La Consolata da trecento anni patrona di Torino

Filatelia religiosa

Nella ricorrenza dei 300 anni dalla proclamazione della Madre di Dio
Consolatrice e Consolata a patrona della Città di Torino, è stato programmato
nel 2014 un ricco calendario di iniziative. Tra le altre la grande mostra «300
anni patrona: la Consolata e la sua città», la solenne cerimonia istituzionale,
nella Sala Rossa di Palazzo di Città (il palazzo civico) con le autorità civili
e religiose: evento questo ricordato anche con un annullo commemorativo dalle
Poste Italiane (1) e una
mostra di filatelia religiosa sulla Vergine e i santi sociali piemontesi nel
corridoio degli ex voto del Santuario. (2)

Il culto della Consolata affonda le sue radici nella
storia della chiesa torinese sin dal X secolo. La tradizione della venerazione
dell’immagine della Consolata è descritta dal testo «il necrologio di
Sant’Andrea», in cui si racconta la storia del «cieco di Briançon» che
raggiunge il luogo della visione e sotto le macerie ritrova miracolosamente
intatta l’icona della Madonna con il Bambino riacquistando definitivamente la
vista (3). Era il 20 giugno
del 1104. Nel 2004, in occasione dei festeggiamenti per i 900 anni di presenza
dell’icona (anche se l’attuale, è stato appurato, non è quella originale ma un
probabile dono del 1483 del cardinale Domenico Della Rovere – vedi articolo
su MC 10/2014
) il Santuario aveva promosso un annullo filatelico (4) con l’immagine della corona e con il simbolo MC (Maria
Consolata); all’epoca il nostro gruppo filatelico aveva predisposto una «busta
erinnofila» (5) con una proposta
di francobollo dedicato alla Consolata ma l’iniziativa non ha avuto seguito.

Con l’inaugurazione della nuova chiesa (1704) e l’assedio
di Torino da parte dei Francesi del 1706, l’immagine della Consolata è
diventata la figura centrale della devozione cittadina. Dalle prediche del
beato Valfrè, (6) ai piloni votivi
fatti collocare attorno alla città da Vittorio Amedeo II, dalle funzioni
continue nel Santuario e dall’altare dedicato alla Consolata allestito in
piazza San Carlo, alle migliaia di volantini con l’immagine della Consolata
distribuiti dal beato Valfrè (7) e
appesi sulle porte delle case e dei palazzi, si è messa in atto una vera e
propria «occupazione territoriale» dell’effige mariana. A seguito della
liberazione della Città dall’assedio, avvenuta proprio alla vigilia della festa
della Natività di Maria, il Consiglio comunale nella prima seduta nel 1706
decide di proclamare la «Santissima Vergine Maria Avocatta e Protetrice»,
devozione certificata poi da una più specifica deliberazione «… Questo Conseglio tutt’unanime e concorde, memore delle
complicate, singolari e recenti gratie che la Beatissima Vergine della
Consolata s’è compiaciuta compatir a questo publico e divoti che alla medesima
hanno racorso… l’ha elletta et ellegge per singolar protetrice di questa Città
e publico et ha ordinato e ordina che la Città vada in corpo ogni anno nel
giorno che si solenisa la sua festa nella detta luoro chiesa a venerarla e
darli un publico contrassegno et atestato della gratitudine che la Città sempre
conservarà a una tanta Protetrice» (8). Era il 21 maggio del 1714 e da quella data è stata
stabilita la centralità della festa del 20 giugno (ricorrenza del presunto
ritrovamento dell’antica immagine miracolosa da parte del cieco di Briançon).

Giova ricordare che il corpo del santo Cafasso (9) è sepolto nel Santuario della Consolata, come risulta
dalla grande vetrata che lo ritrae tra i suoi carcerati e che il beato Giuseppe
Allamano, nipote del Cafasso, è stato rettore del Santuario sin dal 1880 per
quasi 50 anni; ne ha curato la ristrutturazione e l’ampliamento e con la sua
azione pastorale il santuario ha riacquistato importanza quale centro della
devozione mariana in Torino e nel Piemonte (10).

