Rigoberta Menchu


Rigoberta, il riscatto maya

In America Latina, ci sono figure profetiche che da sole spiegano e rappresentano il riscatto sociale di quel continente ancora oggi saccheggiato, ma non più completamente in balia delle nazioni occidentali. Una di queste è stata ed è Rigoberta Menchú, indigena maya del Quiché guatemalteco, che nel 1992, 500 anni dopo la «conquista» dell’America, la cosiddetta «scoperta» del Nuovo Mondo, fu insignita, per la sua dedizione alla causa dei presunti sconfitti (raccontata anche nella sua autobiografia Me llamo Rigoberta Menchú, ndr), del Nobel per la Pace. Proprio in quel lontano 1992 io avevo seguito Rigoberta Menchú in uno dei suoi tanti viaggi di speranza in aiuto al suo popolo. Con la generosità che la contraddistingue, Rigoberta aveva deciso di accompagnare il viaggio di ritorno di alcune migliaia di esuli della sua bellissima e martoriata terra, rifugiati in Messico o in altre terre del Centro America, nuovamente fiduciosi nella pace. Purtroppo quello non sarebbe stato il viaggio definitivo di ritorno a casa, né la fine di violenze, torture e desaparecidos (oltre 55mila vittime, secondo il rapporto Remhi, ndr) ma avrebbe rappresentato comunque l’inizio di una stagione di accordi di pace (firmata nel dicembre 1996, ndr) tra popolazioni autoctone e militari, pur se spesso violati o non rispettati.  Era una sera di fine anno. Al confine con lo stato di Campeche, uno dei tre dello Yucatan messicano, erano venuti a riceverla i ragazzi degli accampamenti limitrofi cavalcando rudimentali tricicli o risciò a pedali insieme a Blanche Petrich, una giornalista messicana che da tempo aveva sposato la causa degli indios guatemaltechi. L’unica luce per inquadrare questo tenerissimo benvenuto era stata il flash della cinepresa della mia troupe. Rigoberta Menchú, all’epoca 33enne, aveva scelto di trascorrere gli ultimi giorni di quel 1992 nei campi dei rifugiati del suo paese in Messico quasi come un esorcismo, sicura che le sofferenze del suo popolo stessero per finire.

Quella sera c’erano fratelli indigeni di tutte le etnie – Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal -, ai quali lei non si era stancata di predicare l’unità nella diversità e una vita che non rinnegasse i miti maya, ma fosse capace di conciliarli con una società solidale, laica, multietnica e pluralista. La figlia di Vicente, il catechista bruciato vivo nel 1980 nell’ambasciata di Spagna della capitale guatemalteca dalla repressione di un potere militare feroce, ci aveva insegnato, inoltre, a non disperare mai, come le aveva insegnato a sua volta sua madre Juana, comadrona (levatrice) nella sua terra millenaria, dove era stata torturata e uccisa.

Quella sera aveva aspettato il nuovo anno ballando il son al suono delle marimbe, mentre, attorno all’accampamento di Quetzal, facevano festa, con divertita compostezza, giovani donne che portavano come lei il delantal, un grembiule colorato segno della loro dignità e legame con la loro educazione e poi molte adolescenti, a piedi nudi, con un bambino al seno, e altre, giovanissime, con un fratellino sulla spalla o sul fianco legato con fasce coloratissime. I ragazzi vestivano con meno timidezza e avevano jeans, scarpe da ginnastica e atteggiamenti più vicini ai coetanei messicani. I vecchi, invece, erano meno numerosi, con i loro scavati profili maya e l’abitudine a osservare senza dire una parola. «Non si diventa vecchi in America Latina» ha scritto, non a caso, un poeta di quelle parti.

Per gli spietati militari del Guatemala, il premio Nobel a una indigena era stato un colpo durissimo, una notizia accolta con malcelato disagio. Il presidente dell’epoca, Jorge Serrano, l’aveva ricevuta al suo ritorno, dopo l’esilio messicano, con cortese freddezza, quasi redarguendola perché non creasse polemiche. «Una volta io, cristiana e credente – mi aveva confessato Rigoberta – venivo accusata di essere simpatizzante del comunismo, poi quando il comunismo si è dissolto, l’accusa è diventata quella di essere vicina alla guerriglia. La tecnica dei militari di casa mia, aiutata dagli istruttori israeliani, argentini e nordamericani, ricorda quella della mafia: quando non è possibile eliminare gli ostacoli rispettando le leggi, bisogna tentare di criminalizzare l’avversario. Adesso, per esempio, affermano che io voglio mettermi in politica e diventare presidente della Repubblica». Aveva concluso sorridendo.

Di tutte le battaglie che ha sostenuto negli anni, quella politica è stata la più azzardata. In due occasioni (nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo poco più del 3% dei voti, ndr) la sua candidatura alla Presidenza guatemalteca non ha avuto esito. È sorprendente e un po’ amaro per il prezzo che ha dovuto pagare la sua famiglia sterminata dai militari e per le lotte da lei combattute per i diritti dei fratelli maya e di tanti latinoamericani intrepidi e sognatori. Ma so che un giorno o l’altro la troverò ancora una volta in prima linea per difendere le aspirazioni di tutti, come ha fatto a New York l’11 settembre del 2001 quando l’hanno vista arrivare per prima all’Onu per offrire, se fosse stato necessario, il suo aiuto.

La ricordo in un pulmino zeppo di amici (Lula, Eduardo Galeano, Frei Betto, Dante Liano) che la accompagnavano in un giro culminato in una festa dell’Unità a Modena, dove gli organizzatori, scettici sul successo della presentazione del libro-denuncia Guatemala nunca mas, volevano cambiare il luogo della conferenza credendo che sarebbe andata deserta. Gli spettatori invece gremirono la sala. Tutti felici di premiare la caparbietà di Rigoberta e con lei tutti concordi nel non rinunciare ai propri ideali. Basta aspettare e non farsi ingannare dai bagliori della politica.

Gianni Minà




Mennea freccia bianca libera e testarda


Dopo le polemiche sulle mancate Olimpiadi a Roma, ricordiamo Pietro Mennea, un mito dell’atletica mondiale, ma anche un grande uomo, troppe volte incompreso.

«Non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere e vogliamo concorrere per organizzare le prossime Olimpiadi del 2020», mi disse una volta Pietro Mennea (1952-2013) non tanto tempo prima di andarsene da questo mondo. Allora c’era il governo Monti (che, nel febbraio 2012, disse no ai giochi olimpici, ndr) e i businessmen dello sport non ebbero nemmeno il coraggio di «buttarla in politica» come oggi con la sindaca Virginia Raggi, anche se vecchi «attrezzi» del settore come l’ex presidente del Coni e presidente del comitato organizzatore di Roma 2020, Mario Pescante, non seppero trattenersi dal farlo, dimenticandosi che Mennea, dopo la miracolosa e commovente rimonta fatta a Mosca nell’80, le Olimpiadi le amava come nessun altro, perché erano diventate l’esempio della sua capacità di non darsi mai per vinto.

