La vedova: Morte in terra straniera

Il marito (e padre dei suoi figli) faceva il camionista. Era
morto lontano da casa. La famiglia avrebbe voluto riportare
la salma in patria, ma non c’era denaro sufficiente.
Quanto pesa lasciare la tomba del proprio
defunto in un paese straniero?

Cominciò la liturgia. Il prete ortodosso, girato verso
l’altare, cantava le preghiere e la gente dietro di
lui rispondeva in coro: «Amin!». Si distingueva la voce
della moglie del prete, un bellissimo soprano, seguito
dal coro. In chiesa c’era poca gente. Erano tutti
in piedi: gli uomini a destra, le donne a sinistra, alcune
con la testa coperta dal foulard.
Vicino alla porta, come se fosse appena entrata, c’era
una donna in nero. La liturgia durò quasi due ore e alla
fine il prete disse alla gente di sedersi e cominciò la
predica:
«Fratelli e sorelle, fra noi oggi c’è una vedova, e io vi
prego di non girare vigliaccamente le spalle a chi in
questo momento ha bisogno di voi, ma di affrontare
coraggiosamente la nuova prova che Dio ha messo davanti
a noi. La nostra sorella ha perso il suo sposo, ma
questa è solo una parte della sua disgrazia. Il marito è
sepolto qui, nel cimitero di questa città, perché nessuno
ha potuto sostenere la spesa per il trasporto del
morto nel paese natio. Adesso la vedova e i suoi due
figli devono lasciare questo paese, ma dovranno anche
lasciare qui la tomba del padre e marito. La madre del
defunto non potrà mai venire a piangere sulla tomba
del figlio. Perciò chiedo a ognuno di voi, di raccogliere
quanto serve per trasferire la bara nel cimitero del
loro villaggio…».
Non c’era molta gente perché era la fine dell’estate e
non tutti erano tornati dalle ferie (per gli immigrati le
ferie sono andare nella propria terra).
Ognuno diede qualcosa, ma era poco, troppo poco rispetto
a quanto serviva…
La donna viveva con i figli in un piccolo paese della
Serbia. Suo marito faceva il camionista per una
ditta di trasporti. Quest’estate avevano deciso di riunirsi.
Anche i figli volevano trovare un lavoro e aiutare
i genitori a finire la casa che avevano iniziato a costruire
nel loro villaggio. Ma le delusioni arrivarono
ancora prima della morte del padre.
Questi non poteva ottenere per i figli il permesso di ricongiungimento
familiare, perché erano maggiorenni.
Erano allora venuti con un visto turistico per provare
a trovare un lavoro, ma non potevano averlo senza
il permesso di soggiorno. Non potevano trovare
neanche la casa. Erano ospiti nell’alloggio che il padre
divideva con due colleghi connazionali. Poi la morte
improvvisa del marito aveva tolto anche alla moglie la
possibilità di ottenere il permesso di soggiorno.
«Non posso lasciarlo qui – confidò alle donne davanti
alla chiesa – non sarei in pace. Noi abbiamo
il nostro cimitero, le nostre usanze… Mi hanno
detto che qui, dopo alcuni anni, liberano la tomba
occupata per fare posto ad altri morti. Mettono le ossa
in una fossa comune del cimitero: non c’è più nome,
nessuna traccia… Nel nostro cimitero non si toccano
le ossa del defunto. Restano lì fino alla risurrezione.
E poi né io né i miei figli né la mia povera
suocera, sua madre, nessuno
insomma potrebbe mai venire qui.
Non ci darebbero il visto soltanto
per andare al cimitero…».
«Non preoccuparti – cercarono
di consolarla le donne
– ti aiuteremo noi. Ti
aiuteremo…» ripetevano
come in una preghiera,
convinte che il loro
forte desiderio di
aiutare fosse ad un
tempo consolazione
e speranza.

Snezana Petrovic




«Venite donne, è qui la festa!»

«È sempre misero chi a lei s’affida, chi le confida malcauto il core…». Detto così, il giudizio del duca di Mantova sulla donna (nel «Rigoletto» di Giuseppe Verdi) sembra un po’ troppo pessimistico: maschilista e misogeno.

Tuttavia, in questo florilegio prenatalizio di supermercati, ipermercati, «shopville», «discount» e, persino (lo sapete?), «cleromarket» (deo gratias), avete mai provato a confessare alla vostra compagna che avreste volentieri fatto un giretto al mercatone per buttare un occhio?

Se vi è capitato, vi ricorderete di aver firmato la vostra condanna, perché la vostra dolce compagna, improvvisamente galvanizzata da questa idea, vi ha trascinato in una estenuante maratona tra banchi, reparti e scale mobili di uno di questi paradisi della famiglia tipo. Il teatro, cioè, pervaso dall’inebriante e dolciastro profumo di saponette, delle memorabili e fantozziane «spedizioni commerciali» della sana famiglia italiana con bambini, il sabato pomeriggio.
Un rito di massa che, dopo la terza ora di assurda permanenza nei reparti, riduce un individuo, non particolarmente votato allo shopping, ad un barcollante e stravolto babbo-natale, sepolto da pacchi, pacchetti, borsoni e scatoline… Però il marito, mentre provava il costume per le spiagge alle isole Seicelle, ha fatto la pipì nel gabinetto di prova; poi dall’interno ha gridato alla moglie: «Non è la misura giusta!». E lei: «Guarda che perdiamo Chiara! Fai veloce che chiudono!».

Ma il meglio di sé la vostra fantasiosa compagna potrà darlo nella più elegante «shopville», tra le sue scintillanti boutiques: in pratica un invitante e tentacolare market show.

Dopo un suo primo approccio alla «shopville», voi non siete più in grado di cogliere il fascino delle vetrine luccicanti, del «paghi due e prendi tre», del «compri a natale e paghi a pasqua»: insomma delle raffinate e suadenti tecniche di promozione delle vendite. Lei poi organizzerà irresistibili matinées con amiche e colleghe, tutte entusiaste alla prospettiva di un tour della «shopville» con escursioni al bar (oh, quei croissants col cappuccino!), con lunghe soste dal giornielliere e nelle maison e atelier, tra griffe e deliziose «creazioni».

E, poi, vuoi mettere? Ti si rompe un tacco? C’è il «tacco espresso»… Hai i capelli un po’ spenti? C’è l’«intercoiffeur»… E c’è il meccanico, il gommista. «Ragazze, faccio un salto a farmi gonfiare le gomme e vi raggiungo subito!» dice ovviamente lei… Ma c’è anche il «discount», molto conveniente. Sì, è vero, ma è così squallido: niente bar, non parliamo di ristorante, compri e scappi dalla malinconia. Non c’è confronto.

Insomma la vostra cara compagna ha scoperto il programma ideale per i noiosi giorni di pioggia e il più efficace rimedio nei momenti di depressione: si fa un giro alla «mecca del consumatore». E, in questo «paese di bengodi», ci si rifà gli occhi e… magari il guardaroba. Specie a natale.

Dunque: aveva ragione il duca di Mantova a dire «è sempre misero chi a lei s’affida»? O forse quel grande poeta, che scriveva: «donna: mistero senza fine bello?».

Ma, quanto a consumismo, gli uomini sono poi tanto diversi dalle donne?

Arcadio Corradini




Il bene del singolo o quello della collettività?

«Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te».

Questa regola non è così d’oro come si è soliti ritenere. La preziosità infatti dipende da «ciò che vorresti». E tutti sperimentiamo quanto differenti e contraddittorie siano le opinioni, convinzioni e categorie di valori cui ognuno fa riferimento nelle sue scelte. Molti oggi sono convinti che occorre lasciare il più possibile spazio all’iniziativa personale, affinché si raggiungano risultati positivi per tutti.

«Sii egoista e migliorerai la tua vita! Nel cercare il meglio per te, contribuirai al progresso di tutti!». Il ragionamento è quasi un assioma. Ma è il principio su cui si fonda la distruzione dell’umanità come comunità, dove invece si dovrebbe perseguire il «bene comune» con l’obiettivo di garantire una vita dignitosa ad ogni suo componente: solo così sarebbe reale il bene di tutti.

