Solo Perrier e San Pellegrino (diario minimo dal Brasile)

A Campos do Jordao, Cortina tropicale fra le montagne che dividono San Paolo da Rio de Janeiro e Minas Gerais, la signora che mi ospita è arrivata in elicottero: Sandra Papaiz, proprietaria della grande fabbrica ereditata dal padre, sbarcato dal Friuli negli anni Cinquanta, ascolta i commenti sul nuovo papa degli amici che si preparano alla cena nella casa dalle verande di legno coperte da fiori. "Finalmente toerà la messa in latino…". È una signora insolita: proprietaria della fabbrica attorno alla quale è cresciuta la cittadina di Diadema, centomila abitanti nei gironi di San Paolo. Ha sconvolto i compagni di golf diventando assessore di un municipio governato da un braccio destro di Lula, Pt, Partito dei lavoratori. Per vent’anni, Sandra ha visto Lula, allora sindacalista, insultare il padre, sbracciarsi in cortile con l’altoparlante. Ed oggi, da donna pratica, si è resa conto che il continente Brasile dalle gambe molli aveva bisogno di un uomo così.
Come ogni America Latina, il Brasile rappresenta due società parallele. Nelle città mostro (San Paolo, 21 milioni di abitanti) si sfiorano, ma non si mescolano mai. I problemi restano lontani: per gli uni, produrre, esportare; per gli altri, mangiare una volta al giorno. Il continente che ha i piedi nell’acqua della foresta umida, con bacini giganteschi alle spalle di ogni metropoli, soffre la sete. Il cacao del nord est diventa legna secca. Migliaia di contadini senza lavoro assediano le città. I fiumi dell’Amazzonia, avvelenati dagli sbarramenti delle dighe, fanno marcire le foreste sepolte sott’acqua e attorno ai grattacieli nessuno beve dal rubinetto. Solo acque minerali. Navi cisterna ogni giorno. Impossibile gustarne il sapore nei ristoranti dove gli stranieri vanno a pranzo. Il cameriere rifiuta la richiesta di acqua brasiliana. "Solo Perrier e San Pellegrino, signore. La nostra clientela beve così".

Un mattino i giornali annunciano la buona notizia. L’occhio di un satellite scopre che le favelas di Rio e San Paolo hanno smesso di allungarsi. La buona notizia è che nei terreni attorno possono crescere i palazzi dei nuovi quartieri giardino. La cattiva notizia è che le favelas si spostano verticalmente verso discariche sterminate dove dal mattino alla sera donne e ragazzi frugano per recuperare qualcosa da vendere o qualcosa da mangiare, scarti che l’appetito del popolo delle acque straniere non ritiene ormai commestibili. Quattro milioni di vagabondi sopravvivono nella capitale industriale del paese, migliaia di ragazzi con l’Aids vagano sui marciapiedi impestati da cinque milioni di automobili. Per fortuna, c’è la maggior concentrazione di elicotteri privati del mondo. Nessuna persona sensata va al lavoro in automobile, ripetono i vacanzieri di Campos do Jordao. Autostrade cittadine a sei corsie paralizzate dal mattino alla sera. Appuntamenti che gonfiano ritardi imbarazzanti, ma nessuno si imbarazza: "Siamo a San Paolo…", è il sorriso del signore arrivato un’ora dopo. Nel cucinone di don Julio Lancellotti, prete di strada, la cena è un po’ di verdura. La sua rete di Case della Vita raccoglie adolescenti alla deriva col sangue avvelenato dall’Aids. Sono tornati stanchi da un pomeriggio di preghiera che i preti amici di don Julio hanno organizzato attorno alla cattedrale per ricordare cinque barboni uccisi e bruciati da squadre della morte. Per la magistratura sono poliziotti in libera uscita. Non muoiono solo barboni: quattro ragazzi al giorno restano senza vita nelle discariche. Sempre colpi d’arma da fuoco. Le ragazze e i ragazzi di don Julio stasera hanno gli occhi che si chiudono sulla minestra. Magliette colorate, pettinati con cura, dita sporche di biro. Con il prete guardiamo Porta a Porta, parla il Socci che distribuiva miracoli nelle dirette di Excalibur: sta ricordando di aver presentato un anno fa il libro del cardinale Ratzinger: "Dallo spiritualismo profondo e costruttivo. In America Latina è facile fare della sociologia dimenticando la dottrina della chiesa". Anche don Julio allarga l’orecchio. Sospira e alza gli occhi verso la tavola ormai vuota. "Di questi ragazzi, due o tre moriranno i prossimi mesi. Facile, dice il signore della Tv di Roma".