Il fatto è che i giochi, chi li ha disputati e li ha vinti, li rispetta, mentre chi dello sport si è occupato solo a parole li vede esclusivamente come una possibilità di speculazione, spesso spudorata (basti pensare al recente fallimento economico della Grecia di cui l’Olimpiade del 2004 è stata una delle cause scatenanti).

Pietro, quella volta, dopo aver espresso con coraggio la sua opinione, come sempre, lasciò cadere la polemica. Non ne valeva la pena. L’uomo era fatto così.

Era testardo, rigoroso e dalla memoria lunga. Per questo non era simpatico a molti critici e giornalisti, ma certamente è stato uno dei più grandi campioni sportivi di cui l’Italia abbia potuto vantarsi, per la coerenza e per l’esempio di sacrificio che ha scelto di perseguire in tutta la sua carriera.

Mennea era un figlio del Sud, un campione di corsa che spesso non aveva neanche una pista per allenarsi e che, però, ha saputo smentire, nella sua attività di velocista, tutti i luoghi comuni su di lui (antipatia, diffidenza, struttura fisica inadeguata) anche quelli espressi dai più esperti.

Gianni Brera, uno dei più competenti fra noi giornalisti, scrisse di lui: «Un fiore prodigioso sbocciato nella confusa giungla del nostro ethnos depauperato in troppi secoli di stenti e di umiliazioni».

Il tempo si è incaricato di spiegarci che il grande Giuan si sbagliava sui limiti fisici concessi dalla natura a noi italiani, specie quelli del Sud. Ma il primo a smentirlo fu quel ragazzo di Barletta un po’ «stortignaccolo» che puntava tutto sulla sua caparbietà e sulla predisposizione al sacrificio negli allenamenti imposti dal suo mentore, il professor Carlo Vittori. Mennea soffriva per quell’incomprensione dei giornalisti e anche, talvolta, per la sua timidezza dialettica che non gli permetteva, sempre, di rispondere per le rime a tanti presuntuosi. Rimediava comunque sempre con i risultati fin da quando, a vent’anni, nelle tragiche Olimpiadi del ’72 (segnate dal sangue del terrorismo) aveva vinto la medaglia di bronzo dietro il fuoriclasse russo Valery Borzov e al nordamericano Larry Black.

Il suo orgoglio gli avrebbe permesso di prendersi la rivincita sullo zar russo agli Europei di Roma ’74 e successivamente di trionfare a Praga ’78.

Eppure, solo due anni prima, alle Olimpiadi di Montreal, dove Mennea era arrivato «solo quarto», anche il grande Giovanni Arpino su La Stampa, non era riuscito a evitarsi questo commento: «Mennea passeggia scheletrico, le orbite troppo grandi nel verde rasato e fortificato del villaggio».

Per fortuna, si erano poi incaricati definitivamente di dare a Mennea quello che era di Mennea prima il suo record del mondo sui 200 metri (un fantastico 19’ 72”) alle Universiadi di Città del Messico (il 12 settembre del 1979) e poi la prodigiosa rimonta sull’inglese Allan Wells nell’Olimpiade di Mosca ’80 che gli valse la medaglia d’oro.

Basterebbero questi ricordi per rendere indiscutibile il fatto che Pietro Mennea è stato il più prestigioso atleta dello sport italiano. Ma la sua puntigliosa abitudine di non allinearsi con l’apparato, non gli permise mai di godere della gratitudine che aveva ampiamente meritato, né del riconoscimento della sua eccellenza intellettuale. Questo avvocato laureato anche in scienze politiche, lettere e scienze dell’educazione motoria, non fu mai preso in considerazione, per esempio, per un qualunque incarico nell’ambito dello sport italiano. Anzi, una volta fu pure squalificato per tre mesi (anche se in inverno, quando in Occidente non ci sono gare) dalla Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera, perché, ormai stanco per un’annata lunga e snervante, si era negato, d’accordo con il professor Vittori, a una touée elettorale voluta a fine stagione dal presidente Primo Nebiolo, il creatore dell’atletica-spettacolo che reputava quel viaggio fondamentale per la sua rielezione a presidente della Federazione mondiale.

L’anno successivo, il prodigioso 1979, dovette intervenire Luca di Montezemolo, presidente della Sisport, società presso la quale Pietro era tesserato, per evitare a Mennea, che aveva già programmato il suo tentativo di record alle Universiadi, di doversi spremere anche per la solita touée. Un uomo cocciuto, conscio dei suoi diritti, dai quali non voleva derogare: «A distanza di tempo, con il senno di poi, posso serenamente dire – mi ha spiegato una volta Pietro – che quel contrasto nasceva da una questione antica: il confine nella vita di un atleta fra appartenenza a una nazionale e l’appartenenza a se stessi. Tema delicato, complesso». Così ora so che quel giorno allo stadio universitario di Città del Messico ho assistito a un evento storico per davvero. Non è un caso che io fossi al seguito di Mennea quel giorno memorabile, quel giorno in cui mia figlia Marianna, che ora è una manager affermata proprio in Messico, si fece scappare i lacrimoni (aveva cinque anni) e non volle salire sul podio con Pietro, come aveva fatto invece nei giorni precedenti alla premiazione delle staffette.

Dopo Muhammad Ali (il suo ritratto su MC di maggio 2016, ndr) seguivo sistematicamente Mennea perché, a suo modo anche lui era fuori dagli schemi, da come i giornalisti vorrebbero che i campioni del nostro tempo fossero, obbedienti, conformisti anche quando si tocca la loro libertà personale e al servizio, sempre, delle esigenze dei mezzi di comunicazione. Muhammad Ali e Mennea furono salvati dai risultati, altrimenti sarebbero stati masticati e sputati via come Maradona, quando non è stato più in grado di vincere e quindi di essere utile al mercato dell’informazione.

Per capire la sua caparbietà, ricorderò un’esperienza personale. Una volta, per un reportage commissionatomi dalla Rai, riunii su una spiaggia della Califoia, Mennea con il leggendario Tommie Smith (quello della protesta, con il pugno nero guantato, alle Olimpiadi di Messico ’68) e Steve Williams, sprinter dotatissimo, ma amante della bella vita. Ad un certo punto, Tommie e Steve, uno per parte, alzarono Pietro da terra per far vedere quanto era più piccolo di loro: la differenza era di una spanna, una spanna più che compensata dalla sua caparbietà. Eppure, molti tentarono più volte di sbiadire il suo valore: «Il record di 19’ e 72” – pontificavano costoro – lo ha stabilito correndo in altura». Non tenevano in conto che lo stesso Smith recordman prima di Pietro (19’ e 83”) aveva corso la distanza nello stesso stadio universitario di Città del Messico. Il record di Pietro fu poi battuto da Johnson ad Atlanta nel ’96. Aveva resistito per 17 anni.