Nel «fare o non fare» ci troviamo a dover scegliere tra due sistemi di pensiero: uno che dà risalto al valore del singolo per il bene di tutti e un altro che cerca di promuovere il «noi cornoperativo» per il bene di ciascuno.

Nell’esaltazione dell’iniziativa privata la regola d’oro potrebbe essere tradotta con questa sequenza logica:

«Io ti lascio libero di fare ciò che vuoi. Accanto ad altre persone libere, sarai costretto a migliorare sia il tuo modo di produrre (beni e servizi) sia quello di vendere i tuoi prodotti (se non vendi, fallisci). La concorrenza diventerà il motore di sviluppo e garantirà standard sempre più alti della qualità della vita per tutti. La competizione richiederà di attrezzarsi per una lotta dura contro gli avversari-concorrenti: se vuoi vincere, devi essere il più forte, il più competitivo, il più conveniente. La tua squadra dovrà prevedere mosse vincenti di difesa e attacco: o vinci o perdi. Quali strumenti utilizzerai? Tutti i possibili: leggi, mercato, armi».

La regola d’oro è salva. Lascio che gli altri facciano ciò che ritengono più opportuno. È così che desidero anch’io di essere trattato dagli altri. Tutti liberi di cercare i propri vantaggi!

Da più parti si replica che questo sistema provoca emarginazione ed esclusione, concentrando privilegi e ricchezze nelle mani di pochi vincenti. Però molti sono convinti che, per ora, sia la formula migliore per lo sviluppo e il superamento della povertà. Ma se così è, come spiegare i muri di separazione attorno ad alcuni quartieri per impedire l’accesso ad ogni estraneo, il moltiplicarsi dei sistemi d’allarme e delle guardie private di vigilanza?

La regola d’oro forse è servita a far maturare nell’umanità l’idea della pari dignità di ogni uomo e donna, concetto sempre messo in discussione quando si sono dovute prendere delle decisioni per garantire pari opportunità di accesso alla fruizione delle ricchezze di questo mondo.

Ma la regola d’oro acquista il suo vero valore solo in una logica che persegua, nello stesso tempo, e il bene del singolo e della collettività. Nemmeno l’imperativo «ama» è sufficiente a garantire il bene per tutti. Gesù ha aggiunto un’altra indicazione di percorso: «Amatevi l’un l’altro come io vi ho amati», introducendo la nuova regola d’oro del servizio, del dono di sé.

Chi nella vita cerca i suoi vantaggi forse offrirà al mercato qualche prodotto in più, ma priverà l’umanità di una ricchezza irreperibile altrove: il dono della sua stessa esistenza, del suo essere per – con – dagli… altri.

Il nostro «ben-essere» dipende da quello che sappiamo produrre per gli altri.

Filippo Gervasi




Perché si fanno le guerre?

In attesa della nuova guerra contro Saddam, l’autore parla
dei conflitti nel Golfo Persico, nell’ex Jugoslavia e in Afghanistan.

Sottopongo ai lettori di Missioni Consolata alcune
mie considerazioni. Parto dall’affermazione
«islam guerriero», per confrontarla con i fatti di
questi ultimi 20 anni.
Giusto una ventina d’anni fa, l’Iran, cacciato lo scià,
veniva assalito dal laicissimo Iraq di Saddam Hussein. Era
una guerra fra musulmani, ma non era stato l’«islam guerriero
» a scatenarla. Furono gli Stati Uniti (Usa)
a commissionarla, armando
e finanziando
Saddam Hussein. Ci
furono un milione di
morti e otto anni di
guerra. Non mi risulta
che qualcuno sia stato
chiamato dinanzi a un
tribunale internazionale
per rispondere di
quei morti.
Certamente quel
«servizio» ebbe un prezzo:
infatti, quando Saddam
Hussein chiese all’ambasciatore americano «luce verde»
per occupare il Kuwait, gli fu data. Attirato in trappola
Saddam, non ci si limitò a liberare il Kuwait, bensì a
bombardare l’Iraq e ad annientare il suo esercito. Poi ci
furono l’embargo e altri saltuari bombardamenti contro
il paese.
Sono passati pochi anni ed è la volta della Repubblica
Federale Jugoslava (RFJ). Essa viene distrutta, ridotta
a pezzi, come una pecora sbranata da lupi. Anche qui
l’«islam guerriero» non c’entra; in loco ci sono i musulmani,
certo, ma sono preziosi alleati dell’Occidente nel
processo di disgregazione che esso ha deciso per quella
regione balcanica.
Vale la pena di ricordare alcuni «dettagli». L’intervento
diretto degli Usa (quello indiretto – embargo, armi e altro
-, di cui non si sono dati la pena di comunicare, era
in opera da un pezzo) inizia con il bombardamento contro
i serbi della Bosnia-Erzegovina, giustificato dalla «strage
del mercato» (l’Onu poi accerterà che il razzo era partito
dal settore musulmano e non già da quello serbo). Il
bombardamento di Belgrado e la distruzione sistematica
della R.F.J. e del Kosovo hanno come copertura la
«strage di Racak». Però una commissione delle Nazioni
Unite rivelerà essere stata una farsa (vedi La Stampa,
30 ottobre 2001), della quale, paradossalmente,
Milosevic è tuttora accusato dal tribunale dell’Aia.
E siamo all’«11 settembre».
A distanza di 9 mesi (mentre scrivo), né un tribunale
né un’autorità internazionale ha accertato e processato
un solo terrorista. Tuttavia, subito, le parole (stravolte)
hanno assunto un altro senso, di comodo, con
insospettabili adesioni di persone che dovrebbero
essere illuminate dallo Spirito. Si è parlato di «atto
di guerra», di «legittima difesa», di operazioni di
«polizia internazionale». Ma l’atto di guerra presuppone
l’azione identificabile di uno stato;
la legittima difesa, un aggressore visibile
e ben individuato, nonché una risposta
immediata per impedire
l’evento. Quanto all’operazione di polizia,
supportata da missili Cruise,
bombardieri e altri strumenti di morte,
è un segno del livello di ipocrisia
e stravolgimento intellettuale a
cui i nostri capi ci hanno portato.
Gli Stati Uniti hanno affermato che era stato Bin
Laden e la sua organizzazione Al Qaeda. Però si sono
ben guardati dal dae le prove, e a ragion veduta: se le
avessero date, avrebbero dimostrato
di essee gli autori, perché Bin
Laden e Al Qaeda sono, visibilmente,
una loro creatura.
Nel recente passato gli Usa
hanno agito contro i sovietici in
Afghanistan, in Cecenia e in
Cina; hanno destabilizzato la
Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, per
mettere in scena il genocidio
da parte dei serbi e
giustificare i propri
bombardamenti.
Se non fossimo
ciechi o decisi ad esserlo,
vedremmo
che l’11 settembre
è stato l’espediente
perfetto, lo strumento preciso, per attuare
la politica che il governo Usa vuole
perseguire, superando nel contempo
il suo isolamento internazionale.
Grazie ad esso, ora Bush figlio, dopo
aver aggredito l’Afghanistan, può
continuare l’azione contro l’Iraq,
completando l’opera patea, minacciare
ogni altro stato (tra i primi
l’Iran e via via chi riterrà opportuno);
dando un volto al nemico, ancorché
di fantasma, può perseguirlo dove gli fa comodo e giustificare
lo scudo spaziale, l’ingigantirsi della Nato e della
sudditanza degli stati membri.
È un’incredibile messa in scena, dove i poveri (unica
realtà indiscutibile) proveranno sulla loro pelle i frutti della
tecnologia più avanzata.
Capire l’islam? In primis, è urgente capire chi siamo
noi. E, sul tema, mi sembra particolarmente centrato il saggio
di Aleksandr Zinov’ev «Il totalitarismo dell’Occidente».
Qualche riflessione la suggerirei anche agli alti esponenti
della Chiesa e all’Ufficio per la difesa della fede, visto che
le massime gerarchie hanno approvato tre guerre di bombardamento
(in Bosnia-Erzegovina, Repubblica Federale
Jugoslava, Afghanistan). La guerra sfugge alla morale: è
sempre cieca e brutale. Ma perché le uniche
vite che contano sono quelle degli aggressori,
resi quasi invulnerabili dalla loro
costosissima tecnologia?…
Recentemente sui giornali ho letto tre
episodi:
– lo stanziamento da parte dell’Amministrazione
Bush d’una certa somma
per convincere le donne alla castità, come
mezzo per prevenire aborti;
– le dichiarazioni in Cina dello stesso
presidente a favore dei «diritti umani» e l’invito ad un accordo
col Vaticano;
– la sorprendente sincronia con cui all’Onu Santa Sede e
Stati Uniti si sono pronunciati per fermare le ricerche sugli
embrioni umani.
Sia chiaro: non intendo entrare nel merito delle singole
questioni; però mi domando quale sia il prezzo di scambio
in tale accordo e quale influsso abbia avuto sull’approvazione
della guerra di bombardamento in Afghanistan…
Un pensiero di solidarietà e apprezzamento lo rivolgo
a Paolo Moiola e ai redattori che, su Missioni Consolata,
si espongono per portare un po’ di verità e di chiarezza nel
mare di disinformazione in cui siamo avvolti.

