebbero distruggere il nostro villaggio e
noi ti perderemo. Alla fine, che cosa si guadagnerebbe? Un’altra strada.
L’unica possibile è quella di resistere usando altri metodi: la non violenza
attiva. Come? I bambini, andando a scuola; i pastori portando il gregge al
pascolo. Se c’è un attacco dei coloni, tutti gli abitanti si fanno presenti. Se
distruggono la moschea, scuola, strade… le ricostruiamo. Noi restiamo qui e
continuiamo a resistere alle politiche di aggressione con la non violenza».

Il piccolo villaggio di At-Tuwani
ha così conquistato il suo diritto a esistere. Nel 1999 tutti gli abitanti
hanno resistito a ogni evacuazione, anzi, hanno ospitato altri pastori evacuati
a loro volta dalle loro terre poco lontane. Con l’aiuto di attivisti israeliani
e di un avvocato si è capito che non tutti gli israeliani sono soldati o
coloni.

Oggi una presenza preziosa è
quella dei giovani dell’Operazione Colomba, corpo non violento di pace
dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Armati di macchine fotografiche e
videocamere si muovono continuamente per documentare, dare appoggio con la loro
presenza pacifica e diventando l’occhio che vede e discee i fatti. Un continuo, a volte quotidiano, report
fa arrivare all’estero la documentazione in italiano e in inglese. La gente si
sente collegata con la solidarietà internazionale, i soldati e i coloni hanno
sopra di loro gli occhi attenti di tanti che non accettano l’ingiustificabile.

Dal 2010 At-Tuwani è collegata
con la linea elettrica, che arriva da Yatta, la più grande città palestinese
della zona, facendo passare i cavi sopra la bypassroad, (una strada che
collega le colonie israeliane) cosa finora impensabile. L’acqua è assicurata più o meno
grazie ad alcuni depositi, cistee che sono state legalizzate. I bambini arrivano dal villaggio
di Tuba accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano che li difende
dagli attacchi dei coloni. Se un colono si presenta incappucciato lungo la
strada per terrorizzare i ragazzi, gli inteazionali e le famiglie arriveranno
in tempo per proteggerli mentre i soldati cercheranno di mostrare la loro
affidabilità. 

Un momento privilegiato

A fine ottobre l’Unione Europea
ha organizzato un workshop, un momento di incontro, riflessione,
solidarietà. Grazie ai responsabili dell’Operazione Colomba sono stato scelto
per accompagnare quel momento.
– Te la senti?
– Non saprei. Proviamo.

È stata una settimana che si
andava costruendo quasi di giorno in giorno. Incontri che creavano altri
incontri. Dal Centro di Informazione Alteativa a Beit Sahour, a est di
Betlemme siamo passati al «Kairos Palestina», un movimento di cristiani,
che hanno prodotto un documento serio e profondo per costruire cammini di pace
e riconciliazione nella Terra Santa. E ancora incontri con il gruppo della
Teologia della liberazione palestinese, un gruppo piuttosto agguerrito, e le
femministe di Tel Aviv, con gli avvocati che difendono le case di Jaffa, finché
sarà possibile, ecc.

Le date poi cambiavano, affinché
non coincidessero con la festa di Ismaele, quando bisognava sacrificare
cammelli e mucche. Finalmente il lunedì 29 ci siamo
trovati a Al Mufaqara, su, in alto sulla collina. Erano riuniti i capi di
diversi villaggi, i giovani, le donne e i bambini del luogo. Mi avevano proposto un tema: «Lotta
nazionale e perdono personale». Non avevo voluto preparare nessun
testo. Volevo vedere con i miei occhi la realtà, il volto della gente, entrare
nelle loro case, nelle loro grotte. Penso che sia stata una scelta giusta. Come
si può parlare di perdono in questa situazione? Mi sono posto questa domanda ad
alta voce in italiano, tradotta in arabo: «Un mese fa mi hanno ucciso una
pecora e posso perdonare, una settimana fa mi hanno ucciso una pecora e posso
perdonare, ieri mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare. Ma domani me ne
uccideranno un’altra, e tra una settimana, e tra un mese e tra due mesi…
Posso perdonare al futuro? All’infinito?». Forse il tema del perdono risulta
corto, non più sufficiente. Vedevo quegli occhi che mi guardavano con
attenzione e ho continuato a parlare: «La lingua ci separa, ma il cuore ci
unisce».