Angelo Siro

Sintetizzato
dall’autore da suo più ampio articolo
pubblicato sulla rivista Filatelia Religiosa Flash e inserito nel sito
www.filateliareligiosa.it

Tag: Filatelia religiosa

Angelo Siro




La Sacra Sindone 

Note di filatelia religiosa.

Dal 19 aprile al 24 giugno
2015 si svolgerà nella cattedrale torinese una nuova Ostensione della Sindone,
in concomitanza con i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di san
Giovanni Bosco, eventi che hanno convinto Papa Francesco a venire in
pellegrinaggio a Torino.


La Sindone è il sacro lino in cui, secondo la tradizione evangelica,
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il Corpo di Cristo morto, cosparso di
una mistura di mirra e aloe. è
una tela di lino spigato (tessuta cioè a spina di pesce) di m 4,36 di lunghezza
ed 1,10 di larghezza. Il colore, originariamente bianco, risulta ingiallito dal
tempo e dall’incendio subito nel 1532 a Chambery, che provocò 12 buchi nella
tela, in parte rattoppati dalle suore Clarisse di quella città. Le bruciatu­ re
di Chambery formano due linee parallele che «inquadrano» per così dire la
doppia impronta di un corpo umano di circa 1,80 m su cui si scorgono segni che
corrispondo in modo impressionante a quelli che avrebbe avuto il corpo di Gesù
come conseguenza della sua passione e morte descritta dai Vangeli.

La Sindone è stata finora conservata arrotolata in una
cassa d’argento cesellata lunga un metro e mezzo, larga e alta circa 38 cm. Su
questa cassa argentea sono raffigurati, fra l’altro, gli strumenti della
passione.

La storia della Sindone risulta documentata in Occidente
solo a partire dal XIV secolo. Le notizie precedenti non sono molte, ma servono
a testimoniare il passaggio del Sacro Lenzuolo da Oriente a Occidente, ponendo
come punti di riferimento forse la città di Edessa (dal VI al X secolo) e
quella di Costantinopoli almeno fino al XIII secolo (da cui sarebbe stata
trafugata dai crociati).

La storia della reliquia subisce poi un oblio di circa
150 anni, che per ora non si è riusciti a colmare essenzialmente per mancanza
di documenti. Comunque nel 1353 la troviamo presso i canonici di Lirey, a cui
fu consegnata da Goffredo I di Chay. Costui probabilmente ne era entrato in
possesso per successione ereditaria.

Nel 1453 il Lenzuolo sacro venne ceduto a Ludovico di
Savoia, cadetto di Amedeo VIII da parte di Margherita di Chay, vedova di
Umberto di Villersexel nella città di Ginevra. Da quel momento appartenne ai
Savoia fino al 1983, quando fu donata dall’ex re d’Italia, per volontà
testamentaria, alla Santa Sede, e lasciata a Torino per volontà papale.

La Sindone rimase nella cappella di Chambery fino al
1578, tranne nei brevi periodi in cui fu al seguito dei Savoia in Francia, in
Piemonte e in Lombardia. Emanuele Filiberto in quell’anno trasportò la reliquia
a Torino allo scopo dichiarato di ab­ breviare il pellegrinaggio al sacro lino
da parte di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (pellegrinaggio che
l’arcivescovo rinnovò altre tre volte negli anni 1581, 1582 e 1584), ma in
realtà in un ben più vasto quadro di riforme che videro Torino divenire la
capitale sabauda.

La Sindone rimase a Torino prima nella chiesa di San
Francesco, poi a Palazzo Reale ed infine in Duomo. In seguito al rogo della
cappella del Guarini dell’11 aprile 1997 fu trasferita al sicuro, forse in un
monastero della collina torinese, per tornare in Duomo in occasione
dell’Ostensione del 1998.