GIUSEPPE TORRE




Perché «sparare» sulla Fiat?

L’autore parla di aziende senza profitto, «articolo 18» e altro ancora.

Leggo esterrefatto sulla rivista Missioni Consolata di
luglio/agosto 2002 «È giusto scegliere tra lavoro e
profitto?» di Francesco Rondina.
Ove un’azienda lavori senza profitto, consuma il capitale
e non può che ridurre il personale e i salari con prontezza,
se non vuole che tutto vada in distruzione. Non c’è
da scegliere tra lavoro e profitto, ma il lavoro deve essere
profittevole sia per l’azienda sia per chi lavora.
Buttare poi le accuse più avventate, più sventate, su chi
gestisce le nostre aziende non può che portare sfiducia, disimpegno,
fuga. Perché, assurdamente quanto indeterminatamente,
accusare la Fiat di produzione di mine? Proprio
in questo difficile momento si vuole dare un contributo alla
sua distruzione?
Parlare di aziende che licenziano per aumentare il valore
delle azioni è fantasia scriteriata. Si licenzia? Gli investitori
si spaventano e si allontanano dall’azienda in questione.
Si vuole far passare (giustamente) il professor Biagi
come un martire e poi… si spara su chi vuol modificare
l’«articolo 18» secondo le sue proposte: questo è ragionevole?
Una migliore formulazione di questo dibattuto articolo
aiuta e non aiuta la creazione di nuovi stabili posti di
lavoro? Se questo aiutasse, concorrerebbe alla riduzione di
uno dei mali del mondo: la disoccupazione. Di più non si
propone. Per altri mali occorreranno altri
rimedi.
Il pensare che esista il capitalista
cattivo, che vuole licenziare il lavoratore
buono che gli rende tanto, è cosa
risibile, che può affermare un
comunista come l’onorevole
Diliberto, ma non chi felicemente
tale non è: il capitalista
che gli rende se
lo tiene caro, salvo il caso
limite del capitalista
drogato od alcolizzato. E poi: quali diritti hanno i lavoratori
in Cina, Corea del Nord e Cuba, nazioni tanto amate da
Diliberto?
Queste sono alcune osservazioni su un articolo che, dall’inizio
alla fine, non sta razionalmente in piedi. Non si può
costruire sulla demagogia. Questo va detto a chi ha scritto
l’articolo ed anche a chi l’ha pubblicato. Cristianesimo è ricerca
del bene comune, ma anche serietà e responsabilità,
ben consci che «chi di spada ferisce, di spada perisce».

RENZO MATTEI




Il lettone familiare

Quando un immigrato ha un lavoro e una casa
la prima cosa che desidera fare è avere vicino
a se i propri cari, moglie e figli soprattutto.
Ma il «ricongiungimento familiare»
può essere molto complicato…

Di immigrati si parla tanto. Sempre di più. In effetti, la migrazione di persone
dai paesi del Sud a quelli occidentali (Europa in testa) è un fenomeno di vastissima
portata, che domina quest’epoca e con ogni probabilità anche gli anni a venire.
Pure la nostra rivista pubblica molti articoli su questa tematica. Ora abbiamo
pensato di dedicare agli immigrati una rubrica ad hoc, cui abbiamo dato il titolo
di «DIARIO DI UN EXTRACOMUNITARIO. PICCOLE E GRANDI STORIE DELL’ITALIA MULTIRAZZIALE».
L’abbiamo affidata a Snezana Petrovic, la nostra stimata collaboratrice serba. Nel
frattempo, attendiamo di conoscere i primi effetti della nuova e discussa normativa
sull’immigrazione (meglio nota come legge «Bossi-Fini»). Ne parleremo, senza
perdere di vista quello spirito critico che sempre accompagna il nostro lavoro.

il Direttore

Era appena passato mezzogiorno e nell’ufficio stranieri
non c’era molta gente. Subito approfittammo
dell’insperata fortuna per entrare a ritirare il
permesso di soggiorno della signora D..
Lei era visibilmente emozionata, impaziente, tesa.
Diede in fretta il suo passaporto al giovane uomo dall’altra
parte dello sportello che prese una grossa cartella
e cominciò a cercare. Mentre il ragazzo cercava il permesso
di soggiorno della signora mi attirò l’attenzione
il dialogo allo sportello in fondo.
Un uomo di caagione scura, coi baffi, magro e vestito
leggero per il freddo che c’era fuori, continuava a ripetere:
«Ma io avere lavoro! Io avere casa!». L’uomo
dall’altra parte dello sportello si sforzava di spiegargli
che non è sufficiente avere un lavoro e una casa per portare
la moglie e i figli in Italia, ma un guadagno ben preciso
e una casa grande quanto è grande la famiglia. Ma
non ci riusciva. L’uomo con i baffi continuava a ripetere
di avere un lavoro, di avere una casa e voleva far venire
sua moglie e i suoi quattro figli.
– Devi trovare un altro lavoro con lo stipendio più alto.
E anche un’altra casa, perché questa che hai adesso è
troppo piccola per la tua famiglia.
– Per noi basta. Noi gente modesta. Basta mangiare, vivere.
Casa no piccola. Due stanze. Due stanze. Una io
e moglie, una bambini. In Pakistan tutti una stanza.
– In Italia non si può. Per quanto guadagni e per la casa
puoi portare solo due persone non cinque.
– No persone! No persone! Solo moglie e figli signore!
Solo mia moglie e miei figli.
– Se non cambi lavoro e casa, puoi portare soltanto la
moglie e un figlio. Devi trovare un lavoro con più guadagno
e una casa più grande. Così è la legge!
In quel momento il ragazzo del nostro sportello trovò
il permesso di soggiorno della signora D. e noi uscimmo.
Appena fummo fuori, lei cominciò a baciarmi e abbracciarmi
di gioia, come una ragazzina, ma io non riuscivo
a condividere la sua allegria perché continuavo a
pensare a quel pakistano e all’impiegato allo sportello.
Come si fa a spiegare a un immigrato che lui non
ha il diritto di scegliere come vivere con la sua
numerosa famiglia? Che i suoi figli non hanno il
diritto di dormire tutti insieme in un lettone grande come
si usa nel suo paese, perché questo non è igienico.
Qui siamo in Europa che non sopporta miseria, malattie,
usi e costumi spesso malsani e poco democratici.
L’Europa non sopporta chi si accontenta con poco…

