Di Rom e Sinti, fatti e pregiudizi

Libri per aprire gli occhi e il cuore.

Leonardo Piasere, Scenari
dell’antiziganismo. Tra Europa e Italia, tra antropologia e
politica, Seid editori, Firenze 2012, Euro 13,00.

Rom: Odio razziale e democrazia

La
storia dell’esclusione sociale, quando non della persecuzione o dei tentativi
di sterminio, delle popolazioni «zingare» in Europa e in Italia è lunga. Anche
nei momenti in cui si è cercato di accoglierle è capitato di ghettizzarle. E
anche oggi, tra razzisti e «buonisti», per troppi Rom non è semplice vivere
dignitosamente.

«Viviamo in un momento di grave
crisi economica e politica: l’Europa è in pericolo; gli stati […] decidono che
la colpa è tutta degli zingari […]. All’unisono, tutti […] cacciano gli zingari
che vivono entro i loro confini. Invece di cambiare continente, gli zingari
decidono di radunarsi tutti in un’unica regione, facendosi a loro volta largo a
spallate, cacciando i non zingari locali e costruendosi […] uno stato zingaro!
A quel punto i rom come minoranza scompaiono di colpo! Non solo non sono una
minoranza, ma sono una maggioranza importante: si trovano al dodicesimo posto,
sui quarantasette stati del Consiglio d’Europa, per numero di abitanti (più di
11 milioni di persone, ndr). […] Rom è uno degli stati più popolosi
d’Europa, posizionato subito dopo la Romania e l’Olanda, ma prima di ben
trentasei altri stati, più popoloso di Portogallo, Grecia, Ungheria e così via!».

Se un lettore interessato al tema «Rom»
volesse trovare delle risposte chiare, semplici, lineari, ai quesiti che esso
ci pone, non dovrebbe leggere il libro di Leonardo Piasere. Dovrebbe leggerlo
invece chi volesse lasciarsi interpellare: come mostra l’iperbolico brano
riportato sopra nel quale l’autore usa alcune certezze (ad esempio che i Rom
sono una minoranza, la quale, secondo certe parole d’ordine, «assedia le nostre
città») per capovolgerle e quindi spiazzarle. Nella lettura del volume non si
troverebbero confermati né i razzisti (tra cui, più per calcolo opportunistico
che altro, alcuni esponenti e gruppi politici) che vorrebbero far sparire dalla
faccia della terra un intero popolo, né quelli che dai razzisti vengono, a
volte giustamente, chiamati «buonisti». Le generalizzazioni criminalizzanti così
come quelle «romantiche», allontanano dalla realtà e dalle concrete
vicissitudini di persone che cercano, come tutte, di vivere dignitosamente e
che a volte si trovano segregate sia a causa delle prime che delle seconde.
Quando il testo di Piasere cita le semplificazioni operate quotidianamente dal
discorso pubblico (e privato) nei confronti dei «Rom», lo fa per mostrae la
falsità.

Uno
dei pregi di Scenari dell’antiziganismo, è quello di argomentare e
dimostrare un’ovvietà: i Rom sono molti, e vivono in molti modi differenti.
Impossibile ridurre allo stereotipo del «ladro», del delinquente per cultura o
per genetica, della «zingara rapitrice» che «ruba» i bambini, e così via, un
popolo complesso, disperso in decine di paesi, principalmente europei ma non
solo, in decine di gruppi, con differenti credi religiosi e convinzioni
politiche, e con differenti livelli di «integrazione», a volte di «assimilazione»,
allo stile di vita dei non rom.

Forse per disattendere le
aspettative del lettore, Piasere, antropologo tra i maggiori conoscitori del
mondo «zingaro» italiano ed europeo, docente di antropologia, etnografia,
epistemologia ed ermeneutica etnografica all’università degli studi di Verona,
non apre il suo volume con la definizione di cosa sia l’antiziganismo
annunciato dal titolo, ma con l’invito, rivolto al lettore, a «non dare per
scontate» le proprie conoscenze, e nemmeno i propri criteri di comprensione del
mondo, problematizzando alcuni concetti di uso comune: cosa sono i confini
(delle nazioni, ma anche di altro tipo)? Cosa sono i contenitori, gli insiemi e
sottorninsiemi in cui siamo abituati a categorizzare la realtà che ci circonda
allo scopo di comprenderla (e di sentirci meno insicuri)? Cosa sono le culture?

La
definizione, molto poco definita, di cosa sia l’antiziganismo arriva solo al
decimo e ultimo capitolo, quando il lettore è oramai passato attraverso 160
pagine che parlano di cosa siano i nomadi – smentendo sia la convinzione
diffusa tra molti che tutti i Rom lo siano, sia la convinzione diffusa
tra altri che nessuno lo sia e che tutti lo siano stati solo per
costrizione -, di cosa siano i campi nomadi, delle due filosofie che
sottostanno ai differenti modi in cui i Rom vengono trattati, quella del
riconoscimento che tiene conto solo della cultura (i Rom sono differenti perché
Rom, e vanno trattati come differenti), e quella della redistribuzione che
tiene conto solo della dimensione socio-economica (i Rom sono differenti solo
per contingenze storiche ed economiche e vanno trattati a prescindere da
qualsiasi altra dimensione). Particolarmente interessante, a nostro avviso, il
capitolo ottavo, intitolato Flussi di bambini, nel quale si affronta la
questione dei «ladri di minori» portando alla luce la realtà inquietante –
opposta a quella narrata dalle leggende metropolitane – di uno strisciante «genocidio»
culturale perpetrato nei confronti dei Rom: se una ricerca porta alla luce che
tra il 1986 e il 2007 nessun Rom è stato dimostrato essere colpevole di
rapimento, un’altra ricerca parallela ha fatto emergere che i bambini rom hanno
una probabilità di essere sottratti alle loro famiglie biologiche per venire
dati in adozione di 17 volte superiore rispetto al resto della popolazione.

L’antiziganismo
è, secondo Leonardo Piasere, uno dei pilastri su cui è fondato l’ordine
democratico attuale. Superare l’odio antizingaro significherebbe approdare a
una nuova fase, più matura e inedita, di democrazia, ed è ciò che l’autore si
augura.

Luca Lorusso
Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato

Libro di Carla Osella, Tau editrice,
Todi (Pg) 2013, Euro 15,00.

Un viaggio a più riprese nei luoghi dello
sterminio nazista per raccogliere documentazione e testimonianze sui Rom e
Sinti uccisi o inteati nei campi di concentramento.

Carla Osella, fondatrice e presidente dell’Aizo
(Associazione Zingari Italiani Oggi), sociologa e pedagogista, da oltre 40 anni
al fianco delle comunità sinte e rom, racconta il suo itinerario europeo alla
ricerca di una memoria diretta del massacro della Seconda Guerra Mondiale.

Il testo si apre con un primo capitolo di inquadramento
storico, utile per comprendere come l’antiziganismo, che ha avuto la sua
massima espressione nel Terzo Reich, e che ancora oggi continua pericolosamente
a serpeggiare nelle democrazie del Vecchio Continente, abbia radici profonde
che affondano nella storia dell’Europa fino al Medio Evo. Dal secondo capitolo
in avanti si snoda il racconto del viaggio che porta l’autrice attraverso i
campi di concentramento e gli altri luoghi in cui morirono milioni di Ebrei,
insieme a centinaia di migliaia di Rom e Sinti, omosessuali, diversamente
abili, testimoni di Geova, oppositori politici. Auschwitz e Treblinka in
Polonia, Lety nella Repubblica Ceca, Dachau in Germania, Westerbork in Olanda,
Natzweiler-Struthof in Francia, Mathausen in Austria, Komarom in Ungheria,
Jasenovac in Croazia, e altri.

L.L.

Silvio Mengotto, Sole di periferia, Paoline, Milano 2014,
Euro 11,00.

Ci sono bambini che dormono sotto i raggi della luna e si svegliano
con il canto degli uccellini nelle orecchie. Sono i bambini che non hanno la
fortuna di avere una casa, fra cui i tanti Rom che vivono nei campi nomadi.

Questo
libro raccoglie le storie e le tradizioni di coloro che abitano nella cintura
periferica di Milano, ma che appartengono alla grande famiglia rom di qualsiasi
altra periferia d’Italia. Sono racconti di coraggio e di ottimismo, nonostante
i protagonisti debbano subire i ripetuti sgomberi, operati dalle forze civili,
senza prospettive di miglioramento, nei quali vedono affondare le loro poche
cose, a volte anche i libri e i quadei che si erano faticosamente
conquistati.

(dal risvolto di copertina)

Gabriele Roccheggiani, Come
spighe tra grano e campo. Lineamenti filosofico-politici della ‘questione Rom’
in Italia
, Aras Edizioni, Fano (PU) 2013, Euro 20,00.