Dovessi riassumere non saprei che
cosa ho detto, ma ho parlato di resistenza e di non violenza attiva. Della
necessità di non perdonare i fatti, ma di guarire la ferita che quei fatti
producono in noi per poter reagire in modo pacifico e umano. «Purtroppo gli israeliani hanno
sofferto molto in Europa e poi anche qui. Ma hanno imparato a reagire con la
forza. Sanno combattere con chi è violento, ma non sanno gestire la non
violenza. Rimangono spiazzati. Alla fine preferiscono avere a che fare con
Hamas e con la guerriglia. A ogni colpo rispondono con il pugno duro, ma con
quelli che sanno resistere senza essere violenti? Come si fa?».

E alla fine, al momento del
riposo, nessuno si è mosso, e sono invece iniziate delle domande a cui ho
risposto come potevo. Un prete cattolico che parlava a
una comunità totalmente musulmana. Ma non ci ho neppure pensato. Ero uno che
parlava e che imparava. Finita la giornata intensa, due
giovani volevano a tutti i costi che andassi anche al loro villaggio, un po’
lontano di lì. «Insh’Allah, se Dio vuole». È rimasto il desiderio. Forse
sarà per un’altra volta.

La conclusione

Alla sera, quando eravamo già
scesi ad At-Tuwani, l’esercito e la polizia israeliani hanno catturato lo scheich,
un pastore molto conosciuto, guida spirituale del villaggio. Stava lavorando
alla sua cisterna. Aveva guidato l’invocazione
iniziale al mattino. Il suo lavoro non era permesso, ma neppure proibito.
Quando la figlia si interpose tra il papà e i militari e fu colpita, egli si
ribellò. Ecco l’accusa: resistenza a pubblico ufficiale. Le ragazze della
Colomba, subito informate, hanno ripreso la scena e si sono guadagnate
anch’esse qualche spintone. Non si può fare di più. Intanto
la gente, accorsa in buon numero, non ha potuto impedire che se lo portassero
via. Lo avevano già messo nella loro camionetta. A quel punto tutti si sono
ritirati: i pastori e i soldati. Quando tutto sembrava finito la gente toò
su, si organizzò e terminò il lavoro. Quando lo scheich toerà dalla
prigione troverà la sua cisterna, così come lui avrebbe voluto realizzarla. Ecco la resistenza pacifica.

Gianfranco Testa

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Gianfranco Testa




Esodo di cristiani

Intervista a padre Artemio Vitores, custode in Terra Santa

I cristiani in Terra Santa sono passati dal 19,4% (nel 1948) all’1,4%
della popolazione. E l’esodo continua. Cosa succederebbe se anche l’ultimo cristiano lasciasse Gerusalemme? Qual è oggi il significato della Custodia dei Luoghi Santi?
Lo abbiamo chiesto al vicario della Custodia in Terra Santa, padre Vitores.

Artemio Vitores Gonzáles è padre francescano, ricopre la carica di Vicario Custodiale e fa parte della più antica istituzione cattolica di Gerusalemme, la Custodia di Terra Santa. Spagnolo, padre Artemio vive a Gerusalemme da più di quarant’anni e insegna alla facoltà di teologia della Città Santa.

Da quando i francescani sono presenti in Palestina? Come nasce la Custodia di Terra Santa?
«San Francesco arrivò in Terra Santa nel 1219. Si mise subito in contatto con i musulmani che controllavano l’area, considerati nemici dai cristiani. Era un periodo difficile, un periodo di guerra. Francesco venne ricevuto dal nipote di Saladino, che regnava sulla Città Santa dopo essere stata conquistata dallo zio nel 1187. Il sultano rimase colpito dal frate che rifiutò i doni in oro e argento e che, al contrario dei crociati, non veniva per far la guerra. Dopo quest’incontro il regnante permise ai frati della corda di rimanere in Terra Santa. L’ordine si stabilì a Gerusalemme dove sarebbe rimasto fino al 1291 quando, dopo la conquista di Akko, la situazione per i cristiani diventò troppo difficile, e furono costretti a lasciare la zona. Ma ben presto i francescani tornarono, questa volta con i crociati e con il beneplacito del re di Aragona e del re di Napoli, e da quel momento iniziò la Custodia di Terra Santa: prima al Santo Sepolcro e al Cenacolo, poi a Betlemme. Dal 1187, quando Saladino conquistò Gerusalemme, al 1555, gli unici cattolici in Terra Santa furono i frati, forse qualche pellegrino, qualche mercante, ma non una comunità».

