COME STA FATOU? Il segreto di Lucho, il medico


«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma…».

Lucho arrivò con mezz’ora di ritardo. La bottiglia di rhum Pampero ed il mais tostato erano pronti sulla tavola. La sera stava scendendo umida sulla sabbia di Villa, qualche ragazzo giocava ancora a pallone nel campetto di fronte alla casa che era silenziosa e carica dei vent’anni di ricordi in comune e di tensioni appena nascoste.
Sapere e far finta di non sapere, non essere e far finta di essere, non era facile per noi due e la bottiglia di rhum avrebbe dovuto aiutarci e così fece.
Era arrivato in ritardo, perché i suoi pazienti, che da tempo non vedeva, lo avevano fermato varie volte nel cammino. Raccontava questo con emozione, mentre si toglieva la giacca umida della sera di Villa, si lisciava i capelli oramai lievemente brizzolati e con il pollice e l’indice si sistemava i baffi ispidi sotto il naso prominente; mentre i suoi occhi, mobili e sempre arrossati, con soddisfazione osservavano la casa vuota di gente e la bottiglia ancora chiusa appoggiata sulla tavola.
Da una tasca della giacca estrasse un pacchetto di sigarette Premiere, una scatola di fiammiferi Inti, si sedette e cominciò a vomitare la sua vita.
Per me era sempre Lucho, il migliore, il più lucido tra tutti noi medici di Villa. Per me era sempre Lucho, il rivoluzionario, il gran bevitore, l’instancabile parlatore, il giocatore alle corse di cavalli, sempre alla ricerca di quattro soldi per mandare avanti i suoi figli.

«DOTTORE, DOTTORE…»

Gli occhi lucidi, il fumo delle sigarette ed il rhum e quel vomito di affetti, ricordi e rimpianti che, come diceva lui, erano quello che contava della sua vita.
«Sai di tutto il nostro lavoro sulla tubercolosi? È stato pubblicato da altri senza neanche menzionare i nostri nomi. E sai del mio lavoro sul colera? L’hanno pubblicato a Cuba senza dirmi niente».
«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito; ne ho trovati tanti venendo a casa tua. Quanti ne ho visitati nei miei anni di lavoro a Villa; quaranta, cinquanta al giorno per 15 anni di seguito e quello che potevano darmi non bastava mai per mantenere i miei figli. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma è stato il periodo più bello della mia vita».
Toraci scheletrici, addomi globosi, gole infiammate, croste di impetigo su pelli nere, su pelli bianche; oxiuri, ascaridi, giardie, vermi di tutti i tipi; pressioni alte e pressioni basse; mormorii, fischi, gorgoglii, suoni anforidi percepiti allo stetoscopio, battiti cardiaci. Le dita che percuotono i toraci e le schiene ricavandone suoni cupi e chiari; strati di gonne per arrivare ad addomi sofferenti; magliette sporche, piedi pieni di sabbia, mani rugose e secche, morbide e umidicce, affusolate, tozze; denti radi, neri o forti e bianchissimi; capelli duri e ispidi, crespi e lisci; tagli di vetri e di lame, morsi di cane, ago ricurvo e fili di tanti spessori, pinze e forbici, vaschette, secchi di garze sporche, la piccola sterilizzatrice a secco, gli abbassalingua e l’otoscopio, bilancia per neonati e per adulti; vasettini di plastica con coperchio per raccogliere lo sputo e cercare quei maledetti bastoncini rossi colorandoli con il metodo Zield Nelseen, il microscopio, la centrifuga.
«Dottore, mio figlio la notte digrigna i denti»; «Sono i parassiti»; «No, non è una vergogna la tubercolosi; sono dei bacilli che si colorano di rosso. Dovrà prendere pastiglie e farsi delle iniezioni e specialmente mangiare e mangiare»; «Cosa ha aspettato, signora, a portarmi suo figlio: è una broncopolmonite»; «Non avevo soldi e non posso comprare le medicine, sono calde o fredde?»; «Sì, sì l’eucalipto va bene, quello canforato dalle foglie argentee, ma deve prendere anche le capsule di amoxicillina, confezioni grandi di fiale di streptomicina, di pastiglie di isoniazide, di capsule di rifampicina e di etambutolo, ampicillina in sciroppo, bactrim, bustine di mebendazolo, pastiglie di piperazina e grossi vasi di vitamine colorate che avevano sempre successo»; «Sta partorendo la figlia del panettiere?»; «Chiamate la matrona. Io verrò se ci sono problemi»; «Fate passare quel bambino che ha la febbre alta»; «Come? C’è una famiglia a rischio? Forse ci sono bambini denutriti? Più tardi andrò a vedere».
«L’atrio dell’ambulatorio è pieno di sabbia e la sera è scesa. Chiudo. Esco sulla sabbia e passo a vedere la figlia del panettiere: ha partorito normalmente, mi offrono un piatto di riso con un pezzo di pollo ed un bicchiere di acqua di mele, raccomando di allattare al seno».
«Poi la famiglia a rischio, brutta la casa, senza finestre, pavimento di sabbia bagnata, reti sfondate con luridi materassi, vestiti e stracci ammucchiati su fili tesi fra le stuoie, pentola nera su di un fornello a cherosene, yuca bollita, televisore acceso, bambini senza scarpe, uno buttato su di una stuoia».

MALEDETTA POVERTÀ

Lucho era un fiume in piena ed io lo ascoltavo senza interromperlo. «Maledetta la povertà, maledetta la povertà che toglie anche la dignità, maledetta la povertà che genera violenza, maledetta la povertà che genera altra povertà e che genera bambini che saranno poveri senza speranza. Maledetto questo lavoro che non riesce a curare la malattia di ciascuno di loro, la povertà. Maledetta l’ignoranza che genera povertà e che da questa si alimenta, maledette queste stuoie che la nascondono e maledetti gli occhi di quelli che non vogliono vederla e di quelli che, avendola vista, se ne dimenticano».
«Scaldo lo stetoscopio fra le mie mani mentre parlo dolcemente al bambino, chiamandolo per nome, ha il mio stesso nome: “Lucho, piccolo Lucho, fammi sentire i tuoi polmoni, apri la boccuccia, uuh che begli occhi hai. Dai, vediamo il tuo pancino: è bello gonfio. Vede, signora, le narici come si muovono? Fa fatica a respirare e la sua pelle è secca, non ha un filo di grasso. Sente queste fossette sulla sua piccola testa? Ha sete. Vede questi capelli così fini e rossicci? È segno che non si sta alimentando bene. Dobbiamo curarlo, perché ha smesso di allattarlo? È denutrito, forse ha i vermi e una brutta bronchite. Lo so che non può portarlo in ospedale, signora, ma perché non me l’ha portato prima in ambulatorio, perché non l’ha pesato. Ah, non l’ha registrato quando è nato? Vai piccolo Lucho, porti il mio nome, da grande farai il medico, o l’ingegnere, vero?”».
«L’ho mandato da te a curarsi, ricordi; e Francisca, la psicologa, ha curato anche sua madre, infilandola sotto la doccia, pettinandole i capelli, mettendole il rossetto, e sai che l’altro giorno ho visto il piccolo Lucho? L’ho trovato a un parcheggio che lavava automobili, ha lavato anche la mia e non ha voluto neanche una mancia; ora avrà 15 anni il piccolo Lucho».
«Ma lo sai che se faccio il medico, la colpa è tutta di mio padre? Avevo una dozzina di anni ed ero riuscito a entrare nella migliore delle scuole di Lima. Mio padre ne era orgoglioso e tutto sembrava già deciso dal destino. Quel giorno invece di andare a scuola, insieme a un gruppetto di compagni di classe decidemmo di andare a giocare a pallone nel parco vicino. Era un piacere passeggiare per Lima in quei giorni di sole tiepido e così facemmo. Non mi accorsi però che mio padre ci aveva incrociato mentre si recava ad insegnare alla scuola di “Canto Grande” dove, diceva, la vita si apprendeva a suon di botte».
«Come spesso accade nella vita, quel fatto banale si è trasformato nel trampolino verso un mondo che non conoscevo e che ora mi riempie totalmente. Mio padre, pur essendo di cultura rigidamente borghese e pur avendo desiderato il mio inserimento nella scuola che frequentavo, al mio ritorno a casa mi disse semplicemente: “Lucho, da domani cambi scuola. Vieni a Canto Grande perché devi imparare a vivere e a rispettare gli impegni che ti prendi”».
«Io capii subito che mi aveva visto col pallone in mano e senza neanche una lacrima accettai di lasciare la scuola dei ricchi per andare in quella di periferia».
«Il mio compagno di banco era figlio di un venditore ambulante, che portava in giro per i mercatini della città la sua mercanzia fatta di suole di scarpe, lacci, lucidi e spazzole. Era il genio della classe e mi batteva specialmente in matematica e scienze. Se io ero grassoccio e non tanto alto, lui era invece mingherlino. Non gli piaceva giocare a pallone ed era estremamente attento ai problemi di ognuno dei suoi compagni. Un giorno cominciò a tossire e dopo un po’ di tempo a sputare sangue. Mio padre si allarmò, lo portammo in ospedale, lo curammo; morì di tubercolosi a quattordici anni. Gli giurai che avrei fatto il medico, perché non era giusto morire così».
«Sono forse un matto o il più stupido dei medici, perché invece di fare i soldi negli Stati Uniti sono rimasto in questo piccolo ambulatorio a curare chi a ogni piccolo balzo all’insù del dollaro mangia un po’ meno?».