Si tratta di una riflessione
(filosofico-politica) su noi stessi. Sul nostro modo di simbolizzare,
categorizzare e gestire politicamente la presenza secolare di migliaia di
persone (italiane e non) definite ancora oggi “zingari” o “nomadi”. Ciò a
partire da un’analisi documentale critica, attorno ad una domanda che è anche
un dato di fatto storico: perché da decenni la presenza dei “figli del vento”
pone una costante ed irrisolta “questione problematica”, se non un’”urgenza”,
al nostro apparato politico-normativo?

(dalla quarta di copertina)

Alessandro Pistecchia, I Rom di
Romania
, Nuova Cultura, Roma 2010, Euro 12,00

Nella prima parte del volume l’autore analizza l’impatto della
minoranza rom sulle terre romene e le conseguenze della condizione sociale
marginale nei secoli della schiavitù. Nella seconda parte l’autore descrive la
parabola dell’associazionismo interbellico dei Rom romeni e le deportazioni in
Transnistria avviate dal governo Antonescu nei primi anni ’40. Il riconoscimento
ufficiale del genocidio (porrajmos, in lingua romanes) da parte del
governo di Bucarest si è realizzato in via definitiva solo nel 2007.

(dal risvolto di copertina)

Fondazione Romanì Italia, Romanipè 2.0. 99 domande sulla popolazione Romanì,

Futura Edizioni, San Vito al Tagliamento (Pordenone), dicembre 2014, Euro 9,90.

Un popolo poco e mal conosciuto

Rom,
Sinti, nomadi, zingari, camminanti, giostrai: qual è il nome giusto? Perché
emigrano ancora oggi? Sono nomadi per cultura? Perché i bambini rom frequentano
poco o non vanno a scuola? È vero che rapiscono i bambini? 99 cartoncini con
domande e risposte in un piccolo cofanetto curato dalla Fondazione Romanì
Italia allo scopo di «diffondere una diretta conoscenza delle comunità romanès
e della cultura romanì per contribuire ad avviare un diverso dibattito pubblico
con la popolazione romanì e alimentare un profondo e radicato cambiamento nelle
comunità romanès, nell’opinione pubblica e nelle istituzioni».

Se il volume di Piasere ha tra i
suoi scopi quello di mostrare la complessità e una certa irriducibilità delle
popolazioni Rom a schemi semplicistici che portano con sé il rischio delle
generalizzazioni, Romanipè 2.0 si pone come obiettivo proprio quello di
dare delle indicazioni di base semplici e chiare a chiunque non avesse alcuna
conoscenza del mondo rom, allo scopo di offrire una prima, seppur rudimentale,
infarinatura. L’operazione è rischiosa, perché proporre 99 cartoncini con una
domanda e una risposta ciascuno sui Rom, la loro storia, cultura, situazione
sociale, educativa, e sulle prospettive future, non porta certamente con sé la
realtà densa, contraddittoria, sfaccettata che ogni popolo è. Però è
un’operazione importante, soprattutto in una fase storica nella quale il
discorso d’odio nei confronti dei Rom appare completamente sdoganato, anche
nelle reti radiotelevisive e sui periodici locali e nazionali, per non parlare
di post e commenti sui social media.

 

Alla domanda n. 6: «Il paese di origine dei
Rom è la Romania?», la seconda faccia del cartoncino risponde: «I Rom non sono
originari della Romania, anche se molti Rom vivono in Romania […]. L’origine
della popolazione romanì è l’India del Nord, territorio da cui partirono le
comunità romanès circa mille anni fa. Oggi sono presenti in tutto il mondo,
stimate in 12-15 milioni di persone». Alla domanda 23: «Perché le comunità
romanès hanno scelto una “chiusura culturale”?», viene data la seguente
risposta: «I rapporti tra i Rom e la società maggioritaria sono sempre stati
tesi, con punte di ostilità esasperate, e i Rom, al tentativo di assimilazione
hanno risposto con la chiusura e l’autoemarginazione. […]». Alla domanda 39: «È
vero che vivere nei campi nomadi è un elemento della cultura romanì?», la
risposta è: «No, è una grande falsità. In Italia […] più dell’80% dell’intera
popolazione romanì vive in una civile abitazione di proprietà o in affitto. I
campi nomadi sono una scelta di politica abitativa e non un dato della cultura
romanì». Domanda 84: «È vero che le famiglie rom sono favorite
nell’assegnazione delle case popolari?», risposta: «[…] non c’è alcun tipo di
punteggio che premia l’appartenenza alle comunità romanès. Determinate
condizioni di vita di una famiglia, come il basso reddito, figli numerosi, una
condizione abitativa disagiata, ecc., permettono invece di ottenere un buon
punteggio nella graduatoria di assegnazione degli alloggi [a prescindere da
ogni tipo di appartenenza: etnica, politica, religiosa, ecc., ndr.]».

Romanipè 2.0 offre un minimo di
conoscenza semplificata nella speranza di far sorgere il dubbio rispetto alla
narrazione dominante, e di stimolare l’approfondimento.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Laudato si’, per nostra madre terra

La nuova enciclica di
papa Francesco mette in relazione degrado ambientale e umano. Bacchetta i
politici incapaci a trovare risposte. E sprona la società civile nella sua
opera di monitoraggio e pressione. Un documento da leggere e mettere in
pratica.

C’è stato
un tempo in cui i movimenti per la difesa dell’ambiente e quelli per lo
sviluppo del «Terzo mondo» si guardavano con reciproca diffidenza: i primi allarmati
dall’impatto sul pianeta che avrebbe avuto l’eventuale crescita economica della
parte povera del mondo, i secondi insospettiti dall’eco che la questione
ambientale stava avendo sui media mondiali che invece rimanevano indifferenti
alla sorte di metà dell’umanità.

Poi è arrivato il Summit della Terra nel 1992 a Rio de
Janeiro, nel quale gli esperti, tanto capaci quanto disconosciuti, delle
Nazioni Unite, ci hanno fatto comprendere che la questione della povertà e
quella dell’ambiente sono inscindibili, che non si può affrontare l’una senza
tener conto dell’altra e che qualsiasi soluzione parziale è destinata al
fallimento.

Quello di Rio è stato un evento senza precedenti: vi
parteciparono 172 governi e 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di organizzazioni
non governative.

Anche in
termini di scelte politiche, il summit del ‘92 è stato un evento straordinario
che ha prodotto accordi come la Convenzione internazionale sulla Biodiversità,
l’Agenda 21 – una sorta di manuale sullo sviluppo sostenibile declinata a
livello territoriale dai governi locali -, la Convenzione sul cambiamento
climatico da cui è scaturito il Protocollo di Kyoto cinque anni dopo.

Ma, soprattutto, al vertice di Rio è stato messo in
discussione da tutti, rappresentanti politici e della società civile, il
modello di crescita economica senza limiti, basato sull’uso forsennato di
combustibili fossili, sull’industrializzazione a tappe forzate, sulla
produzione infinita di scorie e scarti.

Da
allora si sono fatti piccoli passi avanti nel passaggio alle energie
rinnovabili, nel riciclo e riuso dei rifiuti, nella decontaminazione delle
acque e dei terreni, ma ancora oggi si è troppo lontani da quel progetto di
nuovo modello di sviluppo che il summit della terra aveva delineato.

Purtroppo, con l’avvento della globalizzazione
economica, le relazioni tra paesi sono orientate esclusivamente agli interessi
commerciali, l’azione dei governi si è indebolita, perché la sottomissione
della politica alla finanza ha svuotato i luoghi del governo mondiale.

I vertici e le conferenze sull’ambiente che si sono
celebrati dopo Rio non hanno avuto lo stesso respiro planetario e non si sono
conclusi con agende altrettanto ambiziose.
Eppure i problemi ambientali sussistono, pressanti e drammatici, investono ogni
parte del mondo, basti pensare al cambiamento climatico, e si sommano
drammaticamente all’emergenza sociale che colpisce sia il Sud che il Nord del
mondo. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non
potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo
attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale»
afferma papa Francesco nella sua Enciclica «Laudato si’». I politici sono
incapaci di trovare una risposta globale perché miopi e senza coraggio o,
peggio, perché si fanno condizionare dal potere economico, denuncia il
pontefice.

Per
questo «è lodevole l’impegno di organismi inteazionali e di organizzazioni
della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cornoperano in modo
critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni
governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e
le risorse naturali, senza vendersi a ambigui interessi locali o inteazionali».

Allora tocca a noi cittadini, prendere coscienza,
organizzarsi, fare pressione, tenendo sempre assieme la questione sociale:
giustizia, lavoro, difesa dei più deboli, accoglienza dei rifugiati, con la
difesa dell’ambiente.