Grassa, ricca ed egoista?
Caro padre Beardi, scrivo questa lettera a
proposito del movimento politico contro gli
immigrati che in questi anni è cresciuto in
Italia e in Europa.
Lo faccio con un mix di dolore, stupore e rabbia.
Non mi offenderò se i lettori di Missioni Consolata
mi accuseranno di aver scritto queste righe sotto
l’influenza di qualsiasi delle sensazioni precedenti.
Però non posso fae a meno. Me lo chiede la mia
storia personale, intima, familiare, quotidiana.
Sebbene ci siano ragioni storiche che mi provano il
contrario, continuerò a pensare che l’Italia sia ancora
quel grande e bel paese che i miei nonni sognarono
fino alla morte. Sempre ricordavano visi, paesaggi,
odori, angustie dell’Italia lontana, sebbene a
loro l’Argentina avesse dato tutto: braccia aperte,
amore, lavoro, figli e nipoti.
Sono migliaia e migliaia gli esuli che oggi abbandonano
questo paese che non riesce a stabilizzare la
propria storia, una storia senza dubbio benedetta
dalle lacrime di coloro che sfidarono la nostalgia
per illudersi con un futuro. Per questo non posso
credere che quell’Italia di emigranti si sia convertita
in una signora ricca, grassa ed egoista, capace di
rifiutare coloro che le chiedono ospitalità.
Mi addolora constatare che anche con documenti in
regola e un passaporto che li accredita come cittadini
europei molti dei miei connazionali con doppia
nazionalità si sentano fuori posto
e discriminati su un suolo, che fu
la terra dei nostri avi. Perché
ormai non interessano più i legami.
Perché – ammettiamolo – a
nessuno importa che ancora esistano
vincoli che ci uniscono.
Mi addolora pensare che la storia
sia passata senza lasciare tracce e
che neppure le sofferenze del passato
servano per ricreare nuovi
legami tra i popoli. Mi addolora
pensare ai miei nonni, che scapparono
dagli orrori di un’Italia
umiliata dalla fame e dall’incubo
della guerra, possano essersi sbagliati
nel trasmetterci l’amore per
quella terra e la famiglia, il rispetto
e l’orgoglio per il lavoro, la
capacità di ringraziare.
Mio nonno Beppo, che venne da
Vicenza, era falegname. Quando
si sposò con Alba, che era arrivata
da Treviso, con il legno delle
piante argentine si costruì i suoi
propri mobili. I nonni morirono, ma i loro mobili
sono ancora qui con noi, perché mai potremmo fare
con essi legna per il fuoco, né consegnarli a mani
estranee. Semplicemente perché essi formano parte
della nostra memoria familiare come le foto, le lettere
ingiallite, i vecchi bauli e i sogni. Soprattutto i
sogni.
Però vedo che l’Italia sta facendo cenere delle sue
riserve. E non parlo delle riserve materiali che – grazie
a Dio – l’hanno resa grande economicamente,
bensì di quelle che nutrono i popoli, che ne costituiscono
l’identità.
La storia potrà dirmi se le mostruosità che oggi si
pretende di fare con i milioni di immigrati in Europa
finiranno per assomigliare a quelle che fecero vari
mostri ideologici del passato e se, in definitiva,
niente è cambiato eccetto i posti a tavola.
Debbo ancora ricordare che 60-70 anni fa erano
l’Italia e l’Europa tutta che battevano ad altre porte,
ricevendo alloggio e calore in molti paesi
dell’America, dal nord al sud.
Per questo mi stupisco nel constatare che
quell’Italia e quell’Europa di emigranti (milioni di
figli che esse non potevano mantenere) oggi si intestardiscono
a invecchiare sole ed isolate, raccogliendosi
a difesa della propria ricchezza, temendo
che gente venuta da fuori possa portargliela via.
Quello che non si comprende (o che non si vuole
comprendere) è che gli affamati e gli esclusi non
sono ladroni, ma vittime; non sono usurpatori, ma
bisognosi. In definitiva, sono uomini, donne, bambini
che chiedono un pezzo di pane, cioè qualcosa di
sacro e considerato come uno dei diritti umani fondamentali.
L’unico documento che queste persone possono
presentare è la loro povertà e questa non è di certo
un delitto. Al contrario, dovrebbe essere la carta di
presentazione per qualsiasi richiesta di soccorso.
L’Antico testamento ci ricorda che con l’esercizio
permanente della memoria, la
tradizione e i legami il popolo di
Dio si aprì il passo per attraversare
il deserto. Allo stesso modo,
oggi, noi che ci chiamiamo cattolici
sosteniamo che nell’eucaristia
e nella orazione ci uniamo a tutti
gli uomini, specialmente ai più
poveri, deboli, indifesi. Però questa
fede comune, questa identità
genetica, quella memoria orgogliosa
sta cedendo alla dimenticanza.
E la storia universale ricorda
che una società senza memoria
finisce per autodistruggersi.
Forse è più facile essere solidali
con uno sconosciuto senza faccia
e senza voce. Forse è meno compromettente
inviare una nave
piena di aiuti alimentari che aprire
la porta a un indifeso.
Mi piacerebbe continuare a pensare,
qui in questa Argentina che
soffre, che l’Italia possa conservare
le sue riserve morali, questa
eredità che ci fu lasciata dai nostri nonni: la capacità
di non nascondere la mano a chi ti chiede aiuto,
né di morderla a chi ti ha dato da mangiare. Perché
neppure i cani mangiano i propri simili. Sarebbe un
sacrilegio.
Credo nel vangelo di Cristo e per questo continuo a
credere nell’uomo, nonostante la rabbia che in questo
momento porto nel mio cuore. Una rabbia che
però sarà passeggera. Deve esserlo.
lettera firmata
da Buenos Aires, Argentina

Snezana Petrovic




Il pescatore di storioni

Un pescatore di
storioni ogni giorno scendeva all’estuario del fiume, che portava diritto
al mare. Era un maestro di pesca: il punto preferito era là dove l’acqua
dolce divideva il fiume dal mare. Il luogo era pure incantevole. Un
pittore di paesaggi si sarebbe certamente soffermato ad osservare, per poi
ritrarre su tela le sue emozioni.

L’uomo pescava
storioni (le cui uova costituiscono il prelibato caviale), li vendeva al
mercato e, con il ricavato, comprava farina, pane, latte, zucchero, uova,
carne. Così sbarcava il lunario.

Dati i discreti
guadagni, il pescatore decise di comprarsi una barca, per muoversi con
maggiore facilità sul fiume. Il pescato aumentava di giorno in giorno,
come pure l’incasso. Lui pescava, pescava… e si arricchiva. Acquistò
un’altra

imbarcazione, molto
più capace,

che trasportava
larghe reti, zeppe di storioni.

La vita sorrideva al
pescatore di storioni.

Il cerchio della
fortuna ruotava a dovere

con molto denaro, e
per un lungo periodo.

Poi le cose
cambiarono. Poiché lo storione scarseggiava, la macchina
della fortuna perdeva colpi, sino a fermarsi. Il pescatore
si ritrovò a condurre una vita povera. Il ricavato gli
permetteva, a malapena, di comprarsi due pani e poche uova.
La bellezza del luogo era rimasta intatta, ma il bisogno
impediva al pescatore di coglierla. Qualcosa s’era rotto nel
meccanismo armonico del meraviglioso fiume.

Al pescatore non
restava altro che pensare alla fortuna dei tempi andati.

Un giorno la
situazione, già precaria, precipitò del tutto. La necessità
indusse il pescatore a trovare uno sbocco economico altrove.
Però non riusciva a capacitarsi perché, dopo tanti anni di
fedeltà, il fiume gli avesse voltato faccia!

Prima di andarsene,
volle salutare il saggio del villaggio, che abitava sulla
collina più alta. Il vecchio lo accolse con grande fervore, lo fece
accomodare, gli diede da bere e gli chiese: «Come mai sei venuto fin
quassù? Di solito, chi sale a trovarmi è perché ha deciso di andarsene dal
paese: c’è chi parte per nuove avventure e chi, invece, per necessità!».

Il pescatore di
storioni raccontò tutto.

Il saggio disse:
«Montagne e colline, mari e fiumi, ogni volta che li guardiamo, sembrano
uguali al giorno precedente. Però cambiano. E chi ci vive dentro, il
mutamento lo sente, eccome! Lo sentono i pesci del fiume e gli animali
della collina. Anch’essi sono costretti ad emigrare. Ma è l’uomo, forse
senza saperlo, che costringe altre creature a spostamenti forzati e,
talora, alla morte. L’uomo, con un comportamento senza regole, può
distruggere tutto: è in gioco l’avvenire di tutti».

Tutte le ingordigie
e gli egoismi si ritorcono contro l’ingordo ed egoista. Proprio come
recita il proverbio: «Chi troppo vuole nulla stringe».