Mennea era un uomo schivo e perbene che scriveva libri di giurisprudenza sportiva e, specie quando fu eletto al Parlamento europeo, lavorò molto per lo sport e il bene comune. Era un uomo curioso e, al contrario di quello che pensano molti, spiritoso e ironico. Una volta mi raggiunse a Las Vegas, dalla Califoia, insieme a Steve Williams, Ray Sugar Robinson e Nino Benvenuti per conoscere Cassius Clay-Muhammad Ali. Un mito vero che quella sera, sulla via del tramonto nel penultimo match della sua vita, aveva perso contro Larry Holmes, il suo ex sparring partner. «Questa è la vita» aveva commentato Pietro ad Ali che si era stupito vedendolo bianco e apparentemente fragile. «Sono bianco, ma nero dentro, nel cuore», aveva ribadito Mennea.

Gianni Minà

 




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




Macarena la nipote del poeta


I genitori scomparsi durante la dittatura argentina, l’«adozione» in Uruguay, la ricerca e il ritrovamento da parte del nonno, un famoso poeta. È la storia di Macarena Gelman.

Juan Gelman e sua nipote Macarena nel Palazzo Legislativo di Montevideo il 21/3/2012
Juan Gelman e sua nipote Macarena nel Palazzo Legislativo di Montevideo il 21/3/2012

Sul viso traspare lo sguardo un po’ smarrito tipico degli esseri umani che hanno subito mortificazioni crudeli, spesso dolorosissime, ma hanno saputo accettare con coraggio e con orgoglio il destino. Però se tocca loro parlarne, ti accorgi che non è stato facile rimanere dentro a una vita imposta da altri.

Parlo di Macarena Gelman, la nipote del grande poeta argentino Juan Gelman, morto nel gennaio del 2014 e protagonista con lei dell’instancabile tentativo di ritrovarsi, dopo che le feroci dittature dell’epoca in Argentina (dal 1976 al 1983, ndr) e Uruguay (dal 1973 al 1984, ndr) avevano reso, prima che fossero assassinati, i suoi giovani genitori, Marcelo e María Claudia, due «desaparecidos».

Juan Gelman, forse il più prestigioso poeta latinoamericano del Novecento, aveva saputo, per vie traverse, che la nipote, nata in cattività nel 1976, era stata data in «adozione» (il robo y tráfico de bebés era una pratica comune delle dittature latinoamericane, ndr) alla famiglia di un poliziotto di Montevideo e con la cocciutaggine che ha sempre distinto la sua sfida alla vita, aveva cominciato a cercarla, senza requie, avvalendosi anche dell’aiuto di tutto il pantheon della letteratura latinoamericana che si era messo a disposizione al completo, da García Márquez a Eduardo Galeano. Anche tutti noi, innamorati del continente sudamericano, pur senza avere le stigmate dei maestri, avevamo partecipato, malgrado i nostri limiti, all’operazione. Dittatori e politici presunti democratici del continente alla fine avevano aiutato la ricerca. Nel frattempo Macarena Gelman aveva ascoltato dalla madre adottiva la sua storia: la storia di una bambina lasciata, una notte di gennaio del 1977, in una cesta davanti alla porta della casa di un poliziotto, forse massone.

Ritrovata nel 2000, quella bambina è poi diventata deputata al parlamento uruguaiano in un raggruppamento progressista legato al Frente Amplio.

Io l’ho conosciuta in una limpida mattinata romana dell’aprile 2016. Era venuta in Italia per testimoniare al terzo processo su alcune vittime di passaporto italiano, massacrate negli anni ‘70 nel corso di quella tremenda carneficina che fu l’Operación Cóndor, una strategia del terrore voluta da politici nordamericani come Nixon e Kissinger che ha distrutto un’intera generazione argentina e uruguaiana di intellettuali (più di 30mila) dati, in certe occasioni, perfino in pasto ai tiburones (pescecani) della baia di Buenos Aires.

Passando alcune ore con Macarena, ho pensato al rifiuto di Juan Gelman di ritornare a vivere in Argentina dopo essersi rifugiato in Messico, paese discutibile per democrazia intea, ma storicamente generoso con chi cerca asilo per motivi di fede politica.

Macarena mi ha raccontato della testardaggine con cui il nonno l’aveva cercata, aiutato da mons. Pablo Galimberti (attuale vescovo della diocesi di Salto, in Uruguay, ndr) e dell’infinita dolcezza della sua mamma adottiva che l’aveva indirizzata fin dall’inizio a chiarire le proprie radici, suggerendole anche di muoversi con cautela, dato che il padre adottivo era un poliziotto dell’intelligence che, al contrario suo, non si era mai aperto completamente, neppure prima di morire, con Macarena. Durante il racconto, l’innocenza del suo sguardo mi ha autorizzato, a un certo momento, a fare una domanda: «Hai mai visto faccia a faccia gli aguzzini di tuo padre Marcelo? Sai chi sono?». Macarena non ha tergiversato: «So chi sono». E io ho insistito: «Li hai mai incontrati?». «A questo non posso rispondere – mi ha spiegato -. Ho pianto molte volte nella vita, cosa che ho condiviso anche con mio nonno quando ci incontravamo. Ridevamo anche molto. Dopo il 31 marzo del 2000 avevamo cominciato a vederci, quando si poteva, in Uruguay».

È stato inevitabile, a quel punto, per uno come me che il continente americano ha tentato di conoscerlo fino in fondo nelle sue grandezze e nelle sue miserie, ricordare che proprio Juan Gelman in uno dei memorabili saggi, che alternava ai suoi versi, aveva fatto una denuncia sui guasti fisici e morali procurati a molti soldati nordamericani dal propanololo, una sostanza chimica che avrebbe dovuto cancellare i loro rimorsi per guerre inutili e senza leggi, perché di esse non rimanessero tracce nelle pieghe della coscienza.

Non è un caso evidentemente che un poeta come lui, che non amava i mezzi termini, quando nel 2007 fu insignito del Cervantes, il premio letterario più prestigioso dopo il Nobel, avesse scelto di portare la sua famiglia allargata alla cerimonia di Madrid tenendo nella mano, che non sosteneva il trofeo, quella di sua nipote Macarena, la figlia di quella punizione che la presunta democrazia del mondo occidentale aveva riservato a suo figlio Marcelo e alla nuora María Claudia, colpevoli soltanto di non aver nascosto il loro desiderio di libertà.

Gianni Minà




Gabo: realismo magico, un premio nobel


Una delle volte che Gabriel García Márquez, detto Gabo, (1927-2014) stuzzicò la mia ambizione di giornalista fu al Festival di Cannes del 1982. Lui era già lo scrittore di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca e di Cronaca di una morte annunciata: il Nobel per la letteratura lo avrebbe vinto pochi mesi dopo.

Lavoravo per Blitz, la diretta Rai della domenica pomeriggio. Registrai l’intervista durante un intermezzo sportivo. García Márquez fu, come sempre, diretto e critico: «Il mondo latinoamericano – mi disse – è un mondo socialmente conflittuale e il cinema occidentale, che da tempo ha lasciato da parte l’impegno politico, vede l’America Latina in modo convenzionale, secondo schemi europei».