Perché dobbiamo ascoltare «tanto il grido della terra
quanto il grido dei poveri». L’enciclica papale, lucida e profonda tocca tutti
i nodi irrisolti del nostro tempo, indica le soluzioni, ispira con la fede,
sprona chi governa, ammonisce chi comanda l’economia, conforta chi si impegna.

Un documento che non deve giacere nelle sacrestie, ma va
conosciuto e assimilato in ogni passaggio, per guidare le nostre scelte e le
nostre azioni.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




La legalità conviene

L’Italia è ai primi
posti nel mondo per l’illegalità, l’evasione fiscale, l’inefficienza della
giustizia, il consumo di suolo, la disoccupazione giovanile. Non si può
continuare così, lasciando il paese nelle mani di furbi, affaristi e impuniti.
Soltanto con il coraggio e la coscienza civica si riuscirà a uscire da questa
palude.

Mafia e corruzione sono piaghe infami del nostro
paese. Le cifre annuali dei rispettivi business sono letteralmente da capogiro:
150 miliardi per le mafie (grazie all’accumulazione dei capitali illeciti
derivanti tra l’altro dai traffici di droga, armi, rifiuti tossici, esseri
umani, appalti truccati e via seguitando); 60 miliardi la corruzione, 1.000
euro l’anno per ogni cittadino italiano, neonati compresi, una tassa pesante,
vergognosa e occulta. Altrettanto da capogiro sono alcuni dati che concorrono a
comporre un quadro generale assai inquietante. Per evasione fiscale siamo il
terzo paese al mondo, dopo Messico e Turchia, con un gettito che Confcommercio,
nel 2012, ha calcolato in 155 miliardi di euro. La media europea di consumo del
suolo è del 2,8%, da noi è del 7,3 % (cfr. Ispra,
marzo 2014): un dato devastante in sé e soprattutto per le nefaste conseguenze
che ne derivano sul piano idrogeologico. La disoccupazione giovanile supera il
44% (media europea 22,5%). Per investimenti in cultura siamo ultimi in Europa.
La ricerca praticamente non sappiamo più che cosa sia. La fuga dei cervelli è
una slavina inarrestabile. Le imprese che chiudono sono purtroppo sempre più
numerose, e di quelle ancora relativamente in salute fanno sovente incetta
investitori stranieri. Aggiungiamo ancora che la Banca mondiale, nella
classifica dei paesi in cui conviene investire, colloca il nostro paese agli
ultimi posti su 189 paesi esaminati a causa della inefficienza della giustizia
(cfr. World Bank Group, Doing Business 2015).

In
questo quadro complessivo, la tenaglia mafia/corruzione/evasione
fiscale/inefficienze crea una profonda spaccatura fra l’Italia delle regole e
quella dei furbi, degli affaristi e degli impuniti. Sullo sfondo una palude,
quella degli indifferenti, che non vedono o non capiscono (perché non vengono
loro offerti adeguati strumenti di conoscenza) che ogni recupero di legalità ha
effetti immediati sul reddito nazionale e sulla qualità della vita. Se non
altro perché può ridurre i salassi delle periodiche manovre finanziarie.

In
altre parole, la legalità è una delle chiavi per affrontare la questione
economico-sociale; scegliere la legalità equivale a scegliere uno sviluppo
ordinato, tendenzialmente a vantaggio di tutti. Perché senza regole non c’è
partita o la partita è irrimediabilmente truccata a favore dei soliti: quelli
che senza regole sono e rimarranno sempre
in posizioni di privilegio e superiorità se non di sopraffazione o
sfruttamento, a tutto discapito di coloro che delle regole hanno bisogno per
crescere in diritti e opportunità. Senza regole ci si avvita sempre più e alla
fine si può anche andare a sbattere ritrovandosi sotto un mucchio di macerie.

Per
contro, è evidente che la legalità non è solo una questione di guardie e ladri,
ma una questione che riguarda tutti, da vicino e in presa diretta. Perché la
legalità conviene, ci fa vivere meglio, offre per il futuro prospettive di vita
certamente più serene. Recuperando almeno una parte delle risorse che le varie
forme di illegalità quotidianamente ci rapinano potremo avere, ad esempio, un
campo sportivo in più, un centro per anziani in più, un ospedale meglio
attrezzato, una scuola più funzionante, trasporti più efficienti, periferie
urbane meglio illuminate… tutte cose che non abbiamo, o abbiamo in misura
insufficiente, mentre se l’illegalità ci «vampirizzasse» un po’ meno, le
avremmo di più e meglio e la qualità della nostra vita ne trarrebbe sicuro e
diretto giovamento.

 

Per cambiare le cose e poterci salvare occorre
anche una ritrovata coscienza civica. Che significa rifiuto di omologazione e
conformismo, rifiuto di rassegnazione e quieto vivere. Significa coraggio (come
costruzione sociale collettiva). Coraggio di denunziare quel che non va e di
pretendere soluzioni adeguate. Coraggio di sostenere chi denunzia per non
lasciarlo isolato e sovraesposto. Coraggio di essere coerenti: predicare moralità
e legalità, ma praticare strade opposte, rafforza sempre di più  quel che si dice di voler cambiare. Significa
coraggio di progettare, senza inseguire sempre e soltanto le emergenze.
Coraggio che, nel rispetto della legalità, sappia andare oltre la legalità
stessa, puntando alla giustizia: perché ciascuno possa sperare di avere il suo
e perché le risorse possano essere più equamente distribuite.

C’è
tanta strada da fare, ma è un percorso che si può intraprendere. Insieme. Nel
nostro intresse.

Gian Carlo Caselli

Gian Carlo Caselli




Infanzia: sempre più a rischio?

400 milioni di bambini al mondo si trovano sotto la soglia
di povertà assoluta. E anche la crisi nei paesi ricchi ha conseguenze nefaste
sull’infanzia. Intanto gli Obiettivi del millennio arrancano. E in Italia cosa
succede?

L’immagine più
straziante del 2013 rimarrà quella delle piccole bare bianche, ognuna con un
orsacchiotto sopra, dei bambini annegati a Lampedusa.

Quanti
bambini muoiono nella fuga dalla povertà e dalle guerre non lo sapremo mai,
anche perché a volte non c’è traccia delle loro brevi esistenze negli elenchi
ufficiali.

Sappiamo
però quanti bambini vivono oggi nella miseria: secondo il rapporto «The state
of the poor» della Banca Mondiale, un terzo dei poveri del mondo sono minori,
400 milioni di bambini al di sotto dei 13 anni si trovano in uno stato di
povertà assoluta.

I
dati sul nostro paese sono altrettanto sconfortanti: in Italia un quarto dei
poveri assoluti sono minori. La povertà assoluta è, secondo la definizione
dell’Istat, «l’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a
raggiungere uno standard di vita minimo accettabile».

Sempre
l’Istat ci segnala che in Italia nell’ultimo anno la povertà assoluta è
cresciuta del 29 per cento, ormai ci sono quasi 5 milioni di persone in stato
di grave indigenza, di cui oltre un milione sono bambini e ragazzi. L’Unicef e
tutte le agenzie specializzate sui problemi dell’infanzia concordano nel dire
che la povertà costituisce la principale causa di discriminazione di bambini e
adolescenti.

Per
questo suggeriscono di considerare il minore come titolare di un diritto alla
protezione di base, il che significa che se il bambino è in uno stato di
privazione a causa della condizione della sua famiglia, del suo gruppo sociale
o del luogo dove vive, le istituzioni pubbliche devono prendersene cura,
assicurandogli i diritti fondamentali e i servizi essenziali stabiliti dalla
Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989. Una Convenzione
che, si noti bene, tutti gli stati hanno ratificato, a parte Somalia e Stati
Uniti.

Ma
per troppe bambine e troppi bambini la Convenzione è come se non fosse mai
stata scritta.

La
situazione è così intollerabile che il presidente della Banca Mondiale, Jim
Yong King, nella conferenza di presentazione del rapporto sulla povertà, ha
avuto un moto di vergogna: «I bambini non dovrebbero essere così crudelmente
condannati a una vita senza speranza».

Grazie
all’impegno per gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si sono fatti alcuni
progressi, ad esempio nel campo dell’educazione primaria in cui, tra il 1990 e
il 2010, il tasso di frequenza scolastica dei bambini nei paesi in via di
sviluppo è salito dal 60% al 79%.

Passi avanti sono stati compiuti anche per
combattere la mortalità infantile che negli ultimi vent’anni è stata dimezzata,
ma ancora oggi 12.000 bambini muoiono ogni giorno per malattie che si possono
prevenire e nell’Africa sub sahariana il tasso di abbandono scolastico,
specialmente delle bambine, è sempre elevatissimo.