Giovanni Fumagalli




VENTO GIALLO nel dramma israelo-palestinese

Medio Oriente, Israele,
Palestina, Gerusalemme…
Al solo evocarli il cuore
si riempie di tristezza. Violenza,
devastazione, odio impoveriscono
l’umanità. Come si è potuto
arrivare a questo punto?
E, al di là della facile retorica,
quali strumenti abbiamo
per comprendere la situazione?
Le idee dello scrittore israeliano
DAVID GROSSMAN.

Nel marzo 1987 uscì in Israele Vento
giallo, il sofferto ed onesto reportage
dello scrittore israeliano David
Grossman, che raccontava situazioni ed
umori nella West Bank. L’allora capo del
governo d’Israele, Ytzkhak Shamir, lo
definì «una trovata giornalistica e nulla
più».
Nove mesi dopo, dicembre 1987, tra la
sorpresa degli israeliani e degli stessi palestinesi
(non di Grossman), iniziò l’intifada
palestinese. Nella prefazione all’edizione
italiana (marzo 1988)
Grossman ammoniva: «La lunga dominazione
nei Territori ha danneggiato
Israele, oltre a far torto ai palestinesi,
però il considerare l’atteggiamento israeliano
come fondamentalmente errato e quello
palestinese come del tutto giusto è anche questa
una faciloneria bugiarda».
Già all’età di 10 anni David Grossman, nato
nel 1954 a Gerusalemme, conduceva una
trasmissione per ragazzi a Israel Radio.
Perfezionata la sua vocazione di comunicatore
radiofonico con lo studio del teatro e della
filosofia, Grossman diventa famoso nel mondo
per i romanzi per bambini ed adulti, tradotti
in 17 lingue.
In Italia si è fatto conoscere con il suo originale lavoro Vedi alla voce: amore,
in cui il piccolo protagonista Momik
crede che la «belva nazista» sia un
animale vero. Nel 1997 ha vinto il superpremio
Grinzane Cavour con il
romanzo Ci sono bambini a zig zag.
Con onestà Grossman si definisce
«un artista del rinvio»,
perché «per anni non sono
andato a compiere visite nei Territori
e nemmeno nella Città Vecchia di
Gerusalemme. Non l’ho fatto anche
perché sentivo quanto mi odiavano
gli abitanti di quei posti e, soprattutto,
perché mi rivolta sapere che esistono
tra esseri umani rapporti di
ineguaglianza».
Forse, però, questo continuo rinvio
ha permesso che radici profonde
crescessero nell’anima dello scrittore
israeliano, che a 33 anni con Vento giallo, frutto di un
rigoroso lavoro di ricerca condotto da un poeta con metodo
e determinazione, ha scritto un libro profetico, scevro
da ogni ipocrisia e sconcertante per la sua attualità
dopo 15 anni. Scrive, infatti, Grossman: «Quando mi
sono accinto in questo viaggio ho deciso di non incontrarmi
con uomini politici e personalità ufficiali, né tra
gli ebrei né tra gli arabi. Volevo incontrarmi solo con
quelli che sono i veri attori, che recitano loro stessi davvero
in questa tragedia, con quelli che pagano di persona
il prezzo delle loro azioni e dei loro insuccessi, del
loro coraggio e della loro codardia, della loro corruzione
e della loro nobiltà».
Lo scrittore ci presenta i protagonisti della «tragedia
» in una serie di «ritratti d’autore» che ci spalancano
orizzonti davvero inaspettati. Nel campo profughi
di Deheisha (dal bambino di 5 anni alla donna di 80)
«tutti loro sono qui… ma tutti loro sono anche laggiù.
Vale a dire che si trovano lì da noi, che sono in quella
che oggi è Israele». Più di due milioni di profughi «si
inebriano di sogni», che in molti casi si trasformano in
odio spietato.
I versi del poeta Radijah Shehadah di Ramallah, ispirati
dall’olivo, dipingono questa metamorfosi «e in quello
stesso momento l’olivo mi ha rapito/e al suo posto c’è
un vuoto in cui confluiscono dolore e ira». Grossman
vede sui volti dei profughi rassegnazione e odio, fomentati
dalle brutali irruzioni nottue dei soldati israeliani
per scoprire «terroristi» ed imprigionare sospetti.
La scuola dell’odio inizia nei fatiscenti asili infantili
dei campi profughi, si nutre con la vita negli stessi campi
e nella disumana ed umiliante attesa ai posti di blocco;
si perfeziona, infine, all’università. L’università di
Betlemme, ad esempio, è animata da studenti seri ed interessati
che dichiarano «l’occupazione militare ci opprime
», mentre «su un grande asse è inchiodata una
grande carta della Palestina, colorata in rosso, con la
scritta “La Palestina a Noi!”».
Persino nel villaggio di Wadi Aguku gli abitanti,
strappati dalla loro terra nel 1948 e fatti ritornare nel
1972, ricordano: «La vita nel campo profughi è dura, là
si deve sempre chinare la testa, aspettando la botta che
non mancherà di colpirti. Dopo qualche anno uno non
ha più nulla se non la paura e la miseria. Spera solo di
morire». Ed è Abu Karb, 85 anni, «la storia ambulante
del paese», a suggerire a Grossman il titolo del libro ricordando:
«Dalla porta dell’inferno verrà questo vento
(perché dalla porta del paradiso spira solo un vento fresco)
e sarà quel vento che gli arabi del posto chiamano
Riah Azpar, vento giallo che viene dall’Est, un vento tremendamente
caldo, un vento che a volte… incendia tutta
la nostra terra, e allora tutti scappano a rifugiarsi nelle
grotte e nelle cavee; ma, anche lì dentro, il vento
raggiunge quelli che vuole raggiungere e cioè i malvagi
e crudeli operatori del male, e lì, negli anfratti delle rocce,
li uccide tutti a uno a uno. E poi, quando questo vento
sarà passato, tutta la terra sarà coperta di cadaveri».
Lo scrittore israeliano registra con rigore i paradossi
insiti sia nel controllo spietato dei Territori e le azioni
brutali, commesse dai soldati israeliani sui ponti, dove
tra lacrime e strilli di bambini vengono distrutti pure i
giocattoli già controllati, sia l’ottusità nell’appoggiarsi ai
«vastari». È questa una «mafia» araba mediatrice nei villaggi
e nel non controllo di dormitori clandestini e imprese
di pulizia, tanto che «dovunque andranno, gli operai
arabi saranno guardati con sospetto, li frugheranno,
li tormenteranno a ogni momento; però ci sono lunghe
ore, al buio, in cui loro hanno in mano tutte le nostre
chiavi».
Denuncia, inoltre, in quale focolaio d’odio e divisione
si può trasformare «l’associazione clandestina di terrorismo
ebraico», che ha in Ofra una delle sue roccaforti. «Dall’essere Anshé
Emunim, uomini di fede, sono
divenuti Gush Emunim, un blocco
di fede… Perfino l’ebraico che
molti di loro parlano è rozzo e superficiale
e stereotipato. Nelle loro
case quasi non ci sono libri (all’infuori
dei libri di religione) e il
loro coinvolgimento nella vita
culturale è in generale piuttosto
basso».
Sul fronte del mondo arabo
Grossman registra sabotaggi, atti
vandalici e atroci crimini, commessi
dai gruppi terroristici arabi,
contro inermi famiglie ed innocenti
bambini israeliani.
In questo suo «viaggio» faticoso
Grossman ha anche incontrato
persone dal volto
«umano». Muni, «definito da tutti un vero uomo», è nato
nei quartieri ultrabene di Rehavia a Gerusalemme e
«rappresenta l’insediamento sulla terra, la colonizzazione
delle zone aride, il fare del deserto
un giardino… Rappresenta l’onestà
e il sacrificio, la semplicità, e
anche una certa rozzezza di modi
che però nasconde una grande capacità
d’azione».
L’autore ha ottenuto informazioni
attendibili nei villaggi grazie a
Nissim Krispil che, studioso di scienze
naturali e della civiltà materiale
degli arabi palestinesi, «parla arabo
come un indigeno… cerca di aiutare
i suoi amici in difficoltà con il governo militare e compie
tante altre piccole azioni… il cui valore però è immenso
agli occhi degli arabi».
C’è pure l’avvocatessa Leah Zemel, infaticabile nel
difendere i diritti degli arabi, che dimostra «franchezza
e spontaneità nelle relazioni e senso di uguaglianza, senza
nemmeno un’ombra di pietismo; assenza di qualsiasi
senso di inferiorità o di superiorità, e nessun patealismo
molle e remissivo».
Tra gli arabi spiccano la figura di Abu Khatam per la
sua «incrollabile nobiltà d’animo e radici profonde, naturali
e superbe» e Tohar, che ha studiato all’Università
di Gerusalemme e ha due bambini sordomuti cui «parla
con amore, con molta semplicità, senza rancore con
nessuno».
Infine l’autore de «La terza via», l’avvocato Radja
Shahadah, un cristiano discendente da «una delle più
illustri famiglie della nobiltà araba», afferma: «Scrivo.
Mi occupo delle ingiustizie legali commesse dalle autorità
nei riguardi dei palestinesi… Faccio tante cose per
non tacere. Se provo odio? Provo ripugnanza quando
incontro degli scemi che dirigono gli affari qui e là. Non
è odio, è compassione».
Grossman termina questo lavoro importante con una
esortazione profetica ed attualissima: «Già da
vent’anni viviamo in una situazione falsa ed
artificiale, basata su illusioni e sull’incerto
equilibrio tra l’odio e il terrore, in un deserto
di sentimenti e di coscienza, e il tempo che
passa diviene pian piano un’essenza a sé, pesante
e sospesa su di noi come un giallo e
soffocante strato
di polvere… Albert
Camus ha detto
che questo passaggio
obbligato, dalla
parola all’azione
morale, ha un nome. Si chiama
“divenire un essere umano”…
Mi sono chiesto quante
volte, durante gli ultimi 20
anni, sono stato degno di
chiamarmi “essere umano” e
quanti fra i milioni di partecipanti
a questo dramma ne
sono stati e ne sono degni…».