 
Prima fotografia della Santa Sindone

L’interesse per la Sindone si accentuò quando fu
scattata la prima fotografia in occasione dell’Esposizione Generale d’Arte
Sacra del 1898 da Secondo Pia. Già molto prima di questa data si sapeva che
l’immagine sindonica non era dipinta, a differenza delle numerose copie
circolanti in Europa a partire dal Medio Evo, utilizzate nelle chiese per la
rappresentazione dei misteri pasquali.

La riproduzione fotografica, con sorpresa di tutti,
dimostrò come l’impronta del lenzuolo fosse un negativo. Da quel momento in poi
gli studi sulla Sindone divennero sempre più frequenti fino a portare negli
anni cinquanta a una vera e propria branca della scienza: la sindonologia.

Le analisi più recenti, eseguite dopo l’Ostensione del
1978, hanno rimesso in discussione la datazione della reliquia, ma non sono
tuttavia riuscite a dare delle risposte pienamente convincenti al problema. In
ogni caso rimane fatto indubitabile che i segni presenti sulla Sindone
coincidono con la descrizione della passione dei Vangeli.

Il Beato Giuseppe Allamano come canonico della
cattedrale ebbe il privilegio di portare sulle spalle la cassa in occasione
della Ostensione iniziata il 25 maggio 1898, celebrata per ricordare parecchi
centenari, tra cui il XV centenario del Concilio di Torino (San Massimo 398), e
durante la quale fu scattata la celebre foto da parte dell’avvocato Secondo
Pia, che rivoluzionò la sindonologia. Nel 1901 inviò in omaggio al vicario
apostolico dei Galla in Etiopia, un «artistico vetro della SS. Sindone»; stesso
dono inviò al superiore dei Lazzaristi a Roma; ripetutamente parlava della
Sindone ai Missionarie e alle Missionarie della Consolata.

Angelo Siro
Gruppo Filatelia
Religiosa «Don Pietro Ceresa», Torino-Valdocco www.filateliareligiosa.it

Angelo Siro




Non servono i muri…

Il papa ha criticato il muro di Sharon. L’Unione europea pure. Addirittura Bush pare non gradirlo. Eppure, a contestare pubblicamente Israele si rischia di…

Mentre scrivo queste note per "Missioni Consolata" il luogo comune più in vista è costituito dall’equiparazione, ormai divenuta quasi automatica, tra una qualsiasi espressione di critica verso lo stato d’Israele e la sua politica, da un lato e l’antisemitismo dall’altro. Dunque è quasi obbligatorio ragionarci sopra, anche se è un tema straordinariamente difficile e – lo confesso – lo affronto con un certo disagio, ben sapendo che ogni virgola fuori posto sarà usata immediatamente per affibbiare anche a me l’epiteto di «antisemita». Ma ci provo, facendomi scudo del… papa.
Giovanni Paolo II ha detto a Sharon che «non servono muri, servono ponti» (1). Sharon sta costruendo un muro che, letteralmente, ruba territori ai palestinesi e, come ha detto anche il cardinale Sodano, trasforma lo stato palestinese in una gruviera. Antisemita anche lui? Anche quando dice che bisogna collocare una forza d’interposizione tra israeliani e palestinesi, che tenga a freno gli uni e gli altri?
Ma il presidente Bush e Ariel Sharon non ne vogliono sapere. Eppure prova a dire o a scrivere una cosa del genere e immediatamente sarai tacciato di voler attentare alla sicurezza degli ebrei. E perfino le parole del papa, che ha già chiesto perdono per il passato, che è andato laggiù a pregare sul muro del pianto, sono messe in un angolo, quando non ignorate dai giornali e dai telegiornali.

