Il «padre bianco» a cavallo

Padre Eusebio Francesco Chini

Ricorre quest’anno il 3° centenario della morte di uno tra i più grandi (e più sconosciuti) pionieri dell’America primitiva: padre Eusebio Francesco Chini (1644-1711), gesuita, cartografo, astronomo, scienziato, esploratore, scrittore, soprattutto missionario e difensore degli indiani; percorse immense distese di territori in Arizona, Califoia e altrove, fondando missioni, costruendo città, seminando fede e civiltà. 

«Fu il più caratteristico pioniere e missionario di tutto il Nord-America: esploratore, astronomo, cartografo, costruttore di missioni e fattorie, grande allevatore di bestiame e difensore delle frontiere. La sua vita non è solo quella di un individuo eccezionale: essa illumina la storia della cultura di gran parte dell’emisfero occidentale nella stagione pionieristica». Così il suo primo biografo, Herbert Eugene Bolton, presentava nel 1936 Eusebio Francesco Chini.
Figura poco nota tra noi, ma celebre anche fra i protestanti americani, è uscita da oltre due secoli di oblio grazie agli studi e pubblicazioni del Bolton, fino a meritare una statua nel Campidoglio di Washington, accanto ad altri due pionieri e fondatori di stati americani: il gesuita Jacques Marquette (Michigan) e il francescano Junipero Serra (Califoia).
La sua formazione
Eusebio Chini nacque nel 1645 a Segno, nella VaI di Non, poco distante da Trento, ma abbastanza per mettere in questione la sua nazionalità: «Sono un trentino tirolese; non so se definirmi italiano o tedesco – scriveva alla marchesa di Aveiro nel 1680 -. La città di Trento, anche se si trova ai confini del Tirolo, appartiene per lingua, tradizioni e leggi all’Italia. D’altra parte, il Tirolo appartiene alla Germania… Comunque, per 18 anni sono vissuto quasi nel cuore della Germania».
Ricevuta la prima educazione nel collegio dei gesuiti a Trento, completò la sua formazione al di là delle Alpi: liceo vicino a Innsbruck (1662-65), studi superiori di filosofia e teologia nelle università di Ingolstadt, Friburgo, Monaco, senza trascurare matematica, astronomia, geografia, cartografia.
A 20 anni, nel 1663, entrò nella Compagnia di Gesù, emise la professione nel 1667 e aggiunse al nome di battesimo quello di Francesco, in onore del Saverio, al quale aveva fatto voto di farsi gesuita e missionario in caso di guarigione da una grave malattia. Ogni anno scrisse al superiore generale, manifestando il desiderio di essere un giorno mandato in Cina, dove il suo celebre cugino Martino Martini aveva speso ingegno e vita per una quindicina d’anni.
Ordinato prete nel 1677, venne finalmente esaudito: fu destinato alle «Indie»; ma nel sorteggio tra lui e un compagno, invece di quelle orientali (che includeva la Cina) gli toccarono le Indie occidentali: fu destinato alla Nuova Spagna, cioè al Messico.
Imbarcatosi a Genova con altri 18 compagni nel marzo 1678, arrivò a Cadice a metà luglio, quando la Flotta Reale era già partita per il Nuovo Mondo.
In attesa di una nuova spedizione, rimase a Siviglia per due anni e mezzo: ne approfittò per praticare lo spagnolo; si interessò di agricoltura, farmaceutica e scultura; si occupò di matematica e astronomia: con strumenti costruiti da lui stesso studiò il corso di una cometa apparsa tra il 1680-81, e ne pubblicò la descrizione appena giunto in Messico. A Siviglia cambiò l’ortografia del cognome in Kino, per evitare la cattiva pronuncia spagnola.
missione quasi fallita
Arrivò in Messico nel 1681 mentre si stava preparando una spedizione per esplorare e colonizzare la Bassa Califoia. Padre Kino fu scelto come «cosmografo regio» e cappellano del gruppo. Composta di due navi, 100 soldati e tre gesuiti, la spedizione salpò da Sinaloa nel gennaio 1683; sballottata dai venti, approdò nella baia di La Paz il 1° aprile. Dopo una settimana di esplorazione apparvero i primi indiani guaicuros che minacciosi intimarono agli intrusi di uscire dalla loro terra. Padre Kino e padre Goñi offrirono loro mais, biscotti e collane; pochi giorni dopo essi tornarono con frutta, piume oamentali e altri doni.
Il ghiaccio era rotto; le visite si ripeterono e cominciò l’evangelizzazione; ma i soldati continuarono a diffidare e uccisero senza ragione una decina di indigeni. «L’uso sconsiderato delle armi – scrisse padre Kino il 16 luglio 1663, commentando questo e altri fatti – fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana, aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto. Colpiti infatti dai nostri metodi pacifici, i nativi avevano cominciato a temere e abbandonare tutto ciò che avevamo spiegato loro che non era bene fare. Avevano cominciato a recitare alcune preghiere… a farsi il segno della croce, a mezzogiorno s’inginocchiavano alla recita l’angelus».
Dopo tre mesi la spedizione toò nel continente per vari motivi: paura dei guaicuros, assenza di metalli, pietre preziose e perle (cose che interessavano gli spagnoli), difficoltà di rifoimenti. Intanto padre Kino aveva tracciato alcune mappe e raccolto 500 vocaboli indigeni.
Organizzata una seconda spedizione, il 6 ottobre approdarono più a nord, nel luogo poi chiamato San Bruno, in onore del santo del giorno. L’impresa fu più fortunata della precedente: gli indigeni si mostrarono molto cordiali e aiutarono subito a costruire la cappella; i coloni cominciarono a coltivare la terra per dare autosufficienza alla colonia; il territorio veniva esplorato da costa a costa, fino al Pacifico.
Intanto i missionari imparavano la lingua e annunciavano il vangelo, rispondendo alle domande che gli indiani ponevano guardando il crocifisso che pendeva davanti al loro petto.
Le risposte fluivano con facilità, ma il discorso si inceppò quando dovettero spiegare la risurrezione. Quale parola usare? Come far capire l’idea di risurrezione dai morti? Lo racconta padre Kino in una lettera scritta il 6 ottobre 1684: «La parola “risorgere dai morti”, tanto importante per la nostra fede… sono riuscito a ricavarla… prendendo delle mosche che, soffocate nell’acqua, ripulite con certi succhi e ricoperte di cenere, poi messe al sole le ho richiamate in vita; con continue domande sono riuscito a ricavare la parola “ibimu huegite” che significa “risuscitò”».
Ma la Califoia non offriva né perle né oro per pagare le spese di spedizione; il viceré tagliò i fondi e San Bruno fu abbandonato nel maggio 1685, con grande delusione di padre Kino, costretto anche lui a troncare 18 mesi di missione, in cui erano state battezzate solo 14 persone in punto di morte, ma aveva istruito 400 catecumeni. Il missionario promise di tornare; cercò inutilmente di convincere i confratelli a fare una terza spedizione: la missione fu ripresa 12 anni dopo da un suo caro amico Giovanni Maria Salvaterra.
«prete a cavallo»
L’esperienza califoiana incise profondamente nel metodo missionario di padre Kino. Prima di tutto imparò ad apprezzare l’indole dei nativi e si convinse che essi andavano avvicinati con sistemi opposti a quelli usati dai soldati spagnoli, avidi e rozzi. Poi pianificò il modo di operare in modo indipendente, prendendo le distanze dalla burocrazia ufficiale, soprattutto, studiando i modi di sostenere finanziariamente le missioni. Con tale metodo coniugò gradualmente, per 24 anni, evangelizzazione e promozione umana nella Pimeria Alta, la regione dei Pima del Nord, oggi divisa tra Arizona (Usa) e Sonora (Messico). Vi arrivò il 15 marzo 1687 e si stabilì nel villaggio di Cosari, subito ribattezzato Dolores, dal nome della missione di Nuestra Señora de los Dolores, che divenne il suo quartiere generale. Era l’estrema frontiera settentrionale del Cristianesimo negli inesplorati deserti del Nord-Ovest. Oltre al quadro dell’Addolorata, portava con sé una copia della Real Cédula, cioè un decreto regio che esentava per almeno 20 anni dai lavori forzati nelle miniere e dalle imposte i futuri convertiti. 
Padre Kino cominciò subito a esplorare il territorio. Organizzò e guidò 50 spedizioni, in media due viaggi l’anno, da cento a mille chilometri ciascuno; esplorò in lungo e in largo tutta la regione dell’Alta Pimeria, attraversando deserti e aprendo molti nuovi sentirneri, fino a raggiungere, primo europeo, i fiumi Gila e Colorado.
Tali esplorazioni erano anche missioni itineranti. Conquistata amicizia e simpatia degli indiani, egli predicava loro il vangelo, spesso mediante un interprete; dopo una sommaria istruzione battezzava bambini e moribondi; stabiliva una rete di comunità che poi lui stesso o altri visitavano regolarmente per continuare la catechesi, celebrare il culto e formare alla vita cristiana. In 24 anni fondò e fece crescere 24 missioni, sparse su un territorio di 4.200 kmq; percorse a cavallo complessivamente più di 30 mila km, attraverso il deserto più ostile del continente. Lo chiamavano il «padre a cavallo». Convertì più di 30 mila anime: è passato alla storia come «l’apostolo dei Pima». 
missionario e ranchero
Per coniugare il binomio vangelo-promozione umana, padre Kino dedicò particolari cure all’agricoltura e all’allevamento. Dove passava, il deserto rifioriva. Fece arrivare dall’Europa semi di grano e ortaggi, piante da frutta e viti con cui organizzò una quarantina di fattorie agricole; insegnava agli indigeni a canalizzare l’acqua per irrigare le svariate coltivazioni intensive.
Fondò anche una trentina di ranchos, dove allevava con successo numerosi armenti di buoi, pecore e cavalli, da fare impallidire i cowboys arrivati due secoli dopo in quelle stesse zone.
Di suo non possedeva neppure un capo di bestiame; tutto faceva per dare alle missioni fondate o da fondare una base di autonomia economica e assicurare la sussistenza e il progresso degli indigeni delle medesime missioni. Riuscì perfino ad aiutare i confratelli che si trovavano in difficoltà: a padre Salvaterra, che stentava a mandare avanti la sua missione in Califoia, mandò 300 capi di buoi e cavalli in una sola volta; altri 1.400 capi alla missione di San Saverio, non lontana dalla quella di Dolores.
«grande padre» degli indios
Per trasformare i pima e altre etnie (meri, sobaipuri, pápago, gila) in agricoltori e allevatori, padre Kino dovette lottare su più fronti. Tanto ben di Dio attirava l’attenzione e i saccheggi degli apaches, stanziati a oriente delle sue missioni. Per difendersi dai loro saccheggi il missionario dovette insegnare agli indigeni anche l’uso delle armi. Fattosi «voce dei senza voce» padre Kino difese strenuamente i diritti degli indigeni, accusati di essere ladri, incostanti, viziosi, refrattari alla civiltà e spesso sfruttati e umiliati dai militari e coloni spagnoli. Furono anni di sofferenze e frustrazioni enormi, accresciute dalla ribellione dei Pima, nel 1695, che mise a ferro e fuoco ben sei missioni e varie fattorie e che causò, soprattutto, l’uccisione del suo caro amico, il gesuita siciliano padre Saeta. Padre Kino si fece mediatore e riuscì a riportare la calma: fu firmato un trattato di pace tra i capi dei Pima e le autorità coloniali. Ciò nonostante coloni e proprietari di miniere montarono una campagna di accuse, invidie e calunnie, credute dalle autorità civili e religiose, con lo scopo di chiudere le missioni in Pimaria, lasciando la frontiera della Nuova Spagna nelle mani dell’esercito e dei coloni.
Padre Kino intraprese un viaggio di 2 mila chilometri a cavallo e raggiunse Città del Messico, dove incontrò i suoi superiori e il viceré, smontò una per una le calunnie e ottenne ciò che voleva: la missione della Pimaria continuava, con l’invio di cinque nuovi missionari, e lui stesso fu riconfermato nel ruolo di guida delle missioni. Ritornato a Dolores i Pima lo acclamarono loro «grande padre bianco».
Calunnie e invidie continuarono, anche da parte di qualche confratello, che lo accusava di stare più a cavallo che in chiesa, di dedicarsi più all’esplorazione e alla promozione umana che all’evangelizzazione; stava quasi per essere rispedito in Califoia, quando arrivò l’ordine da Roma, del superiore generale, di lasciarlo continuare nella Pimaria Alta. Dalla fine del 1697 fino alla morte poté consolidare il lavoro già svolto e fondare nuove missioni, la più celebre è quella di San Xavier del Bac presso Tucson in Arizona.
l’isola che non c’è
Gioie e dolori, successi e delusioni, incomprensioni, calunnie e persecuzioni… tutto era stimato e proclamato da padre Kino «favori celestiali», come scrisse nelle sue lettere (ce ne sono pervenute 93) e soprattutto nella Cronologia della Pimeria Alta: Favori Celestiali, diario che abbraccia il periodo della sua vita dal 1687 al 1706. Altro libro importante del 1695 è la biografia del suo confratello e protomartire della Pimaria Alta: Inocente, Apostolica y Gloriosa muerte del venerabile padre Francisco Xavier Saeta…
Fin dall’inizio, assieme al lavoro apostolico e organizzativo, il Kino non smise mai di effettuare accurate rilevazioni scientifiche e geografiche, che traduceva in mappe e relazioni che contengono aspetti politici, economici, etnologici, militari, geografici ecclesiastici e missionari.
Oltre agli scritti, ci sono pervenute 32 carte accertate; in esse sono registrati fiumi e valli, monti e selve, villaggi di cristiani e pagani, sentirneri e sorgenti d’acque… dati indispensabili per i futuri missionari, esploratori, viaggiatori e per la sopravvivenza degli stessi indigeni. Tra le 32 mappe, a procurargli più fama fu quella intitolata «Paso por Tierra a la Califoia», in cui dimostrò che la Califoia era una penisola e non un’isola come si credeva da oltre 50 anni (vedi riquadro).
Ormai anziano, stanco e ammalato, la morte lo colse, poco più che 65enne, il 15 marzo 1711, mentre consacrava la missione di Santa Magdalena de Sonora, chiamata poi Magdalena de Kino. Sepolto presso l’altare, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi da parte delle genti da lui evangelizzate. Poi il ricordo si affievolì per la soppressione dei gesuiti e per la cacciata successiva dei francescani (1828) che li avevano sostituiti.
La riscoperta di padre Kino partì dall’Arizona, dopo che questa regione fu incorporata negli Stati Uniti (1912). Nel 1965 una statua del grande missionario, proclamato secondo fondatore dell’Arizona, fu posta nella sala del Campidoglio di Washington, insieme ai grandi della patria.
Nel 1971 l’arcivescovo di Hermosillo ha iniziato il processo per la causa della sua beatificazione. Le popolazioni di entrambi gli stati, Arizona e Sonora, attendono che anche la Chiesa riconosca la santità del loro padre nella fede e nella civiltà.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




«Mamma bianca»

Beata Maria Caterina Troiani (1813-1887)

Orfana a 6 anni, monaca a 17, missionaria in Egitto a 46, Caterina Troiani fu definita da Giovanni Paolo ii
«missionaria in clausura, contemplativa in missione». Per la sua carità verso tutte le vittime di sfruttamento, emarginazione e schiavitù, in cui vedeva il volto di «Cristo crocifisso», la chiamavano «mamma bianca» cattolici, ortodossi, musulmani.