LUCHO ED IO

La bottiglia di rhum era a metà, il posacenere stracolmo, e oramai le lacrime ci rigavano le guance ricordando i tempi passati: la nostra giovinezza, i nostri viaggi all’inferno e i nostri ritorni, non ci trovavamo mai d’accordo e ci avevano definiti i due carissimi nemici fedeli e ora non potevamo più esserlo.
Lo accompagnai alla porta, la sua auto scassata era là ad attenderlo. Ci abbracciammo, oramai uomini dai capelli radi e brizzolati e dall’anima più ruvida, ci lasciammo senza dircelo, ma coscienti che ognuno di noi sapeva dell’altro.
Lucho aveva lasciato il suo ambulatorio, i suoi pazienti, le sue medicine e il suo stetoscopio, quel giorno che la polizia l’aveva cercato e che lui non era riuscito a spiegare perché non si era mai laureato.
E io? Avevo lasciato il mio ambulatorio, i miei pazienti, le mie medicine e il mio stetoscopio, quel giorno che avevo perso il coraggio di curare con le mie sole mani e che non ero riuscito a spiegarmi il perché.
Ci vuole coraggio per fare il medico laggiù; ci vuole forza e sensibilità; ci vuole fede e speranza. Ora i miei occhi non vedono più la povertà, le mie mani non sentono più i piccoli addomi tesi, le mie orecchie non riconoscono più i suoni delle cavee della tubercolosi, e quell’ultimo incontro con Lucho, il migliore di noi medici, è stato forse il momento in cui si è chiuso, per noi due, un capitolo della nostra vita. •


Enrico Larghero

DOLORE E SOFFERENZA NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI PAOLO II
Edizioni Camilliane 2005, pag. 160, € 14,00

Enrico Larghero è dirigente medico presso la Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore dell’Azienda sanitaria ospedaliera «San Giovanni Battista» di Torino. Nel 2001 ha conseguito la laurea in teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino, e nel 2003 la licenza in Teologia morale con indirizzo sociale e bioetica presso la stessa facoltà.
Nella prima parte l’autore mette a confronto orizzonti diversi della realtà del dolore: l’orizzonte della medicina, l’orizzonte della filosofia antica e modea e l’orizzonte cristiano (nelle scritture, nella riflessione teologica, dai padri della chiesa a oggi).
La seconda parte tratta del mistero del dolore nella vita e nel magistero di Giovanni Paolo ii, sottolineando la dimensione sociale della sofferenza.
«Karol Wojtyla ha posto al centro del suo papato principalmente l’uomo e la sua dignità. Da qui la solenne promessa che “laddove l’uomo nasce, soffre e muore, la chiesa sarà sempre presente a significare che, nel momento in cui egli fa l’esperienza della sofferenza Qualcuno lo chiama per accogliere e dare un senso alla sua fragile esistenza”… Il vangelo di Cristo, riproposto dai documenti papali, ha la capacità di trasformare il mondo, spesso troppo arido e secolarizzato, in un luogo di amore e di speranza».

Guido Sattin




COME STA FATOU? Manuel Antonio ce la farà


Prima di partire per una nuova destinazione, un medico dell’Organizzazione mondiale della sanità fa il bilancio della propria esperienza in un paese uscito distrutto da una lunga guerra civile. Tanti problemi, tanta sofferenza, ma anche esperienze umane indimenticabili.

Manuel Antonio mi guarda con un sorriso aperto. Anche sua madre sorride. Il medico le ha appena detto che questa volta suo figlio è salvo. Sì, Manuel Antonio ce la farà. Era stato colpito dalla malaria 5 giorni fa. La malaria si era subito complicata perché il bambino era molto denutrito.
Il villaggio di Manuel Antonio è alla periferia del mondo, in una Angola martoriata dalla guerra per tanti anni e dove la maggior parte della popolazione vive nella povertá estrema. Non c’erano farmaci antimalarici, né un medico o un infermiere per aiutare Manuel Antonio.

MAMMA ANGELINA
Come tante altre mamme angolane, Angelina ha dovuto percorrere piú di 200 chilometri, in parte a piedi, in parte con veicoli di fortuna, o militari, prima di arrivare all’ospedale provinciale. È durata tre giorni la corsa disperata contro il tempo per portare Manuel Antonio all’ospedale di Kuito, la capitale della provincia di Bié: è una zona che è stata a presa in mezzo da una guerra che ha distrutto un paese e la sua gente per più di 30 anni. Duecento chilometri di polvere, fame, fatica e paura, per strade, sentirneri e campi seminati di mine antiuomo.
Nel paese oggi c’è la pace, dopo che, nell’aprile 2002, l’esercito nazionale ha firmato l’armistizio con le forze dell’Unita. Angelina ha perso gli altri figli nella guerra. Dopo gli accordi di pace, si è ricongiunta con suo marito da cui era rimasta separata per 5 lunghi anni. Lo aveva dato per morto o per disperso in guerra. Angelina, come altri 4 milioni di persone, è tornata al suo villaggio, con la speranza di rivedere i suoi cari e rifarsi una vita.
La lunga guerra non ha piegato gli angolani. Sono fieri della loro terra e ora sperano che la pace durerà per sempre. È incredibile come sia stato possibile che, in così breve tempo, tanta gente sia ritornata a casa. È incredibile che, dopo 30 anni di guerra tutti adesso sembrano essersi già dimenticati che il loro vicino di casa era il nemico da abbattere.

I POSTUMI DELLA GUERRA
In una Angola traboccante di petrolio, diamanti ed altre ricchezze minerarie, con una potenzialità enorme anche per le risorse turistiche ed agricole, è incredibile che la povertà estrema riguardi il 69 per cento della popolazione.
È incredibile ma è vero che, seppur la guerra sia finita da piú di due anni, ancor oggi la gran parte della popolazione si ritrovi a lottare disperatamente per la sopravvivenza, per poter mettere i figli in una scuola e per riuscire a trovare un infermiere per curarsi. Sono i postumi della guerra la nuova condanna da cui ora ci si deve liberare. Sono i suoi effetti devastanti, fisici e culturali. I signori della guerra, interni ed estei al paese, hanno mantenuto acceso il conflitto a lungo per potersi arricchire; ma ora la popolazione vuole costruire un futuro di pace, fatto di scuole elementari, centri sanitari periferici, amministrazioni municipali funzionanti.
Solo pochi dei 163 municipi del paese possono già permettersi il lusso di una organizzazione e di un finanziamento pubblico che consenta gettare le basi di uno sviluppo produttivo, di una ricostruzione del tessuto sociale della comunitá, e l’accesso all’istruzione primaria e alla sanità di base.
Guardo Manuel Antonio e vedo in lui un milione di bambini che in Angola sono colpiti ogni anno dalla malaria, una malattia ormai scomparsa dal mio paese che qui invece uccide ogni anno almeno 30.000 bambini sotto i cinque anni e piú di mille donne gravide. Quando penso a questi bambini che muoiono ogni anno, non voglio vederli come cifre, statistiche da manuali asettici. Voglio vedee i volti, per capire che dietro questi numeri in realtá ci sono persone, bambini come i miei figli, donne come mia moglie.
Guardo Angelina ed il suo Manuel Antonio. E mi chiedo come sia possible che tante Angeline e tanti Manuel Antonio vivano la tragedia della malaria nell’era della tecnologia. Cosa sta succedendo in questa strano mondo perché, nella sola Angola, ogni anno altri 40.000 muoiano di malattie contagiose ma facilmente prevenibili, come la denutrizione, la diarrea, le malattie respiratorie, il morbillo e la malattia del sonno.
Per questo, appena arrivato in Angola, mi sono sentito preso dal lavoro, nell’impossibile pretesa di fare qualcosa di sostanziale per cambiare le cose, per rendere l’organizzazione dei servizi piú funzionale, piú efficiente e migliorare la qualitá dell’accesso alla sanitá di base.
Ora, con l’avvento della pace, c’è bisogno di lavorare ancor piú sodo e senza sosta con il governo per ricostruire il paese in fretta, per evitare tante morti e tanta sofferenza. C’è bisogno di lavorare con le Ong e le altre agenzie delle Nazioni Unite. Di coinvolgere maggiormente le ambasciate, le compagnie private e sostenere la crescita della società civile angolana, ancora così debole e dare una voce a chi non ce l’ha mai avuta.
In quattro anni, dal 2000, l’ufficio dell’Oms in Angola è cresciuto da 17 a piú di 100 dipendenti, di cui tre quarti medici gestori e tecnici sanitari e sono stati aperti dai due iniziali, altri 18 uffici a livello provinciale per aiutare le autoritá sanitarie.
Le attivita hanno dato priorità all’analisi sistemica della realtá socio-sanitaria e identificazione delle prioritá sanitarie; essere in grado di riconoscere le malattie, notificarle e combatterle d’accordo alle risorse disponibili, preparazione di schemi di diagnosi e cura per evitare le morti matee e infantili; integrazione dei programmi e implementazione di una strategia che consenta, attraverso la presenza a livello periferico di stock di farmaci essenziali e di professionisti della sanitá, di garantire un pacchetto ‘minimo di servizi’ a tutta la popolazione, dalla vaccinazione contro la polio, il morbillo ed il tetano, alla lotta alle malattie sessuali e al’Aids.
Mentre ho ancora nel cervello l’immagine di Manuel Antonio che mi sorride, penso alle molteplici inizitive che abbiamo instancabilmente prodotto in questo paese. Penso ai generatori consegnati, ai tre Tir e ai due camion di zanzariere con insetticida, materiali di laboratorio e farmaci antimalarici che abbiamo distribuito in sei province con alta mortalitá infantile e matea per malaria in questi ultimi mesi grazie al finanziamento dell’Unione europea. Penso al sistema di sorveglianza delle malattie a trasmissione sessuale, tra cui l’Aids, che è stato possibile costruire grazie a finanziamenti italiani.
Penso ai colleghi dell’Oms, medici e tecnici, che lavorano senza risparmiare energie nelle 18 province del paese ed al loro impegno costante per aiutare i direttori sanitari provinciali a capire le prioritá di gestione, a elaborare piani d’azione, a eseguire e valutare le attivitá.
Quando al mattino corro nella ‘marginal’ di Luanda, penso a come potrei migliorare le nostre azioni sul territorio e creare migliori opportunitá di politica sanitaria per i piú vulnerabili con le poche risorse a disposizione. Quando dormo, penso a come meglio appoggiare le attivitá dei nostri colleghi del ministero della sanità angolano. A come pappoggiare il vice-ministro, generoso e convinto della sanità di base, ad accelerare le strategie integrate per aumentare l’accesso ai servizi sanitari, attraverso la sua influenza. Spero che possa continuare in questa lotta quotidiana e generosa a favore della sua gente troppo martoriata dalla miseria e dalle malattie. Penso a come potremmo accelerare gli sforzi, aggirare le lentezze, gestire le difficoltá di comprensione e le paure nell’esecuzone delle strategie.
Penso a Manuel Antonio, sei mesi, diagnosi di malaria grave che questa volta è riuscito a scamparla. Ma ci riuscirà anche nelle altre due volte che prenderà la malaria? Già, perché ogni bambino in Angola, si prende la malaria in media tre volte all’anno…
Angelina mi guarda e sorride. Si sente meglio oggi. Ha lottato per il suo bambino, con disperazione e dignità. E ce l’ha fatta. Manuel Antonio è sfuggito al destino impietoso che ogni anno non risparmia migliaia di bambini come lui. La sua mamma che ci ha creduto, i medici e gli infermieri che l’hanno curato, chi l’ha accompagnata nella lunga strada che separava il suo villaggio dall’ospedale, i colleghi del ministero della sanità angolano, il mio amico e compadre vice- ministro ed io, questa volta ce l’abbiamo fatta. Tutti i nostri sforzi ne valevano la pena: Manuel Antonio è salvo.
Guardandomi allo specchio, credo di essere invecchiato 8 anni in questi 4 anni, ma credo di poter dire che ce l’ho messa tutta. Ora mi aspetta un nuovo paese e una nuova avventura umana.