Lo scorso novembre quattro ex capi del servizio segreto israeliano, lo Shinbeth, hanno pubblicato un documento congiunto in cui criticano severamente Ariel Sharon per aver puntato esclusivamente sulla guerra, sulla violenza contro i palestinesi, per il suo rifiuto ostinato di abbandonare gl’insediamenti dei coloni nei territori che il processo di pace aveva già assegnato ai palestinesi. Il New York Times mette la notizia in prima pagina, ma i giornali italiani o ne tacciono, o la relegano in luoghi invisibili. I telegiornali italiani, tutti, senza eccezione alcuna, la ignorano.
Qualche giorno prima l’Unione europea aveva pubblicato un sondaggio (su 7.500 cittadini europei, distribuiti uniformemente) (2) in base al quale – scrissero tutti i giornali tra grida di scandalo e accuse di antisemitismo – la politica dello stato d’Israele rappresenta, per il 59% degli europei, la maggiore minaccia alla pace mondiale. Quasi tutti i capi partito italiani si mostrarono indignati. Il presidente della Camera, Casini, definì il sondaggio «inopportuno» (non gli era piaciuto il risultato o il sondaggio?). Quasi tutti ignorarono che il sondaggio era composto di 10 domande, solo l’ultima delle quali riguardava Israele (lo stato, non gli ebrei). Le altre 9 erano tutte sulla guerra americana in Iraq e tendevano a scoprire quale fosse l’orientamento dei cittadini d’Europa. Ebbene, dal sondaggio emergeva che la stragrande maggioranza degli europei riteneva la guerra sbagliata, ingiusta, e si attendeva dall’Europa una politica di forte distinzione rispetto a quella degli Stati Uniti.
Si trattava di un’informazione preziosa, per chi avesse voluto mettere mano a una politica estera dell’Europa più rispettosa della volontà dei suoi cittadini. Invece il coro scandalizzato dei commentatori fu rumoroso e scomposto: l’Europa – si chiesero – sta diventando antisemita? Ma che c’entra?
Dovremmo giungere alla conclusione che il 59% degli europei è diventato antisemita? E in Italia anche? C’è qualcuno disposto ad affermare pubblicamente che la maggior parte degl’italiani, che si è pronunciata contro la guerra, è diventata antisemita? Begli amici di Israele per davvero quelli che sostengono questa tesi! Dice il proverbio: dai nemici mi guardi Iddio che dagli amici mi guardo io. È chiaro che non è vero, ma la pressione mediatica guerriera e bugiarda è riuscita a far diventare senso comune un’equazione falsa.
Difendono gli ebrei? Niente affatto. Sono preoccupati di difendere l’imperatore e le sue guerre. E poiché Sharon le sostiene e ne fa parte integrante, ecco invocare a sua difesa il ricordo dell’olocausto, che non c’entra assolutamente niente. Eppure non si può più discutere di queste cose in termini civili. I dibattiti (si fa per dire) televisivi si trasformano in risse non appena si tocca l’argomento Israele. È diventato un tabù. E, ogni volta che qualcuno osa alzare il dito per proporre un distinguo, ecco l’altra accusa, che diventa anch’essa un luogo comune invalicabile: se non sei con Israele non solo sei antisemita, ma sei anche a favore del terrorismo, dei terroristi, di Osama bin Laden e di Saddam Hussein. Tutto in un fascio, per creare la massima confusione nelle menti.

Anche in Iraq, dove sono morti pure 19 italiani (si veda l’ampio servizio su questo stesso numero di MC), vogliono che si veda soltanto il terrorismo islamico. E invece c’è una guerra che non è affatto finita e non è affatto vinta. Dove c’è sicuramente il terrorismo (prima non c’era e ce lo ha portato la guerra americana), ma c’è anche una enorme resistenza popolare all’occupazione. Così i luoghi comuni uccidono, perché, sbagliando e ingannando la gente, si manderanno altri soldati italiani a morire inutilmente e per una causa sbagliata.

Giulietto Chiesa




CARI LETTORI

Come riconoscere il confine tra informazione e propaganda? Gli Stati Uniti di George W. Bush sono gli stessi dello sbarco in Normandia? L’Urss contribuì alla liberazione dal nazismo?