«Uno Stato in una situazione imbarazzante
si reinventa un nuovo vocabolario.
Israele non è il primo stato che fa ciò.
Però coloro per i quali la lingua è qualcosa
d’importante si ribellano nel vedere come
la lingua si va pian piano deteriorando…
Per me la precisione linguistica è simile
ad un’azione di sminamento; le parole
devono essere come bandierine poste su
ogni mina localizzata: non devono
neutralizzare gli esplosivi, ma dare atto
della loro presenza in un certo posto,
dichiarandoli col loro vero esatto nome.
Le parole ingannevoli sono sabbia che
nasconde le mine. Sono sabbia
che ci è buttata negli occhi».
David Grossman,
Il vento giallo, maggio 1987

ROMANZI
DI DAVID GROSSMAN,
PUBBLICATI IN ITALIA DA MONDADORI:
L’uomo che corre, Il sorriso dell’agnello,
Le avventure di Itamar, Vedi alla voce: amore,
Il vento giallo, Il giardino d’infanzia di Riki,
Il libro della grammatica interiore, Ci sono bambini
a zig-zag, Un popolo invisibile, Che tu sia per me
il coltello, Un bambino e il suo papà, Il duello.

Silvana Bottignole




I «puntini» sui musulmani

Egregio direttore,
il 24 gennaio scorso si riunirono
ad Assisi i rappresentanti
delle principali
religioni a pregare per la
pace: erano monoteisti e
animisti. Li univa un’idea
superiore e universale.
Noi (che crediamo in
un solo Dio) siamo più vicini
ad ebrei e islamici; ma
riconosciamo in Gesù il
Dio che si è fatto uomo e
ha patito la croce per redimerci
dal peccato. Il suo
messaggio è la nostra legge
ed è la rivelazione, che
Gesù ha detto di predicare
a tutte le genti. È una
rivelazione divina: quindi
definitiva e non ha bisogno
di ulteriori complementi.
Gli islamici considerano
rivelazione il corano di
Muhammad, il quale dice
di averla ricevuta da Dio
attraverso l’arcangelo Gabriele.
Nella libertà di religione
noi rispettiamo il loro
credo, ma non lo condividiamo.
Inoltre essi non
hanno un’autorità superiore
che indichi cosa bisogna
credere; quanto loro
dicono gli studiosi coranici,
magari con
affermazioni contraddittorie
secondo i casi e i
tempi, può diventare verità
cui si vincolano.
Per la legge italiana c’è
parità tra uomo e donna,
mentre gli islamici intendono
la donna soprattutto
come un mezzo per avere
discendenza. E sono succubi
della «legge islamica
», successiva a Muhammad,
che detta norme a
volte incivili.
La stampa cattolica, sotto
il pretesto dell’accoglienza
e tolleranza, non è
esplicita; versa tanta acqua
sul fuoco pro bono
pacis, guarda solo al poco
che ci unisce e non al tanto
che ci divide. Da quello
che vi si legge c’è da pensare
che la religione islamica
sia anch’essa vera,
che la fede degli islamici è
buona come la nostra. Il
corano ha la stessa autenticità
della bibbia. Se dicessimo
il contrario, li offenderemmo.
Forse gli islamici sono
più religiosi di noi; ma noi
per loro siamo degli infedeli
ed essi per noi sono
gente di un’altra religione.
Forse fra qualche secolo
ci capiranno, per ora no.
Ora ci disprezzano con una
punta di odio, che è
dettato in tutta coscienza,
e va rispettato. Noi non
capiamo la religiosità degli
islamici: tutti, in perfetta
fila, pregano più di noi,
anche se le donne non sono
in mezzo a loro. Io ci
vedo anche tanto formalismo,
molta convinzione,
ma anche tanta usanza
tradizionale.
Muhammad è profeta in
senso biblico? Veramente
il corano è stato recapitato
dall’arcangelo Gabriele?
Ditecelo, per favore.
La maggioranza dei cattolici
non ha capito se i
musulmani sono fratelli o
concorrenti e non sa, su
ciò che ci divide, come
comportarsi e cosa credere.
Ogni tanto capitano
dei fatti gravi che ci lasciano
perplessi. Mai una volta
che, durante un’omelia,
si senta parlare di islam,
anche per mettere le mani
avanti e aprire gli occhi ai
cattolici disinformati.
Perché non mettete i
punti sulle «i»?

Lettera importante
quanto «delicata».
Lo studioso Maxime
Rodinson definì Muhammad
un profeta armato
di scimitarra. In tal caso,
il fondatore dell’islam
non è un profeta secondo
lo spirito biblico dell’amore.
Né lo fu, ad esempio,
Elia, quando scannò
i profeti di Baal [divinità
della natura in Siria-Palestina]
(cfr. 1 Re 18, 40).
«Veramente il corano è
stato recapitato dall’arcangelo
Gabriele?». Forse
non è costruttivo domandarlo.
Infatti i musulmani
potrebbero
subito replicare: «E chi vi
dice che l’angelo abbia
annunciato a Maria che
sarebbe divenuta madre
di Dio?». Così le dispute
religiose continuerebbero,
sterili, all’infinito!
Riteniamo che il confronto
fra «noi» e «loro»
(previa mutua conoscenza
culturale-religiosa)
debba riguardare soprattutto
le leggi dello stato e
il mancato rispetto dei diritti
umani (libertà, reciprocità,
uguaglianza) in
ogni angolo del mondo:
un’autocritica musulmana
è importante… Importante
è pure conoscere le
possibili conseguenze dei
«matrimoni misti».
Altri temi su cui confrontarsi
sono la democrazia
e la «modeità»,
argomenti temuti da tanti
leaders musulmani.

Lettera firmata




La morte è morte (ma non è sempre uguale)


Attentati, bombe, guerra e messaggi di guerra. In questi ultimi mesi la morte è entrata nelle case e nei discorsi della gente.

Riflettendo sulla «morte dolce», mi sono venute in mente alcune morti alle quali ho assistito personalmente ed altre su cui ho provato a ragionare.