Il mondo della disperazione e della ricchezza esibita a volte si toccano. Il condominio dove abita il signor Daniel Dantas la cui professione consiste nel mettere d’accordo affari e politica, sembra un gigantesco mobile dai cassetti aperti in modo diverso: terrazze più larghe, terrazze più corte. Vogliono dire piscine piccole e piscine grandi. Ne è orgoglioso. Chiacchieriamo mentre una figlia bambina nuota nella vasca e il cameriere serve il caffè. Sposto i rami delle piante verdissime che separano la terrazza dalla realtà e mi affaccio su una favelas della quale non vedo la fine: su e giù per le colline di Morumbi. "Paraisopolis", spiega Dantas con allegria. "Città del paradiso. Centomila abitanti, forse di più. Qualcuno vuole costringerli ad andare via. L’altra sera sono bruciate due strade. Povera gente, mi spiace, ma un posto così bello sepolto da lamiere e cartoni, è una vergogna che dovremo risolvere". Ascolta le nostre chiacchiere Carmita, figlia grande. "Lavora anche il sabato", sorriso del padre orgoglioso. Spiega che il posto è nuovo: sta per essere aperto lo shopping centre più "in" della città, Villa Daslu. Proprio "villa" perché la proprietaria è italiana: Eliana Tronchesi. "È lo show room delle meraviglie". Entro in un cortile abbracciato dalle logge di un palazzo rinascimento fiorentino. Attraverso salotti dove, per distrazione, al posto dei libri la biblioteca accoglie giornielli di Bulgari, tanti Armani, creme di bellezza americane, abiti appena sfilati a Parigi. Al piano di sopra salotti per uomini. Naturalmente, tutto falso: dai tappeti all’architettura che ricorda le colonne di Pompei, Califoia. Prezzi: da capogiro. Col prezzo di un orologio don Julio potrebbe mantenere per mesi i suoi venti ragazzi. C’è sempre una graziosa padrona di casa che offre il caffè, o una tartina, due dita di champagne, sulle poltrone delle stanze infilate a binocolo, una dopo l’altra. Non vorrei si pensasse ad una villa modello Fiesole. Se l’architettura ha brutalizzato nella banalità l’armonia fiorentina, la dimensione spaventa. Villa Daslu è lunga come Versailles. Sul tetto del magazzino, in fondo a un cortile secondario, due piattaforme aspettano gli elicotteri delle signore che hanno fretta. Ecco la città del futuro: falso rinascimento assediato da una disperazione disperata. Vite e lingue diverse, babele nelle stesse strade.

Fra quarant’anni, avverte un rapporto Onu, metà della popolazione del mondo sarà urbanizzata. San Paolo, o Città del Messico, mostri invivibili, si moltiplicheranno a macchia d’olio ovunque. Le differenze sociali esploderanno. Immondizie, agenti armati attorno alle zone rosa. Fuori, gli stracci, milioni di stracci. Nel 1933 Levi Strauss, professore all’università di San Paolo, aveva previsto la follia di cento chilometri di palazzi: avrebbero distrutto la foresta dell’altopiano trasformando il rio Pinheiro dove Levi Strauss, Braudel e il nostro Ungaretti andavano a pescare, in una fogna che ammorba ricchi e poveri: vapori nauseabondi. "Li respireranno assieme, notabili e diseredati in qualcosa finalmente uguali".

Maurizio Chierici

Maurizio Chierici




Sharon e Abu Mazen uomini di pace?

Dopo sessant’anni anni di tormenti, Sharon e Abu Mazen provano la pace. Gli Stati Uniti hanno deciso di imporla nel modo più semplice: non sono disposti a svenarsi per sostenere l’occupazione selvaggia e l’impianto di nuove colonie nel bantu land palestinese. Costa troppo e non se ne vede la fine. Quindi, tagliano i soldi. Il nodo che si poteva sciogliere negli anni Cinquanta (ma anche Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta), finalmente comincia ad allentarsi. Prima era colpa dell’Egitto di Nasser: Londra e Washington non lo sopportavano da quando aveva nazionalizzato il Canale di Suez. Poi entra in scena Arafat. Quel mitra in una mano e l’ulivo nell’altra sul palco delle Nazioni Unite (è il 13 novembre 1974) con l’impegno di «inventare» un popolo la cui identità non convince né arabi né ebrei. Adesso è semplice scaricare sul suo fantasma mezzo secolo di incomprensioni. Il calendario di oggi ricomincia dal 1948 (o dal 1967, guerra prima guerra dopo) ma con mappe aggiornate dall’allargamento «indispensabile alla sicurezza di Israele». Nuovi profughi, bombe ed invasioni.
Si dice: con Abu Mazen si può trattare. Ha promesso di fermare jihad e kamikaze. È un notabile borghese che non sfigura alla Casa Bianca. Con lui sarà facile. Davvero facile? Abraham Yehoshua è lo scrittore il cui genio quieto propone la vita quotidiana di una Israele, dove ebrei e palestinesi sgelano la diffidenza provando a parlare. «Ogni volta che spunta la parola pace il discorso torna a Gerusalemme. Ciascuna parte ne pretende una fetta, più grande, meno grande. Sarebbe bello se tutte le parti rinunciassero all’egoismo della storia dalla quale discendono, ricordando che fra le pietre di Gerusalemme si è rivelata la volontà di un solo Dio: cambia nome, ma può essere lo stesso. Gerusalemme, città del Dio che unisce e non divide: sarebbe bello se non appartenesse a nessuno». Allora la pace può cominciare mentre il muro divora la campagna palestinese? E poi Gaza, un milione di abitanti, uno sull’altro nei 363 chilometri quadrati di una striscia tagliata da colonie israeliane non semplici da sgombrare. Sharon ritira le truppe per schierarle ai margini della linea verde. Un futuro da gigantesco lager: nessun permesso per aeroporti; proibizione per le barche da pesca; le sorgenti dell’acqua che restano in mano israeliana: può chiudere ed aprire i rubinetti mentre i palestinesi radicali vogliono trasformare la libertà controllata dall’esterno in un laboratorio interno per la lotta armata.
Ma l’attentato impossibile da prevenire è la bomba biologica. Fra 7 anni il numero degli arabi della grande Israele doppierà gli ebrei che ne sono padroni. I profughi fanno più figli anche se resta l’eterna domanda: profughi da dove? Nel tempo la differenza si allargherà. Difficile governare una maggioranza ristretta in piccoli territori senza moltiplicarne le tensioni. Ecco il destino che unisce i due uomini incaricati della pace: li si presenta come protagonisti obbligati ad una scelta impossibile da rimandare. Le biografie non consolano l’inquietudine. Nascondono pagine imbarazzanti.

Abu Mazen, padre di Mazen, figlio primogenito, si chiama Mahmud Abbas. È cresciuto all’ombra di Arafat, ombra profonda: diplomazie segrete, contatti con Cia e servizi israeliani. Studia scienze politiche ad Amman, frequenta l’università orientale di Mosca. Proprio a Mosca trasforma in libro la tesi con la quale si è laureato nel 1981 in Giordania dove ristampa in arabo l’opera: «Legami segreti tra nazisti e direzione del movimento sionista». Nell’introduzione, l’autore anticipa i dubbi che il testo vorrebbe dimostrare. Non sono 6 milioni gli ebrei bruciati dall’Olocausto: «solo» 896 mila. Mahmud Abbas precisa che il numero minore non cambia la dimensione rivoltante del crimine, ma incide sull’uso politico che Israele ne fa. I 5 milioni di ebrei che mancano al suo appello sono morti «fuori» non dentro i lager. Nelle guerre russe, bombardamenti e scontri armati in Europa. «Ma i sionisti hanno calato quei 6 milioni sul tavolo per strappare il massimo possibile dalle grandi potenze. Il prezzo si chiama Palestina». È l’idiozia che ha nutrito generazioni di profughi palestinesi e scatenato la rabbia dei superstiti dai lager. Eppure sarà Abu Mazen a firmare la possibile pace. Controfirmata da Sharon.

Il vero Sharon è diverso dal generale moderato di oggi. Il vero Sharon non ha mai nascosto idee fin troppo chiare. Nel colloquio con Amos Oz, raccolto in un libro uscito a Tel Aviv nel 1982, subito dopo la strage di Sabra e Chatila (killers cristiano-maroniti che Sharon proteggeva per lasciarli lavorare in pace), lo scrittore israeliano lo descrive così: pantaloni corti, figura pesante, corpo abbronzato di uomo biondo che vive al sole. Risponde allungando gambe pelose sul tavolo della casa di campagna. Sintetizza ciò che pensa con voce roca per troppo fumo: «Meglio un giudeonazista vivo che un santo morto. Non mi preoccupa se mi considerano una specie di Gheddafi. Non cerco l’ammirazione dei Gentili. La storia insegna che chi non uccide verrà ucciso. Secondo lei i cattivi del mondo se la passano male? Siamo pronti a un’altra guerra, distruggeremo ancora e ancora fino a che quelli (nota di Oz, “i palestinesi”) ne avranno abbastanza. Il salutare bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (Sabra e Chatila, appunto: 1240 civili trucidati nel sonno) avremmo dovuto farlo noi, non lasciarlo ai falangisti cristiani; queste ultime operazioni hanno troncato i merdosi discorsi su un “popolo eccezionale”. Finalmente non sentiremo ripetere le assurdità sulla famosa morale ebraica, immagine della purezza e virtù dei superstiti emersi dalle camere a gas». Non ho visto In the land of Israel in Italia. L’edizione della mia biblioteca è datata 1984, Vintage Book, New York. Ma il libro di Oz è uscito nel 1983 in Francia, tradotto dall’ebraico da Guy Seniak e Calmann Levy. In Israele, è un pocket ristampato.
Speriamo che Sharon e Abu Mazen abbiano sepolto i pensieri del passato, altrimenti quale pace possiamo aspettare?

(*) Maurizio Chierici, giornalista e scrittore, già ambasciatore dell’Unicef, è uno dei più noti inviati italiani. Per trent’anni ha girato il mondo per il Corriere della Sera. Ha scritto una quindicina di libri. Tra questi ricordiamo: I guerriglieri della speranza. Arafat racconta (Mondadori), Malgrado le amorevoli cure (Einaudi), Tropico del cuore (Baldini e Castoldi), Lungo viaggio d’addio (Baldini e Castoldi).
Il titolo di questa rubrica, La pelle degli altri, riprende un libro scritto nel 1986 (Rizzoli Editore) e pluripremiato (Premio Unicef, Premio Colomba della pace). Con La pelle degli altri, Maurizio Chierici inizia la sua collaborazione con Missioni Consolata.

Maurizio Chierici