Stimato direttore, ho letto con cura le lettere (1) che le sono arrivate, alcune delle quali duramente critiche – uso un eufemismo, perché in qualche caso le definirei insultanti – nei miei confronti. Chi espone in pubblico le proprie opinioni si espone alla critica, ed è normale che sia così. Non c’è, in questo, alcuno scandalo. Ciò che mi fa pensare è il tono aggressivo, l’insofferenza nei confronti delle posizioni altrui, che alcune delle lettere manifestano. E devo dire subito che trovo sconcertante il tono «molto militante» e assai poco evangelico di alcuni che, come il signor Luigi Fressoia, da Perugia, sono molto contenti che «nel mondo c’è qualcuno che le suona ben bene ai fanatici dell’islam».
Immagino che il signore in questione abbia già fatto i conti con la propria coscienza, incluso quanto concee le affermazioni calunniose nei miei riguardi, in base alle quali io sarei «in cima alla lista Mitrokhin». Il signore in questione non sa neppure, evidentemente, cos’è la lista Mitrokhin. Nella quale, comunque io non sono presente, né in cima, né a metà, né in fondo. Resta da chiedersi chi siano coloro (giornali, riviste, canali televisivi) che informano così male il signor Fressoia. E, infine, cosa c’entra la lista Mitrokhin con quello che io ho scritto?

L’altra cosa che, a quanto pare, ha molto indignato, è la mia semplice constatazione che a vincere il nazismo è stata una «coalizione» di cui fecero parte Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti. Ma poiché la propaganda corrente ha stabilito un’identità tra sconfitta del nazismo e apporto degli Stati Uniti, ecco che una semplice constatazione storica appare alle vittime della propaganda come una bestemmia. Ho aggiunto che l’Unione Sovietica rovesciò le sorti del conflitto a Stalingrado, dopo avere sopportato, da sola, l’urto più potente delle divisioni naziste e quando la Francia era già stata occupata, mentre Churchill era sotto i bombardamenti della Luftwaffe.

Chiunque abbia letto una qualunque pagina di storia in materia lo dovrebbe sapere. Ma la propaganda pro-americana è diventata così ossessiva da far dimenticare perfino le ovvietà. Si possono definire «baggianate» queste constatazioni, ma la storia, volendo, la si può ancora studiare. Del resto io non ho scritto, e non penso, che l’Unione Sovietica ci ha portato la libertà. Non credo infatti che fosse questo il disegno di Stalin. Ma non credo che fosse nemmeno il disegno di Roosevelt.

Trovo inoltre un po’ strano negare l’evidenza del contributo dato dai sovietici, che sono morti a milioni, per difendere la loro terra (e che, indirettamente, hanno difeso anche la nostra) e la nostra libertà. Se Hitler avesse sconfitto l’Urss, lo sbarco in Normandia sarebbe stato semplicemente impossibile perché tutte le divisioni naziste, invece che essere schierate nel centro Europa, per fronteggiare l’offensiva sovietica, sarebbero state sulle rive della Manica, intatte e vittoriose.

Capisco che la propaganda abbia offuscato la realtà, ma non tutto si può occultare. Io credo sia molto ingenuo pensare che Roosevelt sia venuto in guerra per portare la libertà. Quando si motiva un’azione politica si cerca sempre una ragione nobile. Ma si sa che la maggioranza degli americani era contro l’intervento in Europa, e Roosevelt agì contro la maggioranza. E agì perché comprese che la vittoria del nazismo sarebbe stata molto pericolosa per gli Stati Uniti. E comprese che, al contrario, una vittoria degli Stati Uniti avrebbe consentito di impiegare immensi capitali e il loro potenziale economico nella ricostruzione dell’Europa. Infine tutti sanno che l’intervento americano fu fatto anche perché l’Urss faceva molta paura e occorreva impedirle di conquistare l’intera Europa. Negli Stati Uniti c’erano circoli influenti, all’epoca, che pensavano che sarebbe stato opportuno continuare subito la guerra contro l’Urss, una volta sconfitto Hitler. Così la pensava anche Churchill.

Il fatto che gli Stati Uniti vennero in Europa per conquistarsi una testa di ponte decisiva per difendere i loro interessi è infine dimostrato dal fatto (incontrovertibile) che lasciarono al potere, senza neppure sfiorarlo, il dittatore fascista della Spagna, Francisco Franco. Se la libertà fosse stato il motore delle loro azioni, si presume che avrebbero dovuto portarla dovunque. Invece si fermarono ai confini spagnoli e Franco divenne un loro grande amico. Una libertà, dunque, da interpretare a piacimento.