È vero: la morte è morte e basta. Ma così, quasi per vezzo, ho provato a mettere ordine alla mia esperienza dando un aggettivo ad alcune di esse. L’ho fatto, come mia abitudine, parlando prevalentemente di cose concrete e senza pretendere di dare giudizi, che non competono a nessun medico. Noi medici, in fondo, siamo solo persone che accompagnano la vita di ciascuno sulla base della cultura della comunità, della tecnologia a disposizione, della porzione di finanziamenti messaci a disposizione dalla società e dall’intuito che a volte accompagna i migliori di noi.

La morte prima

Il mio primo morto lo ricorderò per sempre.

Viveva in un isolato all’altro lato della piazza del quartiere di Villa El Salvador (Perù) nel quale da poco mi ero trasferito provenendo direttamente, e fresco di studi universitari, da Roma dove ero cresciuto ed avevo studiato.

Saranno state le due o tre di notte e sentii bussare freneticamente alla porta. Mi alzai e, rendendomi conto dell’agitazione della persona che mi cercava, mi infilai un paio di pantaloni e, con la borsa da medico alle prime armi, le corsi dietro.

Era già morto (probabilmente un infarto). Tutti mi chiedevano di fare qualche cosa e, nella coscienza di ingannare me stesso e gli altri, iniziai un inutile tentativo di massaggio cardiaco. La gente, sicuramente più cosciente di me dell’inutilità di quanto stavo facendo, mi incitava a continuare gridando disperatamente il nome del morto, sperando forse in un miracolo. Aveva una cinquantina d’anni e morire a quest’età, lasciando moglie e figli, era percepito come un tradimento. Quella morte non doveva succedere. Ma la morte (probabilmente) è indifferente alla volontà dei vivi.

La morte falsa

Un’altra volta, sempre di notte, mi chiamarono (perché mai si muore più spesso di notte?) perché un giovane era moribondo. Corsi come sempre disarmato e mi trovai nel bel mezzo di una festa a base d’alcornol, con la musica assordante che continuava ad uscire da uno sgangherato ma efficiente stereo e con la gente che urlava, minacciandomi. Un giovane apparentemente in coma era disteso su di un letto, circondato da familiari ed amici.

Mi misi ad urlare più di loro, cacciai via tutti e, non ricordo come, riuscii a fargli vomitare i litri d’alcornol che aveva in corpo.

Venni trattato come il più grande medico, ma non ne fui orgoglioso.

La morte improvvisa

Mi lasciò molto perplesso trovare un bambino morto, quella volta che mi chiamarono (sempre di notte). Erano due gemellini; uno di loro si era addormentato senza risvegliarsi. Morte improvvisa?

Il bambino era ben curato, di poco più di un anno, grassottello, i lineamenti sereni. Sembrava addormentato.

La morte prima della nascita

Era buio, ma non ancora notte. Il bambino era nato morto in una baracca, forse assistito da una partera, che nulla aveva potuto fare. In realtà, il bimbo era già morto nell’utero.

Mi chiesero di non fare alcun certificato, perché non avevano i soldi per portarlo al cimitero ufficiale. Non lo feci e quel bimbo (che mai era nato) non morì mai.

La morte ingiusta 1 (una delle tante)

Arrivò correndo al mio ambulatorio una madre con un involtino fra le braccia. Tutti i pazienti in attesa urlarono che c’era un’emergenza e la donna appoggiò il fagotto sul lettino e, aprendolo, scoprì il corpicino di un bimbo denutrito ed ormai freddo.

Quella volta urlai contro la donna. Urlai che io ero in ambulatorio sempre e che lei non poteva portare il piccolo solo all’ultimo momento. Urlai che cosa voleva da me, che io ero un medico e che forse avremmo potuto salvarlo. Urlai (lo dico a mia discolpa) perché non era giusto e urlerei ancora adesso (ogni volta che ricordo quel fatto, mi viene un nodo in gola) perché, se la morte è ingiusta, non penso che si possa trovare pace.

Forse il mio urlo era rivolto contro questo nostro mondo, ma solo quella madre disperata (e forse incosciente) ed un piccolo gruppo di pazienti in attesa mi potevano sentire.

La morte ingiusta 2 (un’altra delle tante)

Era una bimba piccola e denutrita. La madre ce l’aveva portata e non eravamo riusciti a salvarla.  Avevamo però lottato insieme a lei e insieme avevamo perso.

Ero andato a visitarla nella sua baracca e la bimba giaceva vestita di bianco, il volto si era rasserenato ed era quasi bella (i bambini denutriti sono sempre brutti).

Avevo notato che la madre non piangeva e le chiesi perché.

Mi rispose molto dignitosamente che la bimba non aveva ancora vissuto e che, quindi, non poteva lasciare il vuoto che lascia un anziano quando muore. Lo capii, sinceramente, anche perché sapevo che la madre aveva lottato per farla vivere.

La morte ingiusta 3 (ancora una)

Maria Elena (sì, proprio quella che morì di morte assassina per mano di Sendero Luminoso) un giorno arrivò correndo a casa mia. L’accompagnava un’altra donna e fra le braccia aveva un piccolo bambino.

«Sono arrivata troppo tardi – mi disse appena entrata -, ho sentito l’anima del piccolo sfuggirmi».

Il bambino era morto fra le sue braccia e, nel suo sguardo profondo, capii il suo immenso dolore e la sua grande sorpresa. Il bambino era figlio di una donna che aveva incontrato per strada e che stava cercando un medico.

La morte giusta

Mia nonna è morta a 97 anni. Sapeva che era giusto morire e quasi desiderava raggiungere mio nonno, ma…. era attaccata alla vita e non voleva farsi vincere dalla morte. Ha lottato fino all’ultimo, non perché non voleva morire, ma perché voleva vivere.

Questo è bello e giusto.

La morte desiderata

L’assistente sociale (e torniamo in Perù) mi aveva avvisato che in una casa nelle vicinanze dell’ambulatorio c’era un vecchietto e che da tempo i familiari dicevano che doveva morire.

Andai a casa sua e, entrato, mi abituai lentamente all’oscurità. C’era un letto e su questo era disteso un vecchio avvolto dalle coperte.

Gli parlai serenamente e gli chiesi che cosa aveva. «Sono vecchio – mi rispose – e mio figlio non aspetta altro che la mia morte; ma io non ho nessuna intenzione di morire».

«Che problema c’è?» chiesi. Mi mostrò allora la cassa da morto preparata al suo fianco, lamentandosi per questa stupida spesa che suo figlio aveva fatto con troppo anticipo.

Aiutai in quell’occasione l’assistente sociale a portare via la cassa e, lasciata la casa, non potei che aggiungere quest’altra esperienza (la fantasia dell’uomo è senza limiti) alla mia collezione di «cose umane».

La morte assassina

Maria Elena è stata uccisa da Sendero Luminoso.

Due colpi di pistola davanti ai propri figli e poi un candelotto di dinamite per fare a pezzi il suo corpo nel tentativo di fare a pezzi la sua memoria. Più tardi un altro candelotto per distruggere la sua tomba.

Maria Elena  aveva trent’anni. Era una bellissima ragazza negra, una dirigente popolare sincera e preparata, una leader politica di sinistra e rivoluzionaria, cosciente e democratica, un’amica.

Maria Elena vive nei nostri cuori, Sendero Luminoso è morto.

La morte per chi rimane

Don Rubio era un dirigente popolare e viveva a lato della mia casa. Un cancro lentamente l’ha portato via. Alla sua morte la gente si è riunita intorno alla salma e, chiacchierando, ha ricordato passo passo la storia vissuta con lui.

Le avventure, le lotte, gli scioperi, gli scherzi, le risate. Insomma la vita.

Dopo una notte passata a vegliare la salma, a bere e a mangiare, i suoi resti sono stati portati a spalla da una casa all’altra e tutti si sono fermati per un ricordo ufficiale al centro della piazza, dove spesso aveva arringato la folla.

La morte sulla coscienza

Ero stanco quella sera. Bussò un signore e mi disse di un bambino che stava male. Gli diedi alcuni suggerimenti e mi feci dare l’indirizzo per visitarlo la mattina successiva.

La mattina trovai la famiglia che vegliava il bimbo morto.