Pier Paolo Balladelli




Il corridoio dell’Aids (e quello della speranza)


Beira (Mozambico)

Un paese che tenta di uscire dai guasti della guerra civile,
una giovane università che personifica la speranza.

Beira è molto diversa da come mi era stata descritta dai miei colleghi universitari. Quale radicale cambiamento è sopraggiunto negli ultimi anni?, mi sono chiesto appena giunto nella seconda città del Mozambico.
Sono stato subito colpito dalla multiculturalità del luogo. Sapevo già che, prima dell’avvento dei portoghesi, alla fine del quindicesimo secolo, si era avuto un flusso immigratorio di commercianti arabi. Non avrei però immaginato che esistesse una comunità che fosse riuscita a segregarsi (o ad essere segregata) così bene, tanto da conservare, immodificati, i caratteri somatici, gli abiti e la lingua. Quanto all’uso del velo per le donne, a coprire tutto il volto meno gli occhi, non me lo sarei aspettato.
Anche gli indiani sono numerosi e si distinguono bene per la caagione olivastra, le rotonde geometrie del volto, i capelli lisci, l’agilità nel passare all’uso della lingua inglese dalla «esse» sibilata, nonché per il continuo argomentare tra loro su qualità di prodotti, prezzi e convenienze, in stretta simbiosi con il luogo fisico dove commerciano.
Beira conta tra i suoi abitanti diversi cinesi, impiegati in opere infrastrutturali mastodontiche nel controllo delle acque e nello sviluppo delle vie di comunicazione, che sono sempre state le prerogative della loro cooperazione, in quanto esperienza storica maturata nel problematico dominio dei bacini dei fiumi Giallo ed Azzurro.
La multietnicità e multi-culturalità è completata da una variegata comunità di occidentali. Vi si comprendono russi e cubani, retaggio dello sforzo di sostenere la Frelimo durante la guerra civile. Vi sono statunitensi e britannici impegnati nelle ricerche petrolifere ed in alcuni servizi. Vi sono tedeschi, austriaci ed olandesi impegnati nei servizi ad alto valore aggiunto.
Vi sono gli italiani, i quali hanno fortemente contribuito al processo di pace tra Frelimo e Renamo e stanno accompagnando la ripresa del paese. E, naturalmente, vi sono i portoghesi.
Beira è una città troppo estesa per il suo mezzo milione scarso di abitanti. La bassa densità è evidente anche in centro. Qualche condominio a 10 piani non offre lo stesso paesaggio di un centro a grattacieli, come per esempio si osserva nella capitale zambiana Lusaka, che è poco più popolata di Beira. Il traffico automobilistico nelle ampie strade è scarso ed anche le attività commerciali del centro sono poco animate. Lo stesso traffico di navi al porto non è degno della fama del «corridoio di Beira».
Prende questo nome quella via di comunicazione che lega Beira con Mutare ed Harare in Zimbabwe, facendo tappa a Chimoio.
Avendo avuto la Renamo la sua base militare lungo questo corridoio, in quello che oggi è il parco della Gorongosa, ed avendo avuto la sua base di reclutamento nel centro-nord del Mozambico, lo Zimbabwe ha visto per lungo tempo insidiato il cammino verso il mare per i suoi scambi d’oltreoceano. La guerra civile poteva chiudere il corridoio ed interrompere il flusso dei prodotti. Per questo, all’epoca, la presenza militare zimbabwiana fu sempre molto forte, spingendosi fino alla periferia della città. Molte delle mine che ancor’oggi insidiano le gambe dei mozambicani nelle province di Sofala, Chimoio e Tete, sono state piazzate da loro.
Il «corridoio» ha purtroppo contribuito a veicolare anche un flusso supplementare: il virus Hiv, agente eziologico dell’Aids. A tutt’oggi, sembra che la più alta percentuale di sieropositività dell’Africa australe sia in Botswana ed in Zimbabwe, che si trovano all’altro capo di quel corridoio.
Il contingente militare zimbabwiano, all’epoca della guerra civile, era ben fornito di generi alimentari, verso i quali erano attratte le madri, bisognose di cibo per sé e per i propri figli e con un’unica merce di scambio disponibile: il proprio sesso.
Poiché anche il Sud Africa è un’area ad alta incidenza di sieropositività per Hiv, sarebbe ingiusto affermare che, senza quel canale, il Mozambico non avrebbe avuto l’Aids tra le calamità da fronteggiare. Tuttavia, la città ha avuto una pesante eredità da quell’epoca, soprattutto negli strati più poveri e meno educati della popolazione: oggi Beira, nell’area urbana, conta il 35.7 (+/- 5.4) % di donne gravide infettate.
Beira vide passare grandi quantità di merci per il suo porto, ma oggi, a pace raggiunta, nel momento in cui le opportunità si dovrebbero ampliare, ecco che gli scambi sono più fiacchi. Le ragioni stanno ancora una volta in Zimbabwe. Il declino politico ed economico degli ultimi anni di quel paese ha colpito, di riflesso, anche Beira, che si trova con meno investimenti.
Con i suoi ampi viali, le piazze con le rotonde di svincolo, il discreto stato di pulizia, i quartieri residenziali con edifici a due piani, avrebbe potuto essere un grande contenitore da riempire, ma così non è stato.
Al Club Nautico continuano a chiedere un obolo d’ingresso ai non soci, come ad eccitare la fantasia per un luogo esclusivo pieno di stabili frequentatori (i soci per l’appunto), ma per la cena del sabato sera non c’è bisogno di prenotare. Il Tropicana promette una giornata festiva fatta di buoni cibi, nuoto ed altri sports, ma sulle acque della piscina galleggiano foglie morte ed arbusti. Il Club Palmeiras, anche se ben visibile e architettonicamente concepito per abbracciare il cliente, è chiuso.
La seconda città del Mozambico sta insomma soffrendo una seria impasse sociale ed economica. Tuttavia, allo stesso tempo, è anche il tavolo dove si sta giocando la stabilità degli accordi di pace. Ad un Mozambico lungo quasi 3mila chilometri, con una capitale, Maputo, posta al suo confine meridionale, dove si accentrano scuole ed altri servizi e dove la Frelimo continua a dominare, Beira si pone come la soluzione per le popolazioni del Centro e del Nord del paese. Così anche la seconda firmataria degli accordi di pace, la Renamo, che ha i suoi sostenitori in queste province, può trovare soddisfazione nella pacifica convivenza.
In questo quadro, a Beira è nata e si è sviluppata l’Università cattolica (dossier su MC del febbraio 2003), un’istituzione che sta cercando di collaborare attivamente nel consolidamento della pace in Mozambico, offrendo alle nuove generazioni un’istruzione qualificata a costi accessibili, un esempio per molti paesi africani.

(*) Il dottor Nando Campanella è il vincitore della prima edizione del «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani». Il dottor Campanella è stato premiato con un viaggio a Beira, per visitare la facoltà di medicina dell’Università cattolica del Mozambico, istituto fondato dai missionari della Consolata.
Da gennaio 2005, il dottor Campanella lavora a Kampala, in Uganda, per cornordinare un progetto sanitario internazionale sull’Aids.

Nando Campanella




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



RICORDANDO CARLO URBANI (1): Le malattie dimenticate


Nei paesi del Sud del mondo l’accesso alla salute – farmaci, acqua, alimentazione, servizi igienici, istruzione – è ancora un miraggio per la maggioranza della popolazione. In favore di questo diritto negato ha lavorato ed è morto Carlo Urbani.

Nel 2001 nel mondo 18,4 milioni di persone sono morte per malattie infettive/parassitarie, malnutrizione e cause perinatali, la maggior parte di queste nei paesi in via di sviluppo. La maggioranza di queste morti sono dovute a patologie prevenibili e curabili con farmaci e precauzioni igieniche che in Italia sono accessibili a tutti.
È uno scandalo che nel 2003 ancora 1 milione e mezzo di persone siano morte di malaria nonostante ci siano farmaci antimalarici efficaci, e che su 6 milioni di persone affette da Aids nei paesi in via di sviluppo, solo 400.000 abbiano accesso alle cure appropriate. L’accesso alla salute non è solo accesso ai farmaci essenziali: significa anche accesso ad acqua potabile, a latrine e servizi igienici, a scuole ed istruzione, alle cure materno-infantili, ad un’alimentazione sufficiente.
Le disuguaglianze dei paesi con limitate risorse pesano sulla coscienza di tutti: meno del 50% della popolazione ha accesso ai farmaci essenziali, i medici sono al di sotto di dieci per 100.000 abitanti (in Italia sono più di 500), meno dell’uno per mille della popolazione ha accesso ad Inteet (in Italia sono più di 250); il costo dei farmaci nei Paesi poveri, a parità di potere di acquisto, è più elevato che nei paesi industrializzati; la mortalità infantile e quella matea sono 100 volte più alti.

Carlo Urbani ed i medici tutt’ora impegnati nello sviluppo della salute pubblica nei paesi del sud del mondo hanno scelto di lavorare in questa realtà. È uno scenario che è riduttivo descrivere, fatto di sensazioni forti, di silenzi e di spazi immensi, di colori violenti e di odori, di insanabili contrasti, di fatica quotidiana, di contatto continuo con morte e malattia, di ritmi e valori spesso dimenticati nella nostra vita frenetica, consumistica e stressante. Sono sensazioni che solo se vissute e condivise possono essere comprese. Dopo la prima esperienza in Africa sub-sahariana ricordo di aver sofferto della impossibilità di comunicare impressioni, momenti di lavoro, e rapporti umani che hanno profondamente cambiato la mia vita.
Condizione primaria del lavoro in quei paesi, e non solo in ambito sanitario, è sapersi distaccare in maniera critica dalla nostra società occidentale, spesso creduta impropriamente depositaria di cultura superiore e di regole tali da poter essere imposte a gente «sottosviluppata». Lavorando nel terzo mondo ci si accorge che invece l’Occidente oggi è pervaso da una cultura del piacere «facile», volta ad ottenere molto in tempi brevi, prodiga di sicurezze, dove si ha troppo del superfluo, dove il tempo è sempre tiranno, e dove si è condizionati a produrre incuranti del prodotto, senza avere il tempo di guardarsi intorno, di ascoltare e capire in quale direzione stiamo camminando.
Nei paesi in via di sviluppo anche la realtà della morte è vissuta nel senso dello scorrere del tempo ed è mitigata da una grave serenità e da una grande partecipazione al lutto della famiglia allargata. La percezione della morte nella civiltà dei consumi è invece carica di angoscia, è un tabù che si cerca di esorcizzare attraverso paradisi artificiali e cure per l’eterna giovinezza.
Fondamentale diventa poi la dimensione dell’ascolto, il saper condividere il ritmo lento e rilassante, ma non pigro, della vita africana, saper percepire la ricchezza nascosta nella semplicità degli affetti, nel valore dell’ospitalità e della dignità umana. E, d’altra parte, ci si rende conto di essere dei privilegiati, di avere la pelle di un colore che crea una barriera spesso insuperabile nei rapporti con la gente locale.
Bisogna sapere accettare questa differenza ed essee consapevoli per non offendersi della discriminazione, a volte pesante, della gente del luogo dettata da anni non troppo lontani di colonialismo e sfruttamento, e dal neocolonialismo attuale impersonato dall’immagine del ricco turista italiano che va in vacanza in un villaggio turistico di Zanzibar o delle Maldive con l’arroganza della superiorità dettata dal potere economico e con l’ignoranza della cultura locale.