Non
si sta facendo abbastanza. Finora gli obiettivi stabiliti non sono stati
raggiunti non perché siano troppo ambiziosi o tecnicamente inarrivabili, ma a
causa di misure inadeguate e investimenti insufficienti. Investimenti che si
sono drasticamente ridotti anche nei paesi colpiti dalla crisi, dimenticando
che il benessere di una famiglia e di una comunità dipendono dalla qualità dei
servizi disponibili e che la riduzione della spesa per scuole, presidi
sanitari, mense e altre forme di sostegno sociale, accresce il disagio dei
bambini.

In
Italia,
un esempio che ci tocca da vicino, dal 2008 la spesa per assegni
famigliari è stata ridotta, è stato azzerato il fondo per l’inclusione degli
immigrati e sospeso il contributo per l’alloggio ai nuclei famigliari da parte
di quasi tutti i comuni. Queste scelte, di cui sono responsabili i vari governi
che si sono succeduti nel nostro paese dallo scoppio della crisi a oggi, hanno
pesanti ripercussioni sulla sorte dei minori. Anche l’aumento della disoccupazione
si riflette su di loro, se i genitori perdono il lavoro, aumenta per i figli il
rischio dell’abbandono scolastico e, nelle situazioni di marginalità sociale,
quello del lavoro minorile.

Secondo
un recente studio della Fondazione Trentin e della Ong Save
The Children, in Italia ci sono 260 mila minori che lavorano,
un lavoro che si svolge prevalentemente in imprese famigliari, agricole,
dell’allevamento, della ristorazione, ma che per 30 mila  ragazzi fra i 14 e i 15 anni è svolto in
condizioni pericolose e di sfruttamento.

Le
vittime sono ragazze, provenienti dall’Est Europa o dalla Nigeria, sfruttate
nella prostituzione o ragazzi egiziani e cinesi sfruttati in attività
produttive, mentre fenomeni di tratta riguardano minori di origine Rom, coinvolti
in circuiti di accattonaggio e attività illegali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




La Tbc “malattia dei poveri”

“Hola Guido, mi dispiace disturbarti.
Però, come ti avrà già informato Michel, i miei genitori sono morti di tubercolosi nel
giro di neanche due anni.

Dopo la morte di mio padre, ho chiesto ai miei fratelli di farsi un controllo medico,
affinché fossero sicuri di non essee colpiti. Da quello che so (mi scrivono poco e
quello che mi scrivono mi genera solo dubbi), ora anche Juan si è ammalato di
tubercolosi.

Ho scritto a mia sorella Maria, che vada a casa tua e ti chieda un consiglio medico.
Allo stesso tempo, dovresti dirle quali misure igieniche deve osservare in casa.

Vorrei sapere direttamente da te quello di cui hanno bisogno: controlli medici,
medicine… Se puoi, chiamami dopo la visita a Maria, per dirmi quello che è
necessario”.

Questo è il messaggio inviatomi per posta elettronica da Raul, un ragazzo di Villa El
Salvador (Perú), emigrato in uno dei nostri paesi europei dove si è sposato, lavora, ha
una figlia e una bella casa.

Tempo fa sono stato suo ospite. Ho visto la sua vita normale come quella di ciascuno di
noi, ho sentito i suoi problemi simili a quelli di ciascuno di noi, ma al tempo stesso ho
percepito un fondo di tristezza per la lontananza dal suo paese e per la tragedia che
incombeva sulla sua famiglia e di cui si rendeva conto solo ora che la guardava da
lontano.

Raul era tornato in Perù per il funerale di sua madre e poi non era riuscito a
rientrare per quello di suo padre.

Ricevuto il suo messaggio in Perù, dove mi trovavo per la mia consueta visita, andai
dall’amico Michel Azcueta. Professore di Raul in Villa El Salvador, ex-sindaco della
città, leader politico e grande conoscitore della realtà sociale e politica del Perù,
nonché personaggio di fama internazionale, Michel mi disse che, all’epoca dei
funerali della madre, aveva parlato lungamente con Raul ed era rimasto molto colpito dallo
shock di questi al tornare a Villa dopo anni.

Raul era tornato in Perù dopo 5 anni di Europa e, scontrandosi con la dura realtà
della sua famiglia e della città, ne era rimasto sconvolto. Continuava a ripetere
piangendo che non era possibile vivere e morire così. Raul aveva potuto confrontare i due
mondi e, da ragazzo (ora poco più che trentenne) sensibile e preparato, non aveva retto
il confronto tra le sue due vite.

Con la tubercolosi, malattia infida e legata alla povertà, ho lavorato molto. Dopo il
primo anno e mezzo di lavoro in Perù, tornato a Roma per una vacanza di alcuni giorni
(allora avevo solo 28 anni ed ero un medico alle prime armi), ero andato a trovare, in
cerca di consigli, il medico responsabile del programma di lotta alla tubercolosi
(ex-dispensario) di Roma.

Erano gli anni ’80. Trovai un vecchio medico che mi chiese, colpito dalla mia
visita, del lavoro che facevo, di quanti pazienti vedevo. Finito l’interrogatorio,
disse che non mi poteva dare alcun consiglio perché lui oramai aveva solo uno o due
pazienti tubercolotici al mese, mentre io ero l’esperto visto che ne vedevo uno o due
al giorno.

Il vecchio medico mi disse però un paio di cose importanti: “Guarda collega, la
tubercolosi non è stata sconfitta da noi medici, dalle medicine o dalla vaccinazione. La
tubercolosi in Italia e negli altri paesi europei è stata sconfitta dal miglioramento
dell’alimentazione, dal radicale cambiamento delle case (che ora hanno stanze grandi
con luce e ventilazione), dal maggior livello di educazione delle famiglie, da un ritmo di
lavoro meno stressante e con i giusti riposi. In una parola, è il progresso economico e
sociale, la ricchezza della società che hanno vinto la tubercolosi. Noi abbiamo solo
curato i pazienti”.

José Atencia è un medico che lavora in un Centro di salute (poco più che un
poliambulatorio) di Villa El Salvador. Il Centro appartiene al ministero della Sanità del
Perù e si chiama “Hospital Juan Pablo II”. Opera su un bacino di circa 100 mila
persone. Il dottor José Atencia è l’attuale cornordinatore del programma di lotta
alla tubercolosi.

Dottor Atencia, quanti pazienti sono entrati nel programma nel 2000?

“Circa 180 pazienti provenienti dal territorio di giurisdizione del nostro centro,
che conta 102.966 abitanti. Di questi 180 pazienti un 5/10 per cento è ricaduto”.

Per quali cause tanti pazienti ricadono?

“Fondamentalmente per problemi sociali ed economici. Sono persone che non sono
riuscite a reinserirsi nella società, senza un lavoro stabile e magari con altre persone
da mantenere. Sono persone, il cui apporto nutrizionale non è sufficiente. Ricadono
semplicemente perché continuano a vivere negli stessi luoghi dove endemicamente è
presente la TBC”.

Che caratteristiche hanno questi luoghi endemici?

“Non hanno i servizi di base, non hanno acqua, fognature. Un mese fa ho avuto un
caso tipico, un paziente di 25 anni.

Io gli ho domandato: “Tu stai prendendo regolarmente le medicine. Però il tuo
peso non cresce. Che sta succedendo? Perché non hai più cura di te?”. E lui mi ha
risposto: “Dottore, io prendo le medicine con regolarità. Però devo trovare lavoro
perché ho famiglia. A volte lo trovo per una settimana e la mia famiglia vive tranquilla
per quei giorni. Poi il lavoro finisce e devo cercarne un altro. Dottore, quando cerco
un’occupazione, la cerco dal mattino alla sera. Non me la sento di tornare a casa se
non ho tentato fino alle 10 di notte. Ma ci sono periodi che non trovo nulla. Per una,
due, tre settimane. Quando poi finalmente ci riesco, lavoro magari per un po’ e poi
si ricomincia””.

Come medico non è frustrante lavorare sapendo che, affinché i tuoi pazienti possano
guarire veramente, sarebbe necessario che si alimentassero, che riposassero, che …?

“Sì, è così. È frustrante non dare una soluzione integrale al problema dei
pazienti. La tubercolosi è fondamentalmente un problema dei paesi poveri o impoveriti. Ma
noi possiamo dare soltanto una risposta medica e le medicine. Mensilmente diamo anche un
appoggio nutrizionale con una cesta di viveri. So bene che è un palliativo, però non
possiamo risolvere i problemi economici e sociali dei pazienti. Certo, sapere che
potrebbero ricadere nella tubercolosi perché le condizioni che li hanno portati a questa
malattia permangono, è proprio frustrante”.

Dal punto di vista medico queste ricadute sono potenzialmente pericolose, anche perché
generano resistenza nei batteri. È così?

“Sì, è così. Noi abbiamo tre schemi di trattamento.