Perché, perché, perché… non mi ero mosso quella sera come avevo fatto tante volte? Quante volte mi sono ripetuto la domanda! Non ho mai trovato una risposta che potesse assopire la mia coscienza.

La morte cercata

La libertà che ha l’uomo è immensa. La decisione più estrema è il suicidio. Ricordo che in gioventù avevo assistito ad una messa nella quale un curato di campagna aveva negato il cimitero cattolico ad un suicida.

Per il nostro ordinamento il suicidio non è più un reato da tanti anni. Rimane reato, e mi pare giustissimo, l’istigamento al suicidio.

La nostra libertà è immensa e nessuno può essere giudicato per l’uso della propria libertà, quando ciò non limiti o condizioni la libertà degli altri.

La morte violenta

Morire per strada è esperienza che ha toccato i sentimenti di molti di noi.

È la prima causa di morte fra i venti ed i trent’anni. È una morte che grida vendetta perché spesso causata da nostra leggerezza.

In Perù è ancora più frequente; un paese povero è anche un paese nel quale le auto hanno le gomme lisce, i freni possono non funzionare, i semafori sono scarsi, gli autobus sovraffollati e vedere morti per strada coperti di fogli di giornale è esperienza quotidiana.

Non mi piace questa morte.

La morte in ospedale

Nel territorio dell’ospedale che contribuisco a dirigere, muoiono circa 1.500 persone all’anno (quelle che nascono sono meno).

Di queste, più del 60% muoiono in ospedale, altre nelle case di riposo e un piccolo numero anche in casa (forse il 20, massimo il 30%; tra l’altro, se si è ammalati terminali, è anche molto costoso morire in casa).

Noi non siamo più capaci di convivere con la morte.

La morte dolce

L’eutanasia è un problema di noi ricchi, non dei paesi poveri.

È facile morire in Perù, come è facile nascere. Più difficile è vivere e, se si muore anziani e/o malati, lo si fa in silenzio e senza tante discussioni. Le terapie del dolore sono un lusso e morire negli ospedali è uno spreco.

No, non sono d’accordo con l’eutanasia, pur conoscendo la sofferenza. Non mi sento però di giudicare chi decide autonomamente di fare propria l’estrema libertà di cui disponiamo. Però diverso è farne una professione.

Noi medici lavoriamo per la vita e solo per questa dobbiamo spendere le nostre forze senza accanirci contro la morte che ci aspetta sempre e che è parte della vita stessa.

La morte mia

Un ragazzo con tubercolosi, che ero riuscito a ricoverare, è stato dimesso perché oramai doveva morire. È morto solo nella sua baracca. Vomitando sangue.

Non conosco la morte in guerra. Me ne hanno parlato i miei nonni e spero di non raccontarla mai a mio figlio.

Quando morirò, se i miei amici vorranno sedersi intorno a quello che resta di me e ricordarsi della vita vissuta insieme e se lo faranno ridendo e bevendo un buon bicchiere di vino, saranno i benvenuti. Se poi invece, per la fretta della nostra vita, non avranno il tempo di farlo, non ne serberò rancore.

E ancora io dico pubblicamente: se servissero, prendete i miei organi, le cornee ed i tessuti che possano aiutare a dare vita a qualche altra persona. La vita continua anche dopo la morte.

Guido Sattin


L’antrace e le guerre dimenticate

I morti dei vincitori e quelli dei perdenti

L’emergenza carbonchio (comunque limitata a pochi casi) è stata affrontata con grande clamore, mentre per Aids, malaria, tubercolosi, febbre gialla, dengue, colera…

Sul treno che da Venezia mi porta a San Donà di Piave (dove ha sede uno degli ospedali nei quali lavoro) si è formato un interessante gruppo di pendolari che, nella mezz’ora di viaggio, si scambiano liberamente le impressioni sul mondo. Siamo medici, psicologi, ingegneri, bancari, funzionari pubblici e privati ed un portiere di notte di un albergo di Venezia, che smonta dal lavoro quando noi andiamo verso il nostro.

Gino è uno del gruppo. È un veterinario con un’esperienza di tanti anni alle spalle. È stato proprio lui a raccontarci del carbonchio, degli animali che ricorda aver visto con questa antica malattia, di alcuni pascoli vietati nella zona di Belluno a causa della sua presenza.

In treno discutevamo con stupore ed incredulità sulle notizie relative al primo caso di terrorismo «biologico» nella storia dell’umanità e cercavamo di ricostruire nella memoria le nostre conoscenze sul carbonchio senza, in verità, ricordarci molto.

Nei nostri ricordi, il carbonchio era una malattia degli erbivori, che solo raramente veniva trasmessa all’uomo e che fondamentalmente colpiva addetti ai lavori (pastori, allevatori, addetti alla macellazione) con una forma cutanea benigna e sensibile alla terapia. Ricordavamo anche una forma intestinale, per consumo di carni infette, e sinceramente nessuno di noi conosceva la forma polmonare.

In Perù, nell’anno 2000, ci sono stati 43 casi di carbonchio cutaneo e intestinale, mentre nei paesi dove vi è un controllo costante ed effettivo della produzione degli alimenti, la malattia umana è pressoché scomparsa.

È quindi una malattia animale, detta anche antrace, dovuta ad un batterio che sopravvive nell’ambiente sotto forma di spora. Nulla di preoccupante, quindi? Tutto sotto controllo? Sì, tutto sotto controllo. Apparentemente. La fantasia distruttiva dell’uomo ha però individuato in questo bacillo e nella sua spora uno strumento di guerra.

Il ragionamento è semplice. Le spore in natura si trovano, in concentrazione molto bassa, in alcuni terreni. È bastato moltiplicarle, renderle in qualche modo più leggere, concentrarle ed ecco che una malattia animale si può trasformare per l’uomo in una temibile infezione polmonare. Dato poi che la fantasia non ha limiti, inserire queste spore leggere in buste della posta ed inviarle a casa delle vittime prescelte, è un gioco quasi da ragazzi.

Se poi le vittime sono le segretarie che aprono le buste ed i postini che distribuiscono la posta, questi sono solo risultati collaterali di una follia che non ha pari e le cui origini nessuno di noi ancora conosce.

No, non mi terrorizza tutto questo, semplicemente mi lascia allibito. Che nei confronti di questo attacco batteriologico si dovesse rispondere con la massima energia, non vi è alcun dubbio. Ma qualche domanda… permettetemi… mi sovviene.

L’antrace, la peste, il vaiolo, il virus Ebola… quante saranno le armi batteriologiche pronte ad ammazzare in maniera casuale e indiscriminata?

Ma, oltre ai responsabili diretti delle azioni (assassini come coloro che hanno fatto crollare le Torri gemelle), quali sono le responsabilità di chi ha studiato e prodotto per anni queste armi in laboratori, più o meno segreti, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Chi ha venduto le tecnologie a paesi terzi? Chi si è rifiutato di firmare la convenzione sulla messa al bando delle armi batteriologiche?

E poi ancora una domanda: perché gli Stati Uniti (colpiti da questo attacco) hanno ottenuto di acquistare gli antibiotici (il «Cipro») a prezzo scontato, dietro la minaccia di togliere il brevetto alla società produttrice (la Bayer), mentre non si riesce ad ottenere la stessa cosa per altre epidemie? (*)

La guerra quotidiana all’Aids, alla malaria, alla tubercolosi… le milioni di vittime di queste tre malattie (per non parlare delle altre più dimenticate, come le diarree infantili, la febbre gialla, il dengue, il colera e chissà quante altre) forse avranno ottenuto meno finanziamenti della produzione dell’antrace nei laboratori di chi ora ne è vittima.

Si sa, i morti dei vincitori pesano sempre più di quelli dei perdenti; quelli poi di chi nasce perdente, non trovano neanche chi osi contarli.

La guerra al terrorismo va fatta, anche duramente. Quella alla povertà è una guerra dimenticata.

(*) Nella riunione dello scorso novembre, a Doha, l’Organizzazione mondiale del commercio ha dovuto fare qualche concessione in materia di brevetti farmaceutici. Ne parleremo prossimamente.

Guido Sattin