Per quanto concee gli «enormi aiuti» che Mosca avrebbe ricevuto dagli Stati Uniti, si tratta – questo sì! – di «baggianate», che non sono suffragate da nessun documento attendibile e sono invece smentite da tutta la documentazione disponibile. So bene che circolano, ogni volta, cifre sbalorditive, di aiuti americani alla Russia che avrebbero richiesto un ponte navale di dimensioni impressionanti. Ne hanno scritto sul Gioale, su Libero, e su altri fogli della destra, quel tipo di giornalisti che il papa ha duramente invitato a evitare di essere «agenti di propaganda e disinformazione» (2). Nulla di tutto questo è avvenuto: gli aiuti ci furono, ma furono molto marginali.

Dire infine che non si deve criticare gli Stati Uniti perché ci liberarono dal nazismo equivale ad affermare che gli Usa di oggi sono uguali a quelli di 50 anni fa. Io non lo penso. Io penso che gli stati mutano con il tempo e con gli uomini che li guidano. Gli Usa del 1945 erano altra cosa, e ben migliore, degli Usa di Bush.
Dire che un paese e un popolo rimangono identici sempre, in ogni circostanza, equivarrebbe a dire che l’Italia non potrà mai redimersi, per esempio, dalla colpa di essere stata fascista. Io penso invece che l’Italia di oggi sia ben migliore di quella delle leggi razziste e di quella del 1939.

Giulietto Chiesa




Esiste il giornalista «obiettivo»?

Nessuno è obiettivo. L’importante è usare correttezza,
prudenza, onestà. E sottrarsi ai condizionamenti
che assediano questo difficile lavoro.