Quindi la Custodia è quel che rimane delle crociate?
«In occasione della sua visita in Terra Santa, Giovanni Paolo II sintetizzò la presenza francescana con parole simili a queste: “In momenti difficili per la cristianità in Terra Santa, quando i cristiani erano simili a Cristo, cioè portavano una croce, la provvidenza ha voluto che ci fossero i figli di Francesco per interpretare in modo evangelico il loro desiderio di venire a vedere i luoghi fonte della nostra salvezza. I francescani sono venuti qui non come crociati, ma come crocifissi”».
Cosa rappresenta Gerusalemme? Perché da secoli i potenti del mondo se la contendono?
«Gerusalemme è il cuore del mondo cristiano, è il cuore del mondo ebraico e in parte anche di quello musulmano. Una città che attrae tutti. Il cristianesimo si riassume in due luoghi; alle mie spalle il Santo Sepolcro, dove Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra salvezza, e un po’ più in là alla mia sinistra il monte Sion, il Cenacolo. Sono, per così dire, i due polmoni del mondo cristiano».

La presenza cristiana nella Città Santa è in diminuzione. È un fenomeno preoccupante?
«Per capire bisogna parlare di cifre. Nel 1948 fu fondato lo Stato d’Israele, in quei giorni i cristiani a Gerusalemme erano tutti palestinesi e rappresentavano il 19,4% della popolazione. Dopo 64 anni l’intera comunità cristiana rappresenta l’1,4% e i cristiani sono divisi in 12-13 gruppi. Se a questa percentuale di residenti si aggiungono i domiciliati stranieri, si può arrivare al 2,5%. Questo però non deve trarre in inganno, in quanto anche io dopo 41 anni devo rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno. Vivo con una spada di Damocle sulla testa, in quanto da un anno all’altro possono non rinnovarmi il permesso senza alcuna motivazione. In Italia o in Spagna dopo 5 o 10 anni un lavoratore straniero ottiene la residenza. Gerusalemme deve essere una città aperta, la madre di tutti, non l’amante di uno. Gerusalemme è anche una città cristiana, soprattutto una città cristiana, perché Maometto non è nato qua, né c’è morto o vissuto. Neanche Mosè è mai stato qui, mentre Gesù è morto qui ed è risorto lì di fronte».

Come hanno fatto i francescani a mantenere nei secoli la loro presenza?

«I frati sono riusciti a restare qui seguendo quanto ha detto Gesù nel Vangelo, “siate semplici come colombe e astuti come serpenti”. Per aprire la stamperia che c’è sotto il nostro convento ci sono voluti 15 anni di pressioni dell’impero austro-ungarico nei confronti dei turchi, e anche solo l’ampliamento di una chiesa richiede 50 anni di attesa per ottenere i permessi necessari. Abbiamo aspettato 10 anni il via libera del governo israeliano per la costruzione di alcune abitazioni su un nostro terreno, e dopo ce ne sono voluti altri quattro per ottenee l’abitabilità. Qui anche un santo può perdere la pazienza, ma questo non ci scoraggia. Anche se la mia può sembrare superbia, posso dire che se qui sono passati gli imperi, i frati sono rimasti. Io sono qui da 41 anni e ho conosciuto sei guerre e due intifade».