Fu disponibile, anche se confessò che non amava essere una figura pubblica mentre, come presidente della giuria del Festival, aveva già in agenda 35-40 interviste. Ma l’amore per il cinema, che aveva appreso in gioventù in Italia – al «Centro Sperimentale di cinematografia» -, come allievo di Cesare Zavattini, e la grande amicizia con l’allora ministro francese della cultura Jack Lang, glielo imponevano.

Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non sapeva proprio negarsi perché era stato il neorealismo di Miracolo a Milano (film di De Sica del 1951, ndr) a ispirare il suo modo di far letteratura, di dar vita al realismo magico o fantastico, che avrebbe reso mitico il suo mondo – da Macondo (il paese in cui è ambientato Cent’anni di solitudine, ndr) alla Incredibile e triste storia della candida Eréndira – e caratterizzato la sua scrittura e quella di un’intera generazione.

C’eravamo conosciuti in Messico, paese che, insieme a Cuba, è stato la sua seconda patria, tutte le volte che lui ha dovuto lasciare la nativa Colombia, martoriata dai narcotrafficanti.

La Rai – era il marzo del 1981 – mi aveva mandato a seguire un viaggio di stato in Messico del presidente Sandro Pertini che poi era previsto proseguisse proprio per la Colombia. García Márquez, nuovamente minacciato nel suo paese, si era rifugiato ancora una volta nella rivoluzionaria terra di Zapata.

In molti lo cercavamo. Il mio amico Pedro Armendariz, grande attore, aveva promesso di farmi chiamare e una notte il futuro premio Nobel lo fece: «Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi stai cercando, cosa vuoi?», mi disse con un tono che non prometteva condiscendenze.

Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo intervistare. Invece di rifiutare subito, mi propose: «Facciamo un affare: io ti concedo l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo presidente, perché io gli possa spiegare tante cose e lui non vada nella mia patria senza conoscere a fondo la situazione».

Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche lui, in quell’occasione, inviato al seguito di Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il problema, per evitare complicazioni diplomatiche, decise di incontrare insieme a noi García Márquez e poi di riferire a Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e inquietante, tanto che Pertini decise di aggiustare il tono dei discorsi preparati per la visita in Colombia.

Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il reportage, decise di aspettare che il filmato da me montato arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e potesse essere mandato in onda in anteprima. Il suo articolo uscì l’indomani. Una correttezza che, nel mondo dell’informazione d’oggi, non usa più.

L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in tanti incontri in Messico e a Cuba. L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti, sempre una tenerezza verso l’isola della Rivoluzione. Gabo non ha mai fatto dichiarazioni ideologiche, ma non si è tirato indietro quando si è trattato, per esempio, di dar corpo, nel 1986, a San Antonio de Los Baños, alla Escuela Inteacional de Cine y Tv, la scuola di cinema più importante del continente latinoamericano. Il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel Castro, preoccupato per la proliferazione degli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo l’ammirazione che il presidente Clinton aveva per lui, di portare un messaggio privato alla Casa Bianca. Il leader cubano cercava di segnalare quanto fosse pericoloso la condiscendenza del governo Usa nei riguardi di molti organizzatori di attentati. Quella volta, però, lo scrittore non riuscì a vedere il presidente e dovette accontentarsi di consegnare il messaggio allo staff della Casa Bianca.

García Márquez amava l’asciuttezza e i toni bassi. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui finii a cena a Trastevere con una formazione irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro e Cassius Clay-Muhammad Alì (cfr. MC maggio). Pendevamo tutti dalle parole del campione, ma chi apprezzava di più il sussurro del suo racconto, roco e a mezza voce, era proprio Márquez. «Parece un cura» (sembra un prete) commentava ammirato.

Quando accettò di scrivere il prologo al libro tratto dalla mia intervista di sedici ore con Fidel Castro (era il 1987), ci mise qualche mese per farlo e alle mie telefonate una volta sbottò: «Ma ti rendi conto che tutti soppeseranno ogni parola, ogni lettera, che scrivo su Fidel? E tu mi metti fretta?». Dopo tre giorni Mercedes, sua moglie, mi annunciava l’invio del saggio che era caustico ed esplicito, secondo la sua abitudine.

Nel 1992 pubblicò I dodici racconti raminghi. E lui mi propose un altro baratto. In cambio della solita chiacchierata, dovevo realizzargli un’intervista filmata con Maradona per una Tv colombiana nella quale insegnava ad alcuni ragazzi a fare giornalismo d’inchiesta. Quel giorno, alle mie domande, però, rispondeva in modo quasi scocciato: «Ma l’hai letto il libro? Questo c’è nel libro, non c’è bisogno di ripeterlo nell’intervista. Ma l’hai letto?». Chiaramente, giocava. Si infervorò solamente ricordando che in un salotto buono del nuovo cinema romano, quando si era vantato: «Io sono stato allievo di Zavattini», aveva ricevuto per risposta un inquietante: «Zavattini chi?». Quell’intervista faticosa si trasformò in una affascinante pagina per il Corriere della Sera.

Gianni Minà

 




Muhammad Alì la vita su un ring


La prima volta che lo incontrai, dopo la sua trionfale Olimpiade del ’60 (medaglia d’oro nei mediomassimi a Roma), fu a Miami Beach (nel febbraio del ’64) alla vigilia del match con Sonny Liston che poi, nella prima sfida, fra il disappunto generale, si sarebbe ritirato alla settima ripresa per uno strappo muscolare a un braccio e si sarebbe accasciato a terra anche nella seconda (a Lewingston, Maryland) per un «diretto» che pochi avevano visto.

Così non è una cattiveria ricordare che il «brutto orso» Sonny era un pugile vincolato alla mafia, mentre Cassius Clay, classe 1942, era già un fenomeno sportivo per la velocità e la bellezza della sua boxe. Ma anche un fenomeno per il suo impegno civile e per la sua adesione alla fede islamica abbracciata dopo l’incontro con Malcolm X, l’ideologo di molti fratelli neri musulmani, protagonista delle lotte per i diritti delle minoranze che sarebbe poi morto tragicamente, assassinato – il 21 febbraio del 1965 – con sette colpi di arma da fuoco durante un comizio pubblico a Manhattan.

Con un inizio di gioventù così pieno di suggestioni, Cassius Clay che aveva cambiato il suo nome, «impostogli dal padrone bianco», in Muhammad Ali, era inevitabile diventasse… una mia «preda giornalistica» e che quindi io tentassi di intervistarlo, di capire chi fosse o sarebbe stato.

Mi aiutò nell’impresa l’avvocato Chauncey Eskridge, che amava l’Italia perché nella nostra terra aveva vissuto la parte finale della seconda guerra mondiale come aviatore a Tombolo, Pisa. Il mio primo incontro con Muhammad Ali risultò per me un’indimenticabile lezione di vita. Il giovane campione nero per quasi tutto il tempo delle domande, non mi dette granché retta. Detta più chiaramente: mi snobbò. Il nostro rapporto migliorò soltanto un poco nel finale, ma certo non avrei potuto presentarmi dal mio capo Maurizio Barendson, al Tg2, con quel modesto dialogo.

Lo scornop che avevo cercato era diventato, in poco più di mezz’ora, un autogol. Ma quando decisi di chiudere quella sconfitta giornalistica, fu proprio Muhammad Ali a cambiar tono: «Non sei contento vero? – mi disse mettendomi una mano sulla spalla -. Sai io credevo tu fossi uno di quei soliti giornalisti europei che attualmente non perdono mai l’occasione di tentare di insegnarmi a vivere. Shit people (gente di cacca, ndr) che non accetta il mio essere diverso. Ma con me dovrà farlo a forza. Non te la prendere, la prossima volta andrà meglio».

E fu così che imparai ad avere con lui un approccio rispettoso che, col tempo, divenne amicizia vera, anche per merito del suo allenatore, l’italoamericano Angelo Dundee.

Quando arrivavo dall’Italia, non perdevo tempo. Andavo subito al quartiere di allenamento del grande campione che, dopo la squalifica di 3 anni (dall’aprile del 1967 al 1971) per aver rifiutato, come fedele musulmano, di andare a combattere in Vietnam, era tornato sul ring e stava iniziando a percorrere un viaggio di dieci anni nel quale avrebbe scritto le pagine più entusiasmanti della boxe modea, specie nei match con Joe Frazier, Ken «Mandingo» Norton e George Foreman, una sfida leggendaria quest’ultima a Kinshasa, in Zaire (futuro Congo RD). Era il 30 ottobre 1974. Nella capitale congolese, «nel ventre di mamma Africa», Ali sostenne forse l’incontro più significativo della sua carriera, riconquistando un titolo che nessuno gli aveva mai tolto sul ring, se non il potere politico preoccupato dal fascino che un campione così grande poteva accendere nelle nuove generazioni contrarie alle guerre. Ali per 5 round, in quella notte indimenticabile, fu solo attento a come poteva sviare e mandare a vuoto i colpi di Foreman (campione olimpico a Città del Messico), e quando si accorse che i 40 gradi di calore e il quasi 90% di umidità avevano prosciugato l’avversario, gli inflisse, tre round dopo, un drammatico Ko che smentì tutti i pronostici degli esperti. Qualche minuto dopo, nello spogliatornio, dove lo avevamo raggiunto, volle sottolineare: «Questa notte sul ring c’era Allah. Non so se te ne sei accorto, ma c’era Allah». Per noi, più prosaicamente, era stato un capolavoro di tattica. Memorabile anche il terzo match con Joe Frazier, a Manila nelle Filippine, nel quale Smoking Joe, esausto, non trovò la forza di rialzarsi dallo sgabello per l’ultimo round. Se le gambe lo avessero retto, forse il verdetto sarebbe stato a suo favore, senza tirare più alcun pugno.

Anni dopo, per pagare le tasse dell’intransigente fisco nordamericano, toò sul ring e perse contro Larry Holmes, che era stato suo sparring partner. Alla conferenza stampa seguita al match fu capace di stregare ancora tutti. A Holmes, che lo elogiava come uomo, ancor prima che come pugile, con frasi come «Quest’uomo mi ha insegnato non solo la boxe, ma anche a vivere», regalò una battuta fulminante: «Allora perché mi hai menato?». E si aggiustò sul viso, per la prima volta tumefatto, gli occhiali da sole. Ali fu sommerso da una vera ovazione.

La parola per lui è stata una ricchezza quasi più dei pugni. Una metamorfosi che si può spiegare solo con le sue scelte religiose e il suo amore per la sincerità: «Nei primi quaranta anni della mia esistenza, il mio Dio mi ha dato così tanto che se adesso mi toglie qualcosa io sono sempre pari con la vita». Un’affermazione come questa si tenderebbe ad attribuirla a un intellettuale o a un politico e invece è di un uomo che, da 30 anni, resiste al morbo di Parkinson. Così penso non sia un caso che, già preso a pugni dalla malattia, nel novembre 1990, andò dal dittatore Saddam Hussein che teneva sotto sequestro alcuni cittadini degli Stati Uniti e, parlandogli da musulmano a musulmano, lo convinse a liberarli.

Non stupisce, dunque, quanto avvenne allo stadio di Atlanta per le Olimpiadi del ’96. Muhammad fu l’ultimo tedoforo che, con la sua mano tremante, accese il tripode. Tutto il pubblico aveva le lacrime agli occhi. Anche quello bianco.

Gianni Minà

 




Povertà disuguaglianze in aumento


Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.

Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».

La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.

In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.

Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.

Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.

Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.

La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».

Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.

Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.

Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.

Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.

Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.

Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




La musica secondo Ennio Morricone


Mi ha molto colpito la tenerezza con cui il maestro Ennio Morricone ha dedicato a sua moglie Maria la conquista dell’Oscar 2016 per la colonna sonora tratta dal film di Quentin Tarantino The Hateful Eight.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_82Ennio è da mezzo secolo un’eccellenza italiana nel mondo, e il premio dell’Academy lo meritava già da quasi tre decenni, da quando, nell’87, un dio del jazz come Herbie Hancock, gli soffiò sul filo di lana la statuetta che avrebbe meritato per la fantastica colonna sonora di Mission, il film sulla lotta dei gesuiti in favore degli indios (foto in pagina, ndr). Nel corso degli anni Morricone avrebbe regalato le sue inimitabili note a centinaia di film. Senza pretese e lamentele. Non solo per la sua ben nota timidezza, ma per la capacità (unica) di rispettare il prossimo riconoscendo sempre i meriti di chi concorre con lui in qualche cosa.

Quando si è trattato, però, di dare un piccolo spazio alla sua gioia, questo maestro 87enne, allievo di Goffredo Petrassi per i corsi di composizione, non ha avuto timore, fuori da ogni schema, di apparire normale e di ringraziare la compagna della sua vita, la madre dei suoi 4 figli, fra cui Andrea, direttore d’orchestra come lui, che la notte del 28 febbraio lo ha accompagnato sul palcoscenico di Los Angeles. In una sala rutilante dove quasi tutti avevano inventato per l’occasione il loro copione, Ennio ha scelto il basso profilo: Maria, i ragazzi, la musica, le invenzioni stilistiche negli arrangiamenti che lo hanno consacrato alla grandezza.

È sempre stato così Ennio.

C’è stato un tempo, per esempio, in cui la sua capacità di arricchire le canzoni dei cantautori della casa discografica Rca (attiva in Italia dal 1949 al 1987, ndr) lo aveva già fatto scegliere come un collaboratore indispensabile per i vari Gino Paoli, Luigi Tenco, Edoardo Vianello, Umberto Bindi e tanti altri. Morricone prendeva queste composizioni scarne, anche se singolari, e le trasformava in vestiti della domenica, della nascente musica pop italiana, pur senza mai gloriarsene. Sapore di sale come Abbronzatissima o Lontano Lontano erano creature dei giovani artisti che stavano nascendo in quell’inimitabile laboratorio che fu la casa discografica di via Tiburtina.

Morricone inventava perfino i riff (in una composizione è la frase musicale ripetuta, ndr) per arricchire queste canzoni. In molti ne usufruirono, ma Ennio non se ne è mai vantato. Era il suo lavoro e basta.

Lo stesso atteggiamento ebbe quando cominciò a divenire un mito per la scrittura e per gli arrangiamenti dei «weste all’italiana», quel mondo inventato dai film di Sergio Leone. In quelle colonne sonore entrarono schiocchi di frusta, rumori inattesi, «assoli» di tromba e di armonica a bocca, invenzioni di un maestro che, come ha ricordato Andrea Penna sul Manifesto, ha pure militato per decenni e con impegno tra le file del gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza (associazione per la promozione della musica, ndr), alzando spesso la voce per l’assenza della musica negli insegnamenti scolastici.

Visto che Ennio mi onora della sua amicizia, mi piace ricordare alcuni aneddoti personali. All’epoca dell’affermazione della Rca italiana, nacque a Mentana, non lontano da Roma, una specie di villaggio della musica: avevano infatti preso casa in campagna Sergio Endrigo, Sergio Bardotti (noto paroliere e cantautore morto nel 2007, ndr) e due futuri Oscar come Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov (nel 1996 per Il postino, ndr). Senza contare che poco lontano, a Tor Lupara, ci stavano pure Gianni Morandi e Franco Migliacci e che, a un certo momento, in fuga dalla dittatura instauratasi nel loro paese, arrivarono anche artisti brasiliani, in particolare Chico Buarque e Toquinho. Li ospitò tutti Bardotti, che trovò, nel sottoscala, un posto anche per Lucio Dalla. Ciò che agglutinò quella banda di musicisti fu il calcio, specie le partite del sabato in cui, nel campo regolamentare fatto costruire da Morandi, ci si riempiva di calci e dove eccelleva Pierpaolo Pasolini. L’unico che faceva l’osservatore con commenti tecnici era il maestro Morricone, già geniale con la sua musica, ma non versato per i dribbling e per gli schemi. Fu una stagione indimenticabile. Qualche tempo dopo incominciai a condurre Blitz, la domenica pomeriggio di Rai2, e sicuro dell’amicizia di questi artisti, quasi ogni domenica invitavo Ennio Morricone che però non veniva mai. Un giorno gli chiesi perché. Fu drastico e definitivo nella risposta: «Mi stupisco di te che fai pure il giornalista sportivo. Tu mi inviti sempre quando la magica Roma gioca in casa e io, in questa congiuntura, non sono agibile perché sono all’Olimpico e non posso, e non voglio, cambiare programmi». Dovetti mettermi a studiare il calendario-gare della Roma per averlo in studio.

Anni dopo, nello spirito d’amicizia di cui mi ha sempre onorato, insieme ai 45 componenti dell’Orchestra Roma Sinfonietta venne a tenere un concerto in Irpinia, a Torella Dei Lombardi, il paese natale di Sergio Leone, dove per 5 stagioni ho diretto il «Festival del cinema weste». Ennio in quell’occasione vinse la sua timidezza e, a sorpresa, incominciò a raccontare la sua vita. Quando non riusciva a spiegarmi i segreti della sua professione, scendeva dal palcoscenico, si metteva al piano e chiedeva aiuto alla musica, al suo modo di amarla, di spiegarla, di interpretarla. Sua moglie Maria, che come sempre lo accompagnava, mi disse alla fine che non lo aveva mai visto così soddisfatto. La stessa Maria a cui Ennio ha pubblicamente e teneramente dedicato il suo Oscar.

Gianni Minà




La nobiltà umana di Ettore Scola

 

Se dovessi definire il carattere di una persona di grande talento, eppure generosa fino all’umiltà, citerei immediatamente Ettore Scola, che forse ha formato il proprio modo di essere con l’abitudine di scrivere per gli altri, imparata nei suoi primordi di soggettista e sceneggiatore, quando scrisse, per esempio, «Un americano a Roma», il film che lanciò Alberto Sordi, diretto da Steno, il padre dei fratelli Vanzina.

Ma questa riflessione è ancor più commovente, se penso che Scola, maestro di quella che hanno chiamato «la commedia all’italiana», ha scritto con Maccari, per Dino Risi, «Il sorpasso», la fotografia più precisa dell’Italia del boom economico e della voglia di stare al mondo in qualunque modo dopo una grande tragedia come la seconda guerra mondiale.

Ettore, che era arrivato a Roma da un paesotto dell’Irpinia, Trevico, così come Sergio Leone e i De Laurentiis da Torella dei Lombardi, aveva fin da subito, da giovane redattore del Marc’Aurelio, rivista satirica, sposato la collaborazione con chi gli stava vicino, il piacere di costruire insieme un’idea, un racconto, la capacità di lavorare in gruppo e di consegnarsi spesso ai sogni degli altri.

È per questo che il suo addio al mondo non ha portato solo il rammarico per una grande intelligenza e un grande talento che ci hanno lasciati, ma anche la nostalgia di una persona dal cuore nobile.

Mi è rimasta impressa la disponibilità con cui si mise a disposizione del regista brasiliano Walter Salles e mia per tratteggiare la figura del giovane Che Guevara, che ci accingevamo a studiare nella sua complessità per il film «I diari della motocicletta» che poi fu un successo. Era la storia del viaggio giovanile dell’eroe argentino attraverso il continente latinoamericano.

Ricordo, in particolare, il primo pomeriggio in cui, sul terrazzo di casa mia, praticamente, Ettore ci mise a lezione proponendoci poi un finale in cui era riuscito a riunire semplicemente tutto quello che il Che era diventato nel mondo e in quell’epoca. I due ragazzi, Eesto Guevara e Alberto Granado, al termine del loro viaggio, si lasciavano durante una manifestazione giovanile a Caracas e nell’immagine successiva «riapparivano» alla testa di un corteo di protesta di coetanei ventenni di tutto il mondo sventolando una bandiera con l’immagine dello stesso Che, proposta da un ragazzo con la faccia dell’eroe argentino.

Poi Salles scelse un finale un po’ più semplice, ma la suggestione fu fortissima.

Ettore Scola sapeva domandarsi nei suoi film le cose apparentemente più elementari, anche se incastrate nei dubbi più profondi che un uomo intelligente si pone. Memorabile il tenerissimo dubbio di un proletario innamorato (Marcello Mastroianni), iscritto al partito comunista, nel film interpretato anche da Monica Vitti e Giancarlo Giannini, «Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca»: doveva considerare disdicevole il fatto che un militante come lui si facesse distruggere dall’amore? In caso contrario, il partito avrebbe capito?

Era la grande dote di un cineasta, non a caso adorato in Francia, e dei suoi fedelissimi compagni di «scrittura», Age e Scarpelli, quella di tentare di dar risposte, facendo finta di niente, su dubbi apparentemente irrisolvibili della società che si ricomponeva nella stagione del Dopoguerra.

Per avere la conferma di quello che affermo, basta ricordare opere come: «C’eravamo tanto amati», «Brutti, sporchi e cattivi», «La terrazza», ma anche i suoi due capolavori: «La ciociara», con Sofia Loren, e «Una giornata particolare», con la stessa Loren e Marcello Mastroianni, due opere in cui la vita è raccontata con la forza inesauribile del nuovo cinema neorealista. In particolare nel secondo film, dove una semplice radiocronaca di Guido Nodari, la voce ufficiale del regime, rende l’idea di un paese prigioniero del fascismo, senza mai far vedere la tragedia incipiente, ma ascoltando la cronaca di una sofferenza che sta per spiegare tutto.

D’altronde Ettore Scola non si fece mai sfuggire, sia che facesse parodia, ironia o cronaca, l’occasione di documentare quello che stava accadendo.

Ricordo in questo senso il suo coraggio nell’andare con altri colleghi come Monicelli a documentare il G8 di Genova, la vergogna del comportamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che pretendevano verità.

«Ho maledetto tutte le sigarette che ho fumato nella mia vita mentre, correndo nella polvere espulsa dalle strade battute dalle forze dell’ordine, tentavo di essere coerente con me stesso nel filmare quello che il sistema non voleva fosse visto» – mi disse qualche giorno dopo quando qualcuno tentava di sostenere che la protesta fosse dovuta a pochi facinorosi.

Lui sì, poteva essere candidato quattro volte all’Oscar per il miglior film straniero e nello stesso tempo documentare i guasti di una democrazia malata che non bisognava nascondere. Ci mancherà.

Gianni Minà

 




Il terrorismo nella nostra storia 2

 

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

I ragazzi di oggi non lo sanno, ma c’è stato un tempo non lontano in cui il terrorismo era indigeno. In Germania, Giappone, Stati Uniti, Francia. E in Italia. Per la quale una cosa va evidenziata: diversamente da altri, il nostro paese ha saputo affrontare il fenomeno rimanendo all’interno dei confini dello stato di diritto. Sia chiaro: quello di oggi è un terrorismo diverso, ontologicamente diverso. Eppure i passi da compiere per sconfiggere fanatismo e violenza non differiscono da quelli del passato.

terr_bader_meinhofÈ estremamente arduo un raffronto fra il terrorismo «indigeno» (Brigate rosse, Prima linea e bande armate di destra) di cui ci si è dovuti occupare in passato nel nostro paese, e il terrorismo internazionale che di questi tempi investe – in maniera sempre più drammatica e pesante – diverse aree del globo. Si tratta infatti di mondi abissalmente e ontologicamente diversi. È tuttavia possibile trarre dall’esperienza passata una qualche generica indicazione.

Il terrorismo di sinistra – in particolare – non è stato un fenomeno esclusivamente italiano. Alla fine degli anni Sessanta gruppi simili alle Br e a Pl sono comparsi in altre democrazie industriali: la Rote Armee Fraktion (conosciuta anche come «banda Baader-Meinhof», ndr) tedesca, l’Esercito rosso giapponese, i Weather Underground e le Black Panthers statunitensi, la Nouvelle resistence populaire in Francia.

Caratteristica esclusiva del nostro paese, però, è stata quella di aver dovuto registrare un terrorismo – di sinistra e di destra – che ha raggiunto capacità offensive decisamente maggiori, rispetto a ogni altra situazione analoga, e assai più persistenti nel tempo (le «prime» Br durano circa 15 anni). Per di più con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la violenza terroristica sia un fiume carsico che non cessa mai di scorrere, neppure quando la storia sembra chiusa.

Nonostante questa pessima «esclusiva», possiamo rivendicare di essere stati il paese dell’antiterrorismo. Nel senso che abbiamo saputo – ben più che in altri paesi – reagire all’offensiva terroristica senza cedere alla tentazione di sbrigative «scorciatornie».

terr_aldo-moro-sequestrato-dalle-brigate-rosseL’obiettivo dei brigatisti era chiaro. Costringere lo stato (a forza di omicidi e «gambizzazioni») a gettare quella che, per loro, era solo una maschera. La maschera di una falsa democrazia, che una volta caduta avrebbe rivelato il volto autentico dello stato: autoritario e fascista. Così le masse avrebbero finalmente «capito» e si sarebbero aggregate intorno alle avanguardie combattenti, le Br. Ebbene, siamo riusciti a non cadere nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto spietatamente repressivo, senza se e senza ma, dello stato. Ciò ci ha aiutati a risolvere meglio le questioni poste dal terrorismo. Perché la risposta a tali problemi dal punto di vista legislativo ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Perciò i principi fondamentali dello stato di diritto non sono mai stati abbandonati nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto – obiettivamente – in altri paesi.

Abbiamo elaborato una legislazione «specialistica», cioè mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma abbiamo respinto ogni «filosofia» che entrasse in rotta di collisione con i principi democratici. Specialistica ma non «speciale». Non abbiamo creato, in particolare, tribunali speciali e procure speciali, a differenza di altri paesi di democrazia occidentale. In Francia lo hanno fatto. Anche in Germania, in parallelo con l’epidemia di terroristi suicidi in carcere (era il 1977).

Abbiamo celebrato regolari processi, mentre in Gran Bretagna i terroristi dell’Ira (Irish Republican Army) sono stati rinchiusi in campi di concentramento, senza essere processati. Di più: il processo ai capi storici delle Br si è svolto nel pieno rispetto delle regole e persino della identità politica degli imputati (ammessi al controinterrogatorio delle vittime, come nel caso di Mario Sossi, magistrato sequestrato). In Usa problemi analoghi – per esempio nel processo a Bobby Seale (cofondatore delle Pantere nere, ndr) del 1969 per associazione sovversiva – sono stati risolti accusando l’imputato di oltraggio ogni volta che prendeva la parola. Alla fine, per farlo tacere, il giudice Julius Hoffmann fece legare Seale alla sedia con una catena e imbavagliare con nastro adesivo. Il merito del processo, in pratica, non fu trattato.

Nuovi strumenti italiani: la dissociazione

In Italia, va pure ricordato, si è cercato di trovare risposte anche utilizzando (con la stagione delle assemblee) gli strumenti della democrazia diretta: la libertà di associazione e di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo. Così coinvolgendo tutti in problemi che erano appunto di tutti, non delegabili esclusivamente alle forze dell’ordine e alle autorità preposte alla repressione.

Si sono persino cercate soluzioni politiche. Per esempio, con la legge sulla «dissociazione»: senza pentirsi, senza collaborare, i terroristi che lo volevano potevano ottenere forti riduzioni di pena, semplicemente sottoscrivendo una dichiarazione di dissociazione dalla lotta armata. Di fatto una specie di amnistia.

A fronte della tragedia del terrorismo e dello sforzo vincente delle forze sane del paese, rivelano tutta la loro inconsistenza le polemiche astiose scagliate – ieri come oggi – da vari intellettuali, o sedicenti tali, contro la legislazione antiterrorismo e contro i processi italiani. Ma quel che interessa, in questa sede, è soprattutto chiedersi – ferme restando le abissali differenze di cui abbiamo detto – se sia possibile seguire una strada analoga anche per il nuovo terrorismo transnazionale, in un quadro di fermezza che si combini con il rispetto delle regole fondamentali, all’interno dei singoli paesi e sul piano internazionale.

Gridare alla pace (ma soltanto di giorno)

Dopo l’11 settembre, molti sforzi sono stati fatti, molte energie sono state messe in campo per difenderci dall’aggressione criminale del terrorismo. Com’era necessario e inevitabile. La stessa cosa sta accadendo ora, dopo le stragi parigine del 13 novembre. Ma non ci siamo soffermati abbastanza – né allora né oggi – sul fatto che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace.

Dovremmo partire dalle parole pronunziate da Giovanni Paolo II inaugurando la III Conferenza episcopale latino-americana di Puebla: «La pace intea e internazionale sarà assicurata solo se vige un sistema economico e sociale fondato sulla giustizia…». Significa che il precetto evangelico «fame e sete di giustizia» può anche essere tradotto in questi termini: che un sistema politico si ispiri a logiche di sicurezza è necessario, ma se, alla disperazione di chi vive nell’ingiustizia, si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo umano, ecco allora che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e inefficaci. Facciamo come Penelope: gridiamo pace di giorno, ma prepariamo ingiustizia (violenze) di notte. Un circolo vizioso che occorre rompere: anche perché esso rischia di introdurre poteri così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia, nel momento stesso in cui si compiono azioni finalizzate a tutelare (stando ai proclami anche esportare) proprio libertà e democrazia.

Buonismo, perdonismo, giustificazionismo:
mai sminuire il male

Occorre una coice etica in cui inserire valori di giustizia proclamati da organismi inteazionali. Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, 1946, Il Ponte, la rivista da lui fondata, ndr), riflettendo sul processo di Norimberga, chiedeva che le leggi dell’umanità (invece di essere soltanto frasi di stile, relegate nei preamboli delle convenzioni inteazionali) si affermassero come vere leggi sanzionate. Auspicava che l’umanità (da vaga espressione retorica) diventasse un ordinamento giuridico. Queste parole di Calamandrei possono assumersi come indirizzo ancora oggi: che siano le ragioni dell’umanità, sanzionate dal diritto internazionale, non la forza, non la violenza, a prevalere. In questo modo vincerebbe la saggezza, prima condizione della pace.

Ciò significa rinunziare alla legge del taglione (restituire al male ricevuto altrettanto, se non di più), per provare a vincere il male in modo diverso. Attenzione: questo non comporta affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare (per quanto difficile sia, e ferma restando la necessità di innalzare argini robusti contro il fanatismo e la violenza) a inventare forme di risposta che siano capaci di contenere il male, di fermarlo: senza tollerare o creare situazioni che invece lo incentivino senza fine. Il problema è di creare logiche che siano capaci, quanto meno si sforzino, di ricomporre una frateità ferita, divisa da inimicizie profonde. Cercando di essere fratelli oltre i vincoli biologici. Oltrepassando i vincoli delle etnie per provare a fare della moltitudine di popoli che coesistono nel mondo una famiglia nella quale non ci si scanni.

Mi rendo ben conto delle tante obiezioni possibili rispetto alle cose fin qui dette. Sempre più spesso ci si chiede se sia davvero praticabile il dialogo con chi è costituzionalmente sordo perché il suo fanatismo gli impone un unico scopo, quello di sterminare gli «altri». Ci si chiede anche se la fenditura tra musulmani e non (nel mondo intero e nei singoli paesi occidentali) sia ormai diventata così profonda da rendere gli uni e gli altri irreversibilmente estranei e nemici. Quanto è difficile l’emersione dell’islam moderato? E tale emersione è resa ancor più difficile dalla frattura generazionale che si registra nelle moschee? E come eliminare quei macigni che pesano sul quadro complessivo e lo schiacciano, come le enormi ambiguità di quanti (a partire dall’Arabia Saudita) finanziano il terrorismo, gli foiscono le armi e poi bombardano inserendosi in qualche «santa» alleanza? Come arrivare a una vera e autentica cooperazione internazionale, che non sia dettata solo da opportunismi contingenti (come nel caso dell’alleanza francese con la Russia, tutt’ora sotto embargo per i fatti dell’Ucraina)?

Sicurezza sì, ma con diritti e libertà

Vero è (lo ripete da tempo papa Francesco, con visione allargata ai problemi di tutto il mondo, senza strabismi nazionalistici) che siamo di fronte a pezzi – sempre più consistenti – di una «Terza guerra mondiale». Ma forse è un motivo in più – se davvero si vuole uscie – per ricordare che la sicurezza è certamente un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che però non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che diritti e libertà diventino ostaggio della sicurezza, con conseguenze a catena sempre più vaste e peggiori.

Senza nasconderci (ma nello stesso tempo cercando di reagire con forza ad ogni tendenza alla rassegnazione) che, sotto l’incalzare dei fatti, le parole – troppe volte – possono anche sembrare logore o inadeguate.

Gian Carlo Caselli


Questo articolo di Gian Carlo Caselli è stato condiviso con il quindicinale Rocca (n. 24 del 15 dicembre 2015).

 

L’autobiografia

SOTTO SCORTA

cop_caselli_libro_04È un umanissimo sentimento di amarezza quello che prevale in Nient’altro che la verità, il racconto autobiografico di Gian Carlo?Caselli. Un’amarezza che diventa una sorta di richiesta di perdono nei confronti delle persone a lui più vicine – i genitori (oggi scomparsi), la moglie Laura, i figli Paolo e Stefano – per «aver inflitto [loro] una overdose di preoccupazioni e di sofferenze» e averli fatti vivere «in mezzo ai mitra», in una «situazione da trincea, da filo spinato» (riferendosi a un’intera vita sotto scorta, iniziata nel 1974 e mai terminata). Un’amarezza che è delusione, rimpianto e, a volte, rabbia per alcuni eventi accaduti in 46 anni di magistratura. Come quando, era l’anno 2005, il governo Berlusconi, rabbioso per le incriminazioni di Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri, inventò una legge contra personam per impedirgli di essere nominato «procuratore nazionale antimafia».

Nonostante questo (e altro) la vita professionale di Gian Carlo Caselli è stata ricca di successi, prima nella lotta contro il terrorismo (1974-1986) e poi in quella, più dura, contro la mafia, combattuta dal palazzo di giustizia di Palermo, subito dopo gli omicidi di Giovanni Falcone (maggio 1992) e Paolo Borsellino (luglio 1992), amici e colleghi.

«Sono figlio – scrive nelle prime pagine – di una cultura cattolica e di sinistra. Il fatto di aver trascorso la mia infanzia a contatto con gli operai, le dure condizioni della fabbrica e i sacrifici dei miei genitori spiegano ad esempio la mia sensibilità nei confronti dei poveri, degli ultimi. Sono alla base del mio senso per la giustizia e dello sforzo per la legge come equità».

Se l’autobiografia inizia con il ricordo, recentissimo, della dura contrapposizione con una parte del movimento NoTav e i contrasti con i colleghi di Magistratura democratica, essa finisce con il richiamo alla Lettera ai giudici, la giustizia declinata secondo il pensiero di don Milani nel lontano 1965. Un testo che Gian Carlo Caselli propone come «incoraggiamento e speranza ai magistrati che verranno».

Paolo Moiola