Nata il 19 gennaio 1813, a Giuliano di Roma (Frosinone), terza dei quattro figli di Tommaso Troiani e Teresa Panici, Costanza, questo il suo nome di battesimo, a sei anni fu travolta da una tragedia familiare: la madre morta, il padre in prigione per uxoricidio, i fratelli affidati a una zia matea e collocati in differenti istituzioni (vedi riquadro).
Costanza fu messa nel Conservatorio della Carità a Ferentino, un collegio femminile gestito da religiose di diritto diocesano, le Oblate clarisse, popolarmente chiamate «monachelle», per distinguerle dalle omonime claustrali presenti nel paese.

NUOVA FAMIGLIA

La vita al Conservatorio era povera e austera, ritmata dalle attività scolastiche, apprendimento di lavori femminili, iniziazione alla preghiera e alla vita cristiana: la piccola Costanza, intelligente e sensibile, carattere molto vivace, vi si sentiva a proprio agio. Anzi, vi trovò la sua nuova famiglia, composta da sei suore, alcune collegiali sue coetanee e un’anziana maestra pensionante, tanto che, quando alcuni parenti le proposero di ritornare nella società, non ne volle sapere, felice di restare nel suo convento, affascinata dal fervore spirituale che vi si respirava.
Era un’atmosfera permeata, naturalmente, dalla spiritualità francescana, alla quale si aggiungeva la contemplazione dell’umanità sofferente del Cristo. Questa devozione era propagata da due ordini religiosi, fiorenti nel Centro Italia di quegli anni: i passionisti e i missionari del Preziosissimo Sangue, fondati da san Gaspare del Bufalo.
I primi erano di casa al Conservatorio come confessori e direttori spirituali. Il secondo, don Gaspare, nel 1824 percorse palmo palmo la diocesi di Ferentino, predicando le missioni in tutte le parrocchie e gli esercizi spirituali a tutti i religiosi e religiose. Le monachelle furono tanto infiammate nello spirito di penitenza, riparazione e partecipazione alle sofferenze di Cristo, da tradurre la devozione in forme esteriori al limite del parossismo.
È in tale clima di fervore che Costanza, a sedici anni, l’8 dicembre 1829 vestì l’abito delle monachelle, con il nome di suor Maria Caterina di santa Rosa da Viterbo, e l’anno seguente pronunciò i voti religiosi, felice di diventare «sposa dell’Amore Crocifisso per noi». Contemplazione della passione di Cristo, conformità allo «Sposo Crocifisso, nudo e abbandonato sulla croce», ricerca appassionata della volontà di Dio… erano le linee guida del suo cammino spirituale.
Voleva «essere l’ultima nella casa di Dio», ma fin dal noviziato il vescovo le affidò l’insegnamento alle alunne estee e, dopo la professione religiosa fu scelta come segretaria della madre superiora, soprattutto di suor Aloisia Castelli.
Costei, già novizia al Conservatorio nel 1819, ne era uscita per le sue aspirazioni claustrali. Rientrata nel 1823 ed eletta superiora nel 1931, brigò per 10 anni per trasformare il Conservatorio in monastero di clausura. E poiché i vescovi di Ferentino si opponevano, fu deciso di rivolgersi direttamente alle Congregazioni e prelati romani competenti.
Suor Caterina fu incaricata di raccogliere i documenti relativi la storia dell’istituto, redigere memoriali e petizioni e per due volte accompagnò la superiora a Roma, muovendo mari e monti, finché nel 1842 papa Pio ix firmò il decreto che approvava le nuove costituzioni: il Conservatorio veniva dichiarato Monastero, alle monache venivano concesse tutte le indulgenze di cui godevano le clarisse. In realtà, però, la comunità restava sotto la giurisdizione del vescovo e le monache continuavano a fare scuola.
Ma per suor Aloisia fu un successo: riconfermata nella sua carica, poteva finalmente essere chiamata badessa. Suor Caterina, eletta «camerlenga», fu incaricata di curare archivio e biblioteca e redigere la cronaca del monastero dalle origini (1803) fino al 1857. In più, rispolverando un talento paterno e presi i contatti con un medico locale, avviò la spezieria, occupandosi con passione nella confezione di medicinali omeopatici.

UNA GRAZIA SPECIALISSIMA

Ma l’evento più sconvolgente nella storia di suor Caterina fu la venuta al Conservatorio, nel 1935, del passionista Domenico Barberi, in partenza per una missione in Inghilterra, dove i tempi sembravano propizi per il ritorno di tutti i cristiani nell’ovile di Pietro: re Giorgio iv aveva restituito ai cattolici inglesi tutti i diritti civili e il Movimento di Oxford propugna il ritorno del clero anglicano alla chiesa cattolica; già si registravano le prime conversioni. Padre Barberi impegnava vari monasteri del Lazio in una crociata di preghiere e sacrifici per la sua missione.
Le parole del passionista rimasero indelebili nell’animo di suor Caterina, come si legge nella biografia del Barberi: «A quella predica essa si sentì venir meno, uscì di chiesa, si ritirò in cella, dove l’assalì un pianto dirotto e un alto singhiozzo che richiamò le sorelle stupite. “Non potei – essa dice – né mangiare, né dormire, e non avrei fatto altro che ruggire come un leone ferito”».
Sempre alla ricerca della volontà di Dio, suor Caterina sentì tale esperienza come una chiamata speciale. «Nel 1835 il Signore mi fece intendere volere da me una cosa alla sua maggior gloria e per la salvezza delle anime – scriverà più tardi -. L’opera alla maggior gloria di Dio era la conversione dei popoli oltre mare».
Chiusa in un istituto claustrale, come poteva lavorare per «la salvezza dei popoli oltre mare»? Suor Caterina provò una crisi di identità: forse avrebbe dovuto cambiare istituto. Ma il confessore, lo stesso Barberi, le disse di restare al suo posto e aspettare che il Signore le avesse indicato come fare. Nel 1844, lo stesso passionista promise di costruire un monastero vicino a Londra; suor Caterina intensificò preghiere e digiuni; ma il progetto non decollava, finché tramontò del tutto con la morte del Barberi (1849).
Un altro spiraglio per le sue speranze missionarie sembrava aprirsi nel 1855, quando un suo cugino, mons. Bovieri, la mise in contatto con una marchesa parigina, Paolina Nicolay, la quale voleva recarsi a Gerusalemme per aprirvi un piccolo ospizio per i poveri e chiudervi i suoi giorni. Iniziò un lungo carteggio e Paolina venne a Ferentino per presentare il suo progetto; ma quando pretese di portare con sé solo suor Caterina, il sogno andò in fumo.

RISCATTO DELLE MORETTE

Alla fine del 1855 si apriva intanto un nuovo orizzonte: il confessore del monastero, padre Giuseppe Modena, che si recava regolarmente a predicare in Egitto, riportò alla comunità che il vicario apostolico, mons. Perpetuo Guasco, desiderava avere delle suore italiane e francescane per l’educazione cristiana della gioventù. Furono subito avviate le necessarie procedure con la congregazione di Propaganda fide per avere l’autorizzazione di aprire una missione in Egitto, con il vicario apostolico per stabilire le condizioni di lavoro, con il vescovo di Ferentino per avere il permesso di lasciare il monastero; furono contattate varie persone e istituzioni per raccogliere i fondi necessari con cui comperare la casa e sostenere l’opera. Mons. Guasco, infatti, aveva detto chiaro che non aveva un soldo: finanze e personale erano a carico del monastero di Ferentino.
Il 4 settembre 1859, un drappello di sei suore, accompagnate da padre Modena e guidate dalla badessa in persona, nel frattempo convertita dalla stretta clausura alla missione, salpava da Civitavecchia. Suor Caterina era nel numero: all’età di 46 anni, poteva finalmente realizzare il sogno coltivato per 24 anni: «Convertire i popoli oltre mare».
Allo scalo di Malta, giunse la notizia della morte del vicario. Era il caso di continuare il viaggio? Suor Caterina rincuorò il piccolo gruppo: «Non ci siamo messe in cammino per corrispondere al desiderio di un prelato, ma alla chiamata di Dio».
Giunsero al Cairo il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della croce, e si stabilirono nella casa comperata a Clot Bey, nel Cairo Nuovo. Il 1° ottobre fu loro affida un’orfanella egiziana: nasceva così l’educandato per orfane cristiane e musulmane e veniva avviata la scuola per alunne intee ed estee di ogni nazionalità, condizione sociale e religione, con particolare preferenza alle più povere.
L’accoglienza della nuova scuola fu piuttosto fredda: essendo le suore tutte italiane, «poco gradimento s’incontrava da coloro che erano abituati a trattare col gusto francese» scriverà suor Caterina. Ma, superato il primo anno e visti i risultati, la scuola si guadagnò fama e prestigio, tanto che lo stesso viceré, Ismail Pascià, nel 1863, volle conoscere le suore e, dichiarando di «essere loro padre», chiese di esporgli le loro necessità. «Abbiamo bisogno di pane e casa» rispose suor Caterina. E il pascià promise che «a tutto avrebbe pensato e provveduto». E cominciò a fornire una certa quantità di grano, diede il terreno per ingrandire la seconda casa già aperta nel Cairo Vecchio, vicino alla grotta che, secondo la tradizione, sarebbe stato il luogo di rifugio della Sacra famiglia.
La prima opera che fece sentire suor Caterina veramente missionaria fu la fondazione della «Vigna di san Giuseppe», destinata all’accoglienza e istruzione delle «morette», le fanciulle nere liberate dalla schiavitù; una iniziativa suggerita e sostenuta anche finanziariamente da un prete milanese, don Biagio Verri, impegnato nell’Opera del riscatto.
Per sopperire alla scarsità di personale, fu aperto anche un noviziato nella casa di Clot Bey, che divenne un attivissimo centro di istruzione,  evangelizzazione e, soprattutto, di carità verso i poveri e sofferenti.
Aperta come scuola, la casa nel Cairo Vecchio fu trasformata in orfanotrofio per raccogliere le fanciulle minorate di ogni nazionalità e religione, rifiutate dagli altri istituti.

NUOVA FONDAZIONE

Il 1863 e 1864 furono anni di crescita e benedizioni, seppur condite da difficoltà di vario genere. Una malattia, forse un ictus, aveva colpito la badessa, suor Aloisia, menomando le sue condizioni fisiche e mentali. Il nuovo vicario, mons. Vuicic, le affiancò suor Caterina come superiora locale, spaccando in due la piccola comunità. Poi, il vicario cambiò le costituzioni, non ritenendo adatte quelle portate dall’Italia. Tale cambiamento, le aperture del noviziato e della seconda casa, decise senza le dovute autorizzazioni del vescovo di Ferentino e della casa madre, rovinarono i rapporti con il monastero di provenienza, che ordinò alle missionarie di tornare in Italia. 
Ormai impegnata anima e corpo nell’attività apostolica, suor Caterina decise di continuare la sua missione, convinta che quella era la volontà di Dio. E si diede da fare per uscire dall’incresciosa situazione, invischiata in un groviglio di competenze giuridiche. In quanto monache, avevano giurato sul vangelo totale dipendenza dal monastero e vescovo di Ferentino; come francescane ricevevano ordini dal ministro generale dei frati minori; come missionarie dovevano obbedienza al vicario apostolico d’Egitto.
Dopo vari contatti e accordi tra le autorità competenti, suor Caterina si recò a Roma e a Ferentino, per risolvere il problema nel modo più pacifico possibile. Nel luglio del 1868 fu sanzionato il distacco dal monastero di origine e l’erezione dell’Istituto delle missionarie francescane d’Egitto, sotto la giurisdizione di Propaganda fide e sotto la patea e vigile cura del vicario apostolico. 
Toata al Cairo, Caterina fu accolta festosamente come fondatrice della missione e della nuova famiglia religiosa, anche se padre Modena si credeva il vero fondatore e mons. Vuicic voleva fare della nuova istituzione una sua creatura. Nel capitolo del 1869, suor Caterina fu eletta superiora, carica che ricoprì fino alla morte.
Lo strappo dalla famiglia religiosa, in cui era vissuta fin dall’infanzia, fu per Caterina un autentico Getzemani; ma anche in questo sacrificio vide realizzarsi una nuova dimensione dell’«opera a grande gloria di Dio: la conversione dei popoli oltre mare».

CROCI E DELIZIE

Grazie al nuovo assetto canonico, suor Caterina si sentiva più libera nella sua azione missionaria. Le vocazioni affluivano in gran numero, permettendo di estendere le opere già esistenti e avviae di nuove: nel 1879, oltre le due case al Cairo, le missionarie francescane avevano aperto altre cinque opere in varie parti dell’Egitto. Per sostenerle ricorreva alla questua francescana presso amici, istituzioni ecclesiastiche, autorità civili, come l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, ai potenti della zona, anche musulmani, come il vice re del Cairo e il sultano di Costantinopoli.
Fiore all’occhiello del cuore materno di suor Caterina fu soprattutto l’Opera dei trovatelli, per raccogliere i bimbi abbandonati. Le stesse suore andavano a cercarli a dorso d’asino; altri venivano lasciati davanti alla porta delle loro case. Spesso i neonati arrivavano in fin di vita ed erano subito battezzati e spediti in Paradiso. Per quelli in buona salute veniva trovata una balia e, una volta cresciuti, erano sistemati presso famiglie che potessero assicurare loro un futuro dignitoso. 
«Il fine primario che ci condusse in Egitto fu di faticare onde guadagnare anime a Dio» ricordava suor Caterina quando qualche consorella si sentiva stanca o sfiduciata. Ma le fatiche più gravose non erano quelle fisiche, ma le difficoltà, opposizioni, complicazioni provenienti dall’esterno, in campo civile e religioso.
Già i rapporti con mons. Vuicic, per esempio, non erano stati sempre idilliaci: tra l’altro, aveva deviato a un istituto di suore francesi una grossa somma che suor Caterina aveva ottenuto per le sue opere dall’imperatore d’Austria. Altrettanto tesi, almeno inizialmente, erano i rapporti con il successore, mons. Ciurcia, per le calunnie che gli venivano riportate.
«Oggigiorno in qualsiasi modo si agisca sempre si incontrano critiche – scriveva suor caterina -. Tutte queste cose non le dicono i secolari, ma i religiosi». Tra i religiosi c’erano soprattutto i cappellani. Padre Giuseppe Modena, per esempio, aveva diviso la comunità: allontanato dal Cairo per ordine di mons. Vuicic, sparlava e scriveva contro le suore, ritenendole colpevoli del suo allontanamento.
Il suo successore faceva di peggio: con i suoi ordini e consigli «allontanava dall’osservanza delle costituzioni» si lamentava la madre in una lettera indirizzata al ministro generale dei francescani; per cui lo pregava di mandare «uno zelante confessore… uno secondo il cuore di Dio».

ESODO E RITORNO

Nel 1882, mentre madre Caterina stava programmando tre nuove fondazioni, il nazionalismo arabo provocò varie ribellioni contro l’ingerenza straniera nel paese. E quando le navi inglesi e francesi bombardarono Alessandria, la rivolta si trasformò in autentica caccia allo straniero.
Il console italiano chiese alle suore del Cairo di prepararsi a partire, poiché non era più in grado di assicurare la loro incolumità. Dopo aver sistemato qualche bambina presso famiglie amiche, la fondatrice, le suore e varie bambine lasciarono Il Cairo. Salirono su un treno merci e, dopo mille paure, si imbarcano alla volta di Gerusalemme, Marsiglia, Napoli. Sul battello esse non avevano neppure di che ristorarsi. Per incoraggiare le sue suore, la madre diceva loro con dolcezza: «A Gesù crocifisso, venne rifiutata una goccia d’acqua. Vorreste che a noi ci fosse accordato tutto quel che desideriamo?».
Toata la calma (in pochi mesi le truppe inglesi avevano occupato l’Egitto militarmente), madre Caterina mandò al Cairo tre suore in avanscoperta e, visto che tutto era rimasto intatto, organizzò il ritorno delle altre. Da ultima arrivò anche lei. «Piangeva di contentezza nel vedersi intorno giubilanti e festose tutte le sue figlie». Soprattutto le morette erano felici di riabbracciare la loro «mamma bianca».
Nel 1883, fu aperta una scuola ad Alessandria, in un quartiere di povera gente, specie italiani e maltesi. Fu l’opera più grande costruita da madre Caterina, che divenne un centro propulsore per tutte le opere caritative della città.
Quello stesso anno, nel mese di aprile si celebrò il secondo capitolo dell’Istituto e madre Caterina fu riconfermata all’unanimità. Tutti se ne rallegrarono, ma non lei, che accettò l’incarico piangendo, seppur con «perfetta rassegnazione alla santissima divina volontà». Ma le lacrime non erano finite: nel mese di luglio il colera le strappò due giovani suore, due grandi promesse per l’Istituto. Alla fine di ottobre moriva don Biagio Verri e la «Vigna di san Giuseppe» dovette chiudere i battenti.

TRAMONTO

Nel 1886 fu celebrata una consulta, a tre anni dal capitolo generale, per fare il punto della situazione. Il consuntivo era più che positivo. A 27 anni dall’arrivo al Cairo, l’Istituto contava sette case in Egitto, due in Italia, una a Gerusalemme e una stava per aprirsi a Malta; ben 102 suore avevano fatto la professione come missionarie francescane; 1.574 morette erano state riscattate; incalcolabile il numero di alunne formate nelle varie scuole, di orfani e trovatelli cui era stato assicurato un futuro dignitoso; innumerevoli i poveri che a vario titolo avevano ricevuto amore e assistenza.
Il 10 aprile 1887, la sera di pasqua, madre Caterina fu costretta a mettersi a letto: il suo organismo era sfinito. Il 6 maggio, dopo aver ricevuto un’ultima volta l’eucaristia, piegò placidamente il capo e rese lo spirito. Aveva 74 anni. Il giorno seguente, i funerali si trasformarono in trionfo. Erano presenti le autorità civili egiziane, diplomatici e governanti europei in alta uniforme; la gente comune, soprattutto, cristiani e musulmani era accorsa a render l’ultimo omaggio alla loro «madre bianca».
La voce del popolo ne riconobbe la santità in vita e in morte, finché Giovanni Paolo ii la dichiarò beata il 14 aprile 1985.

Ben presto le Missionarie francescane d’Egitto, prima congregazione missionaria femminile italiana, si sparsero in altre nazioni e continenti; per questo hanno cambiato la loro denominazione di origine: dal 1950 si chiamano Francescane missionarie del Cuore Immacolato di Maria.
Oggi circa 700 figlie della beata Caterina Troiani continuano l’opera di evangelizzazione e promozione umana in 88 case, sparse in Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America, seguendo l’ideale della fondatrice: missionarie in contemplazione, contemplative in missione. 

Di Benedetto Bellesi

SENZA FAMIGLIA

L’unico riferimento di Caterina Troiani alla sua famiglia è in una lettera del 1881, quando apprese la notizia della morte del fratello don Francesco. «Lo raccomando alle sue preghiere – scriveva a don Verri -. Egli era l’unico mio fratello di padre e madre; ne ho altri di altra madre e stesso padre… anche questi raccomando alle sue orazioni».
Il padre si chiamava Tommaso, sposato nel 1805 con Teresa Panici. «Speziale» di professione, ma instabile per indole, Tommaso aveva dilapidato il patrimonio paterno e offriva i suoi servigi al migliore offerente. Proprio per ragioni di lavoro, all’inizio del 1816, si trasferì con la moglie e i quattro figli da Giuliano di Roma al paese limitrofo di Santo Stefano. Qui s’invaghì di un’altra donna. La relazione gli procurò anche qualche giorno di prigione; ne uscì con la promessa di emendarsi.
Ma fu inutile: una notte del giugno 1819 la moglie Teresa lo sorprese in fragrante e «ne ricevé delle briscole», come narrano le cronache del tempo. Da quel momento Tommaso decise di disfarsi della moglie. Alla fine dello stesso mese Teresa era nella tomba per un probabile avvelenamento.
Processato e condannato all’ergastolo per uxoricidio premeditato, Tommaso fu scarcerato dopo 12 anni per buona condotta. Tornato in libertà, non trovò nessuno ad aspettarlo. Dei quattro figli, tornati a Giuliano e affidati alla zia matea, due erano morti tre anni dopo la scomparsa della madre; Costanza era diventata suora con il nome di Caterina; Francesco era in seminario, dove sarà ordinato prete nel 1836.
Vivendo da buon cristiano, il Troiani cercò di rifarsi una vita e a 60 anni, nel 1842, si risposò; ebbe altri quattro figli, che lascerà in tenera età nel 1853, colpito da ictus cerebrale.

Benedetto Bellesi




Che donna!

Madre Maria Laura Montoya upegui (1874-1949)

Mistica sublime, missionaria d’avanguardia, scrittrice feconda, avvocata in difesa dei poveri, madre e maestra degli indigeni americani, Madre Laura ha rivoluzionato il concetto stesso di missione con mezzi pedagogici e metodi nuovi di evangelizzazione.

A Jericó, nella regione meridionale del dipartimento di Antioquia (Colombia), il 26 maggio 1874 nasce una bambina. La madre non vuole vederla né allattarla, finché non sia battezzata. Il padre, affannato, prende in braccio la piccina, corre in chiesa e prega il prete di battezzarla. Il tempo di trovare i padrini, e, a quattro ore dalla nascita, il prete versa l’acqua sul capo della piccola, dicendo: «Maria Laura di Gesù, io ti battezzo…». «Laura non è un nome di santa» interrompe il genitore. «Se non lo è, vuol dire che sarà essa a diventarlo» risponde brusco il prete, e prosegue la cerimonia.

«FAME DI AFFETTO»

Juan de la Cruz Montoya e Dolores Upegui, genitori di Maria del Carmen, Maria Laura e Juan de la Cruz, erano cristiani convinti. Entrambi originari di Medellin, si erano dovuti trasferire a Jericó, quando il padre assunse l’incarico di capo civile e militare.
In quegli anni la Colombia stava vivendo uno dei periodi più sanguinosi della sua storia. Odi ereditari, voglie di rivincita, lotte ideologiche si erano coagulate attorno a due partiti: conservatori e liberali. I conservatori, autodefinendosi paladini dell’ordine, si battevano per la perpetuità dei privilegi delle classi tradizionali e del clero; volevano fermamente che la Colombia fosse e restasse al servizio della vera fede, per cui eretici e miscredenti erano considerati nemici della patria.
I liberali difendevano con altrettanto ardore la separazione tra stato e chiesa e i «propri» princìpi di laicità, con viscerale fanatismo anticlericale, fino a dire che «fucilare vescovi e preti era un atto d’igiene e decenza pubblica». Così il paese era diviso in due accampamenti di partigiani: gli uni per cancellare la religione, gli altri per difendere religione e patria.
«Prima di insultare la regione a Jericó dovranno passare sul mio cadavere» diceva Juan de la Cruz. E così avvenne: la notte del 2 dicembre 1876, fu barbaramente assassinato e mutilato di un braccio. I rivoluzionari s’impadronirono di Jericó, confiscarono i beni della famiglia Montoya e degli altri anti-rivoluzionari.
La signora Dolores e i suoi tre figli si trovarono sul lastrico. Furono ospitati prima dai parenti patei e poi da quelli matei, ma senza mai sentirsi bene accolti. Alla fine Lucio Upegui, padre di Dolores, radunò la famigliola nella tenuta chiamata «La Vibora» vicino ad Amalfi.
Negli anni dell’infanzia Laura sperimentò «la fame di affetto», come scriverà nella sua autobiografia. Il nonno, infatti, non mostrò molta simpatia per questa nipotina seria e silenziosa.

«CHIAMATA DEL FORMICAIO»

Per non dare fastidio al nonno, Laura se ne andava per i campi, dove poteva abbandonarsi a giochi infantili, soddisfare la sua curiosità e contemplare la natura, rimanendo spesso per ore incantata dal laborioso via vai delle formiche.
A 7 anni Laura ebbe una straordinaria illuminazione, in cui scoprì la presenza personale di Dio, come racconta nell’autobiografia. «Una mattina me ne andavo con le formiche fino all’albero dove prendevano le foglie e tornavo con loro al formicaio… Venni ferita come da un raggio. Non so dire di più. Quel raggio fu conoscenza di Dio e della sua grandezza… Ho saputo che Dio esiste… Ho pianto a lungo di gioia, per il grande amore… Da allora mi sono lanciata nelle braccia di lui. Era proprio quello che cercavo e di cui sentivo la mancanza» (Autobiografia, p. 42). Laura definiva quest’incontro «la chiamata del formicaio».
Dopo tale illuminazione la bambina iniziò una vita di penitenza e di maggiore preghiera e ad amare e servire i poveri, soprattutto una vecchietta, a cui portava il conforto del suo servizio.

«LA CHIAMATA DEL BANCO»

Lontano dal paese, Laura non poté andare a scuola. Sua madre le insegnò a leggere, scrivere, fare un po’ di conti. Dalle labbra della madre imparò a pregare e perdonare: recitava tutti i giorni un Padre nostro per chi aveva assassinato suo padre. Apprese soprattutto il catechismo. Grazie alla sua memoria prodigiosa, Laura lo ripeteva a menadito, tanto che fu ammessa alla prima comunione all’età di 7 anni, anche se non si rendeva ancora conto della presenza di Gesù nell’eucaristia.
Ma un giorno, aveva 12 anni, mentre inamidava una tela su un banco da falegname, ebbe un’altra esperienza, da lei definita «chiamata del banco». «All’improvviso – racconta – un dolore intenso mi trafisse il petto; abbondanti lacrime mi inondarono le gote… sentii che l’eucaristia trafiggeva e penetrava nella mia anima. Sì Gesù era presente nell’eucaristia e il Verbo era in Gesù».
Da quel momento Laura non vedeva l’ora di poter comunicarsi e trovò uno stratagemma: di buon mattino sellava due cavalli del nonno e, insieme al fratello Juan, si recava ad Amalfi, riceveva la comunione e tornava a casa prima che qualcuno si svegliasse. Finché un giorno il nonno, esaminando i cavalli, domandò: «Come mai i cavalli sono così sudati, senza aver fatto ancora nulla?». I ragazzi non risposero, ma da quel giorno finì la santa avventura.

LAURA DIVENTA MAESTRA

La madre decise di inviare Laura a Medellin per farla studiare nel Colegio del Espiritu Santo, frequentato dalle figlie dell’alta società. Ospite nell’orfanotrofio gestito dalla zia Maria Jesus Upegui, doveva accompagnare una cuginetta capricciosa, che troppo spesso voleva tornare a casa e non permetteva a Laura di frequentare regolarmente le lezioni.  Per di più, senza libri e con un vestito da orfanella di panno giallo, era diventata lo zimbello delle compagne, che la chiamavano «canarino».
Smise di frequentare quel collegio e decise di diventare maestra, per sostenere se stessa e la madre con tale professione. Aveva 16 anni. Era senza il becco di un quattrino. Accettò di vivere nel manicomio diretto dalla stessa zia Maria Jesus, accudendo a oltre 80 malati. Non avendo libri, ottenne il permesso di frequentare la biblioteca dell’istituto magistrale, dove si preparò per l’esame di ammissione. Lo superò brillantemente e ottenne una borsa di studio del governo e, a 19 anni conseguì il diploma di maestra.
Laura prese con sé la madre e insegnò in vari posti del dipartimento di Antioquia, finché toò a Medellin, nel 1897, chiamata dalla cugina Leonor Echevarria per fondare insieme il collegio de La Inmaculada.
Considerava l’insegnamento come la migliore forma di apostolato, per cui non si accontentava di trasmettere il sapere umano, ma si dedicò particolarmente all’insegnamento religioso: con la sua vivacità, talento e ardore incantava le alunne e trasmetteva loro la propria esperienza di Dio, l’amore all’eucaristia, i valori cristiani.
La scuola diventò presto famosa, attirando le figlie delle principali famiglie della città. Quando la giovane Leonor morì, Laura prese le redini del collegio, aumentandone il prestigio, finché per un banale incidente dovette chiudere i battenti.
Una studentessa, Eva Castro, alla vigilia delle nozze fu presa dai dubbi, credendosi chiamata alla vita religiosa. I familiari attribuirono il fatto all’influenza della direttrice Laura Montoya. Eva, poi, si sposò felicemente, ma un suo fratello scrisse un romanzo intitolato «Figlia spirituale», in cui descriveva a tinte fosche Laura, le maestre e i loro metodi educativi. I genitori ritirarono le figlie e il collegio si svuotò.
Seguì un lungo periodo di fame, solitudine, disprezzo, persecuzione, emarginazione dalla società, insieme alla madre e alla sorella, finché il padre spirituale gli suggerì di scrivere una «Lettera Aperta», per confutare punto per punto le calunnie scritte nel romanzo. E lo fece con tale semplicità e maestria che la società, e lo scrittore stesso, le riconobbero l’innocenza, nobiltà d’animo e virtù. E ricominciò a insegnare in varie scuole pubbliche.

«LA PIAGA»

Da tempo Laura sentiva l’attrazione per la vita di consacrazione religiosa e pensava di diventare carmelitana, ma i suoi superiori non approvavano l’idea, finché ebbe tra le mani la rivista Annali della propagazione della fede e si sentì chiamata a salvare gli indigeni colombiani, con quello che lei chiamava «l’opera degli indios». Tale vocazione divenne così forte che, racconta nell’autobiografia, diventò «la piaga, un qualcosa che mi brucia e mi consuma».
Dopo un’escursione con due amiche tra gli indios del Choco, Laura scrisse inutilmente a varie congregazioni religiose chiedendo aiuto per questi indigeni. Decisa a recarsi a Roma, per presentare al papa la situazione degli indios americani, raccolse i suoi risparmi e, prima di partire, si recò nella cattedrale; si inginocchiò davanti alla statua dell’Immacolata e pregò: «Vedi, Signora, questo denaro: l’ho risparmiato per aiutare gli indios. Non vorrei sprecarlo in un viaggio difficile e costoso; ti prego: questa notte, quando il papa porrà la testa sul cuscino, fagli sentire i gemiti dei poveri indigeni del mondo e convincilo a fare qualcosa».
Nel giugno 1912 Pio x pubblicò l’enciclica Lacrimabili statu indorum, in cui esortava vivamente i vescovi d’America a interessarsi degli indigeni e facilitare il lavoro missionario in mezzo a loro.
Nel frattempo Laura decise di andare essa stessa a catechizzare gli indigeni. Scrisse a vari vescovi, presentando la sua «opera», finché ricevette una risposta da mons. Maximiliano Crespo, vescovo di Santa Fé de Antioquia. Questi le diede appuntamento per l’11 febbraio 1912 nell’episcopio di Medellin. Il prelato concluse l’incontro con queste parole: «Accetto la tua “opera” con anima, vita e cuore. Ti appoggerò sempre e, qualora scarseggiasse il denaro della diocesi, rimane il mio borsellino, che non è scarso, e lo metto a tua disposizione».

MISSIONE A DABEIBA

Laura cominciò subito i preparativi. Raccoglieva denaro, stoffa, specchi, stoviglie e quant’altro riteneva utile per gli indios e le compagne di avventura. Molti la prendevano per matta, ma alcune amiche si offrirono di andare insieme a lei. A tutte Laura domanda: «Sei disposta a patire la fame? Se è necessario, sei capace di mangiare lo stesso cibo degli indigeni, radici e foglie del bosco? Sei disposta a essere aggredita in qualsiasi momento dagli indigeni, a fuggire nella foresta e trascorrervi la notte? Sei disposta a lavorare senza nessun frutto e accettare il disprezzo degli indigeni?». A quell’epoca era chiedere l’eroismo e un pizzico di follia.
Cinque giovani, più la sua settantenne madre Dolores Upegui, accettarono di formare il primo gruppo di  «Missionarie catechiste degli indios». Il 5 maggio 1914 («il più bel giorno della loro vita») le sette donne lasciarono Medellin e, dopo 10 giorni a cavallo, raggiunsero il villaggio di Dabeiba, nella regione dell’Urabà, tra gli indios catios.
Le delicate ed eleganti signorine di Medellin iniziarono a costruire una grande capanna di fango e paglia con le loro mani, con la scarsa partecipazione di alcuni indigeni. L’abitazione grande serviva da salone di lavoro, scuola, luogo per ricevere visite, sala da pranzo; anguste camerette e una cucina completavano la casa.
All’inizio gli indios si mostrarono sospettosi e stavano alla larga. Ma poi, un fonografo attrasse la loro curiosità. Laura mise in atto tutte le sue doti pedagogiche per comunicare con gli indigeni, radunarli per parlare di Dio e della loro dignità, per istruirli e curare le loro infermità. Un po’ di bicarbonato e la dissenteria scompariva; un bicchiere di camomilla faceva passare tanti dolori; le ferite, spalmate di grasso, si cicatrizzavano…  per i catios erano miracoli.

NASCONO LE «LAURITE»

Laura non aveva nessuna intenzione di fondare una comunità religiosa. Ma mons. Crespo glielo aveva prospettato fin dal primo incontro: «Le condizioni poste alle tue compagne possono essere la base per una eventuale congregazione religiosa. Dovendo vivere con gli indios, per non sembrare loro mogli ci sarebbe il voto di castità; per non cadere nella tentazione di fare affari con loro ci sarebbe il voto di povertà; per non sbandare e per lavorare con ordine ci sarebbe il voto di obbedienza».
Aumentato il numero delle catechiste, constatando il loro esempio di generosità, abnegazione ed eroismo, il vescovo chiese a Roma di elevare quel gruppo di donne a congregazione religiosa diocesana.
Il 1° gennaio 1917 nasceva ufficialmente la congregazione delle «Missionarie di Maria Immacolata e santa Caterina da Siena» (poi note come «Laurite»), un’opera religiosa che rompeva con schemi e modelli tradizionali, lanciando le donne come missionarie nell’avanguardia dell’evangelizzazione dell’America Latina. Quello stesso giorno Laura emise la professione religiosa e 13 compagne, compresa la madre Dolores, iniziarono il noviziato canonico.
Grande maestra spirituale, Madre Laura così descrive la formazione impartita fin dall’inizio: «Nell’anima delle suore ho cercato d’imprimere l’idea che Dio non poteva essere conosciuto dagli indios se non si mostrava un riflesso di lui in noi e nel nostro modo d’essere… Dovevamo avere verso di loro una bontà tale da poter solo dire: così è Dio e ancora di più!».
Stile e scopo della nuova e, per quei tempi, rivoluzionaria comunità religiosa, sono riassunti nel comunicato che Madre Laura inviò a Roma per chiedere Decretum laudis, cioè l’approvazione definitiva della congregazione: «Cercare gli indigeni nella selva e avvicinarli con un metodo autenticamente materno; insegnare nei loro stessi villaggi;  cercare in ogni aspetto il miglioramento della sorte degli indigeni; continuare l’opera dei missionari con l’insegnamento, scuole, ospedali; alleviare i missionari in ciò che è possibile, assistendoli secondo le disposizioni dei vescovi; rivolgersi allo stesso modo agli indigeni a cui non può giungere l’azione di altre congregazioni».
Madre Laura era animata da zelo incontenibile e lo trasmetteva alle sue suore. Organizzava lunghe escursioni nella foresta, a dorso di mulo, sotto il sole canicolare, con poco cibo e molto entusiasmo, alla ricerca degli indigeni. Nei villaggi più lontani stabiliva nuovi centri o ambulancias, dove le suore, con la loro presenza, rassicuravano gli indios che erano persone, avevano un’anima ed erano figli di Dio, cose negate da certi leaders civili e religiosi.
Facendosi strada verso le montagne, navigano in canoa su fiumi dalla ripida corrente o in zattere costruite dagli indigeni o da loro stesse, le giovani Laurite si spingevano sempre più lontano, fino al Golfo di Urabà, in cerca dei caribes-kuna.

SUCCESSI E CROCI

Nei primi 10 anni Madre Laura vide moltiplicarsi i frutti della sua travolgente opera apostolica: indigeni scolarizzati e avviati sul cammino della vita cristiana, altre giovani erano arrivate a rafforzare le file delle sue missionarie. Seguirono anni segnati da pregiudizi, incomprensioni e disprezzo da parte della società e dai prelati che non comprendevano quello stile di essere «religiose capre» (secondo la loro espressione). Con la morte di mons. Crespo, le suore dovettero abbandonare i primi centri costruiti con tanto eroismo.
«La comunità sembrava una barca rotta in mezzo al mare». Madre Laura affrontò le avversità con la solita giovialità e fede in Dio, infondendo coraggio alle sue figlie e aprendo nuovi campi di lavoro. Dopo aver migrato in varie località, Madre Laura ottenne di stabilire il noviziato e la casa centrale a Medellin, in un terreno chiamato Belencito. Qui si fermò sempre più a lungo, a causa della crescente obesità, che rendeva sempre più difficili i suoi viaggi. 
Negli ultimi 10 anni, la Madre fu costretta a vivere su una sedia a rotelle, da dove continua a vigilare sul cammino della congregazione e, seduta davanti a un piccolo scrittornio, arrivava con le sue lettere a tutte le sue figlie. Inviò alcune suore in Ecuador (1940) e in Venezuela (1948).
Il 21 maggio 1949 iniziarono terribili sofferenze alle gambe, che si riempirono di pustole dolorose. Dal mese di settembre dovette rassegnarsi a rimanere a letto, finché spirò serenamente, il 21 ottobre 1949, dopo 42 anni di vita secolare e 33 di vita religiosa.
Fu sepolta nella cripta della chiesa del Belencito, dove già riposavano i resti di suor Isabelita Tejada e di sua madre: suor Maria del Sacro Cuore.
Allora la congregazione delle Laurite contava 467 religiose e 93 novizie; erano state fondate 122 case, di cui erano aperte 90, irradiando il lavoro tra 22 popoli indigeni, la maggior parte in Colombia, altre in Ecuador e in Venezuela.

Nel 1930, Madre Laura si era recata a Roma, per chiedere l’approvazione pontificia della sua congregazione. In una delle visite alle basiliche romane, un prete le mostrò la galleria dei santi fondatori, i cui ritratti erano posti in belle nicchie. «In una di queste nicchie salirà anche lei Madre» le disse il prete. «Credo che, con queste gambe così pesanti, non riuscirò ad arrivare così in alto», rispose essa sorridendo.
Invece, il 25 aprile 2004, Giovanni Paolo ii la elevò alla gloria del Beini, dichiarandola beata e realizzando la profezia dello sbrigativo prete che l’aveva battezzata.  

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Tre intuizioni originali

Missionari in tutto.
Senza mezze misure.
Plasmati dalla Consolata.
Così il fondatore aveva sognato i suoi figli, perché fossero davvero «aiutanti di Dio»
nel salvare il mondo.

Come fondatore ed educatore di missionari e missionarie, il beato Giuseppe Allamano si qualifica anche per tre intuizioni «originali», in quanto la loro «origine» va ricercata dentro di lui, in quel punto profondo e riservato della sua coscienza, dove più che le idee desunte dalla lettura di libri, o suggerite da altre persone, giunge la luce dello Spirito. Sono intuizioni avute nella riflessione e nella preghiera, maturate in convinzioni e concretizzate in programmi operativi e proposte missionarie.
Sarebbe superficiale spiegare la ricca personalità di un uomo come l’Allamano, limitando a tre le sue intuizioni originali, perché ne ha avuto molte di più e di notevole spessore. Ma queste sono decisive per capire il nucleo centrale del suo carisma e la novità delle sue proposte. Ecco di cosa si tratta: l’Allamano ha compreso di essere chiamato a raccogliere attorno a sé uomini e donne giovani, disposti a coinvolgersi totalmente nella missione; inoltre, che questi giovani mirassero a diventare di prima qualità e, soprattutto, che fosse chiaro a tutti come la realizzazione di questo progetto non era opera sua, ma di Dio e della Consolata.

Nella testa e nel cuore

La prima proposta che l’Allamano faceva ai giovani, dunque, era esclusivamente di tipo missionario. Il suo impegno di fondatore e formatore era indirizzato a questo obiettivo: cercare, preparare e inviare missionari, adeguati per qualità e quantità. Lo diceva francamente ai primi aspiranti: «Non essendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». E ancora: «Qui, l’aria è buona solo per coloro che vogliono essere missionari».
È necessario, però, chiarire che cosa egli intendesse per missione e missionario. Ed è qui che è possibile scorgere una sua prima intuizione: la missione, prima che un’attività da svolgere, è una «comunione» di vita con il «missionario per eccellenza», Cristo Signore, l’inviato del Padre. Quindi, per esprimerci con un linguaggio odierno: «Prima essere missionario e poi operare». I giovani aspiranti venivano coinvolti dall’Allamano nell’appassionante avventura di vivere di Cristo, per collaborare con lui alla salvezza dell’uomo.
L’idea, poi, che l’attività missionaria avesse la caratteristica della «collaborazione» era chiarissima nella sua mente. La spiegava così: «Il missionario è chiamato a cornoperare con Dio alla salvezza di quelle anime che ancora non lo conoscono; a prendere parte attiva e impegnare la propria persona alla grande opera della conversione del mondo. È questa, quindi, un’opera essenzialmente divina». E, citando san Paolo, aggiungeva con un senso di compiacenza: «Siamo aiutanti di Dio!».
Ma c’è ancora un aspetto da non tralasciare. L’Allamano era così tenace nel sostenere la vocazione missionaria (tanto da essere criticato da alcuni, quasi «rubasse» forze giovani alla chiesa locale), perché la considerava la migliore in assoluto. E lo spiegava in modo semplice alle ragazze che si preparavano a diventare suore missionarie: «Non si dice per superbia, ma voi sapete che lo stato di missionaria è il più perfetto che ci sia, perché è quello che Gesù ha scelto per sé. Tant’è vero che, se il Signore avesse trovato sulla terra uno stato più perfetto, l’avrebbe abbracciato. Ora, lo stato che più imita Nostro Signore, che si avvicina di più a Lui, è il più perfetto».
Era perciò ovvio che l’ideale missionario da lui proposto toccasse direttamente il rapporto delle persone con Cristo: «Così voi dovete avere non solo lo spirito del Signore; ma i suoi pensieri, le sue parole e le azioni; perciò dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». In definitiva, l’Allamano aveva capito che l’essenziale era educare i giovani a formarsi una personalità genuinamente missionaria, seguendo Gesù, il modello per eccellenza. La loro idoneità ad operare sarebbe venuta di conseguenza.
Ma se il discorso si fermasse a questo punto, sarebbe limitato; occorre, dunque, completarlo. Nella mente dell’Allamano, ai missionari era affidato il compito di collaborare alla salvezza «integrale» dell’uomo. Il che significa: salvezza soprannaturale (la prima per importanza), ma anche salvezza terrena, perché l’uomo totale è costituito da corpo e anima e le sue esigenze sono, allo stesso tempo, terrene e soprannaturali.
I primi missionari, accompagnati dalla saggezza del fondatore, avevano maturato la convinzione che il primo lavoro da compiere era di «elevare l’ambiente». Questa formula, da essi inventata, significava impegnarsi concretamente, perché il livello di vita della gente migliorasse. Ecco, allora, l’attenzione alle coltivazioni, all’istruzione, alla salute, ecc. Dunque, senza fare troppe discussioni teoriche, già all’inizio del secolo scorso, l’Allamano e i suoi giovani missionari avevano intuito che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nell’ambiente della chiesa torinese, però, dove si aspettavano notizie di conversioni in massa, non erano mancate critiche e l’Allamano ne aveva sofferto. Fortunatamente, in favore dei missionari della Consolata, intervenne la Santa Sede, che ufficialmente lodò il loro metodo di azione. È bello notare il sollievo dell’Allamano, quando poté scrivere ai missionari: «Il decreto della Santa Sede che ha approvato ufficialmente il nostro istituto, le attestazioni di Propaganda fide e le stesse parole del papa approvarono il metodo del nostro apostolato. Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi, per poi poterli fare cristiani: ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra».
Non sembra vero, ma a questa vicenda si è richiamato ancora lo stesso Giovanni Paolo ii nel messaggio per il centenario del nostro istituto. Riportando le parole dell’Allamano appena riferite, il papa scriveva: «A questo proposito, vorrei evidenziare ancora un altro aspetto del vostro peculiare carisma. Fin dagli inizi, i vostri missionari hanno unito all’evangelizzazione un concreto sforzo di promozione umana, privilegiando la cura per i più poveri e gli emarginati. È uno stile apostolico che potremmo chiamare “integrale”, perché in esso sono tenute presenti tutte le esigenze dell’essere umano».

Gente di prima qualità

Un bel sogno che l’Allamano non smise mai di cullare era che i suoi missionari fossero tutti di «prima qualità». Sembra una pretesa, ma così lui li aveva immaginati, di fronte alla Consolata, prima ancora di dare vita ai due istituti.
Certamente, non si illudeva riguardo a quei giovani che stavano preparandosi per essere mandati in Africa. Li conosceva troppo bene; anche se sembrava felice, per il bene che voleva loro, di ammettere bonariamente: «Io vi credo più di quello che siete» e non temeva di offenderli, ricordando loro che «nessuno di voi è santo»; «non vi credo ancora santi». Così percepiva la propria vocazione: «Io ho il ministero di santificare le vostre anime»; perciò «non voglio altro che voi, cioè i vostri cuori, per aiutarli a santificarsi».
L’intuizione dell’Allamano su questo punto era chiara: quanti intendono seguire Cristo nella missione lo devono fare anzitutto nello stile di vita, cioè nella perfezione. Senza santità, non c’è apostolato. Anche questa intuizione era maturata nella sua esperienza personale. Fin da giovane, non aveva mai disgiunto il proposito di diventare sacerdote da quello di tendere alla perfezione più elevata possibile.
Per l’Allamano, dunque, il missionario deve tendere alla santità di vita, perché è un apostolo di frontiera. Ciò emerge chiaro dalla sua pedagogia: «Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà»; «dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Prima santi, poi missionari»: sono ancora sue parole. Dove le avrà attinte, se non dalla sua coscienza? Solo un santo può avere idee del genere.
Al riguardo, c’è ancora un aspetto che merita la nostra attenzione: egli aveva compreso che la santità del missionario deve avere un «di più», proprio perché continuatrice della missione di Gesù. E si domandava: «Ma quale deve essere questa santità?». Ecco la risposta, di una semplicità disarmante: «Maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei semplici religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari. La santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli»!
È interessante notare che l’Allamano non proponeva l’ideale di santità in modo astratto o generico. I suoi discepoli potevano vederla prima di tutto incarnata concretamente nella sua persona e poi proposta da una pedagogia pratica e «mirata». Non si limitava ad affermare che il missionario «deve» essere santo, ma insegnava anche «come» esserlo nelle situazioni della vita di ogni giorno. Ispirandosi all’esempio di Gesù, il quale «ha fatto bene tutte le cose» (Mc 7,37) e seguendo la spiritualità dello zio, san Giuseppe Cafasso, avanzava una proposta in questi termini: «Fare bene il bene, meglio che si può, nelle cose ordinarie della vita, senza rumore, con costanza e riprendendosi subito dopo ogni sbaglio».
La convinzione che il «vero missionario è il santo» la troviamo espressa in modo quasi ufficiale nella lettera enciclica di Giovanni Paolo ii sulle missioni, dal celebre titolo Redemptoris missio (la missione del Redentore), nella quale si legge: «La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e cornordinare meglio le forze ecclesiali…: occorre suscitare un nuovo “ardore di santità”». Queste parole dell’enciclica sembrano proprio «copiate» dagli scritti dell’Allamano, tanto evidente è la concordanza. Di fatto, egli ne aveva pronunciate di simili almeno 80 anni prima!

La vera fondatrice

Anche l’Allamano, come tutti i fondatori di istituti religiosi, era convinto che la sua opera fosse originata da Dio e lo ha affermato più volte. La sua intuizione caratteristica è di avere saputo scorgere, proprio all’origine dell’istituto, anche la presenza attiva della Madonna Consolata. È lei la vera «fondatrice»!
Ne consegue che egli non accetta il titolo di fondatore. Sentiamolo dalla sua viva voce: «Questa casa l’ha posseduta Nostro Signore fin da principio ed è proprio sua come un campo è del proprietario. Quindi, non dite bugie affermando che il tale o il tal altro l’ha fondata. No, no, è la Madonna che l’ha fondata e il principio è venuto da Dio stesso». «Accetto di cuore i vostri auguri per l’onomastico, ma non dite più “fondatore”, questo è uno sproposito! La fondatrice è la Madonna».
Merita di essere riferita ancora questa testimonianza di un missionario dei primi tempi, per lo scherzoso gioco di parole che contiene: «Ci sono alcuni che mi chiamano fondatore dell’Istituto. Fondatrice di questo istituto è la Consolata. Io sono il “fonditore”, perché faccio fondere le offerte dei benefattori».
Perché un atteggiamento così deciso, da non ammettere repliche? Immaginiamo l’Allamano, prima della fondazione dell’istituto, da solo nel coretto del santuario, dove trascorreva lunghe ore in preghiera e da dove poteva ammirare l’effigie della Consolata, intento a discutere con lei sull’opportunità di una nuova fondazione. Certamente la Consolata lo aveva incoraggiato, forse anche convinto, vincendo la sua ritrosia, come lui stesso poi confiderà. Prima ancora che i missionari della Consolata esistessero, l’Allamano li aveva pensati e voluti, sostenuto direttamente dalla Madonna. Con un’esperienza così intensa, come avrebbe potuto, in seguito, anche solo supporre di essere lui il vero fondatore?
Partendo da questa profonda intesa con la Madonna, ecco la sintesi della proposta mariana che l’Allamano faceva ai suoi missionari e missionarie: «Portate il titolo della Consolata come nome e cognome»; «Il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere»; «Voi siete “consolatini”».
Nel 2001, congratulandosi per i nostri cento anni di vita, il papa ha voluto confermare questa proposta dell’Allamano: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera “consolazione”, la salvezza cioè che è Cristo Gesù, salvatore dell’uomo».

L’Allamano ha maturato anche un’altra delle sue idee originali, con la quale vogliamo concludere, pur non avendola inserita nelle famose «tre intuizioni». Egli sentiva interiormente che avrebbe potuto accompagnare i suoi missionari e missionarie anche dopo la morte. Non era solo il suo affetto a suggerirglielo, ma la certezza di una vocazione speciale, che gli conferiva una «pateità perenne». E lo disse più volte, in tanti contesti differenti, tutti proiettati al futuro: «Quando sarò in Paradiso, e ciò sarà presto, pregherò per te, non perché ci venga subito anche tu, ma perché te lo prepari pieno di meriti»; «Farò più di là che di qua»; «Fare rumore non è nel mio spirito, ma dal Paradiso farò, farò»; «Quando sarò in Paradiso, sarò sempre al balcone; vi guarderò e vi benedirò ancora di più».
L’esperienza ci mostra che il fondatore sta mantenendo le sue promesse…

Francesco Pavese




L’Africa nel cuore

All’età di 92 anni, 65 spesi in Mozambico, padre Luigi Wegher
si è spento come una candela. È rimasto sino alla fine accanto alla «sua» gente, condividendone giornie e speranze, insieme alle sofferenze di 30 interminabili anni di guerra civile.

Aveva appena due anni, quando il piccolo Luigi domandò alla madre perché le campane della chiesa suonassero così a lungo. «È morto un santo» rispose la mamma Luigia.
Il santo in questione era il papa Pio x. A distanza di 90 anni, Luigi ricorda quel 20 agosto 1914 come fosse ieri: «Ha condizionato la mia vita» dice sorridendo.

Padre Luigi Wegher

nasce il 9 settembre 1912, a Sanzeno, in Val di Non (Tn). Fin da giovane dichiara la sua vocazione. I frati lo allettano perché si faccia francescano; un padre stimmatino gli propone di entrare nella sua congregazione; il parroco lo spinge nel seminario di Trento. «Ma non mi piaceva», racconta padre Wegher.
Un giorno passa per Sanzeno la signora Teresa Tommasini: incontra Luigi e gli parla delle missioni e dei missionari della Consolata. Il giovane è conquistato dall’avventura missionaria: ai primi di settembre del 1925 Luigi lascia Sanzeno, nonostante le lacrime di mamma Luigia, e raggiunge Rovereto.
Da appena due mesi, infatti, presso l’antico «romitaggio» del santuario della Madonna del Monte si sono stabiliti i missionari della Consolata e la signora Teresa ne è diventata un’entusiasta «zelatrice»: gira per il Trentino e fa «propaganda» per le vocazioni missionarie.
Quello di Rovereto è il primo centro di reclutamento o «casa apostolica», come si diceva a quei tempi, che i missionari della Consolata hanno stabilito fuori del Piemonte. Per ora, si legge nelle cronache del tempo, «gli allievi vengono solo accettati e disgrossati, ossia aiutati a comprendere cosa significa diventare missionari della Consolata, e preparati ai corsi ginnasiali nelle case in Piemonte».
Dopo un anno di «disgrossamento», il giovane Luigi, passa a Cavour (TO), poi a Torino per gli studi ginnasiali e il noviziato. Nel 1933 emette la professione religiosa e il 13 marzo del 1937 è ordinato sacerdote.

Scalpita per un anno

nella casa di Gambettola, come insegnante degli alunni del piccolo seminario, finché riceve la destinazione alle missioni in Mozambico.
Nell’estate del 1939 si imbarca sulla nave tedesca Usambara. «Il bastimento era infarcito di ritratti di Adolf Hitler – racconta padre Wegher -. Dopo 40 giorni di navigazione approdammo a Porto Amelia, oggi Pemba. Mentre fervevano le operazioni di sbarco, venimmo a sapere che era scoppiata la seconda guerra mondiale». A titolo di curiosità: nel viaggio di ritorno, l’Usambara viene affondata presso Calais da un siluro inglese.
Altri cinque giorni di viaggio in camion per raggiungere il Niassa ed eccolo nella missione di Massangulo, dove rimarrà per 40 anni, 30 dei quali al fianco di padre Pietro Calandri, il primo missionario cattolico giunto in quella terra, nel 1926, e fondatore della stessa missione.
A padre Wegher è affidata la direzione della scuola elementare, dove studiano centinaia di giovani provenienti da ogni parte del Mozambico e anche dal Malawi: Massangulo, infatti, è l’unica missione che, insieme agli africani, accoglie i mulatti che nessuno vuole.
Siamo in tempo di guerra. In Mozambico, colonia portoghese, le conseguenze del conflitto mondiale non sono così disastrose come nelle colonie inglesi, dove i missionari della Consolata vengono espulsi o imprigionati, perché italiani; ma i numerosi razionamenti si riflettono anche sulla missione di Massangulo e sulla gente del posto.
Le difficoltà spingono la missione a imboccare la strada dell’autarchia: coltivazione di campi e orti, allevamento del bestiame e altre ingegnosità foiscono ai missionari e agli alunni quanto è necessario per la sopravvivenza. Anzi, tali attività diventano altrettanti progetti di formazione. I missionari si rendono conto che non basta insegnare a leggere e scrivere, ma bisogna offrire agli alunni altri strumenti per affrontare le sfide della vita: così la scuola elementare si prolunga in quella di arti e mestieri, affidata alla direzione di fratel Ugo Versino.
Oltre a insegnare nei corsi professionali, padre Wegher dà vita a vari laboratori, che sono una vera primizia in tutto il Mozambico: insegna dattilografia, impianta una piccola tipografia; avvia uno studio fotografico, organizza un laboratorio di rilegatoria, dove vengono rilegati libri e bollettini ufficiali del governo.
Per 40 anni la formazione scolastica è il pane quotidiano di padre Wegher, tanto da essere chiamato «o professor», il professore per eccellenza. Ma rimane soprattutto il missionario, che usa tutti i talenti per evangelizzare piccoli e grandi. Appassionato di teatro, scrive copioni che i giovani rappresentano in varie occasioni; ogni sabato pomeriggio proietta pellicole ricreative ed educative per gli alunni e la popolazione circostante. I film di Charlot sono i più attesi, ma piacciono anche filmini e diapositive di scene di vita locale, da lui registrate nelle visite alle varie comunità dove svolge i suoi servizi religiosi.

Nel 1964 scoppia

la guerra d’indipendenza contro il colonialismo e la dittatura di Salazar. Padre Wegher legge la situazione senza compromessi e senza estremismi. Scriverà più tardi: «La dittatura non è stata una cosa buona; non lo nego. Dio me ne liberi! L’indipendenza è una cosa sacra. Ma non bisogna pensare che tutti i portoghesi presenti in Mozambico siano stati crudeli verso i neri».
Le autorità politiche, in particolare i governatori delle province, si rendono conto dell’utilità del lavoro dei missionari: li rispettano e sanno apprezzare la formazione tecnica foita dalle loro scuole.
Ma nella situazione di lotta per l’indipendenza e relative repressioni, scoppia il contrasto tra chiesa e colonia; i missionari non hanno altra alternativa: o fare come i portoghesi chiedono, o andarsene. Alcuni sono costretti a partire; padre Wegher sceglie di rimanere con la sua gente, accompagnandola nel cammino della liberazione.
Nel 1970 è nominato superiore della missione di Massangulo: sono gli anni cruciali della lotta armata. Nel 1975 assiste alla proclamazione dell’indipendenza del paese. Si pensa che sia la fine di tutti i problemi; ma non è così. Il nuovo governo marxista-leninista comincia a perseguitare apertamente la chiesa e le missioni, nazionalizzandone le opere e costringendo i missionari a domicilio coatto: alcuni abbandonano il paese; padre Wegher continua a restare accanto alla sua gente.
Ma il 23 maggio 1979 anche Massangulo viene nazionalizzata e la chiesa-santuario della Consolata chiusa. Il 6 giugno, senza salutare nessuno, con il cuore sanguinante, il padre deve lasciare la sua missione.
Tutto in fumo? Non secondo padre Wegher: «Per 40 anni ai miei ragazzi ho dato… i denti; ora vedo che sanno masticare bene». Migliaia dei suoi alunni, infatti, occupano posti di responsabilità nel paese; tre sono rettori universitari: Brazão Mazula all’università Eduardo Modlane e Carlos Machili all’università pedagogica, entrambe a Maputo; padre Filipe Couto è rettore dell’università cattolica di Beira.

«Il ricordo più bello?»

gli domandano i compaesani il giorno in cui festeggia 60 anni di sacerdozio. «Massangulo… Ma non riesco più a tornarvi» risponde sospirando, mentre qualche lacrima solca il volto rugoso. Prima la nazionalizzazione, poi la guerra civile hanno ridotto la missione in una situazione disastrosa: gli edifici sono in rovina, i macchinari della scuola professionale depredati, alberi e orti distrutti. Rivederla in quello stato lo farebbe morire di crepacuore.
Padre Wegher, però, non vive di nostalgie, né si rassegna all’idea di rientrare in patria. Chiede al suo vescovo cosa potrebbe fare. «Vieni con me e… scrivi!» gli ordina il vescovo. E ubbidisce (l’unica volta nella sua vita, scherzano le malelingue). Si installa nella casa del vescovo, fa da vice parroco della cattedrale di Lichinga e si mette a scrivere.
Fin dal suo arrivo a Massangulo, padre Wegher ha accumulato una mole enorme di appunti e scritti su tutto quanto gli è capitato a tiro: ricordi del suo caro amico padre Calandri, osservazioni sulla geografia del Niassa, storia e costumi delle popolazioni della regione, composizioni poetiche e teatrali.
Obbedendo all’ordine del vescovo, raccoglie e mette ordine a tutto questo materiale. Nel 1985 appare in Portogallo il primo volume di Um olhar sobre o Niassa (Sguardo sul Niassa); il secondo volume viene pubblicato in Mozambico nel 1997. Si tratta di una vera summa su storia e geografia, usi e costumi, miti e leggende, racconti e proverbi del popolo tra cui padre Wegher ha speso tutta la sua vita.
Nel 1982 viene insignito con la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. Nel 1986 è nominato vicario generale della diocesi; molte volte sostituisce il vescovo, costretto ad assentarsi per vari giorni quando visita le parrocchie della vasta diocesi.
Nel 1992 scoppia la pace, finalmente. La gioia è grande, ma, nonostante i suoi 80 anni, padre Wegher non si sente affatto in pensione. Oltre a continuare il lavoro di vicario diocesano, incarico che ricoprirà fino alla morte, si occupa delle vittime più sfortunate della guerra civile, poveri e handicappati, la maggioranza dei quali mutilati dallo scoppio di mine antiuomo. Ogni giorno ne incontra qualcuno, condividendo con loro quello che riceve da amici lontani e benefattori.
Nel 2000 viene deciso di rivitalizzare Massangulo. Il compito è affidato a padre Mario Teodori, che ogni settimana fa la spola tra Lichinga e la missione, 90 km di strada sterrata, per incontrare la gente e ricostruire le strutture essenziali. Per padre Wegher è una grande gioia; ma non ha più il coraggio di ritornare a Massangulo: tanti ricordi giorniosi e altrettanti dolorosi gli manderebbero il cuore in cortocircuito. Ma esprime il desiderio di ritornarvi dopo la morte.
Questa arriva, silenziosa, il 24 luglio 2004. «La sera trascorre come al solito – racconta padre Mario -, tra battute scherzose e vecchi ricordi. Poi accompagno il padre nella sua camera, dove si affloscia all’improvviso tra le mie braccia e si spegne come una candela».
Come aveva chiesto e come la popolazione della missione aveva subito reclamato, padre Wegher rientra nella sua missione, scortato da un imponente corteo di cristiani e musulmani e viene sepolto accanto al suo grande amico, padre Calandri.
Dal cielo continuerà a «olhar sobre o Niassa»: lo ha promesso nel suo testamento. •

Benedetto Bellesi




SAN PIETRO CLAVER Schiavo degli schiavi

Trecentocinquant’anni fa, I’8 settembre 1654, moriva a Cartagena de
Indias (Colombia) il gesuita spagnolo Pietro Claver, un santo che diede
la vita per il riscatto del popolo negro, umiliato e oppresso.

Escludendo il Brasile, in America Latina esistono all’incirca 15 milioni di afroamericani, concentrati in Haiti e presenti nelle zone calde dell’America di lingua spagnola. Si tratta di una minoranza razziale dimenticata ed emarginata anche dalla missione evangelizzatrice della chiesa.

LA SFIDA NERA

La situazione dei neri è stata abbordata ufficialmente per la prima volta nella Conferenza di Puebla (1979), facendovi riferimento due volte nel documento finale. Qualcosa, da allora, si è mosso a loro vantaggio; ma sono normalmente così dimenticati, da poter essere considerati come i più poveri tra i poveri americani.
Segundo Galilea, sacerdote cileno, profondo conoscitore dei problemi sudamericani, espone le ragioni di questa dimenticanza, dicendo che la razza negra non è considerata come «autonoma», ma «avventizia». E continua: «I popoli autonomi sarebbero i discendenti degli immigrati bianchi e degli indigeni… Per questo motivo si fa maggiormente sentire la consapevolezza della realtà indigena (anche nella chiesa) che non quella dei neri. Inoltre, i neri sono assenti nelle regioni più fredde; in quelle calde sono sparsi qua e là, senza formare chiaramente una unità culturale come gli indigeni».
Questa situazione (sempre secondo Galilea), avrebbe «avvelenato l’evangelizzazione della gente di colore presente fra noi, perché ha preteso di fare dei cristiani neri dall’anima bianca. Perciò, è evidente che gli afro-americani hanno perso le loro radici e identità: non formano più un popolo. Sono soltanto una minoranza etnica, priva di proprie radici culturali in America».
Questa situazione ha i suoi riflessi sulla missione. Infatti, sono pochi i sacerdoti e le religiose tra i neri ispano-americani. Fa eccezione Haiti, con la sua popolazione costituita in massa da razza morena.
E proprio qui sta la sfida, ammonisce ancora il sacerdote cileno: «Se la chiesa non è sensibile alle minoranze razziali e sociali, al settore dei poveri tra i poveri, come potrà essere più sensibile alle nuove sfide della povertà, dell’ingiustizia e dei diritti di tutti gli emarginati di questa nostra America tanto oppressa? Di più: se l’evangelizzazione non cerca di incarnare il messaggio, la catechesi, la liturgia, i ministeri, la vita consacrata in seno alle minoranze, come potrà in futuro evangelizzare “la cultura e le culture” che emergono dai rapidi cambiamenti sociali del continente, come richiede Puebla e, adesso, buona parte delle gerarchie? Le minoranze, infatti, sono il banco di prova e il luogo di elaborazione della missione».
La sfida che ci viene dal mondo dei neri riveste un certo carattere di riparazione. Nella storia della conquista e della prima evangelizzazione dell’America Latina, i missionari hanno lottato per i diritti degli indios, ma, salvo eccezioni, non hanno inspiegabilmente opposto resistenza all’importazione degli schiavi africani, né hanno difeso con identica energia la loro dignità.
Nella chiesa cattolica, a partire dal 1978, alcuni religiosi, tra i quali i missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti e anche laici hanno cercato di aiutare la chiesa ad affrontare la «sfida dei neri». Mettono in discussione l’ideologia che, per troppo tempo, ha privilegiato la razza bianca, essi cercano di far sì che l’afroamericano abbia più spazio nella chiesa e possa essere un cristiano nero. Inoltre viene sottolineato come l’afroamericano sia chiamato ad arricchire qualitativamente il cattolicesimo.
La prassi di illuminazione cristiana poggia su basi umane specifiche, dando il maggior spazio alla grazia. È, dunque, imprescindibile mettere al centro l’uomo «nero», così come egli si presenta, e riconoscere in lui un autentico soggetto capace di inculturazione cristiana.

CTTA’ EROICA E SCHHIAVISTA

Cartagena de Indias, denominata «città eroica» per la strenua difesa della sua indipendenza dal dominio spagnolo nel secolo xvii, dichiarata dall’Unesco «patrimonio culturale dell’umanità» per la sua storia e monumenti, chiamata «perla del Caribe» per le sue bellezze naturali, è stata per oltre due secoli la piazza di mercato degli schiavi africani.
Fondata nel 1533, favorita dalla posizione geografica, Cartagena divenne presto uno dei centri più ricchi dell’America spagnola. Il suo porto era il principale centro di smistamento di merci e di schiavi dalla Colombia al Venezuela, al Messico, all’Ecuador e Perú.
Il clima era pessimo per i venti freddi d’inverno e il caldo estenuante d’estate. Eppure, l’abbondanza dei giacimenti d’oro e d’argento della zona, attirava i mercanti europei assetati di ricchezze e onori.
Particolarmente intenso era però il traffico degli schiavi provenienti dall’Africa, assai redditizio per i trafficanti nonché per gli acquirenti. Perché la merce umana si potesse trovare sui mercati dell’America, si era creata una rete di organizzazioni che spingevano i tentacoli fino al centro dell’Africa.
Dai porti della Tripolitania, Marocco, Guinea, Congo, Angola, dove attraccavano le navi in attesa del carico, i negrieri si spingevano nel retroterra a intercettare «la merce». Quando il negriero riteneva di avee a sufficienza, intruppava le sue vittime, convogliandole in lunghe carovane verso i mercati del litorale, dove i bianchi attendevano. Costoro, finita la compera, cercavano d’imbarcare quanto prima gli schiavi acquistati.
Una terza parte di quelli che sbarcava in America moriva nei primi mesi dell’arrivo.
Così Alfonso Sandoval descriveva il loro arrivo a Cartagena: «Giungono alle nostre spiagge e sembrano piuttosto scheletri che uomini; vengono condotti a un gran piazzale o cortile, che si riempie immediatamente di gente, condottavi parte dall’ingordigia, parte dalla curiosità, parte dalla compassione. Tra questi, vi sono i padri della Compagnia di Gesù, che vengono per soccorrere e confortare o battezzare quelli che stanno per morire».
Tra di loro, spicca la carità eroica di Pietro Claver.

IL CONSOLATORE

Pietro Claver non era l’uomo delle denunce e recriminazioni, ma della consolazione mediante il servizio personale, tacito ed efficace testimone contro le ingiustizie del potere imperante.
La sua opera tra gli schiavi del porto di Cartagena raccolse sempre un consenso unanime, anche se si astenne dalle teorizzazioni dottrinali sul problema della schiavitù e dalle denunce dinnanzi alle autorità. Ebbe un’unica preoccupazione: la quotidiana attenzione e servizio agli africani schiavizzati. Era questa la sua vocazione: liberare con la carità, affidando ad altri il servizio della difesa giuridica.
Fra i difensori dei neri contemporanei del Claver, si distinse in Colombia padre Alfonso de Sandoval. Anche due cappuccini di Cuba, José de Jaca ed Epifanio Moirans, sostennero che la schiavitù africana era ingiusta: «I negri non si rendono liberi ricevendo il battesimo, lo sono già prima, per diritto naturale. Quindi, non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà; bensì, in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».
Ma il Consiglio di Spagna protestò, dicendo che senza la schiavitù, le Americhe sarebbero state condannate alla rovina totale. I due furono scomunicati e richiamati in patria. Purtroppo, lo sforzo fu per allora vano. In Colombia la schiavitù fu abolita soltanto nel 1830 dal presidente e liberatore Simón Bolivar.
In quel misero contesto, Pietro Claver rappresentò lo sguardo misericordioso di Dio sulla povera umanità schiava. Si era autodenominato «schiavo degli schiavi negri, per sempre»; e mantenne la promessa.
Era il 15 aprile del 1610, quando Claver s’imbarcava per raggiungere Cartagena de Indias. Aveva 30 anni ed era nato a Verdú (Lerida). Figlio di lavoratori, seguì gli studi secondo i criteri dell’epoca. Nel 1602, entrò nella Compagnia di Gesù e fece due anni di noviziato a Terragona.
Ebbe la fortuna di stringere amicizia con Alfonso Rodríguez, uomo di Dio, insignito di doni straordinari. L’anziano portinaio, con parole profetiche e sguardo luminoso, fissando l’amico, gli ripeteva: «Sì, Pedro, tu andrai nelle Indie e là farai grandi cose per le anime… Io lo so!».
E vi approdò alla fine di aprile del 1610. Durante la traversata, poté rendersi conto in che cosa consistesse la cosiddetta «febbre» degli spagnoli verso il Nuovo Mondo. Vi affluivano naviganti e mercanti, soldati e avventurieri, banditi e missionari, chi con avidità smodata e chi, come i missionari, con speranza apostolica.
Nel 1605, i gesuiti avevano aperto un centro in Cartagena, impegnandosi con fervore nei ministeri richiesti dai cittadini. Tra essi lavorava padre Sandoval, impegnato nel dramma della schiavitù, autore di varie opere e di una «Carta maxima portugaliensum» in cui erano segnalati i porti (a volte camuffati come in Cartagena) nei quali si effettuava la tratta dei negri e che veniva definita «la mappa dell’ignominia». Sandoval era anche un apostolo, che si recava personalmente dagli schiavi per aiutarli.
Quando conobbe Pietro Claver, capì che la sua opera aveva trovato un degno erede. Claver faceva le sue prime esperienze come discepolo di quell’impareggiabile maestro e completava i suoi studi a Santafé de Bogotá e Tunja. Nel 1617, Sandoval partì per il Perú e il Claver, già sacerdote, da quel momento rimase solo a svolgere quel compito.
Era l’epoca d’oro della tratta verso Cartagena; si calcola, infatti, che nel suo porto vi sbarcò più di un milione di schiavi negri, introdotti in America in sostituzione dei nativi indios per lavorare nelle miniere e in mille lavori pesanti, dove la debole struttura dell’indigeno non resisteva.

LA PAURA DEL SIGNORE

Dal galeone che avanza sul Mare dei Caraibi si può vedere il Picco della Poppa, baluardo-santuario della città di Cartagena. Lo scalo si trovava vicino all’entrata principale, all’interno della baia. Il veliero si accosta al grosso muro del forte e getta le ancore un po’ staccato dalla banchina. Il capitano fa sapere che non si può sbarcare, perché tutta l’armata è malata e manda a chiamare padre Claver, dicendo: «Stavolta non le mancherà il lavoro».
Ma non è necessario chiamarlo; egli è già in cammino, con volontari e interpreti. Appena spunta l’alba, il santo è alla finestra scrutando il mare, pronto ad accorrere prima che i rudi mercanti assalgano la nave.
Il giorno prima, ha assicurato il premio di nove messe a chi gli annunci l’arrivo; premio caro al governatore e a vari ufficiali del porto, i quali fanno a gara per conquistarselo. C’è poi un ragazzo che fa la sentinella, così bravo e lesto che non si lascia mai cogliere alla sprovvista.
Ecco allora che il Claver si presenta con il denaro, i vestiti e le vettovaglie raccolte nel solito giro per la città presso i suoi numerosi ammiratori e benefattori. Egli li anima con buona grazia, ripetendo: «Ho bisogno di cose buone; è arrivata una falange di negri».
Prima che compaiano i medici, gli agenti, gli scaricatori, il santo è sul ponte e, appena un marinaio apre la botola della stiva, s’infila e scompare nell’orrido sepolcro. Centinaia di occhi languenti e abbarbagliati da quell’improvviso sprazzo di luce cercano di fissarsi su quell’ombra che si profila contro il boccaporto. Il primo approccio tra il gesuita e gli schiavi è di dolcezza. Si tratta di vincere il terrore, l’umiliazione, che arriva anche a eliminare, nella traduzione del Credo, la parola «Signore», affinché i poveri schiavi, con la loro mentalità già spaventata, non concludessero: «Dunque anche Lui ci tratterà come cani!».
Ecco che ora, nella nave-prigione, scendono sei o sette interpreti africani, amici del gesuita, vestiti di bianco che salutano i nuovi venuti nella loro lingua e fanno loro coraggio. Il padre passa tra le file, sorridendo; fa una carezza a questo, allenta i ceppi a un altro; si interessa con particolare affetto dei bambini; stende il suo mantello su un ammalato che trema, regala a tutti qualcosa: un biscotto, un’arancia, una mela, un sorso di liquore. Uomo di consolazione, li conquista con il linguaggio della carità.

Il mantello multiuso

Nelle tetre baracche dove attendono la loro sorte, gli schiavi vengono collocati in un certo ordine, prima di essere esposti al mercato e distribuiti nei campi di lavoro.
Claver non li abbandona: continua a visitarli per stringere amicizia e istruirli nella fede. Segue un buon metodo, dettato dall’esperienza: aveva imparato la lingua dell’Angola per potersi intendere direttamente con la maggior parte di quelli che arrivavano; per gli altri, si serve di interpreti.
Su una scheda prende nota dei dati di ciascuno per conoscerli meglio e non perdee le tracce. Visita con assiduità gli ammalati. A uno di questi, abbandonato nella capanna, porterà tutti i giorni cibo e cure ininterrottamente per 15 anni.
In tutti i casi penosi che si verificano in città e nelle piantagioni, interviene per infondere animo, correggere e, qualora sia necessario, redarguire i padroni per la loro crudeltà.
I suoi ammiratori sono unanimi nell’affermare che, per 40 anni, egli visse con le sue inesauribili bisacce, il rozzo bastone e il vecchio mantello «multiuso». A una persona che gli domandava, verso la fine della vita, quanti schiavi avesse battezzato, rispose che certamente erano stati non meno di 300 mila.
In effetti, tutti gli schiavi arrivati a Cartagena durante quei 40 anni (giungeva una dozzina di navi all’anno, con un carico medio di 700 schiavi ciascuna), l’avevano visto, o ascoltato i suoi insegnamenti e, se preparati, avevano ricevuto il battesimo prima di partire per altre direzioni.
Gli ultimi anni della vita di Pietro Claver furono penosi: le forze diminuivano, specialmente dopo l’epidemia del 1650, che lo colpì e paralizzò, impedendogli qualsiasi movimento per quattro anni; tempo che egli trascorse confinato in una piccola cella, dimenticato da tutti, con cure scarse e assistito malamente da uno schiavo nero. Muore all’alba dell’8 settembre 1654. Canonizzato nel 1888, nel 1896 viene dichiarato patrono universale delle missioni fra i negri da Leone XIII.

Box 1

L’IMBARCO

Il negriero Degrandpré così descrive la notte della partenza di una nave di schiavi: «La cabina del capitano è sopra la stiva e il pavimento non è di grosso spessore. Più volte egli è svegliato dal rumore e dai gemiti. Gli sventurati si vedevano sul punto di lasciare per sempre la patria. L’incertezza dell’avvenire incuteva loro sgomento di morte, poiché erano persuasi di vivere i loro ultimi istanti e si aspettavano di venire uccisi e mangiati l’indomani».
Assicura il negriero che i loro singhiozzi e canti di dolore spesso turbavano la sua anima… E padre Sandoval, missionario in Cartagena, spiegava: «Gli uomini stessi che li conducono, m’hanno assicurato che quegli esseri miserabili sono legati a sei a sei per mezzo di cerchi al collo, e a due a due con le catene ai piedi, in modo tale che sono ridotti all’immobilità. Essi vengono rinchiusi sotto il ponte, in luogo dove non penetra luce alcuna: uno spagnolo non potrebbe affacciarsi senza svenire, tanto è il puzzo, la strettezza e la miseria del loro ricovero». Gli uomini sono nudi; alle donne si concede uno straccio.

Box 2

«Un laccio» tra due culture

Esprimo la mia profonda ammirazione per questo esemplare religioso della Compagnia di Gesù, insigne colombiano nato in Spagna, di cui il mio predecessore Leone xiii disse: «Dopo il Cristo, è l’uomo che più mi ha impressionato nella storia».
Il suo messaggio ed esempio conservano un’attualità universale che distingue il vero seguace di Cristo. Si è fatto «schiavo degli schiavi negri per sempre»; per loro consacrò le sue migliori energie, per la difesa dei loro diritti come persone e come figli di Dio consumò l’esistenza e, in una prova eroica d’amore al fratello, consegnò la sua vita.
Ma Pietro Claver non limitò l’orizzonte della sua opera agli schiavi, lo estese con prodigiosa vitalità a tutti i gruppi etnici o religiosi che soffrivano l’emarginazione; prigionieri, stranieri, poveri e oppressi, schiavi al lavoro in costruzioni, miniere e fattorie ricevettero la sua visita, conforto e consolazione.
In un ambiente duro e difficile, in cui i diritti umani erano violentati senza scrupoli, alzò coraggiosamente la voce contro i dominatori, dicendo loro che quegli esseri oppressi erano uguali ai loro oppressori nella dignità, nella loro anima e vocazione trascendente.
Con profondo senso pedagogico, trasmise all’emarginato la coscienza della sua dignità, gli fece apprezzare il valore della sua persona e del destino al quale Dio, padre di tutti, lo chiamava. Così spezzò le barriere della disperazione, seminò la speranza, si adoperò per trasformare una realtà ingiusta, senza predicare vie di violenza fisica o di odio; così venne creando un laccio d’unione tra due razze e due culture…
Egli è l’uomo dell’offerta totale di sé, in una vocazione sacerdotale per gli altri. Di fronte alle necessità pressanti che scopre intorno a sé, egli non si risparmia, ma si offre interamente a tutti per tentare di alleviarli e liberarli dall’oppressione e per dare loro la dimensione completa della loro esistenza.
Vedendo i risultati stupendi conseguiti, con frutti che solo un amore illimitato e saldamente fondato in Dio è capace di raggiungere, ci accorgiamo che siamo di fronte a una vita feconda, degna di essere imitata. Vi propongo dunque questo esempio di uomo e di religioso sacerdote, affinché serva di modello a coloro che non si accontentano di piccoli ideali e vogliono realizzarsi in una generosa consegna agli altri.

Giovanni Paolo II

Brunalda Bonardo




I grandi missionari:Rosa Filippina Duchesne

A otto anni sognava di convertire gli Indiani d’America. Vi arrivò che di anni ne aveva 71. Nel frattempo ha vissuto una vita con tenacia, tra innumerevoli
contrattempi, sempre a servizio dei più poveri: è santa Rosa Filippina
Duchesne (1769-1852), beatificata da Pio XII nel 1940, canonizzata da
Giovanni Paolo II nel 1988.
Mescolando al francese nomi di
villaggi indiani: Kaskasia, Michigamea, Cahokia… padre Gian Battista
Aubert raccontava le peripezie apostoliche personali e dei confratelli
gesuiti in Luisiana. Più che da quei suoni strani, Filippina era
affascinata dalla vita missionaria: a 8 anni sognava di evangelizzare
gli indigeni d’America. Passarono più di 60 anni prima che quel sogno, coltivato con tenacia, si avverasse.

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CHE CARATTERINO!
Penultima di sei figli, Filippina Duchesne era nata il 29 agosto 1769 a Grenoble, ai piedi delle Alpi francesi. Suo padre, Pier Francesco, avvocato, uomo d’affari e prominente leader cittadino, era imbevuto di idee di Voltaire: aveva abbandonato ogni pratica religiosa, ma rispettava preti e religione. La madre, invece, Rosa Périer, era una tutta casa e chiesa.
Il nome «Duchesne» era sinonimo di carattere tenace. Filippina non faceva eccezione: colpita dal vaiolo, per farle trangugiare le medicine, madre e dottore dovevano aprirle la bocca, prendendola per il naso e per il mento. La malattia le lasciò sul volto qualche segno, ma nessun complesso; anzi, contribuì a sviluppare in lei un carattere virile. Sdegnava le bambole e giocava con i cugini Périer. Le piaceva leggere la storia di Roma, finché passò alle gesta dei martiri gesuiti in Nord America.
Al tempo stesso Filippina sviluppò un profondo senso di altruismo: aiutava poveri e malati, privandosi del denaro che i genitori le davano per scapricciarsi. A 12 anni Filippina fu affidata alle suore della Visitazione di Santa Maria dall’Alto, che gestivano un collegio.
Era confessore straordinario del convento quel padre Aubert che l’aveva fatta trasalire con i suoi racconti di vita missionaria. Dai colloqui con il gesuita nacque il desiderio di abbracciare la vita religiosa, per poi partire in cerca di indiani.
Quando il padre ne ebbe sentore, la riportò a casa. Filippina obbedì docilmente, aspettando tempi migliori. Per non dare nell’occhio, accettò di prendere lezioni di danza; ma s’intrufolava anche tra i cugini durante la scuola di latino, per conoscere meglio le scritture.
A diciassette anni i genitori gli trovarono un buon partito: Filippina dovette scoprire le carte e tirare fuori il suo carattere: disse chiaro e tondo che voleva farsi monaca. I genitori non insistettero, sperando nel fattore tempo. Invece, la signorina cominciò a evitare feste e incontri mondani, a rifiutare vestiti appariscenti e intensificare le pratiche religiose, finché non ne poté più.
Un giorno, nel 1787, si fece accompagnare dalla zia Périer al convento della Visitazione per parlare con la superiora; entrò nel monastero e vi restò, rimandando a casa la zia per avvisare i genitori del fatto compiuto.
Terminato il noviziato, il padre le proibì di pronunciare i voti religiosi prima di compiere 25 anni. Era preoccupato per il futuro della figlia. Egli stesso aveva appoggiato la protesta dei concittadini di Grenoble contro alcune leggi della monarchia (1788): protesta repressa nel sangue e preludio della rivoluzione francese (1789).

IN BARBA ALLA RIVOLUZIONE
Il ciclone rivoluzionario si abbatté sulla chiesa come una mannaia, abolendo il culto cattolico, imprigionando preti, abolendo le congregazioni religiose e confiscando i beni della chiesa. Il monastero di Santa Maria fu chiuso e Filippina fu costretta a rientrare in famiglia.
Depose l’abito monacale, ma non il ritmo di preghiera e meditazione. Al tempo stesso si immerse in una miriade di iniziative a favore dei poveri e perseguitati, preti soprattutto, costretti a darsi alla macchia per non giurare fedeltà alla rivoluzione.
Uno di essi si era fatto assumere dal padre come costruttore di mulini. Filippina fu entusiasta quando il prete le rivelò la sua identità. «È il Signore che ce lo manda» disse alla madre; poi convinse il padre a nasconderlo in casa. Di giorno il prete sovrintendeva le costruzioni, di notte celebrava la messa.
Poi, per essere più libera di servire i poveri e affamati, istruire una ventina di ragazzi di strada, Filippina lasciò la casa patea e andò a vivere in affitto con un’altra ex visitandina. Quando scoppiò il tifo, essa si dedicò totalmente all’assistenza dei malati e moribondi, procurando loro il conforto religioso, portando al loro capezzale i sacerdoti, dei quali solo lei conosceva il nascondiglio.
Con un gruppo di signore coraggiose, Filippina fondò l’associazione delle «Dame della misericordia», con lo scopo di visitare e portare soccorsi materiali e spirituali ai preti incarcerati e in attesa di salire sulla ghigliottina. Avrebbe voluto condividere il loro martirio, ma uno di essi le disse che c’erano tanti modi di dare la vita. Lei la spendeva sfidando le leggi della rivoluzione.
Ma un martirio lo viveva nel cuore ormai da 12 anni. «La mia croce si chiama attendere» disse un giorno, alludendo alla vita religiosa.

FINE DEL «NOVIZIATO»
Correva l’anno 1801. I furori rivoluzionari erano sbolliti sotto i tacchi di Napoleone. Filippina mosse mezzo mondo per avere il monastero di Santa Maria, ormai malandato e pericolante. Per tutti si trattava di un colpo di testa «alla Duchesne». Ma alla fine dell’anno la «novizia» era di nuovo nel convento; cercò le ex suore visitandine per ricostruire la comunità; si rimboccò le maniche e cominciò il restauro, improvvisandosi impresaria e manovale.
Le ex suore resistettero pochi mesi e Filippina restò sola e sconsolata. Ma all’inizio del 1803 si unirono a lei tre ragazze: si diedero una regola, chiamandosi «Figlie della propagazione della fede», e aprirono un educandato. Ma Filippina sognava più in grande. Un gesuita le suggerì di unirsi alla Società del Sacro Cuore, appena fondata da una donna carismatica, Maddalena Sofia Barat.
La giovane fondatrice (aveva appena 25 anni) arrivò a Santa Maria alla fine del 1804: tra le due donne sbocciò subito una devota amicizia, che durò per quasi 50 anni, nonostante la distanza di età.
Filippina mise tutto nelle mani di madre Barat: se stessa e le amiche, monastero e scuola. Cominciò il noviziato secondo le regole della Società del Sacro Cuore e, l’anno seguente, a 35 anni, emise la professione religiosa: finiva il suo lungo noviziato.

ATTENDERE E PAZIENTARE
Con la professione religiosa si fece più viva in Filippina la chiamata alla missione. In una lettera del 1806, confidava alla Barat l’esperienza spirituale vissuta il giovedì santo, per 12 ore in ginocchio davanti all’eucaristia: «Tutta la notte sono stata nel Nuovo Continente… portavo in ogni luogo il mio tesoro (l’eucaristia). Avevo anche molto da fare con tutti i miei sacrifici da offrire: madre, sorelle, parenti, una infinità. Mi trovavo sola con Gesù solo, o con dei fanciulli neri, e mi reputavo più beata nella mia piccola corte che in tutti i potentati del mondo. Quando mi direte “ecco, ti mando”, vi risponderò subito: “Parto!”».
Pur incoraggiando tale desiderio, madre Barat tenne Filippina in Francia per altri 12 anni, convinta che i suoi talenti fossero più necessari alla giovane congregazione in espansione.
Di fronte a quel carattere ostinato e impetuoso, bisognoso di essere rettamente indirizzato più che soffocato, la fondatrice non lesinava energici consigli per aiutarla a crescere in pazienza e dolcezza. Ma ne ammirava le doti, specialmente la profonda vita di preghiera, tanto da fae il suo braccio destro. Filippina diventò la prima segretaria generale dell’ordine; nel 1815 fu incaricata di aprire una nuova casa a Parigi.
Nel 1817, al convento parigino si presentò mons. Louis Dubourg, vescovo della Luisiana, in giro per l’Europa a rastrellare preti e religiose da portare nel suo immenso territorio di missione. Dopo frequenti colloqui, madre Barat non si sentiva di mandare le sue figlie in un’avventura tanto esigente e rischiosa. Cercava un segno dal cielo. Stava congedando il vescovo, quando Filippina si gettò ai suoi piedi, implorando: «Madre mia, il vostro consenso, per pietà!».
«Ebbene, mia cara Filippina, acconsento e corro a trovarvi le compagne» disse la madre, leggendo in quella supplica la volontà di Dio.
La data di partenza fu fissata per la primavera del 1818. Filippina aveva 49 anni; si sentiva in paradiso, se non fosse che madre Barat l’aveva nominata superiora delle quattro suore che con lei presero il largo.

LA TERRA PROMESSA
Il 19 marzo 1818, festa di san Giuseppe e giovedì santo (a 12 anni dalla famosa visione), Filippina e consorelle salirono a bordo della Rebecca, che due giorni dopo salpò dal porto di Bordeaux.
La traversata dell’Atlantico, durata più di 10 settimane, fu uno strazio. Il mare era frequentemente in tempesta; per cinque volte la nave attraversò la linea dei tropici in balia dei venti; i passeggeri tiravano a sorte chi fosse a portare scalogna; il capitano era di pessimo umore: gli avevano profetato che la presenza di monache e preti avrebbe attirato un sacco di sventure.
In balia del mal di mare e dei furori dell’oceano, le povere suore si facevano coraggio come potevano, cantando l’Ave maris Stella. E funzionava, tanto che il capitano disse loro: «Signore, cantateci quella bella canzone della sera, che fa tornare il buon vento».
Dopo 70 giorni di navigazione, la Rebecca attraccò al porto di Nuova Orléans: era il 29 maggio festa del Sacro Cuore. Le cinque suore si sentivano arrivate nella terra promessa; ma dovettero affrontare altri 42 giorni esasperanti di navigazione lungo il Mississippi, su un primitivo battello a vapore a ruote, con passeggeri alquanto rozzi, finché raggiunsero St. Louis, sede del vescovo Dubourg.
Monsignore le accolse cordialmente e espose i suoi progetti: stabilire scuole per i figli dei coloni a St. Charles e Florissant. Filippina ne fu delusa, si aspettava di lavorare tra i «selvaggi». «Non si rammarichi – le disse il vescovo -: le bambine di St. Charles sono tutte selvaggette».
A St. Charles, villaggio di 500 famiglie a 50 km da St. Louis, le suore furono sistemate in un capannone in legno, con uno stanzone al centro e sei stanzette ai lati. L’8 settembre il vescovo benedisse ufficialmente la fondazione della Società del Sacro Cuore in America; il 14 fu aperta la scuola: 22 «selvaggette» affollarono lo stanzone del «convento», che serviva anche da dormitorio e refettorio per 8 ragazze accolte come educande.

TEMPI EROICI
Senza la minima risorsa, il vescovo più povero di loro, le suore fecero l’impossibile per sopravvivere. «Facciamo nuovi mestieri – scriveva Filippina a madre Barat -: zappiamo la terra, mungiamo le vacche e le meniamo a bere, ripuliamo la stalla, trasportiamo il concime; spacchiamo la legna e cuociamo il pane». L’acqua era attinta da un brav’uomo nel melmoso Missouri e venduta a secchi a caro prezzo.
L’inverno era impietoso: i vestiti, stesi vicino alla stufa ad asciugare, diventavano ghiaccioli; le dita gonfie di geloni, eccetto quelle di Filippina: le sue mani erano già scarne e callose per i lavori fatti a Santa Maria. «Questa vita non mi dispiace… e mi adatterò con piacere agli umilissimi uffici della casa» scriveva ancora Filippina, che come sempre, riservava a sé i lavori più umili e faticosi.
Nonostante le ristrettezze, la scuola continuava e portava i primi frutti: 11 ragazze fecero la prima comunione. Anche tra gli abitanti di St. Charles, più avidi di whisky che di sermoni, le suore suscitavano ammirazione e ripensamenti.
Ma St. Charles era troppo fuori mano, difficile da raggiungere nei mesi piovosi. Il vescovo propose di migrare a Florissant, pochi chilometri da St. Charles. All’inizio di settembre del 1819 le suore fecero i bagagli e, insieme a polli, vacche e due educande, ripassarono il Missouri e raggiunsero la nuova casa. Si fa per dire: era un’angusta baracca di legno, tra le cui assi il vento spifferava a piacimento.
Quattro mesi dopo era pronto un convento a due piani e in muratura. Vi entrarono la vigilia di natale, sotto una bufera di neve. L’anno seguente le collegiali erano una ventina. Per sopravvivere, le suore continuavano a zappare l’orto, mungere vacche e allevare polli.

NUOVE FRONTIERE
Florissant cresceva a vista d’occhio. Dalla Francia arrivarono altre suore; varie educande chiesero di abbracciare la vita religiosa: Filippina aprì il noviziato, nonostante che il vescovo frenasse. Nel 1822 le prime due suore nate in America emettevano la professione religiosa nella Società del Sacro Cuore.
A 12 anni dall’arrivo, la Società conta 64 suore: 14 venute dalla Francia; 50 nate in America. Sotto la guida di Filippina furono aperte altri 5 conventi e relative scuole: Grand Coteau (1821) e St. Michael (1825) nella bassa Luisiana; a St. Louis e a Bayou-la-Fourche (1828) vicino a New Orléans; fu pure riaperto St. Charles (1828).
Benché fossero scuole di frontiera, offrivano un impressionante curricolo accademico e solide basi per la fede cristiana. I collegi per le ragazze più ricche servivano a sviluppare orfanotrofi e scuole gratuite per i più poveri.
Sotto la guida di madre Duchesne, la congregazione del Sacro Cuore aveva preso chiaramente radici sul suolo americano. Tutti l’ammiravano per lo zelo, l’instancabilità nel lavoro e la profonda vita di preghiera. Eppure, accecata dall’umiltà, Filippina aveva poco senso del successo dei suoi sforzi; anzi, si incolpava di ogni contrattempo, si considerava un fallimento, specialmente come superiora, incapace di dirigere le anime e scriveva a madre Barat di essere sollevata dall’ufficio.
«Gli inglesi non mi capiscono e i creoli tengono molto a certe maniere esteriori: è meglio che io mi limiti a fare scuola o l’infermiera», scriveva nel 1831 alla Barat, dando le dimissioni da superiora. I primi avevano da ridire perché Filippina masticava male l’inglese; gli altri si lamentavano che le loro figlie non erano preparate per la vita mondana. Arrivarono pure le calunnie: «Tutto è stato detto contro di noi, eccetto che avveleniamo le nostre bambine», si sfogava Filippina.
Di fronte a tali insistenze, madre Barat tergiversava, dicendo in cuor suo che l’inettitudine dei santi era più feconda della sapienza e abilità degli altri. Ma era preoccupata. Stava per accettare le dimissioni, ma prima volle sentire il parere del vescovo, il quale rispose perentorio che madre Duchesne doveva continuare nel suo incarico.
E per altri 10 anni Filippina continuò, per fede e obbedienza, a sobbarcarsi a viaggi estenuanti, nonostante gli acciacchi dell’età, per visitare le varie opere e sostenere le sue figlie nell’impegno missionario, alcune delle quali venivano falciate da stenti e malattie.
Nel 1840 arrivò a Florissant madre Galitzin, come visitatrice delle missioni in America. Filippina le chiese in ginocchio di esonerarla dall’ufficio e fu bruscamente esaudita e invitata a ritirarsi a St. Charles.

SPOSE DEL GRANDE SPIRITO
Nei 22 anni di presenza in America, Filippina non aveva mai abbandonato il sogno di lavorare tra gli indiani. Per quelli ancora presenti attorno a Florissant aveva aperto una scuola nel 1825, ma durò poco. Anch’essi furono costretti a migrare spinti in lontane riserve.
Nel 1841 il gesuita Pierre Jean De Smet chiese alle suore di avviare una scuola tra i potawatomi, un gruppo in gran parte convertito alla fede cattolica. Filippina sentì che era arrivato il suo momento e scrisse alla madre Barat: «Ho avuto, una dopo l’altra, tre malattie gravi in America e credevo di essere già nell’altro mondo… Ora mi pare di comprendere il mistero di questa specie di risurrezione… Dio mi ha mantenuta solo per questo».
Madre Barat scrisse a madre Galitzin perché includesse Filippina nella nuova avventura missionaria: «Ricordati che, partendo per l’America, la buona madre Duchesne aveva solo questo lavoro in vista. Era per amore degli indiani che si sentì ispirata a stabilire l’ordine in America. Credo che ciò entri nei disegni di Dio e che dovremmo approfittae dell’opportunità offertaci».
Per le consorelle era una pazzia: aveva 71 anni, la sua salute deperiva. Ma Pierre Jean Verhaegen, un altro gesuita, insistette: «Verrà con noi, anche se dovessimo portarla a spalla per tutto il viaggio. Non potrà fare molto lavoro, ma assicurerà il successo alla missione pregando per noi».
Dopo una settimana di navigazione lungo il Missouri e un giorno di carovana nella prateria, Filippina e tre compagne arrivarono a Sugar Creek (Kansas), la riserva dei potawatomi: 500 guerrieri pellirossa, su cavalli bianchi, con i vestiti di gala, diedero il benvenuto alla «spose del Grande Spirito».
Gli inizi della fondazione furono più duri di quanto si credesse: per abitazione una misera capanna, per cibo erbaggi e latticini. Ma Filippina si sentiva ringiovanire e sognava di convertire tutti i pellirossa che abitavano l’immensa prateria, fino alle Montagne Rocciose. Ma doveva fare i conti con l’età e con la lingua. «È difficile e barbara – scriveva -; ha parole interminabili, fino a 8-10 sillabe; non c’è dizionario, né grammatica. Non potrò mai impararla».
Non potendo insegnare, si prodigava nel visitare gli ammalati e portare conforto ai moribondi. Soprattutto faceva ciò che le riusciva meglio: pregare. Passava lunghe ore in ginocchio davanti al tabeacolo nella cappella di tronchi. Molti indiani venivano a guardarla; si avvicinavano senza far rumore, s’inginocchiavano e baciavano l’orlo del suo abito consunto o le frange dello scialle.
Uomini e donne le chiedevano di pregare per loro e la soprannominarono Quah-kah-ka-num-ad, donna che prega sempre.
Come padre Verhaegen aveva predetto, grazie su grazie piovevano sulla missione. Scriveva una delle suore: «Tutti riconoscono che un gran numero di battesimi sono frutto della sua preghiera. Quasi ogni domenica tre o quattro famiglie vengono battezzate e madre Duchesne scrive i loro nomi nel registro».

IL GRANDE SACRIFICIO
La gioia di Filippina durò appena un anno. Visto il suo stato di salute, il vescovo di St. Louis scrisse alla Barat che era imprudente lasciarla a Sugar Creek. La madre si affrettò a scrivere alla «sorella maggiore» di fare il «grande sacrificio» e ritornare nel Missouri.
Il 29 giugno 1842 Filippina era di nuovo a St. Charles. Così descriveva la sua obbedienza: «Non posso cancellare dalla mia mente il pensiero degli indigeni; la mia ambizione mi porta fino alle Montagne Rocciose. Posso solo adorare i disegni di Dio, che mi strappa da ciò che ho così a lungo desiderato».
Passò altri 10 anni a St. Charles, interessandosi delle nuove fondazioni, riempiendo le giornate con la preghiera e piccoli servizi alla sua portata: insegnare il francese ad alcuni studenti francofoni, rattoppare i vestiti della comunità e cucie di nuovi per i suoi amici missionari. Finché fu raggiunta dalla morte, il 18 novembre 1852, a 83 anni.
Nell’Albo d’oro dei pionieri dello stato del Missouri il nome di madre Duchesne è in cima alla lista delle donne. L’iscrizione nella placca recita: «Alcuni nomi non devono appassire». I potawatomi ricordano ancora con grande amore e riverenza Quah-kah-ka-num-ad.</b

Benedetto Bellesi