La professione del medico comporta competenza, pazienza, creatività e disponibilità umana, doti che dovrebbero essere applicate in qualsiasi ambulatorio medico di una grande città industriale, ma che in Africa vengono riscoperte come valori essenziali, senza i quali è impossibile svolgere il proprio lavoro.
Si riscopre il valore della visita accurata del paziente, imposto dall’assenza della gran parte di esami diagnostici disponibili nella medicina occidentale. Si deve «costruire» a volte una diagnosi credibile, e bisogna saper gestire con abilità i pochi farmaci disponibili. Si lavora in condizioni logisticamente disagiate: spesso senza disponibilità di acqua corrente, e con scarsa e saltuaria elettricità. Ci si adatta con lampade a cherosene, quando possibile con generatori, si utilizza acqua di pozzo o piovana raccolta in cistee.
Spesso ci si scontra con dubbi e domande alle quali non si riesce a dare una risposta. La disponibilità limitata di risorse porta a confrontarsi con scelte di priorità anche dolorose in cui l’etica professionale viene messa a dura prova. Devo utilizzare risorse per fare operare al cuore un bambino cardiopatico con un intervento salvavita, oppure lasciarlo e curare invece, con le stesse, mille suoi coetanei esposti alla malaria?
L’interesse si sposta dalla medicina individuale, curativa, alla medicina di comunità, soprattutto preventiva. Si interagisce con sistemi sanitari dotati di un grande potenziale e si sente di avere il potere di incidere sulle politiche sanitarie locali. Inoltre si ha la potenzialità di insegnare la professione medica al personale sanitario locale, con attenzione ed adattamento alla realtà e alle risorse del luogo, promuovendo l’uso di tecnologie appropriate e interventi di controllo delle malattie avendo come primo obiettivo il minor rapporto costo/beneficio. La formazione del personale locale è il cardine della sostenibilità di un intervento sanitario di cooperazione che deve essere sempre rivolto a creare una condizione di indipendenza e di autonomia.
Queste sono le immense soddisfazioni professionali che gratificano e largamente compensano la rinuncia a tante sicurezze, a molte comodità, al sacrificio di affetti familiari, al rischio di malattie o incidenti pagati in prima persona. Non si raccontano quasi mai i momenti di profonda solitudine, le lacrime di rabbia, la frustrazione nello scontro con la corruzione, l’ignoranza e l’indolenza umana. Sono però anche questi aspetti ingredienti che, come il sale, danno un sapore più vero all’avventura degli operatori sanitari nei paesi in via di sviluppo.

Vivere nel mondo delle malattie dimenticate è, per chi accetta questa sfida, un’esperienza professionale ed umana che apre, a volte dolorosamente, gli orizzonti; che cambia chi ha il coraggio di esporsi; che fa innamorare di questo mondo chi sceglie di lavorarci e particolarmente i medici che più di altri hanno il privilegio di constatare, capire, testimoniare e, qualche volta, alleviare o risolvere l’assenza di salute. •

“CARLO, AMICO E COLLEGA”

Carlo Urbani è l’autore del libro, che Feltrinelli mi ha chiesto di curare. Non è una biografia: sono i suoi scritti e le sue riflessioni sviluppati negli ultimi 10 anni di lavoro e di viaggi.
Con questo lavoro ho avuto l’opportunità di restituire la memoria di Carlo per quello che lui era veramente: un uomo e un medico capace e generoso. Il libro raccoglie riflessioni sulla povertà e assenza di salute delle comunità nelle quali Carlo lavorava, soddisfazioni professionali, descrizioni di luoghi e di persone incontrate, di emozioni provate. Carlo era anche un ottimo fotografo ed un discreto scrittore (come dimostrano anche gli articoli pubblicati in Come sta Fatou?, la rubrica da lui inventata per la rivista Missioni Consolata). Aveva il talento di saper comunicare la sua passione attraverso parole ed immagini; leggendo le sue lettere si ha l’opportunità di apprezzae l’entusiasmo, la curiosità, l’intelligenza e sensibilità, la capacità di individuare problemi e proporre soluzioni. Ne emerge la sua voce e, posso dire con soddisfazione, un’immagine molto vicina a quella dell’amico e collega che ho perduto, sicuramente diversa da quella del «martire della Sars», immagine mitizzata e per un certo verso riduttiva, che i media ci hanno trasmesso quando la sua curiosità ed il suo entusiasmo sono stati fermati da un incidente di percorso.
La Sars (una malattia in realtà non troppo contagiosa, un’epidemia assai meno importante in termini di mortalità – solo 800 morti – rispetto per esempio all’epidemia di «spagnola», che molti ancora ricordano, o alla malaria e tubercolosi che fanno ciascuna ancora 1 milione e mezzo di morti all’anno) ha acceso i riflettori sull’epilogo della vita di un uomo non comune. Quell’«incidente» ha fatto sì che gli venisse rivolta, pur tardivamente, l’attenzione che da anni meritava per il suo lavoro silenzioso di lotta alle malattie «dimenticate», per garantire il diritto alla salute anche alle popolazioni dei paesi più poveri. I suoi scritti permettono di capire un po’ di più del lavoro e del punto di vista di molti altri, medici e non, che ben al di là della retorica considerano una priorità ragionare e cimentarsi con le scandalose disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo.

Un altro motivo che mi ha spinto ad accettare di curare questo libro è stata la possibilità di divulgare anche ai non addetti ai lavori, le problematiche di salute pubblica e di medicina sociale che Carlo, molti altri colleghi ed io stesso affrontiamo, per stimolare l’interesse alla conoscenza di questi argomenti e possibilmente la condivisione di queste sfide.
Scegliendo e mettendo in ordine gli scritti di Carlo mi sono reso conto di quanto la sua storia personale si sia arricchita progressivamente. La sua vita professionale inizia in medicina generale in un paese di provincia, Castelplanio. Infettivologo e tropicalista, viaggiatore si appassiona a problemi di salute internazionale. Lavora poi come medico ospedaliero e volontario in brevi missioni sul campo, sino alla scelta definitiva di intraprendere la carriera internazionale come responsabile nel Sud-est asiatico del controllo delle malattie trasmissibili. L’epilogo della storia di Carlo è segnato sia dalla sua passione originaria per la medicina individuale che dalle sue doti di medico di sanità pubblica: non è una coincidenza che proprio lui sia stato chiamato a consulto al letto di un paziente con polmonite atipica, sul quale intuirà il potenziale di quella malattia sconosciuta. Lascerà temporaneamente il suo ufficio all’Oms di Hanoi, i suoi parassiti e le malattie per noi dimenticate per infilarsi il camice e dedicarsi con intelligenza e curiosità alla nuova malattia della quale riuscirà in brevissimo tempo a capire abbastanza da bloccarne l’epidemia trascurando, nell’entusiasmo, di pensare anche a salvaguardare la sua persona. Non per rischio calcolato ma per coerenza a saldi principi di etica e passione scientifica. Carlo era fatto così. Dalle sue lettere emergono riflessioni su temi scottanti e di grande attualità (la globalizzazione, il diritto e l’accesso alla salute, i farmaci essenziali, il dovere di lotta alla povertà, la ridistribuzione delle risorse, la tolleranza, le diseguaglianze – non solo di salute – tra il Nord ed il Sud del mondo).

Il libro parte dalla prima esperienza in Mauritania, nel 1993, dove io incontrai Carlo per la prima volta. Era l’epoca dei suoi viaggi in Africa occidentale, durante i quali, con occhio esperto e sensibile, aveva individuato la possibilità di intervenire per arginare un’epidemia di parassiti intestinali e malaria che si era manifestata in seguito alla costruzione di una diga sul fiume Senegal. Carlo coinvolse subito il ministero della sanità del paese e richiese il sostegno tecnico all’Oms. Contemporaneamente coinvolse il suo ospedale e propose un gemellaggio con le scuole del suo paese.
Segue la sua esperienza di lavoro in Cambogia per Medici senza frontiere (Msf), dove era responsabile del controllo della schistosomiasi, trasmessa dalle acque del fiume Mekong.
Al rientro in Italia, nell’ospedale di Macerata dove era aiuto di malattie infettive, Carlo diventa presidente di Msf, lavorando per incrementare la collaborazione tra il mondo ricco occidentale e quello povero. Esempi di questa attività extraospedaliera sono la campagna per l’accesso ai farmaci essenziali e la lotta alle multinazionali del farmaco che badano al profitto invece che alla salute della gente. Va ricordato che 3.000 persone al giorno muoiono di malaria e 8.000 di Aids solo perché non hanno accesso a terapie disponibili in qualsiasi paese occidentale.
Altro esempio di ricerca di contatto tra Nord e Sud è il corso avanzato di medicina tropicale organizzato a Macerata nel marzo 2000, a cui parteciparono una quarantina di medici ed infermieri, la metà dei quali provenienti da paesi del Sud del mondo. Questa esperienza (straordinaria anche perché indipendente dalle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche e dalle università) ci ha permesso di gestire borse di studio ottenute da privati per merito del carisma di Carlo; borse che hanno permesso la partecipazione e la formazione di medici che poi sono tornati ad operare nei rispettivi paesi.

L’ultimo capitolo del libro tratta della scelta definitiva che Carlo Urbani fa nel 2000: accettare l’incarico di esperto di malattie parassitarie dell’Oms ad Hanoi, in Vietnam. In questa scelta coinvolge tutta la famiglia, a dimostrazione di un progetto di vita ampio che ha risvolti importanti sull’impostazione dell’educazione e della vita dei figli. Ad Hanoi, come alto funzionario delle Nazioni Unite, si rende conto di avere l’opportunità di incidere sulle politiche sanitarie nazionali per migliorare lo stato di salute di intere popolazioni con interventi strategici a basso costo. Carlo ha grandi soddisfazioni nel suo nuovo lavoro e si applica con la consueta passione ed impegno. Il 28 febbraio 2003 viene chiamato a visitare il signor Chen, paziente affetto da polmonite atipica, poi riconosciuta come Sars, che infetta ospiti e collaboratori dell’ospedale francese di Hanoi dando inizio all’epidemia. Carlo intuisce la gravità della situazione e lancia l’allerta mondiale. Scrive lucide e dettagliate relazioni per Ginevra e Atlanta. Convince le autorità vietnamite a chiudere l’ospedale, ad istituire la quarantena e a bloccare i voli ed il rilascio del visto, pur in presenza di pesanti risvolti economici per il paese. Contrae la Sars. L’11 marzo viene ricoverato a Bangkok, dove muore 18 giorni dopo. È il 29 marzo del 2003.

Marco Albonico

I dati delle malattie dimenticate (2001)

Malattia: DALYs* N. Morti

Aids 88.500.000 2.900.000
Cause perinatali 98.400.000 2.500.000
Diarree 62.500.000 2.000.000
Elminti Intestinali 39.000.000 135.000
Filariasi 5.600.000 0
Infezioni respiratorie
acute 94.000.000 4.000.000
Malaria 42.000.000 1.500.000
Malnutrizione 33.000.000 500.000
Morbillo 26.500.000 750.000
Schistosomiasi 4.500.000 200.000
Tubercolosi 36.000.000 1.600.000

* Disability-adjusted life years (numero di anni di vita «in salute» persi)
Tabella riportata in «Le malattie dimenticate», Feltrinelli 2004.

Marco Albonico




RICORDANDO CARLO URBANI (2):Il reporter di Missioni Consolata

L’incontro tra Carlo Urbani e la nostra rivista
rievocato in un capitolo del libro «Il medico del mondo».

Nel gennaio 1999, sulla rivista Missioni Consolata edita a Torino, appare una nuova rubrica, «Come sta Fatou?», curata da «Carlo Urbani, specialista in medicina tropicale».
L’incontro fra Carlo Urbani e la rivista Missioni Consolata avviene per caso. Paolo Moiola, classe 1960, abitante a Rovereto, era collaboratore della rivista – ne diventerà poi redattore capo – per i problemi del Sud del mondo. «Ho incontrato Carlo Urbani durante un viaggio nel Nord dell’India organizzato da Globetrotter di Trento nell’agosto 1988. Lui era il capogruppo. Ventidue giorni indimenticabili. Carlo era assieme a sua moglie Giuliana e come tutti noi voleva conoscere questo pezzo di terra fuori dagli schemi e dagli itinerari turistici. Di organizzato, in quel viaggio, c’erano soltanto i voli di partenza e di ritorno. Per il resto siamo andati all’avventura, su un piccolo pullman guidato da un sikh».
Ci sono piccoli episodi che restano nella mente. «Durante quel viaggio mi sono preso un’infezione alla mano, per il graffio involontario di un bambino troppo ansioso di ricevere una moneta. L’infezione si è estesa a tutto il braccio. Carlo Urbani mi ha tagliato e ripulito. Per fortuna c’era lui, in quel viaggio lontano da ospedali e sale operatorie. Da quando l’ho conosciuto, non è mai cambiato. Appassionato, ironico, generoso e anche curioso, fin troppo. Nei villaggi entrava nelle case o nelle capanne e chiedeva di assaggiare ciò che bolliva in pentola. E alla fine del viaggio si è preso la febbre tifoidea. Lo ricordo a Katmandù, davanti a un albergo, tremante di febbre. Lui era a letto, ma c’era stata una scossa di terremoto ed eravamo scappati tutti fuori. Pioveva a dirotto, cercavamo di ripararci in qualche modo. E lui cercava di sorridere. “Ecco” diceva “va tutto bene. Ho la febbre, c’è stata la scossa, sono qui che tremo. Bella vacanza”».
Già allora, anche dopo un viaggio turistico, Carlo Urbani ha voglia di raccontare la propria esperienza. Lo fa su un foglio riservato a pochi lettori, coloro che hanno partecipato ai viaggi di Globetrotter. E già in questo primo racconto (il titolo è «Da un viaggio nel Rajastan») si comprende che Carlo Urbani non riesce mai a essere soltanto un turista. (…)
L’amicizia fra Carlo Urbani e Paolo Moiola, iniziata durante quel viaggio, non è mai finita. «Quando sono entrato nella redazione di Missioni Consolata gli ho chiesto di tenere una rubrica per noi. Lui era già in giro in missione per Medici senza frontiere, ci serviva qualcuno che raccontasse i problemi della salute nel Sud del mondo. Ci abbiamo messo mesi, per trovare il titolo.
Quelli che proponevo io non andavano bene a lui, quelli che venivano in mente a lui non piacevano a me. Alla fine ha proposto: “Come sta Fatou?”, pensando al nome di un bambino africano. Io ho proposto di aggiungere, per spiegare di cosa si trattasse: “Viaggio fra malattie e sottosviluppo”, e finalmente abbiamo trovato il titolo.
Quando è partito per il Vietnam, come dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità, sulla rivista abbiamo annunciato che avrebbe continuato a scrivere la sua rubrica per noi. Ma non è andata così. Mi ha spiegato che, come alto funzionario dell’Oms, non avrebbe potuto portare avanti la sua denuncia contro le multinazionali dei farmaci, contro chi fa le proprie scelte pensando soltanto al profitto. “Non potrei essere così chiaro e netto come in passato, meglio sospendere la mia collaborazione”». (…)
Per ricordare il medico di Castelplanio, Missioni Consolata ha istituito anche un «premio annuale Carlo Urbani», per unire «la professione di medico con quella del giornalista», riservato ai laureati in medicina e chirurgia e odontorniatria. «I partecipanti dovranno cimentarsi in articoli divulgativi – cioè comprensibili da parte di tutti – su tematiche sanitarie riferite a paesi o situazioni del Sud del mondo».
I due vincitori – il mondo ha bisogno di altri Carlo Urbani – andranno a lavorare per qualche mese in ospedali africani.

“CARLO, CONRO LE INGIUSTIZIE”

«Quando verrete là» diceva «capirete di essere una nullità. Una goccia d’acqua nel deserto. Ma capirete quanto quella goccia sia necessaria». In queste parole, con cui Carlo Urbani descriveva il suo lavoro a servizio degli altri nei posti più poveri del mondo, si può concentrare il significato di questo libro. Nessuna affermazione di eroismo o di diversità, ma un’interiorizzazione completa e armonica di un mettersi al servizio degli altri.
Tutto questo in modo assolutamente normale, portando avanti insieme i rapporti familiari, il lavoro professionale, le relazioni con gli amici e una vita spirituale intensa e riservata. Una generosità straordinaria ma anche una normalità straordinaria, come dimostra la gerarchia di valori sempre presente in tutte queste pagine che illustrano la sua vita. Non vi è posto per l’esibizione (nemmeno per l’esibizione del coraggio) ma vi è sempre spazio e tempo per dedicarsi caparbiamente al proprio sogno, che è diventato missione di tutta una vita.
E questo sogno era molto semplice: «Distribuire accesso alla salute ai segmenti più sfavoriti della popolazione». Intendendo per popolazione il mondo intero. Per questo lo vediamo muoversi per l’Africa e per l’Asia, ora assistendo direttamente i malati ora organizzando le strutture necessarie per questa assistenza. Ed è anche singolare che la passione di curare direttamente gli ammalati sia accompagnata da un’uguale passione espressa per le complicate procedure necessarie alla direzione di un ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità in Vietnam o alla presidenza dei Medici senza frontiere.
Carlo Urbani non si è accontentato di dedicare tutto il suo impegno a questo scopo, ma l’ha accompagnato con una continua attenzione «politica» nella lotta contro le ingiustizie. Un’azione, questa, espressa nelle riviste che legano tra loro in modo invisibile ma indissolubile tutti quelli che si dedicano al servizio degli altri, in tutte le parti del mondo.
I reportage che leggiamo sulla rivista delle Missioni Consolata sono semplici e quasi brutali: descrivono le malattie, la loro diffusione e le conseguenze. Ma sempre ti inchiodano osservando come con la mobilitazione di una minima quantità delle risorse di cui disponiamo si potrebbero ottenere risultati straordinari. Il giudizio di condanna (che pure in alcuni momenti è durissimo, come quando denuncia il costo delle medicine nel Terzo mondo) è tuttavia sempre accompagnato dalla fiducia che si possa concretamente agire per allargare a tutti il diritto alla salute. A tutti, perché «non esiste una medicina povera per le popolazioni povere» e «l’accesso ai farmaci essenziali deve essere considerato un fondamentale diritto per tutti gli esseri viventi».
Ci si può chiedere come una visione così ampia e una ricerca di esperienze così diverse possano essere nate in un piccolo paese della provincia italiana. E forse la spiegazione viene leggendo alcuni messaggi che ci arrivano dalla vita dei genitori di Carlo Urbani, con la madre che ha affrontato da sola e in giovane età un cambiamento radicale e un padre che nel lavoro e dopo il lavoro ha sempre avuto il desiderio di cambiare esperienze. E forse la spiegazione è proprio nel fatto che questa provincia raccoglie ancora in questi casi le virtù nascoste, gli insegnamenti e gli esempi per pensare in grande e affrontae i sacrifici conseguenti.
È questa duplice eredità che ha permesso a Carlo di condividere tutta la sua vita con la moglie Giuliana e con i figli, che dovevano crescere rendendosi conto di tutti i problemi e di tutte le diversità. Carlo Urbani non era un cavaliere solitario. Sapeva che per affrontare la disperazione di una parte troppo grande del pianeta l’impegno dei singoli è necessario ma non basta. Per questo è stato presidente di Medici senza frontiere e poi dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ma avere avuto accanto a sé, nelle frontiere nascoste del mondo, la moglie e i figli, è stata forse per lui la consolazione e la gioia più grande.

Romano Prodi

Jenner Meletti




RICORDANDO CARLO URBANI (3): Il libero mercato non basta


La democrazia porta automaticamente alla giustizia e alla eliminazione della povertà? Perché i bisogni essenziali (cibo, salute, casa, lavoro, educazione) non sono soddisfatti per la maggioranza della popolazione mondiale?

di Sandro Calvani

Quarant’anni fa, il presidente americano J.F. Kennedy aveva già intravisto la relazione di dipendenza reciproca tra le realtà contrapposte del Nord e del Sud del mondo, tra i molti poveri e i pochi ricchi. Egli ebbe a dichiarare: «Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può nemmeno salvare i pochi che sono ricchi».
Quattro Decenni dello sviluppo delle Nazioni Unite, i cui obiettivi di giustizia globale sono sempre stati adottati all’unanimità dall’Assemblea generale, hanno tentato di avviare un cammino di restituzione Nord-Sud su quasi tutti i terreni della disuguaglianza.
Sono stati studiati, approvati e messi in pratica piani globali nel campo dell’educazione e cultura, della salute pubblica, dell’ambiente e risorse naturali, dell’alimentazione e agricoltura, dei commerci, dei diritti umani, del lavoro dignitoso e di molti altri settori ritenuti fondamentali per la giustizia e la libertà globali. Sono stati obiettivi condivisi dall’umanità intera, anche se con notevoli differenze di entusiasmo.
Una forte discriminante è la decisione di cosa va costruito prima, per esempio la democrazia o la giustizia, la sicurezza alimentare o il diritto al voto.
Nel suo recente libro di grande successo La Lexus e l’albero d’ulivo, Thomas Friedman, un brillante analista della globalizzazione, cita con approvazione alcuni dei principi di Karry Diamond, editorialista del Joual of Democracy. Diamond e Friedman osservano che ogni paese al mondo con un reddito pro capite superiore a 15mila euro l’anno è anche una democrazia (con la sola eccezione di Singapore, una città-stato dove però la democrazia si dice prossima). È certamente vero ed è un grande argomento citato da tutti coloro che vogliono accelerare la demolizione di tanti regimi non democratici più o meno dittatoriali o monopartitici.
Ma la sua osservazione ha due grossi limiti. Il primo è che non si dice che una gran parte di quei paesi sviluppati che beneficiano di una democrazia hanno avviato la loro industrializzazione e dunque anche la loro accelerazione nel progresso economico quando non erano ancora democratici.
Sei o sette secoli fa, quando le grandi epidemie scuotevano le società e le economie dell’Europa, furono gruppi di persone «illuminate» e «ispirate» a costruire prima i lazzaretti per isolare gli infetti e salvare le società ridotte numericamente del 30 o del 50%, poi costruirono gli acquedotti e le fognature in ogni città e in ogni paesino. Insegnarono l’igiene che era il primo passo della salute pubblica. I conventi e i monasteri avviarono l’alfabetizzazione dei bambini e crearono i primi collegi e le prime università. I nobili più illuminati protessero l’espansione dei commerci, la costruzione di strade, la promozione dell’arte e della cultura per il popolo.
Di democrazia, in tutte quelle prime fasi dello sviluppo, non c’era nemmeno l’ombra. Settecento anni fa, in Europa, e oggi in molte regioni povere del mondo, un padre e una madre, cui muore un figlio su due prima dei 5 anni di età, pensa prima di tutto a trovare il pane o il riso per domani; prima di pensare a lottare per la democrazia e la libertà.
La ricerca della sopravvivenza è così insita nel Dna umano che, quando essa è messa a rischio, ogni persona la cerca per sé e per i propri figli, anche per vie illegali o violente, se non c’è altro modo immediatamente a disposizione.
Non è dunque la democrazia che permette la comparsa del benessere e della giustizia, ma piuttosto è l’aver trovato risposte ai bisogni essenziali – cibo, salute, casa, lavoro, educazione – che crea un ambiente favorevole per la creazione di sistemi di stato moderno, democratico e rispettoso dei diritti umani.

Nel mondo contemporaneo, la difesa della democrazia e dei diritti umani non raramente è la causa di maggiore disperazione e deprivazione per i più poveri.
Dure forme di embargo vengono imposte a paesi governati da regimi autocratici e da dittature. Tra i più poveri, i bambini non vengono più vaccinati dall’Unicef o non ricevono più le zanzariere antimalaria dall’Oms, non ci sono più preservativi gratuiti o a bassissimo costo dell’Unfpa per difendersi dall’Aids, perché qualche parlamentare democratico in Europa o in America ha stabilito un «embargo totale» e sanzioni economiche contro i paesi fuorilegge.
In realtà, i dittatori di quei paesi non rinunciano certo all’acqua fresca San Pellegrino o Evian o al loro champagne preferito solo perché l’embargo vieta quei prodotti nei supermercati dei loro paesi. Un cargo militare va ogni mese a Dubai a fare gli acquisti.
Un paese del Sud-Est asiatico ha subito una storica condanna dell’Ilo (Inteational labour office), e addirittura è stata sospesa la sua partecipazione a quell’organo delle Nazioni Unite, perché il regime al potere tollerava il lavoro infantile e il lavoro forzato. L’embargo economico che ne è derivato ha causato il blocco degli acquisti di tessuti e generi di abbigliamento a basso costo prodotti da quel paese, prima esportati in Europa e America. I paesi vicini hanno bloccato anche il commercio e gli acquisti di prodotti alimentari da fabbriche oltre frontiera, dove le fattorie erano sospettate, a ragione, di impiegare ragazze sedicenni e quindicenni nella catena di produzione di maiali, galline, uova ecc. Tre mesi dopo l’inizio dell’embargo e delle sanzioni economiche, decine di grandi fabbriche e fattorie non hanno potuto sostituire lavoratori ragazzi con lavoratori adulti perché tutti gli ordini erano cancellati. Hanno potuto solo chiudere e licenziare tutti i lavoratori, sia i ragazzi che gli adulti.
Le ragazze sono finite dritte nei bordelli di frontiera dove si può affittare una bambina di 15 anni per una notte a 15 euro. Non pochi adulti, divenuti disoccupati, hanno chiesto alle loro figlie di dare una mano alla sopravvivenza della famiglia. Molte hanno capito come farlo solo arrivate a destinazione, quando i trafficanti di persone hanno imposto loro la prima notte di avviamento al lavoro.
Sono vittime della mancanza di democrazia, direbbero molti avvocati della dea libertà che tutto provvede. Sono in realtà più prosaicamente «vittime dell’ignoranza». Ignoranza dell’Occidente sulla complessità dello sviluppo, vittime degli embarghi, dei diritti umani difesi solo per principio ma non nei fatti. Lo dicono quei missionari che trovano in chiesa i bambini abbandonati – dopo gravidanze accidentali – dalle mamme bambine divenute prostitute per effetto dell’embargo causato da lavoro minorile.

L’altro grande limite del credere che la democrazia basti da sola a far nascere le condizioni che creano la giustizia (invece del contrario) è che – se anche fosse vero – i poveri, gli affamati, gli analfabeti, gli ammalati, i bambini abbandonati non lo possono sapere.
Gli emarginati della Terra, abbruttiti dalle miserie e dalla disperazione, non ascoltano Voice of America, non guardano la Cnn, non leggono i libri di Friedman, non aderiscono alle catene internet per chiedere libere elezioni.
I miei professori della John Kennedy School of Govement all’Università di Harvard erano brillanti e convincenti nell’insegnare che la libertà e la democrazia creano libero mercato che crea iniziativa, lavoro, occupazione e ricchezza.
Ma mi basta guardare negli occhi, in qualunque momento della giornata, i bambini più poveri di un campo di rifugiati di Mae Sot o in una grande pozzanghera della baraccopoli di Klong Thoey, al centro della ricca Bangkok, per capire che nella relazione di causa-effetto tra democrazia ed eliminazione della povertà ci sono più eccezioni che regole.
Harvard si è dimenticata che qui di diarrea si muore in sei giorni, di overdose di anfetamine per vincere la disperazione si muore in una sola notte, di una coltellata per un’usura non pagata si muore in dieci minuti. Troppo poco tempo per costruire la democrazia e la libertà. •

Sandro Calvani




Lavorare da morire


Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil)

Lavorare da morire

Per molti avere un lavoro è un miraggio. Per altri può divenire una fonte di pericolo: le cifre degli incidenti e delle malattie professionali sono impressionanti. Se poi la collettività non si fa carico (come suggeriscono i teorici del libero mercato) dei danni patiti, allora per il lavoratore e la sua famiglia la vita può diventare un autentico calvario.

Tre anni fa, Nolberto, il mio amico peruviano, ha avuto un incidente d’auto mentre lavorava. A Villa El Salvador, in Perù, una sera come tante, la sua vita è precipitata. Un pullman, guidato da un ubriaco, ha superato un’auto e, nonostante il tentativo di buttarsi fuori strada, l’ha preso in pieno.
L’auto sulla quale Nolberto viaggiava è andata distrutta: lui e due altri passeggeri sono stati portati in ospedale.
Dopo le prime cure, i medici hanno fatto la lista della spesa e l’hanno passata ai parenti. C’è bisogno di tante sacche di sangue, di tanti donatori, di chiodi per sistemare il femore, fili e aghi da sutura, medicine, esami di laboratorio, radiografie, il vitto, la riabilitazione e così via.
Per fortuna, Nolberto non è uno che si perde d’animo. Ha chiamato a raccolta gli amici; gli amici hanno chiamato altri amici e così si è formata la fila per donare il sangue, hanno raccolto i primi soldi per le cose più urgenti. Lui ha dovuto vendere lo scassato pullmino, che era non solo il suo orgoglio, ma anche e soprattutto lo strumento del suo lavoro, quello che gli permetteva di mantenere la moglie e i tre figli.
Nolberto è sopravvissuto. Gli hanno impiantato un chiodo dopo averlo messo in trazione, ma non aveva i soldi per l’operazione definitiva e la riabilitazione l’ha fatta da solo. Per questo è rimasto zoppo; comunque sia, dopo 6 mesi ne è uscito.
No, non era disperato. Mi ha semplicemente spiegato che, per sopravvivere in quei 6 mesi, si era «mangiato» tutto quello che per anni aveva investito nel pullmino, ma che per fortuna aveva salvato la casa. E poi ha ricominciato. Ha ricominciato da zero. Ha affittato un’auto ed ha iniziato a fare il taxista. Io ho la sua stessa età e non so se sarei in grado di ricominciare da zero.
Mi ha detto che è stato fortunato. Che lui aveva già informato i suoi figli che non avrebbe lasciato loro niente, perché la sua casa è una baracca e il suo lavoro è appeso a un filo che ogni tanto si può spezzare. Ha spiegato loro che la cosa importante era lo studio: questa era l’unica cosa che poteva lasciare loro insieme al suo cognome.

IL RAPPORTO OIL: UN BOLLETTINO DI GUERRA

Nolberto è solo una delle 270 milioni di persone che ogni anno nel mondo subiscono un infortunio sul lavoro e che si sommano ad altri 160 milioni di lavoratori che, sempre in un anno, contraggono una malattia professionale.
Si muore soprattutto di cancro (32% dei decessi, 640 mila morti all’anno), per malattie all’apparato circolatorio (23%), incidenti (19%) e per aver contratto malattie contagiose (17%). L’amianto, da solo, causa ogni anno 100 mila morti. Ogni anno, poi, muoiono 12 mila minori sul lavoro.
È il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) del 2003, che getta sulle nostre coscienze queste spaventose cifre. Ha avuto la sfortuna di essere pubblicato durante la guerra dell’Iraq ed è passato praticamente sotto silenzio.
Tra i settori più pericolosi spicca l’agricoltura, che occupa più della metà dei lavoratori nel mondo e conta più del 50% di incidenti e morti sul lavoro. La maggior parte delle vittime appartiene ai paesi in via di sviluppo, dove si concentrano le attività del settore primario: l’agricoltura, la pesca, l’estrazione mineraria e la silvicoltura. Ad ogni modo l’Oil rileva che, in generale, in tutto il mondo è carente l’informazione sulle precauzioni da adottare sul lavoro per evitare di contrarre malattie o di rimanere vittime di infortuni.
Secondo l’Oil circa l’80% degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza.
Definire il rapporto Oil un bollettino di guerra è riduttivo perché le vittime del lavoro sono più del doppio di quelle provocate dai conflitti, superano di molte lunghezze quelle causate dall’alcornol e dalla droga. Dei 250 milioni d’infortuni che si verificano ogni anno molti hanno conseguenze permanenti, menomazioni della salute, handicap, perdita del lavoro, povertà.
Alcune cifre: nel mondo, un morto ogni 15 secondi, 5.470 al giorno, 2 milioni all’anno; in Italia, 1.360 morti in un anno.
Il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del prodotto interno lordo del pianeta, supera di venti volte il totale degli aiuti ai paesi sottosviluppati. «Tutti gli incidenti sono prevedibili e prevenibili», afferma il rapporto dell’Oil che indica l’agricoltura, l’edilizia e le miniere come i settori più mortiferi, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti.
La media dei morti per infortuni sul lavoro è di 14 decessi per 100 mila lavoratori. Nei paesi ricchi (Nord America, Europa occidentale, Au-stralia, Giappone), il rapporto scende a 5,3; è 11 nei paesi ex socialisti, Cina e India; 13 in America Latina. Il tasso sale a 21 morti per 100 mila lavoratori in Africa subsahariana, 22,5 nel Medio Oriente e tocca il massimo – 23,1 – in Asia, dove, escludendo Cina, Giappone e India, nel ’98 si sono verificati 80.600 incidenti mortali.
Oltre a ciò, vanno aggiunte le vittime della violenza sul lavoro. Secondo stime della Confederazione internazionale dei sindacati (Icftu), nel 2001 sono stati uccisi o fatti scomparire 209 sindacalisti (+50% sul 2000), 8.500 sono stati arrestati, 3 mila sono stati feriti. Circa 20 mila lavoratori sono stati licenziati per la loro attività sindacale.
Il direttore dell’Infocus programme dell’Oil, Jukka Takala, dichiara: «Si riscontra un forte calo dei feriti gravi nei paesi industriali. Questo miglioramento è imputabile sia ai cambiamenti strutturali (diminuzione del numero di lavoratori impegnati nelle attività pericolose del settore agricolo, industriale, minerario e della costruzione) che alle misure concrete d’igiene e sicurezza sul lavoro».
Tanto per cambiare, nei paesi in via di sviluppo (Pvs) la tendenza è ancora meno favorevole. La migrazione delle popolazioni verso le città, l’apparizione di nuove industrie, il ricorso a lavoratori inesperti nel settore industriale imposto dalla globalizzazione, il crescente fabbisogno di nuovi alloggi, l’intensificarsi del traffico stradale, la meccanizzazione dell’agricoltura sono altrettante cause dell’aumento del tasso di malattie e incidenti nei Pvs. Solo nell’Africa subsahariana, si stimano ogni anno 125 mila decessi riconducibili all’attività lavorativa.
Non dimentichiamo che l’indennizzo per le malattie e incidenti legati al lavoro è praticamente inesistente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Soltanto 23 stati hanno ratificato la Convenzione n° 121 sugli indennizzi e riconoscimenti in caso di incidenti sul lavoro o di malattie professionali, adottata nel 1964 e dove sono elencate le malattie che devono essere oggetto di risarcimento.
Bisogna intraprendere, poi, azioni urgenti contro l’Aids. Le ultime valutazioni segnalano 23 milioni di lavoratori che soffrono di questa malattia, con 17,5 milioni in soli 43 paesi africani, tanto da generare una condizione di emergenza che non può essere ignorata.
Per l’Oil, infine, i sindacati non devono mai abbassare la guardia. Imprenditori e lavoratori potrebbero pensare che «capita soltanto agli altri». Non dimentichiamo che per ogni incidente mortale avvengono 1.200 incidenti meno seri, all’origine di una sospensione di lavoro per almeno tre giorni, 5 mila feriti necessitano di una cura e 70 mila incidenti lievi. Per evitare un incidente mortale occorre quindi agire sull’insieme degli altri elementi che sono spesso all’origine di un decesso sul lavoro.
E poi ci sono i bambini, i minori.

ILLEGALE, MA DIFFUSO

Oggi nel mondo un bambino su sei è vittima del lavoro minorile ed è sottoposto a lavori nocivi per la sua salute mentale e fisica o per il suo sviluppo emozionale.
Questi bambini lavorano in vari settori dell’industria in diverse parti del mondo, soprattutto nell’agricoltura dove sono esposti a prodotti chimici e a macchinari pericolosi. Altri bambini lavorano per strada come venditori ambulanti o come fattorini; altri ancora sono lavoratori domestici, operai o sono costretti a prostituirsi. A nessuno di loro vengono offerte reali possibilità di vivere una infanzia normale, di ricevere una vera educazione o di aspirare a delle condizioni di vita migliori.
Dal lavoro di questi bambini dipende la loro sopravvivenza nonché quella delle loro famiglie. Anche se è stato dichiarato illegale, il lavoro minorile persiste tuttora, avvolto spesso da un muro di silenzio, di indifferenza e di apatia.
Inizia tuttavia a sgretolarsi il muro del silenzio. Se l’eliminazione totale del lavoro minorile rimane un obiettivo di lungo periodo per numerosi paesi, alcune forme di esso vanno però fronteggiate senza indugio. Poco meno di 3/4 dei bambini che lavorano operano in attività universalmente riconosciute come forme peggiori di lavoro minorile: traffico di esseri umani, conflitti armati, schiavitù, sfruttamento sessuale, lavori pericolosi. L’abolizione effettiva del lavoro minorile costituisce una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

LÀ DOVE TUTTO È UN LUSSO

Quando per un periodo ho lavorato nella zona industriale di Villa El Salvador per impiantare le basi di un programma di medicina del lavoro, i piccoli impresari e artigiani mi dicevano che loro prima di tutto volevano lavorare e che la sicurezza era un lusso.
È proprio così: i maggiori disastri ambientali, le più grandi tragedie del trasporto, i più tremendi incendi nei luoghi pubblici, gli effetti più disastrosi dei fenomeni naturali (terremoti, uragani, inondazioni, ecc.), avvengono nei paesi in via di sviluppo. In quei paesi la prevenzione è un lusso, l’attenzione all’ambiente un altro lusso; è lusso anche avere un lavoro fisso, magari di 12 ore al giorno, senza protezione sociale, senza regole, senza controlli, senza sicurezza.
In quei paesi, al contrario del nostro immaginario collettivo, si lavora tanto, ma proprio tanto: lavorano tanto gli uomini, lavorano tanto le donne, lavorano tanto i bambini. In quei paesi si lavora tanto da morire.

Organizzazione internazionale del lavoro (Oil):
numero di morti per 100.000 lavoratori

America del Nord, Europa Occidentale, Australia, Giappone 5,3
Paesi ex socialisti, Cina e India 11,0
America Latina 13,0
Africa Sub-sahariana 21,0
Medio Oriente 22,5
Asia (escluso India, Cina e Giappone) 23,1Media mondiale 14,0

DATI STATISTICI SUL LAVORO MINORILE

• 246 milioni di bambini sono costretti a lavorare.
• 73 milioni dei quali hanno meno di 10 anni.
• Nessun paese ne è immune: si stimano in 2,5 milioni i bambini che lavorano nei paesi sviluppati e in 2,5 milioni quelli che lavorano nei paesi in transizione, come gli stati dell’ex Unione Sovietica.
• Muoiono ogni anno 12 mila bambini a causa di incidenti sul lavoro.
• La maggior parte (circa 127 milioni) dei bambini di età inferiore ai 14 anni costretti a lavorare, vive nella regione dell’Asia e del Pacifico.
• La proporzione più alta di bambini costretti a lavorare si osserva nell’Africa subsahariana: quasi un terzo (48 milioni) di bambini di età inferiore ai 14 anni.
• Nel mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano sono impiegati nel settore informale, dove non sono tutelati da alcuna protezione legale o regolamentare:
• il 70% è attivo nell’agricoltura, caccia e pesca industriali o industria del legno;
• l’8% lavora nelle industrie manifatturiere;
• l’8% è attivo nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione e settore alberghiero;
• il 7% lavora nei servizi comunitari, sociali e personali, come i lavori domestici;
• 8,4 milioni di bambini sono nella trappola della schiavitù, traffico di esseri umani, asservimento dei figli per ripagare i debiti, prostituzione, pornografia o altre attività illecite;
• tra questi ultimi, sono 1,2 milioni i bambini vittime del traffico di esseri umani.
Guido Sattin



Un laboratorio per la vita


Incontro con la dottoressa Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione De Caeri.

«Ci sono uomini che vanno ricordati. Non per nulla, quando mancano, nasce qualcosa di nuovo». Alessandra Carozzi De Caeri ha idee precise quando parla del marito e della Fondazione Ivo De Caeri, nata in sua memoria un anno dopo la scomparsa.
«Mio marito era un parassitologo esperto in malattie tropicali e infettive. Collaborava con l’Organizzazione mondiale della sanità, soprattutto nell’ambito dei piani di controllo delle parassitosi nei bambini in America Latina e in Africa». Per continuae l’opera con lo stesso entusiasmo, nel 1994 la famiglia ha fatto nascere la Fondazione in sua memoria, insieme con numerosi colleghi, perché «La parassitologia è una branca medica che porta a creare contatti. Non è una specializzazione da studio privato, bensì una medicina aperta al territorio e ai problemi sociali».
Sono passati 10 anni da allora, ma gli obiettivi non sono cambiati, e la calma e la determinazione nella voce di Alessandra De Caeri, presidente della Fondazione, laureata in medicina e biologia, sono espressione della volontà di proseguire lungo una strada che ha già portato diversi risultati. «La nostra missione è cornoperare e collaborare con i paesi in via di sviluppo seguendo i piani sanitari o le strategie del luogo. Un secondo obiettivo è legato alla formazione a sostegno della ricerca, con pubblicazioni scientifiche, corsi aperti a tutti gli operatori sanitari, italiani e stranieri, premi e borse di studio». Si colloca in quest’ambito, per esempio, l’impegno della Fondazione a mantenere aggiornato il testo di parassitologia generale e umana di Ivo De Caeri, strumento di contatto con i giovani universitari su una materia spesso trascurata. «Un compito della Fondazione è anche quello di cercare di far conoscere e capire l’importanza e la gravità di queste malattie nel mondo. Sono causa di milioni di morti ogni anno e questo le rende pari a un’altra guerra dimenticata, perché non ci si dedica tempo né soldi», afferma decisa Alessandra De Caeri.
I due filoni seguiti dalla Fondazione, didattico-formativo e pratico, trovano un punto di collegamento nell’adesione al «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani», bandito da Missioni Consolata: ai vincitori verrà offerta la possibilità di uno stage di un mese nel Laboratorio di sanità pubblica «Ivo De Caeri» dell’isola di Pemba (Zanzibar), costruito dalla Fondazione. Ricorda il suo presidente: «Carlo Urbani aveva conosciuto mio marito a un corso organizzato dall’Istituto superiore di sanità in cui Ivo era docente. Carlo gli aveva chiesto qualche indirizzo per dedicarsi ancor di più alla parassitologia presso l’Organizzazione mondiale della sanità. In seguito ha fatto parte della Fondazione per due anni».

Pemba è un’isola che, con Zanzibar e altre minori, appartiene al governo autonomo di Zanzibar, che fa parte della repubblica unita di Tanzania.
Toa indietro con la memoria Alessandra De Caeri. «L’idea del laboratorio era già partita con mio marito, che sull’isola era stato diverse volte per corsi di formazione e come inviato dal ministero degli affari esteri per una revisione delle condizioni sanitarie. C’era la possibilità di avviare un centro unico che cornordinasse i piani sanitari e che facesse parte del sistema sanitario locale». Pemba era sia una zona colpita dalle malattie parassitarie sia un luogo dove c’erano già buoni contatti con le strutture locali, base fondamentale per far partire una collaborazione valida a lungo termine. «La costruzione del centro è terminata nel 1999 e nel 2000 sono iniziate le attività. È un’entità autonoma ha come branche principali la microbiologia, la parassitologia e la virologia. Ci sono poi gli uffici amministrativi e la sezione per la didattica. Entro quest’anno poi dovrebbe essere completato un ampliamento che prevede una piccola mensa, una sezione per la raccolta e l’analisi dei dati e un magazzino per i farmaci».
Il laboratorio svolge un ruolo di controllo di alcune malattie sul territorio: distribuzione dei farmaci e sorveglianza della loro attività e della comparsa di resistenze. Una seconda attività riguarda la formazione del personale, non solo della struttura e di Zanzibar, ma esteso anche a realtà a Sud del Sahara. Un ulteriore ambito d’azione comprende la ricerca scientifica rivolta alla malnutrizione (soprattutto infantile), all’Aids e alle malattie infettive in generale.

Valeria Confalonieri



ITALIA – Omar la piccola sentinella padana

 Un bimbo di 10 mesi morto di polmonite. È una storia del «Quarto mondo», quel mondo dell’esclusione
nato accanto alle nostre case.

Seguendo le acque del Po, che dalle sue sorgenti man mano scende formando la pianura Padana, laggiù sul versante sinistro e fino alle Alpi si estende il Nord-est. Chi lo conosce, sa bene che l’Adige, il Brenta, il Sile e il Piave, il Livenza e poi il Lemene fino ad arrivare al Tagliamento, attraversano queste terre fertili, dove crescono la barbabietola da zucchero, il mais, la soia ed oggi enormi vigneti, un numero infinito di case e casette, innumerevoli paesi e paesini, distese di capannoni industriali e insediamenti turistici. Una regione percorsa da strade (mai all’altezza del traffico che sopportano) e solcata da un’autostrada che collega l’Est europeo con l’Italia, la Francia e la Spagna e che ogni giorno si intasa di auto e camion.
Terra di piccola industria e grande turismo, di emigrazione e immigrazione, di povertà trasformata in ricchezza, di ricchezza ostentata e nascosta, di cultura e provincialismo, di dialetti ed eventi inteazionali, di solidarietà e abbandono, di generosità, ma anche di razzismo.

Terra di antica fame e di altrettanto antica malaria, pellagra e tubercolosi, di antico latifondismo, di cultura contadina, terra di vita e di morte come ogni terra. Terra di città senza piazze, ma costellata di villette, di paesi antichi circondati da periferie unite da strade provinciali, di ville storiche e nobiliari nascoste da obsoleti petrolchimici o trasformate in hotel, ristoranti e centri congressi. Terra di mia madre e mio padre, oggi terra anche mia.

UNA MORTE EVITABILE

Al nord-est del Nord-est, fra il Piave ed il Livenza, a pochi chilometri dalle spiagge di Jesolo, Caorle e Bibione, frequentate da austriaci, tedeschi, ungheresi e polacchi, a pochi passi dall’autostrada e dai capannoni industriali che sorgono uno dopo l’altro lungo la statale triestina, è vissuto poco ed è seppellito Omar, la «piccola sentinella padana».

Nei primi giorni di agosto, quando il caldo imperversava su tutta Europa e mieteva le sue vecchie vittime nelle grandi città, moriva Omar. Avrebbe compiuto 10 mesi di lì a pochi giorni; era figlio di una madre giovane, ma già con esperienza; viveva con i genitori, il fratello, i cugini, gli zii, i nonni, in una grande famiglia immigrata nel nostro paese da tanti anni.
Omar aveva il suo pediatra di base, la sua tessera sanitaria, il sistema che era pronto a proteggerlo ed a farlo crescere sano e robusto come tutti i bambini hanno diritto di fare. Invece, Omar è morto. A nemmeno 10 mesi, è morto di polmonite.

No, non dico niente, non posso dire niente. Lo specialista di pronto soccorso, il rianimatore, il pediatra e gli infermieri che lo hanno soccorso non potevano fare più niente. Era già morto.

Omar è morto, come si muore nel (mio) Perù, come si muore in Africa e in molti paesi dell’Asia. Come si muore nel Terzo mondo. Come un bambino, in Europa, non dovrebbe mai morire (perché mai è accettabile la morte di un bambino in un paese e non in un altro?).
Omar è morto, semplicemente perché non è stato in grado, lui, i suoi genitori, i suoi zii, i suoi nonni di utilizzare il sistema socio-sanitario di cui faceva parte con tutti i diritti. Omar è morto perché il sistema sanitario che hanno costruito i nostri padri con lotte di tanti anni, che finanziamo con il lavoro di noi tutti, che curiamo con tanta professionalità ed abnegazione (anche in mezzo a mille quotidiane polemiche), che difendiamo da volontà di risparmio e di privatizzazione… non si è reso conto di lui e della sua particolare debolezza.

Omar è morto come sono morti le migliaia di anziani in tutta Europa: per l’abbandono e l’indifferenza.
Era una morte evitabile e, come tale, ancor più per un piccolo bambino, è da considerarsi nell’epidemiologia (la scienza che studia cause e diffusione delle malattie nella comunità), come un «evento sentinella» di qualche cosa che non ha funzionato a dovere. Omar è diventato la «piccola sentinella padana».

IL «QUARTO MONDO»

Esiste oramai il «Quarto mondo», ovvero il mondo dell’esclusione all’interno del Primo mondo. In altri termini, il Terzo mondo che si è spostato nel Primo, con le persone che vi vivono come fossero nel Terzo, ma senza quella solidarietà che, spontaneamente, sorge tra pari e che, viceversa, sparisce quando tra pari non si è più.

È il mondo che non vediamo o che non vogliamo vedere, quello non più clandestino, ma ancora non integrato, che ha paura di chiedere aiuto e di utilizzare i meccanismi socio-sanitari che per noi sono un diritto scontato e preteso.

Non è un problema economico (la sanità è pressoché gratuita per bambini ed anziani), non è un problema di razzismo (i diritti sono pari a quelli di noi che siamo vissuti e cresciuti in queste terre), non è un problema di povertà (nella famiglia lavoravano in molti), è piuttosto un problema sociale e culturale.

Sociale perché, pur in mezzo a noi, non vivono con noi ma solo al nostro fianco ed in silenzio, come ombre a volte fastidiose e sfuggenti. Culturale perché hanno un timore per la nostra società, per i nostri servizi che noi usiamo quasi senza neanche accorgerci, per i nostri diritti che non sempre conoscono e per i nostri doveri che abbiamo imparato fin da bambini.

E, in questo Quarto mondo, piombano venendo da paesi lontani o vicini, scossi da guerre e catastrofi, da povertà e sofferenza e vanno ad aggiungersi al Quarto mondo nostrano, fatto di anziani abbandonati, di gente caduta per malattie fisiche e mentali, violenze, droga o alcornol. Un Quarto mondo senza frontiere, che vive al nostro fianco e che non vediamo, appena scalfito dal volontariato, ma irrecuperabile in una società che esclude chi non produce, chi è inutile, chi è di peso o chi è diverso (non per scelta, ma costretto da mille storie diverse).

Forse è per questo che il tasso di mortalità infantile in Italia e in Europa è sceso fino a livelli più bassi che negli Stati Uniti; loro sono «più avanti» di noi ed hanno oramai un Quarto mondo di grandi dimensioni, che convive con la loro opulenza.

È un Quarto mondo dove alcuni nascono, vivono e muoiono; altri vi piombano; altri ancora, più fortunati, riescono ad uscie. Un Quarto mondo che non solo è fatto di vittime, ma che è anche generatore di violenza e soprusi. Nasconderlo è inutile, trasformarlo difficile.
Che la «piccola sentinella padana» ci aiuti a riflettere.

Guido Sattin