Mi chiedono spesso come faccio a essere obiettivo. Faccio fatica
a rispondere perché se dicessi di esserlo sarei un bugiardo,
ma so anche che, se dico di non esserlo, passo per un cattivo
giornalista. Spiegare certe cose richiede tempo. E richiede
anche una certa attenzione da parte di chi ascolta. Invece il tempo
è poco e spesso anche chi ha fatto la domanda si stanca presto.
Siamo ormai tutti abituati a risposte brevi, essenziali, le preferiamo
a quelle lunghe, complesse. Spesso anche rendendoci
conto che le risposte brevi, essenziali, sono spesso anche le più
sciocche e cioè le più false. La televisione ci ha abituati tanto alla
stupidità quanto alla falsità.
Invece, in questa mia rubrica per Missioni Consolata ho un po’
di spazio e di tempo per parlarne. Cioè per dire come la vedo io.
E io la vedo così: obiettivi non si può essere. Nessuno è obiettivo.
Direi di più ancora: guardatevi da chi afferma di essere obiettivo,
perché probabilmente sta cercando di piazzare della merce
avariata dandola per buona.
Dire che si è obiettivi nel riferire un evento è come affermare
che ci si può spogliare della propria visione del mondo,
delle proprie idee, della propria storia. È come scrivere, o mostrare
immagini, lasciando a casa la testa, e anche il cuore.
Nessuno lo può fare. Chi dice di poterlo fare è automaticamente
un bugiardo.
Naturalmente il criterio è un altro, come tutti i giornalisti degni
di questo nome hanno sempre saputo: distinguere il resoconto
dei fatti dal commento. Essere quanto più possibile fedeli a ciò
che si è capito, e poi – avvertendone il lettore o lo spettatore – commentare
ciò che si è capito con il corredo delle proprie opinioni,
esplicitamente esposte e non fatte passare come delle verità obiettive.
È la regola aurea che l’autorevole tradizione del giornalismo
anglo-sassone ci ha tramandato.
Ma voi avrete notato che ho messo in corsivo quattro parole. Sono
decisive. Perché oltre alla correttezza con cui si deve riferire, o
mostrare, un evento, c’è anche la prudenza necessaria nell’interpretare
ciò che si è visto. Perché si dà il caso che uno abbia visto
una cosa senza capirla e finirà quindi per riferire e mostrare ai telespettatori
e ai lettori soltanto il suo errore d’interpretazione.
Cioè la correttezza di chi fa il giornalista consiste non soltanto nell’essere
quanto più possibile fedele ai fatti, ma anche poco corrivo
a dare per certe cose che invece certe non sono, perché non le
si è comprese fino in fondo.
Ecco un’altra difficoltà che si erge contro l’obiettività. Ma quanti
sono i giornalisti che fanno esplicita professione di incertezza?
Io ne conosco così pochi che starebbero comodamente sulle dita
di due mani. Di regola si fa il contrario: cioè si manifesta certezza
anche quando si è consapevoli che esiste il dubbio. Anche
perché il signor Direttore non ti permetterebbe di spaccare il capello
in quattro. «La gente – direbbe – non vuole dei cacasenno,
vuole cose chiare, sintetiche, essenziali. Vuole delle verità». Forse
ha ragione il signor Direttore, ma questo rende molto difficile essere
obiettivi, anche a chi volesse provarci.
E poi c’è il problema della complessità. Il mondo è sempre stato
una cosa complicata, ma negli ultimi tempi lo è diventato ancora
di più. Fare bene il giornalista significa sapere un sacco di cose,
studiare molto. Capire comporta un grande sforzo. E una grande
indipendenza intellettuale, una grande capacità di sottrarsi ai
condizionamenti che ti circondano, agli ostacoli che vengono attivamente
frapposti tra il giornalista e la verità e la realtà. Se non
hai tutte queste doti nel tuo bagaglio, cui aggiungere una discreta
dose di coraggio (non sto parlando di sprezzo del pericolo, mi
riferisco alla capacità di tenere la schiena diritta quando cercano
di fartela piegare), difficilmente si può essere obiettivi.
Ecco perché io penso che da un giornalista non si debba pretendere
l’obiettività. Al contrario si pretenda che egli sia onesto, che
dica con franchezza ciò che ha capito, e con altrettanta franchezza
dica ciò che non è sicuro di aver capito. Che esprima le sue opinioni,
apertamente, affinché chi lo legge o lo vede in tv sappia che
sono le sue opinioni e nient’altro che le sue opinioni. Sarà il lettore
a decidere se gli piacciono, oppure non gli piacciono.
Un buon giornalista è un buon educatore. Non nel senso che
deve fare prediche, come quelle che si leggono su certi editoriali
seriosi dei giornali paludati «d’opinione», ma nel senso
che deve aiutare chi legge (e chi guarda la tv) a difendersi dai
finti giornalisti «obiettivi», insegnando ai primi a esercitare il
massimo spirito critico nei confronti di tutto ciò che viene loro
propinato.
A proposito: avrete notato che ho messo in corsivo anche la parola
opinione. Già, perché essa rivela involontariamente che i
giornali d’opinione non sono obiettivi. Fanno opinione proprio
perché non sono obiettivi. Cioè il loro scopo è quello di creare
un’opinione. Che poi è la loro, mica la vostra. Hanno diritto di
farlo, naturalmente, purché non spaccino la loro opinione con
l’oggettività. Il che, invece, purtroppo, è quello che pretendono
di fare. Tutti i giorni.

Giulietto Chiesa




A proposito di verità e libertà di critica: «Guai a toccare l’America»!