È immaginabile la Terra Santa senza cristiani?
«Nel 1967 i cristiani a Betlemme erano il 70% della popolazione, oggi non sono che il 12%. Questo vuol dire che se non cambiamo qualcosa la Terra Santa rimarrà senza cristiani. È un’eventualità molto triste, sarebbe un disastro. Paolo VI ci ha ricordato che se sparissero i cristiani, i luoghi santi diventerebbero musei.
I musulmani hanno appoggi politici ed economici, che vengono dagli altri paesi arabi. Gli ebrei hanno l’appoggio politico del governo, senza dimenticare che Israele è lo Stato ebraico, uno Stato confessionale. Mentre noi cristiani non siamo sostenuti che dalle nostre comunità. Le nazioni cattoliche, come l’Italia o la Spagna, non ci aiutano, bensì sostengono i governi israeliano e palestinese. In particolare l’Europa aiuta i palestinesi, ma le istituzioni di Ramllah sono quasi tutte in mano a musulmani. I cristiani in questa terra sono arabi, parlano arabo, ma non sono musulmani, e questo agli occhi di alcuni li fa sembrare traditori, perché rompe l’unità del popolo palestinese».
Nonostante questi dati allarmanti, in Israele non ci sono persecuzioni nei confronti dei cristiani come invece avviene in Egitto.
«Peggio ancora dell’Egitto c’è stato l’Iraq, dal quale, si calcola, sono scappati 1,5 milioni di cristiani. Qui in Palestina dal 1948 sono 350mila i cristiani che sono scappati altrove. Non c’è mai stata persecuzione nel senso radicale del termine. Sono in atto, però, molte persecuzioni “burocratiche” e complicazioni economiche.
Dopo il 2000 la seconda Intifada portò un periodo di grave crisi: per 5 anni non si è visto un pellegrino. A Betlemme, dove il turismo è la prima fonte di occupazione, i palestinesi hanno sofferto una forte recessione, con tassi di disoccupazione superiori al 60%. Per questi la soluzione era venire in Israele per lavorare, ma il muro ha toccato ancora più profondamente la comunità locale. Se prima della costruzione del muro si poteva circolare con facilità, ora i permessi sono difficili da ottenere e possono essere revocati in qualsiasi momento. La scelta di lasciare questa terra è stata obbligata per molti cristiani».

Come si può arginare questa diaspora cristiana dalla Terra Santa?
«Bisogna creare e sostenere la comunità, per noi frati la priorità è fornire ai cattolici un lavoro. I francescani hanno agito secondo l’idea che non bisogna dare il pesce al bisognoso, ma insegnargli a pescare. Quindi da decenni la comunità ha imparato a fare i souvenir di legno di ulivo o di madreperla, e iniziammo a esportarli verso l’Europa e l’America. Ma non basta riempire la pancia, bisogna pensare anche alla testa, quindi i francescani hanno istituito le scuole. Per quattro secoli i Turchi hanno dominato la Terra Santa e l’hanno fatto partendo dal principio secondo cui mantenere i popoli nell’ignoranza rende possibile dominarli.
Un problema importante rimane quello abitativo. Secondo la legge islamica, e questo vale anche per gli ebrei, quando un paese è conquistato dall’Islam è terra musulmana: non può essere abitato se non dai musulmani. Se noi apriamo la Bibbia, Jahvé dice a Israele: “Questa è la terra promessa, caccia via tutti gli altri, essa è soltanto per voi”. I cristiani si trovano quindi tra due fuochi. Nei secoli i frati hanno cercato di aggirare queste limitazioni, ad esempio acquistando casa per tramite di un amico musulmano, col pagamento di un sovrapprezzo».

Questa situazione è la conseguenza solo di un problema interreligioso?
«È un problema politico, quindi un problema reale: qual è la capitale dello stato israeliano? È Gerusalemme, su questo non si discute. Poco tempo fa alle Nazioni Unite si discuteva di fare uno Stato Palestinese, e quale sarebbe stata la capitale? Gerusalemme. Per decidere chi ha diritto ad avere la capitale a Gerusalemme si considerano il numero di case e quindi delle famiglie. Siamo qui in circa 750mila abitanti, dei quali 520mila sono ebrei, 220mila sono musulmani e 12mila cristiani. Quindi gli ebrei dicono che a loro spetta la capitale, perché hanno il maggior numero di case e se non fossero abbastanza potrebbero costruie altre da un giorno all’altro. La stessa rivendicazione è avanzata dai musulmani, che riconoscono Gerusalemme come incedibile in quanto città santa dell’Islam.
Poco tempo fa abbiamo seppellito un nostro confratello, Fra Ovidio, e durante il corteo funebre siamo stati fermati da un israeliano ebreo, che si è lamentato della nostra celebrazione. Ha usato due argomenti contro di noi; nessun non ebreo può essere seppellito a Gerusalemme e non avremmo dovuto portare la croce. Ma non pensate che questi siano atteggiamenti nuovi: al tempo dei turchi quando moriva un frate bisognava pagare per fargli il funerale, e sul permesso c’era scritto che si poteva dare sepoltura a un “buon cane”».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi