La vedova: Morte in terra straniera

Il marito (e padre dei suoi figli) faceva il camionista. Era
morto lontano da casa. La famiglia avrebbe voluto riportare
la salma in patria, ma non c’era denaro sufficiente.
Quanto pesa lasciare la tomba del proprio
defunto in un paese straniero?

Cominciò la liturgia. Il prete ortodosso, girato verso
l’altare, cantava le preghiere e la gente dietro di
lui rispondeva in coro: «Amin!». Si distingueva la voce
della moglie del prete, un bellissimo soprano, seguito
dal coro. In chiesa c’era poca gente. Erano tutti
in piedi: gli uomini a destra, le donne a sinistra, alcune
con la testa coperta dal foulard.
Vicino alla porta, come se fosse appena entrata, c’era
una donna in nero. La liturgia durò quasi due ore e alla
fine il prete disse alla gente di sedersi e cominciò la
predica:
«Fratelli e sorelle, fra noi oggi c’è una vedova, e io vi
prego di non girare vigliaccamente le spalle a chi in
questo momento ha bisogno di voi, ma di affrontare
coraggiosamente la nuova prova che Dio ha messo davanti
a noi. La nostra sorella ha perso il suo sposo, ma
questa è solo una parte della sua disgrazia. Il marito è
sepolto qui, nel cimitero di questa città, perché nessuno
ha potuto sostenere la spesa per il trasporto del
morto nel paese natio. Adesso la vedova e i suoi due
figli devono lasciare questo paese, ma dovranno anche
lasciare qui la tomba del padre e marito. La madre del
defunto non potrà mai venire a piangere sulla tomba
del figlio. Perciò chiedo a ognuno di voi, di raccogliere
quanto serve per trasferire la bara nel cimitero del
loro villaggio…».
Non c’era molta gente perché era la fine dell’estate e
non tutti erano tornati dalle ferie (per gli immigrati le
ferie sono andare nella propria terra).
Ognuno diede qualcosa, ma era poco, troppo poco rispetto
a quanto serviva…
La donna viveva con i figli in un piccolo paese della
Serbia. Suo marito faceva il camionista per una
ditta di trasporti. Quest’estate avevano deciso di riunirsi.
Anche i figli volevano trovare un lavoro e aiutare
i genitori a finire la casa che avevano iniziato a costruire
nel loro villaggio. Ma le delusioni arrivarono
ancora prima della morte del padre.
Questi non poteva ottenere per i figli il permesso di ricongiungimento
familiare, perché erano maggiorenni.
Erano allora venuti con un visto turistico per provare
a trovare un lavoro, ma non potevano averlo senza
il permesso di soggiorno. Non potevano trovare
neanche la casa. Erano ospiti nell’alloggio che il padre
divideva con due colleghi connazionali. Poi la morte
improvvisa del marito aveva tolto anche alla moglie la
possibilità di ottenere il permesso di soggiorno.
«Non posso lasciarlo qui – confidò alle donne davanti
alla chiesa – non sarei in pace. Noi abbiamo
il nostro cimitero, le nostre usanze… Mi hanno
detto che qui, dopo alcuni anni, liberano la tomba
occupata per fare posto ad altri morti. Mettono le ossa
in una fossa comune del cimitero: non c’è più nome,
nessuna traccia… Nel nostro cimitero non si toccano
le ossa del defunto. Restano lì fino alla risurrezione.
E poi né io né i miei figli né la mia povera
suocera, sua madre, nessuno
insomma potrebbe mai venire qui.
Non ci darebbero il visto soltanto
per andare al cimitero…».
«Non preoccuparti – cercarono
di consolarla le donne
– ti aiuteremo noi. Ti
aiuteremo…» ripetevano
come in una preghiera,
convinte che il loro
forte desiderio di
aiutare fosse ad un
tempo consolazione
e speranza.

Snezana Petrovic




Il lettone familiare

Quando un immigrato ha un lavoro e una casa
la prima cosa che desidera fare è avere vicino
a se i propri cari, moglie e figli soprattutto.
Ma il «ricongiungimento familiare»
può essere molto complicato…

Di immigrati si parla tanto. Sempre di più. In effetti, la migrazione di persone
dai paesi del Sud a quelli occidentali (Europa in testa) è un fenomeno di vastissima
portata, che domina quest’epoca e con ogni probabilità anche gli anni a venire.
Pure la nostra rivista pubblica molti articoli su questa tematica. Ora abbiamo
pensato di dedicare agli immigrati una rubrica ad hoc, cui abbiamo dato il titolo
di «DIARIO DI UN EXTRACOMUNITARIO. PICCOLE E GRANDI STORIE DELL’ITALIA MULTIRAZZIALE».
L’abbiamo affidata a Snezana Petrovic, la nostra stimata collaboratrice serba. Nel
frattempo, attendiamo di conoscere i primi effetti della nuova e discussa normativa
sull’immigrazione (meglio nota come legge «Bossi-Fini»). Ne parleremo, senza
perdere di vista quello spirito critico che sempre accompagna il nostro lavoro.

il Direttore

Era appena passato mezzogiorno e nell’ufficio stranieri
non c’era molta gente. Subito approfittammo
dell’insperata fortuna per entrare a ritirare il
permesso di soggiorno della signora D..
Lei era visibilmente emozionata, impaziente, tesa.
Diede in fretta il suo passaporto al giovane uomo dall’altra
parte dello sportello che prese una grossa cartella
e cominciò a cercare. Mentre il ragazzo cercava il permesso
di soggiorno della signora mi attirò l’attenzione
il dialogo allo sportello in fondo.
Un uomo di caagione scura, coi baffi, magro e vestito
leggero per il freddo che c’era fuori, continuava a ripetere:
«Ma io avere lavoro! Io avere casa!». L’uomo
dall’altra parte dello sportello si sforzava di spiegargli
che non è sufficiente avere un lavoro e una casa per portare
la moglie e i figli in Italia, ma un guadagno ben preciso
e una casa grande quanto è grande la famiglia. Ma
non ci riusciva. L’uomo con i baffi continuava a ripetere
di avere un lavoro, di avere una casa e voleva far venire
sua moglie e i suoi quattro figli.
– Devi trovare un altro lavoro con lo stipendio più alto.
E anche un’altra casa, perché questa che hai adesso è
troppo piccola per la tua famiglia.
– Per noi basta. Noi gente modesta. Basta mangiare, vivere.
Casa no piccola. Due stanze. Due stanze. Una io
e moglie, una bambini. In Pakistan tutti una stanza.
– In Italia non si può. Per quanto guadagni e per la casa
puoi portare solo due persone non cinque.
– No persone! No persone! Solo moglie e figli signore!
Solo mia moglie e miei figli.
– Se non cambi lavoro e casa, puoi portare soltanto la
moglie e un figlio. Devi trovare un lavoro con più guadagno
e una casa più grande. Così è la legge!
In quel momento il ragazzo del nostro sportello trovò
il permesso di soggiorno della signora D. e noi uscimmo.
Appena fummo fuori, lei cominciò a baciarmi e abbracciarmi
di gioia, come una ragazzina, ma io non riuscivo
a condividere la sua allegria perché continuavo a
pensare a quel pakistano e all’impiegato allo sportello.
Come si fa a spiegare a un immigrato che lui non
ha il diritto di scegliere come vivere con la sua
numerosa famiglia? Che i suoi figli non hanno il
diritto di dormire tutti insieme in un lettone grande come
si usa nel suo paese, perché questo non è igienico.
Qui siamo in Europa che non sopporta miseria, malattie,
usi e costumi spesso malsani e poco democratici.
L’Europa non sopporta chi si accontenta con poco…

Grassa, ricca ed egoista?
Caro padre Beardi, scrivo questa lettera a
proposito del movimento politico contro gli
immigrati che in questi anni è cresciuto in
Italia e in Europa.
Lo faccio con un mix di dolore, stupore e rabbia.
Non mi offenderò se i lettori di Missioni Consolata
mi accuseranno di aver scritto queste righe sotto
l’influenza di qualsiasi delle sensazioni precedenti.
Però non posso fae a meno. Me lo chiede la mia
storia personale, intima, familiare, quotidiana.
Sebbene ci siano ragioni storiche che mi provano il
contrario, continuerò a pensare che l’Italia sia ancora
quel grande e bel paese che i miei nonni sognarono
fino alla morte. Sempre ricordavano visi, paesaggi,
odori, angustie dell’Italia lontana, sebbene a
loro l’Argentina avesse dato tutto: braccia aperte,
amore, lavoro, figli e nipoti.
Sono migliaia e migliaia gli esuli che oggi abbandonano
questo paese che non riesce a stabilizzare la
propria storia, una storia senza dubbio benedetta
dalle lacrime di coloro che sfidarono la nostalgia
per illudersi con un futuro. Per questo non posso
credere che quell’Italia di emigranti si sia convertita
in una signora ricca, grassa ed egoista, capace di
rifiutare coloro che le chiedono ospitalità.
Mi addolora constatare che anche con documenti in
regola e un passaporto che li accredita come cittadini
europei molti dei miei connazionali con doppia
nazionalità si sentano fuori posto
e discriminati su un suolo, che fu
la terra dei nostri avi. Perché
ormai non interessano più i legami.
Perché – ammettiamolo – a
nessuno importa che ancora esistano
vincoli che ci uniscono.
Mi addolora pensare che la storia
sia passata senza lasciare tracce e
che neppure le sofferenze del passato
servano per ricreare nuovi
legami tra i popoli. Mi addolora
pensare ai miei nonni, che scapparono
dagli orrori di un’Italia
umiliata dalla fame e dall’incubo
della guerra, possano essersi sbagliati
nel trasmetterci l’amore per
quella terra e la famiglia, il rispetto
e l’orgoglio per il lavoro, la
capacità di ringraziare.
Mio nonno Beppo, che venne da
Vicenza, era falegname. Quando
si sposò con Alba, che era arrivata
da Treviso, con il legno delle
piante argentine si costruì i suoi
propri mobili. I nonni morirono, ma i loro mobili
sono ancora qui con noi, perché mai potremmo fare
con essi legna per il fuoco, né consegnarli a mani
estranee. Semplicemente perché essi formano parte
della nostra memoria familiare come le foto, le lettere
ingiallite, i vecchi bauli e i sogni. Soprattutto i
sogni.
Però vedo che l’Italia sta facendo cenere delle sue
riserve. E non parlo delle riserve materiali che – grazie
a Dio – l’hanno resa grande economicamente,
bensì di quelle che nutrono i popoli, che ne costituiscono
l’identità.
La storia potrà dirmi se le mostruosità che oggi si
pretende di fare con i milioni di immigrati in Europa
finiranno per assomigliare a quelle che fecero vari
mostri ideologici del passato e se, in definitiva,
niente è cambiato eccetto i posti a tavola.
Debbo ancora ricordare che 60-70 anni fa erano
l’Italia e l’Europa tutta che battevano ad altre porte,
ricevendo alloggio e calore in molti paesi
dell’America, dal nord al sud.
Per questo mi stupisco nel constatare che
quell’Italia e quell’Europa di emigranti (milioni di
figli che esse non potevano mantenere) oggi si intestardiscono
a invecchiare sole ed isolate, raccogliendosi
a difesa della propria ricchezza, temendo
che gente venuta da fuori possa portargliela via.
Quello che non si comprende (o che non si vuole
comprendere) è che gli affamati e gli esclusi non
sono ladroni, ma vittime; non sono usurpatori, ma
bisognosi. In definitiva, sono uomini, donne, bambini
che chiedono un pezzo di pane, cioè qualcosa di
sacro e considerato come uno dei diritti umani fondamentali.
L’unico documento che queste persone possono
presentare è la loro povertà e questa non è di certo
un delitto. Al contrario, dovrebbe essere la carta di
presentazione per qualsiasi richiesta di soccorso.
L’Antico testamento ci ricorda che con l’esercizio
permanente della memoria, la
tradizione e i legami il popolo di
Dio si aprì il passo per attraversare
il deserto. Allo stesso modo,
oggi, noi che ci chiamiamo cattolici
sosteniamo che nell’eucaristia
e nella orazione ci uniamo a tutti
gli uomini, specialmente ai più
poveri, deboli, indifesi. Però questa
fede comune, questa identità
genetica, quella memoria orgogliosa
sta cedendo alla dimenticanza.
E la storia universale ricorda
che una società senza memoria
finisce per autodistruggersi.
Forse è più facile essere solidali
con uno sconosciuto senza faccia
e senza voce. Forse è meno compromettente
inviare una nave
piena di aiuti alimentari che aprire
la porta a un indifeso.
Mi piacerebbe continuare a pensare,
qui in questa Argentina che
soffre, che l’Italia possa conservare
le sue riserve morali, questa
eredità che ci fu lasciata dai nostri nonni: la capacità
di non nascondere la mano a chi ti chiede aiuto,
né di morderla a chi ti ha dato da mangiare. Perché
neppure i cani mangiano i propri simili. Sarebbe un
sacrilegio.
Credo nel vangelo di Cristo e per questo continuo a
credere nell’uomo, nonostante la rabbia che in questo
momento porto nel mio cuore. Una rabbia che
però sarà passeggera. Deve esserlo.
lettera firmata
da Buenos Aires, Argentina

Snezana Petrovic