Il primo schema, che applichiamo a pazienti con BK positivo nello sputo, generalmente
porta ad una buona percentuale di guarigioni: tra il 90 e il 95%. Quando invece c’è
una ricaduta ed applichiamo il secondo schema di trattamento, le percentuali di guarigione
scendono al 70%. Il restante 30% va verso la cronicizzazione, perché in questi casi il
micobacterium, responsabile della TBC, comincia a sviluppare una certa resistenza agli
antibiotici. Ora, per esempio, abbiamo una decina di pazienti cronici, alcuni giovani,
altri adulti”.

Qual è il livello di mortalità in pazienti con tubercolosi?

“Nel Duemila, nel nostro ospedale, sono morti 4 pazienti. Dei 4 morti, 3
presentavano la TBC associata all’AIDS”.

Quanti pazienti con AIDS ci saranno nella vostra giurisdizione?

“Questo dato non lo conosce nessuno. Fino ad ora mi pare che nessuno si sia messo
a lavorare per conoscere questa realtà. Per quello che so io, qui c’è un’alta
percentuale di pazienti con AIDS. È una zona catalogata a rischio, con una delle più
alte percentuali di Lima e forse del Perù”.

Ci sono farmaci nuovi nella cura della TBC?

“No, non ci sono nuovi farmaci. Personalmente ritengo che la tubercolosi sia ormai
considerata come una malattia non “commerciale” dai laboratori di ricerca delle
multinazionali farmaceutiche. Mi pare che i grandi laboratori non siano interessati alla
sua cura. Essendo una malattia dei paesi poveri, probabilmente non dà guadagni
interessanti. Questa è la mia opinione”.

E la prevenzione? Cosa fate o cosa si dovrebbe fare?

“Sarebbe necessario fare diagnosi precoci e far conoscere a tutti che un paziente,
che tossisce per 15 giorni consecutivi e che sta espettorando, è un paziente che può
essere ammalato di TBC e che deve rapidamente correre ad un Centro di salute.

La prevenzione è più difficile. La tubercolosi è strettamente relazionata con il
livello di nutrizione della popolazione. Avere una popolazione ben nutrita, sarebbe
sufficiente per evitare la “strage” che vediamo attualmente. Bisognerebbe poi
evitare la promiscuità nelle case, che altro non è se non un aspetto della povertà.
Occorrerebbe che le persone avessero la possibilità di accedere ai servizi basici e di
mantenere la propria famiglia. Adesso devono distribuire la propria povertà con i
numerosi figli. Questa sarebbe la vera prevenzione nei confronti della tubercolosi”.

Un medico in prima linea come te, è soddisfatto delle sue condizioni di lavoro?

“Sono un medico contrattato e quindi senza stabilità lavorativa. I medici
dovrebbero essere maggiormente appoggiati, siano essi contrattati o di ruolo.

Noi lavoriamo, come nel mio caso, in condizioni difficili e con la possibilità di
essere contagiati. Non abbiamo le precauzioni minime per evitare il contagio. Come vedi
devo lavorare in questa stanza piccola e poco ventilata. Inoltre, visto che guadagnamo
poco, dobbiamo fare due o tre lavori allo stesso tempo e questo logora”.

Quanto guadagna un medico?

“Io guadagno 1.300 soles al mese (circa 750.000 lire) ed un medico di ruolo 1.800
soles (circa un milione). Lavoro qui 36 ore alla settimana ed altrettanto in un altro
posto”.

Sei assicurato?

“No, non sono assicurato, non siamo assicurati. Posso contagiarmi con la TBC e non
sono assicurato. Posso ammalarmi, come è già successo a due miei colleghi, e non sono
assicurato”.

Michel Azcueta, parlandomi di Raul e della tubercolosi, mi aveva detto: “Cosa vuoi
che faccia? Non sai quante persone bussano alla mia porta. Quello di Raul è solo un caso
come tanti altri. Solo nel mio isolato, non sai quante famiglie hanno smesso di pagare
luce ed acqua. L’energia elettrica la prendono abusivamente dai pali
dell’illuminazione pubblica; il telefono è diventato un soprammobile”.

Ricordo che rimasi perplesso davanti a una risposta così fredda e pessimista. Ma è
così. È la stessa storia che si ripete: io non potevo aiutare Raul e gli ho indicato il
dr. José Atencia che farà quello che potrà fare.

L’unica cosa che potevo fare ancora, era scrivere per parlare ai lettori di questa
malattia e delle condizioni che la favoriscono. Ma servirà? Tutto è tanto conosciuto,
tanto normale, tanto quotidiano (e indifferente ai più) ed ora, dalla mia casa di
Venezia, anche tanto lontano…

Guido Sattin




Expo, quale eredità?


Una vetrina anche per grandi imprese che violano il motto «Nutrire il pianeta». Ma sono stati trattati temi importanti: sradicamento della povertà, riduzione degli squilibri, tutela della biodiversità, eliminazione degli sprechi. Un’esperienza collettiva che ha fatto superare l’individualismo. Bilancio dall’interno.

L’impressione condivisa è che a Expo sia passata la «meglio umanità», eterogenea, composta da tante diverse provenienze: nazionali, culturali, sociali, generazionali, ma ugualmente entusiasta, generosa, desiderosa di conoscere, a dispetto di chi la vorrebbe omologata e indifferente.

Il nostro presidente del consiglio ha definito Expo una grande vetrina delle eccellenze economiche.

Una vetrina controversa, diciamo noi, che ha visto la presenza positiva di piccoli agricoltori, cornoperative e consorzi, ma anche quella di grandi imprese che con il loro operato violano ogni giorno la massima «Nutrire il pianeta, energia per la vita».

Sotto questo profilo si poteva fare di più, conformare l’esposizione di Milano a criteri etici in modo da consentire solo la presenza di imprese che adottano comportamenti rispettosi dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori e della legalità.

Un valido esempio viene dalla Cascina Triulza, il padiglione della società civile, che ha adottato una Carta dei Valori, selezionando le presenze e le sponsorizzazioni in modo coerente con i contenuti e la missione delle centinaia di organizzazioni sociali e ambientali che lo hanno animato.

Ma al di là degli aspetti commerciali, che pure sono connaturati a un’esposizione universale, l’Expo di Milano, in virtù del tema scelto e grazie alla vivace partecipazione di tanti paesi e culture, è stata anche una straordinaria esperienza. Visitare Expo ci ha aiutati a capire che il mondo non finisce sull’uscio delle nostre case, che è pieno di sfide, ma anche di luoghi e persone meravigliosi.

Sarebbe un errore credere che l’esposizione di Milano abbia sottaciuto e fatto dimenticare i problemi del nostro tempo: numerosi padiglioni e tantissimi eventi hanno riguardato temi di impellente attualità, come lo sradicamento della povertà, la riduzione degli squilibri, l’eliminazione degli sprechi, la tutela delle biodiversità, l’accoglienza verso chi fugge da guerre e disastri ambientali.

Questioni drammatiche di fronte alle quali spesso ci si sente impotenti e soli. L’esposizione di Milano è stata un’esperienza collettiva che ha fatto superare, sia pure per un periodo e in un contesto particolari, l’individualismo che ci paralizza e ci rende cinici.

A Expo si è respirata un’atmosfera diversa dal solito, un miscuglio di fiducia, calore umano e speranza.

Chi ha liquidato Expo come un grande luna park non ha voluto andare a fondo, superare la crosta del folklore per capie le qualità più autentiche: la contaminazione tra le diversità e la comunanza tra le persone.

Tuttavia questi sentimenti non bastano a cambiare le cose, la responsabilità ritorna a noi, individui e organizzazioni impegnati per un nuovo modello di sviluppo, i nostri messaggi e le nostre proposte hanno raggiunto, grazie a Expo, milioni di cittadini di ogni parte del mondo, dobbiamo valorizzare questo patrimonio, non disperdere il consenso che si è formato attorno alle nostre idee. Questa è la ragione che ha spinto oltre sessanta organizzazioni del terzo settore ad allestire e gestire il padiglione della società civile Cascina Triulza e questo è il compito che Expo ci consegna.

Oltre all’eredità materiale di un immobile di grandi dimensioni, ci rimane un lascito immateriale: continuare nel nostro impegno, coagulando attorno agli stessi obiettivi realtà che mai in passato hanno avuto l’opportunità di lavorare insieme.

Quale sarà il ruolo di Cascina in futuro è stato comunicato in un’affollata conferenza stampa lo scorso ottobre: continuare a fare da collante tra i cittadini e il mondo istituzionale affinché i decisori accolgano le istanze di cambiamento che arrivano dal basso, essere un ponte tra i progetti di inclusione sociale e le imprese che valorizzano le risorse umane e ambientali; rimettere in circolo i beni che Expo ha accumulato per evitare sprechi e scarti; rilanciare i progetti migliori nel campo dell’educazione, della multiculturalità, della formazione e della cooperazione.