È possibile criticare gli Stati Uniti senza essere etichettati come «anti-americani»? È sempre stato difficile.
Oggi lo è ancora di più. Ma…
Perché ho scelto di chiamare questa mia personale
rubrica su Missioni Consolata «luoghi comuni»?
Perché la strada dell’inferno è appunto lastricata di
luoghi comuni. Saltellando sui quali si ha l’impressione
di stare al sicuro, mentre sono voragini – questa è la
caratteristica principale dei luoghi comuni – in cui la
verità scompare sempre, soverchiata dall’interesse, dall’ignoranza,
dall’ignavia, dalla presunzione.
I luoghi comuni sono anche le armi per eccellenza dei
manipolatori, specie di quelli televisivi, degli editorialisti
dei grandi giornali cosiddetti d’informazione. Chi
oserà mai contrapporsi ai luoghi comuni, in cui si rifugiano
i pigri e quelli che pensano di sapere già tutto?
Iluoghi comuni sono infiniti. Ce n’è uno che gira per
il mondo da decenni. È quello dell’anti-americanismo.
Guai a toccare l’America! Che, come diceva quel
filantropo di Ronald Reagan, è il «Regno del Bene».
Io pensavo che il Regno del Bene fosse più difficile da
identificare e, per questa ragione, sono stato spesso accusato
di anti-americanismo. Luogo comune per eccellenza,
come si può dimostrare.
Perché se è anti-americano chi critica il governo degli
Stati Uniti, allora è anti-francese chi critica quello di
Parigi e anti-italiano chi critica quello di Roma. Cioè
si giungerebbe alla conclusione che, per esempio, gli
americani che manifestano contro la guerra irachena
sono anti-americani e gl’italiani che criticano questo o
quel governo nazionale sono anti-italiani.
Andando avanti su questa strada si arriverebbe presto
alla conclusione che non si deve criticare più niente,
perché si finirebbe comunque sotto qualche anatema.
Invece dovrebbe essere evidente che un governo, buono
o cattivo che sia, non rappresenta mai la totalità di
un paese e di un popolo. Se c’è democrazia, questa non
si manifesta mai in forma di unanimità (questa è caratteristica
dei regimi totalitari, come sappiamo).
Dunque, un governo, nella migliore delle ipotesi, rappresenta
sempre e soltanto la maggioranza, non la totalità.
Per cui chi dissente dalle sue decisioni non manifesta
un atteggiamento di spregio nei confronti di un
popolo intero. Si limita a esercitare il diritto, individuale
e collettivo, della minoranza. Spesso poi accade
che un governo (com’è il caso dell’attuale governo degli
Stati Uniti) non solo non rappresenta la maggioranza,
ma è espressione di una minoranza di elettori.
E il presidente attuale degli Stati Uniti non risulta neppure
eletto in base alla conta dei voti, ma in base a un
editto di un tribunale della Florida, il cui governatore
è suo fratello. Per cui dare dell’anti-americano a chi critica
George Bush è davvero un’operazione troppo
sbrigativa. Ma, tant’è, i prigionieri di questo luogo comune
– come, in genere, coloro che amano starsene accucciati
nelle nicchie dei luoghi comuni – non badano
ai dettagli.
Così, continuando ad affibbiare agli altri la critica di
anti-americanismo non appena manifestano il minimo
dubbio circa le decisioni di questo o quel presidente
degli Stati Uniti d’America, gli adoratori di una certa
America perdono il bene dell’intelletto. Per esempio
sostenendo – altro luogo comune – che l’America ci ha
salvati dall’egemonia mondiale del nazismo. La verità
storica, come sa chiunque abbia studiato la storia invece
che leggerla attraverso gli occhiali di Angelo
Panebianco, dice che la vittoria contro il nazismo fu ottenuta
con il contributo assolutamente essenziale
dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti arrivarono
dopo, con ritardo – c’è chi pensa che sia stato un ritardo
molto grave – a prendersi una parte del merito e
la quasi totalità del risultato.
Il comunismo sovietico poteva e può non piacere; anzi,
può essere visto con orrore, ma questo non autorizza
a negare la verità storica in nome del luogo comune,
ormai dominante, secondo cui noi tutti saremmo
stati salvati dall’America. Il fatto che questo luogo
comune stia trionfando da tutti i giornali e da tutti i teleschermi
non lo fa diventare, per questa sola ragione,
più vero.

Per molti anni corrispondente da Mosca per il quotidiano
«La Stampa», Giulietto Chiesa è uno dei più noti
giornalisti italiani. Tra i suoi ultimi libri: Afghanistan,
anno zero (Guerini e Associati, 2001), G8/Genova
(Einaudi, 2001), La guerra infinita (Feltrinelli, 2002).

Giulietto Chiesa