Tutto questo in uno spirito di assoluta autonomia dai poteri e dai condizionamenti politici, perché, come ci ha esortato il presidente emerito dell’Uruguay Pepe Muijca, in visita a Cascina il 21 settembre, dobbiamo rimanere «liberi di parlare e denunciare» le storture di un mondo che, dopo Expo, tutti sanno che deve essere cambiato.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Il Papa del Sud e il risveglio di un continente

Uno degli eventi più importanti negli
equilibri inteazionali di questi ultimi anni è stato certamente il
riavvicinamento fra gli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione cubana.

Un atto di coraggio del presidente nordamericano Obama,
possibile però solo ora che il primo presidente nero degli Stati Uniti è
arrivato all’ultima parte del suo secondo mandato alla guida del paese più
poderoso del mondo. Possibile soprattutto grazie alla mediazione di un papa
speciale (in visita proprio a Cuba e Stati Uniti dal 19 al 28 settembre), che
non ha avuto dubbi sull’esigenza di parlare seriamente di pace, e non rimanere
prigioniero, anche lui, delle troppe belle parole che circolano in un mondo
abituato ormai a non essere conseguente.

Quello che tuttavia non hanno voluto considerare i media
occidentali, specie quelli italiani, è che questo inatteso cambio nella
politica degli Stati Uniti riguardo all’isola della Revolución è
avvenuto perché tutta l’America Latina sta con Cuba, perfino le nazioni come
Colombia e Messico dilaniate dalla violenza e da sempre molto vicine agli
interessi del governo di Washington.

In America Latina, in questo momento, ci sono almeno dieci
paesi che hanno governi di centrosinistra o addirittura di sinistra dichiarata,
come la Bolivia indigena del presidente Evo Morales, quello che ha fatto dono a
papa Francesco, nella sua visita di luglio a La Paz, di un crocefisso guarnito
di falce e martello, o l’Ecuador del presidente Rafael Correa, laureato in
economia e con un master e un dottorato negli Stati Uniti e un altro master
conseguito all’Università cattolica di Lovanio in Belgio. Queste sono prove
inconfutabili del riscatto di un continente che solo vent’anni fa aveva al
potere feroci dittature militari e ora fa incetta di conquiste democratiche
(per esempio, nel campo dei diritti nel lavoro e nella sanità) le quali, al
contrario, incominciano a essere negate a molti proprio nei paesi dell’Occidente.
Ancora un esempio: chi violenta la natura è punibile, nelle nuove Costituzioni
di Bolivia ed Ecuador, con le stesse pene inflitte a chi offende un essere
umano. Questa non è forse modeità? Non è forse etica?

Piaccia o non piaccia, tutto questo è
stato ed è possibile anche per la resistenza, nel tempo, di un paese come Cuba,
o grazie al coraggio di un leader d’avanguardia come Hugo Chávez, il defunto
presidente del Venezuela che, proprio per la svolta impressa non solo nel suo
paese ma anche in buona parte delle altre terre di Simón Bolívar (1783-1830),
ha anticipato il cambio che ora si vive nel continente.

Al cospetto di questa trasformazione l’informazione
occidentale fa a gara a chi, pateticamente, è più capace di irridere le
speranze e i tentativi di liberazione dell’America Latina. Gli interessi degli
ex padroni o di quelli che furono i conquistadores non si discutono.

Nel frattempo, il Brasile, che dalla presidenza di Lula Da
Silva fino a Dilma Rousseff ha condiviso quella svolta politica, è diventato la
settima potenza economica del mondo. Un fatto che, come hanno dimostrato le
intercettazioni (ovviamente illegali) della Nsa statunitense (insieme alla Cia,
i servizi segreti Usa, ndr) ai danni della Petrobras brasiliana,
disturba le strategie commerciali del governo di Washington. Un paese, il
Brasile, che un tempo era considerato solo «la terra del samba e del calcio»,
oggi, insieme a Sudafrica, Russia, India e Cina (in pratica, metà
dell’umanità), è parte dei Brics, il gruppo principale tra i cosiddetti paesi
emergenti.

Alla fine di settembre (dal 28 al 30) si sono riuniti a
Quito, in Ecuador, alcuni fra gli intellettuali e i pensatori più prestigiosi
del continente latinoamericano. Una specie di proseguimento di quello che nel
2001 fu il Forum di Porto Alegre e che, insieme all’insurrezione zapatista in
Messico, venti anni fa (era il 1994), ha il merito, ormai riconosciuto, di aver
fatto risvegliare la coscienza di un continente per tanto tempo schiacciato.

L’Encuentro latinoamericano progresista (Elap) è un
appuntamento organizzato, per il secondo anno, dal Movimiento Alianza Pais
(il partito che sostiene il governo ecuadoriano) e voluto con forza dal
presidente Correa, che continua il discorso portato avanti per anni da Cuba e
ribadito da Hugo Chávez.

Come si può capire, completamente assente era l’informazione
italiana. Per questi media il mondo nasce e muore in Occidente, pur essendo
ormai chiaro che quello di oggi e di domani è un mondo multipolare e che le
istituzioni occidentali (come la Ue) politicamente ed eticamente spesso non
rappresentano più nessuno.

Forse non è un caso che questo vuoto di attenzione e di
conoscenza sia in questi ultimi anni coperto solo da papa Francesco che, quando
lo scorso luglio andò in visita in Ecuador (oltre che in Bolivia e Paraguay),
davanti a una folla di un milione di persone, affermò: «I poveri sono il debito
più grande che ancora abbiamo con l’America Latina». Un credo, come
l’avversione alle guerre, che, in questo momento, è ribadito con sincerità solo
da una parte della Chiesa cattolica, quella più vicina al papa venuto dal Sud.

Gianni Minà

Gianni Minà




La Consolata da trecento anni patrona di Torino

Filatelia religiosa

Nella ricorrenza dei 300 anni dalla proclamazione della Madre di Dio
Consolatrice e Consolata a patrona della Città di Torino, è stato programmato
nel 2014 un ricco calendario di iniziative. Tra le altre la grande mostra «300
anni patrona: la Consolata e la sua città», la solenne cerimonia istituzionale,
nella Sala Rossa di Palazzo di Città (il palazzo civico) con le autorità civili
e religiose: evento questo ricordato anche con un annullo commemorativo dalle
Poste Italiane (1) e una
mostra di filatelia religiosa sulla Vergine e i santi sociali piemontesi nel
corridoio degli ex voto del Santuario. (2)

Il culto della Consolata affonda le sue radici nella
storia della chiesa torinese sin dal X secolo. La tradizione della venerazione
dell’immagine della Consolata è descritta dal testo «il necrologio di
Sant’Andrea», in cui si racconta la storia del «cieco di Briançon» che
raggiunge il luogo della visione e sotto le macerie ritrova miracolosamente
intatta l’icona della Madonna con il Bambino riacquistando definitivamente la
vista (3). Era il 20 giugno
del 1104. Nel 2004, in occasione dei festeggiamenti per i 900 anni di presenza
dell’icona (anche se l’attuale, è stato appurato, non è quella originale ma un
probabile dono del 1483 del cardinale Domenico Della Rovere – vedi articolo
su MC 10/2014
) il Santuario aveva promosso un annullo filatelico (4) con l’immagine della corona e con il simbolo MC (Maria
Consolata); all’epoca il nostro gruppo filatelico aveva predisposto una «busta
erinnofila» (5) con una proposta
di francobollo dedicato alla Consolata ma l’iniziativa non ha avuto seguito.

Con l’inaugurazione della nuova chiesa (1704) e l’assedio
di Torino da parte dei Francesi del 1706, l’immagine della Consolata è
diventata la figura centrale della devozione cittadina. Dalle prediche del
beato Valfrè, (6) ai piloni votivi
fatti collocare attorno alla città da Vittorio Amedeo II, dalle funzioni
continue nel Santuario e dall’altare dedicato alla Consolata allestito in
piazza San Carlo, alle migliaia di volantini con l’immagine della Consolata
distribuiti dal beato Valfrè (7) e
appesi sulle porte delle case e dei palazzi, si è messa in atto una vera e
propria «occupazione territoriale» dell’effige mariana. A seguito della
liberazione della Città dall’assedio, avvenuta proprio alla vigilia della festa
della Natività di Maria, il Consiglio comunale nella prima seduta nel 1706
decide di proclamare la «Santissima Vergine Maria Avocatta e Protetrice»,
devozione certificata poi da una più specifica deliberazione «… Questo Conseglio tutt’unanime e concorde, memore delle
complicate, singolari e recenti gratie che la Beatissima Vergine della
Consolata s’è compiaciuta compatir a questo publico e divoti che alla medesima
hanno racorso… l’ha elletta et ellegge per singolar protetrice di questa Città
e publico et ha ordinato e ordina che la Città vada in corpo ogni anno nel
giorno che si solenisa la sua festa nella detta luoro chiesa a venerarla e
darli un publico contrassegno et atestato della gratitudine che la Città sempre
conservarà a una tanta Protetrice» (8). Era il 21 maggio del 1714 e da quella data è stata
stabilita la centralità della festa del 20 giugno (ricorrenza del presunto
ritrovamento dell’antica immagine miracolosa da parte del cieco di Briançon).

Giova ricordare che il corpo del santo Cafasso (9) è sepolto nel Santuario della Consolata, come risulta
dalla grande vetrata che lo ritrae tra i suoi carcerati e che il beato Giuseppe
Allamano, nipote del Cafasso, è stato rettore del Santuario sin dal 1880 per
quasi 50 anni; ne ha curato la ristrutturazione e l’ampliamento e con la sua
azione pastorale il santuario ha riacquistato importanza quale centro della
devozione mariana in Torino e nel Piemonte (10).

Angelo Siro

Sintetizzato
dall’autore da suo più ampio articolo
pubblicato sulla rivista Filatelia Religiosa Flash e inserito nel sito
www.filateliareligiosa.it

Tag: Filatelia religiosa

Angelo Siro




I bastioni della sicurezza

Le intercettazioni
telefoniche e ambientali sono come le radiografie per un medico:
indispensabili. Se si vuole accertare la verità, non si può rinunciare a questo
strumento investigativo, fissando però qualche «paletto» che salvaguardi gli
altri diritti coinvolti e bilanci gli interessi in gioco.

Di sicurezza si fa un gran parlare, nel nostro paese, e con
toni sempre forti. In campagna elettorale esagitati. Ma la propaganda e le
strumentalizzazioni possono spingere a scelte illogiche e incoerenti. Penso a
chi per tutelare la sicurezza invoca persino l’impiego dell’esercito nelle
strade. Penso a chi vorrebbe che la flotta respingesse in Libia i disgraziati
in cerca di sopravvivenza (scriviamo queste righe nei giorni dell’ultimo,
gigantesco naufragio). Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre
città con ronde di salute pubblica. E sono spesso le medesime persone che,
mentre strepitano di «tolleranza zero», non si preoccupano più di tanto dei
tentativi – ciclicamente ricorrenti – di smantellare i veri bastioni della
sicurezza, che sono le intercettazioni telefoniche e ambientali.

I vari tentativi di restringere il campo di operatività delle
intercettazioni che hanno costellato la storia del nostro paese negli ultimi
anni, avrebbero infatti ostacolato o condannato a esiti infausti le indagini su
delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e
più solido baluardo. Il segreto della efficacia delle intercettazioni sta nel
fatto che esse sono vere e proprie «radiografie giudiziarie» che consentono di
vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Ma
a certuni non piacciono perché sarebbero troppo «invasive». Facendo un
parallelo fra sicurezza sanitaria e sicurezza sociale, essere contro le
intercettazioni equivale a pretendere che i medici rinunzino a radiografie,
tac, risonanze magnetiche e simili perché – pur essendo utilissime – sono
appunto invasive. Meglio tornare alla medicina tradizionale, battere con le
nocche sulla schiena del paziente facendogli dire trentatrè… Se mai qualcosa di
simile dovesse accadere, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma
tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, potrebbe
accettare che si giochi con la sua pelle. Così come nessuno dovrebbe mai
accettare che si giochi con la sua sicurezza sociale comprimendo la possibilità
di ricorrere a quelle speciali «radiografie» che sono le intercettazioni.

Per fortuna questi tentativi «riduzionisti» sono stati per
lo più respinti. Almeno fino a oggi. E così possiamo tuttora constatare come
l’esperienza di un qualunque ufficio giudiziario inquirente o giudicante
quotidianamente offra un elenco interminabile di casi risolti grazie alle
intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono
individuati, o persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a
questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali.

Personaggi e
cittadini comuni

Per altro, il problema delle intercettazioni e della loro
disciplina sta tornando prepotentemente di attualità sotto un diverso profilo,
quello dell’utilizzo processuale ed extraprocessuale delle conversazioni
registrate. Questo problema, che periodicamente viene riproposto, acquista
speciale intensità quando emergono vicende che riguardano personaggi di una
certa notorietà, soggetti «forti» che hanno voce politica e/o mediatica. In
questi casi, infatti, scatta regolarmente – con significativa tempistica – la
richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti
o temono di finire sulle prime pagine dei giornali. Preoccupazione più che
comprensibile, ma non c’è populismo nel sottolineare come analoga sensibilità
quasi mai si riscontra quando sono in gioco gli interessi di «semplici»
cittadini comuni. Vero è che da sempre gli «arcana imperii» segnano le
barriere  con cui il potere cerca di
proteggere le sue deviazioni.  Poiché le
intercettazioni violano queste barriere e mettono a nudo il potere, ben si
spiega l’ostilità pregiudiziale di certa politica per gli incisivi controlli
che le intercettazioni consentono e per la divulgazione dei loro contenuti. Ma
questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare siluri sotto la linea
di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri cittadini.

Comunque la si pensi di questa «reattività» selettiva, è un
dato di fatto che le intercettazioni – strumento investigativo irrinunciabile –
pongono però complessi problemi di bilanciamento fra i diversi interessi in
gioco. Vale a dire: l’esigenza di accertare la verità, cioè la colpevolezza o
l’innocenza degli indagati, che può entrare in conflitto con il diritto alla
riservatezza dei soggetti intercettati; il diritto-dovere dei media di
informare; il diritto del cittadino di conoscere le vicende di interesse
pubblico; e infine anche il cosiddetto controllo sociale sulla amministrazione
della giustizia, il diritto cioè dei cittadini di verificare il funzionamento
della macchina giudiziaria. Il giusto equilibrio fra questi interessi non è
facile da trovare, ma va cercato senza sacrificarne nessuno, essendo tutti di
rilevanza costituzionale.

L’informazione e le
intercettazioni

In questi ultimi anni l’informazione ha avuto un ruolo
decisivo per far conoscere e, quindi, per contrastare meglio alcuni gravi
scandali avvenuti nel nostro paese. Basta ricordare le cronache cosiddette di Tangentopoli, Mafiopoli, Bancopoli, Furbettopoli,
Calciopoli, Vallettopoli e via seguitando. O
elencare i principali «scandali finanziari» italiani: dalla vicenda Sindona, ai
fondi neri di grandi imprese italiane (petrolieri e non solo), ai casi
Eni-Petromin, Banco Ambrosiano e Ior, alle trame della P2, ai retroscena del
lodo Mondadori, all’Enimont madre di tutte le tangenti, al crollo di Ferruzzi e
Montedison, alle traversie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, fino ai
crack Cirio e Parmalat e alle scalate bancarie, per arrivare ai giorni nostri
con Expo, Mose e Mafia capitale.

Se non ci fosse stata una informazione attenta (basata
anche su un’ ampia divulgazione delle intercettazioni), come per fortuna invece
c’è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto subire delle
ripercussioni negative. Dunque, il ruolo che l’informazione ha avuto in questi
casi deve costituire un punto di partenza. E se questo ruolo viene cancellato o
gravemente impedito, sono guai. Guai irreparabili, se del processo – mentre è
in corso – non si potesse raccontare più nulla (o quasi). E se, per raccontare
finalmente qualcosa, si dovesse aspettare la fine del processo stesso, una fine
che a causa del pessimo funzionamento della nostra giustizia arriva (se non
interviene la prescrizione che tutto cancella, cfr. MC 4/2015) con
ritardi biblici. Premesso ciò, si comprendono le preoccupazioni che solleva
l’intenzione proclamata dal presidente del Consiglio (per altro senza che sia
stato ancora presentato un qualche progetto scritto) circa la riforma delle
intercettazioni, posto che tra gli orientamenti che si fanno trapelare ve ne
sarebbero di drasticamente ispirati alla riduzione della pubblicabilità delle
intercettazioni, con gravi pene (persino il carcere) per i giornalisti e gli
editori che non rispettassero il divieto.

Accade spesso che si registrino conversazioni non
rilevanti per l’accertamento della verità ovvero relative a fatti e soggetti
del tutto estranei al processo. In linea di principio si è di solito d’accordo
nel ritenere che tali registrazioni non devono essere utilizzabili all’interno
del processo e neppure pubblicate all’esterno. Resta però il problema di
definire la «rilevanza» delle registrazioni tutte le volte che essa assuma
contorni sfumati e non sia possibile ancorarla a parametri univoci. Problema
che si pone soprattutto in presenza di «reti relazionali» articolate che
coinvolgano più soggetti (con posizioni diversificate, anche penalmente
irrilevanti), quando questa rete nel suo complesso possa incidere sulla prova
del reato indagato alla luce della sua tipologia (ad esempio, mafia e
corruzione, che tipicamente si nutrono di un intreccio di relazioni ricercate e
stabilite allo scopo di apparire in un certo modo, così da facilitare il giro
d’affari e l’accettazione nei salotti buoni).

Sciolto questo nodo, fissati i paletti necessari per
delimitare il perimetro delle conversazioni intercettate non utilizzabili nel
processo (in quanto relative a fatti o soggetti estranei), rimane soltanto il
materiale che è utile, necessario per l’accertamento della verità. All’interno
di questo perimetro, comprimere più di tanto la libertà di informazione
(costituzionalmente garantita) mi sembra pericoloso, perché rischieremmo di non
conoscere tempestivamente fatti gravi che i cittadini hanno il diritto di
conoscere. Di più: si impedirebbe anche alle autorità di controllo e al potere
politico che voglia ben funzionare di intervenire per frenare o raddrizzare le
storture segnalate. In altre parole, comprimere oltre i limiti suddetti il
diritto/dovere di informazione rischia di far prevalere l’«Italia delle impunità»
sull’«Italia delle regole». Con pregiudizio diretto per i cittadini onesti.

Grande fratello e
sperpero di denaro?

Si è soliti dire (e a forza di ripeterlo si finisce per
crederci) che la magistratura italiana avrebbe creato un «grande fratello» che
tiene sotto controllo (o scacco) milioni di cittadini, sperperando una quantità
incredibile di denaro pubblico. I dati della Procura di Torino parlano un
linguaggio tutt’affatto diverso. Le rilevazioni statistiche evidenziano che il
numero delle indagini (fascicoli) in cui è stato utilizzato lo strumento delle
intercettazioni telefoniche è in media di circa 300 all’anno, a fronte di un
introito medio dell’intero ufficio di Procura di 170.000 (noti e ignoti)
fascicoli all’anno. In percentuale, di tutte le indagini svolte dalla Procura
di Torino, quelle condotte anche attraverso l’utilizzazione di intercettazioni
telefoniche restano sotto lo 0,5%.

Per quanto riguarda la spesa, dal 2003 essa ha subito un
decremento costante. È giusto tuttavia continuare a pretendere un certo self restraint dei
magistrati sul numero delle intercettazioni, ma non è certo colpa dei
magistrati se il crimine (specie quello organizzato) ha la diffusione che ha
nel nostro paese, e se, per fronteggiarlo, gli strumenti principe sono i
collaboratori di giustizia e le intercettazioni.

Infine, va ricordato che, in Italia, tutte le
intercettazioni sono disposte e si svolgono sotto il controllo della
magistratura. In altri paesi quelle disposte dalla magistratura sono in
percentuale ridottissima rispetto ad altri organismi pubblici (si pensi alla
statunitense National Security
Agency e al caso Edward Snowden), mentre si sta
estendendo enormemente la raccolta massiva di intercettazioni telefoniche e di
dati internet soprattutto sul versante della lotta al terrorismo
internazionale. Ora, non v’è dubbio che il terrorismo vada combattuto senza
riserve, ma la risposta non può essere soltanto «militare». La sicurezza è un
bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e
dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che tuttavia non può essere
esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che i diritti diventino ostaggio della
sicurezza. Se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità,
allo sviluppo umano, ecco che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e
inefficaci. Un circolo vizioso che occorre rompere. Anche perché esso rischia
di preparare e introdurre nuovi poteri. Magari così assoluti da costituire – al
di là delle intenzioni – un pericolo per le libertà e la democrazia, nel
momento stesso in cui si avviano azioni finalizzate a tutelare proprio libertà
e democrazia.

Gian Carlo
Caselli

Tag: sicurezza, intercettazioni, diritti, giustizia

Gin Carlo caselli




Cibo: bisogno di tutti, monopolio di pochi

Un pugno di
multinazionali controlla il 70% dei semi. E quattro gestiscono il 90% della
distribuzione di alimenti. Sono loro che decidono cosa mangiamo. Le risorse per
produrre cibo – terra, acqua, capitali – sono sempre più appannaggio di pochi.

 

All’Expo di
Milano, ci sono tutti: Capi di stato, governi, istituzioni inteazionali,
imprese e organizzazioni della società civile. Davanti a milioni di visitatori
ammaliati, discutono di questioni alimentari e si sforzano di dimostrare, con
le parole e con la pratica, come si può nutrire il pianeta, rigenerando la
vita.

Di
fronte a tanta energia positiva, a tanto impegno e competenze, viene spontaneo
chiedersi perché non ci si è pensato prima, perché bisognava organizzare
un’esposizione universale per trattare di un tema che è al centro della
sopravvivenza umana?

Era
proprio necessario organizzare un evento così grande, con investimenti così
ingenti e con gli strascichi di malversazioni che lo hanno accompagnato, specie
all’inizio, quando i controlli non erano stati ancora attivati? Non ci si
poteva sedere attorno a un tavolo e trovare le soluzioni? Non sarebbe stato
meglio mettere in pratica le raccomandazioni e i piani di azione che negli anni
le agenzie dell’Onu specializzate, la Fao, il Programma alimentare mondiale e
Ifad, hanno messo a punto in decine di conferenze, ricerche e documenti?

Da
tempo si poteva agire per sottrarre alla fame 840 milioni di persone che ancora
ne soffrono, e salvare dalla malnutrizione i 161 milioni di bambini che ne sono
colpiti.

Semplicemente perché viviamo in un mondo complesso
e sbagliato dove chi è povero e debole non riesce a far sentire la sua voce, né
a influenzare le scelte politiche ed economiche.

Per
questo ci voleva l’Expo, perché le persone comuni, i consumatori, i giovani
capissero e dicessero: basta, facciamo qualcosa!

Perché
fosse chiaro quello che il Mahatma Gandhi intuiva quasi cento anni fa: «La
terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, non l’avidità di
pochi».

Tutti
gli abitanti del pianeta potrebbero ricevere una nutrizione sufficiente e di
qualità se ci fosse un po’ di giustizia in più, se si mettesse un freno al
monopolio delle risorse necessarie per produrre e distribuire il cibo: terra,
acqua, capitali.

Oggi
queste risorse sono concentrate nelle mani di poche grandi imprese: sette
multinazionali controllano il 70 per cento del mercato dei semi, dieci si
spartiscono le foiture di pesticidi, nel mercato dei cereali 9 transazioni su
10 sono controllate da quattro corporations. I grandi marchi che dominano la distribuzione sono una
decina: Nestlè, Kraft, Unilever, Pepsi, Mars, Danone, Kellodg’s, General Mill,
Coca Cola.

Sono
loro che decidono cosa dobbiamo mangiare: cibo sano che ci mantiene in salute o
cibo spazzatura che aumenta il rischio di malattie.

Sempre
loro indirizzano la ricerca scientifica nel settore alimentare, per la quale è
più profittevole studiare ortaggi a lenta maturazione per rifornire le tavole
del mondo ricco piuttosto che piante resistenti alla siccità per nutrire le
popolazioni dell’Africa saheliana.

Sono
le grandi imprese dell’agroindustria che, per garantirsi i profitti futuri, si
accaparrano le terre e le fonti d’acqua comprandole da governi irresponsabili e
corrotti in paesi dove i poveri sono sempre di più e contano sempre meno.

Queste
imprese sono venute all’Expo di Milano a mostrare le loro strabilianti
innovazioni e le loro merci evolute con l’obiettivo di tenere alta la propria
reputazione. Sanno, infatti, che la riprovazione pubblica e la condanna morale
danneggiano i buoni affari.

Fortunatamente
la denuncia delle loro responsabilità non rimane più circoscritta a pochi
ostinati, a livello politico e tra i cittadini si sta diffondendo l’idea che il
loro comportamento va tenuto sotto controllo.

L’Ocse
e l’Onu hanno promosso le «Linee guida» per le imprese in materia di ambiente e
impatto sociale. L’anno scorso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ha approvato un’importante risoluzione per la quale si arriverà ad
adottare uno strumento legalmente vincolante, che potrà sanzionare le imprese
colpevoli di violazioni dei diritti umani.

Alcune
Ong hanno attivato sistemi di monitoraggio in numerosi paesi del mondo ed
esiste una piattaforma creata dal Center for Business and Human Rights, un ente
non profit che ha sede a New York, consultabile dai consumatori per valutare le
politiche e la condotta delle imprese dal punto di vista sociale e ambientale.

Come
visitatori e come organizzazioni sociali siamo presenti a Expo anche per
questo, per dire alle grandi imprese che il loro gioco non ci piace e che
vogliamo cambiare le regole.

Sabina Siniscalchi