Dossier droghe


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Glossario essenziale

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Dipendenza – Tossicomania – Craving

La dipendenza è considerata dall’OMS una malattia cronica ad andamento recidivante, che riconosce come eziopatogenetici fattori biologici, sociali e psicologici. Più corretto è parlare di addiction cioè di tossicomania: «condizione psichica caratterizzata da un comportamento sostenuto da una forte spinta (craving) intensa, sintonica e ricorrente verso la consumazione di un oggetto o di un atto, senza la capacità di limitare il comportamento anche in presenza di condizioni che producono conseguenze negative sul grado di accettazione e soddisfazione individuale» (Maremmani, Pacini – manuale trattamento ambulatoriale con metadone). Da un punto di vista neurobiologico la tossicodipendenza da eroina è un disordine del comportamento appreso e indotto dall’uso cronico delle sostanze alla cui base sono presenti precise alterazioni del sistema della motivazione e della gratificazione. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza è caratterizzata da: perdita di controllo sull’uso; ricerca compulsiva della sostanza indotta dal craving (desiderio intenso, ossessivo e urgente per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto o comportamento gratificante), uso delle sostanze nonostante le conseguenze negative.

Disforia

Alterazione dell’umore in senso depressivo, ma associata ad agitazione e irritabilità, sensazioni di frustrazione, fino a manifestazioni di aggressività sia fisica che verbale.

Free base

Sostanza ottenuta trattando il cloridrato con etere ed ammoniaca, che evapora sotto il calore generato da un apposito cannello (base pipe), permettendone la inalazione. Viene da molti considerato come una versione «europea» del crack e come quest’ultimo agisce rapidamente, con alto rischio di intossicazione acuta. La stessa letteratura scientifica è spesso ambigua nella classificazione e differenziazione di queste due forme di cocaina. In realtà entrambe queste forme hanno le stesse caratteristiche chimiche, essendo entrambe forme alcaloidi, e come tali fumabili, della cocaina, ma si usano con tecniche differenti. La cocaina freebase si ottiene dissolvendo, a caldo, la cocaina cloridrato nell’acqua e quindi aggiungendo una sostanza basica come l’ammoniaca. A tale soluzione viene aggiunto l’etere, solvente organico che ne permette l’estrazione per vaporizzazione. Tale sistema permette la rimozione di tutte le sostanze adulteranti solubili in acqua, dalla quale viene separato l’estratto in forma di piccoli cristalli, che sono pertanto più «puri» in quanto privi o contenenti minime quantità di sostanze da taglio. A causa della possibile permanenza di etere, però, i fumatori di cocaina sono ad alto rischio di ustioni, in quanto l’etere può causare esplosioni a contatto con la fiamma.

Merla – Oxi

Nel Nord America un’altra tipologia di cocaina fumata è la cosiddetta «Merla», un preparato fangoso derivato della cocaina contenente un’alta percentuale di solventi, in particolare acidi ottenuto da batterie per auto, a volte in combinazione con diversi solventi organici. Anch’esso riconosce il Brasile come terra originaria di provenienza.

Più recentemente un altro analogo del crack è circolante in Brasile, l’«oxi», una denominazione, che sta per oxidation e coniata dagli stessi consumatori di droga dello stato di Acre (situato nella parte nord-ovest della foresta pluviale amazzonica), da dove tale droga si sta diffondendo raggiungendo le principali città del Brasile, come Manaus e Brasilia, e negli scorsi anni, anche gli stati dell’America del nord. È fatta di avanzi di pasta di cocaina cucinati con quantità variabili di benzina o kerosene e calce (la diversa proporzione tra tali sostanze determina il colore della oxy, variabile dal viola al giallo al bianco). L’oxy, può essere fatta rientrare nel gruppo di quelle sostanze psicostimolanti diffusesi nel periodo della crisi e accomunate dai bassi costi e dalla facilità di produzione, così da poter essere sintetizzate in casa, dando una soluzione all’impossibilità di poter accedere alle sostanze del mercato della droga per mancanza di risorse monetarie. Tutto ciò a prezzo di danni fisici conseguenti all’uso, nella fase di preparazione, di additivi di scarsa qualità e spesso tossici.

Piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di Maslow è una scala gerarchica dei bisogni, su cui si basa il modello motivazionale proposto nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow. Essa prevede la disposizione dei bisogni, dalla base al vertice della piramide, partendo da quelli primari (bisogni essenziali alla sopravvivenza), fino a quelli, salendo, più immateriali: la soddisfazione dei primi permette la elaborazione ed emersione di quelli superiori, più complessi. Sinteticamente le 5 classi di bisogni individuati da Maslow sono: i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno); di salvezza (protezione e sicurezza); di appartenenza (essere amato e amare, far parte di un gruppo, partecipare, ecc.); di stima (essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.); di autorealizzazione (realizzare la propria identità, occupare un ruolo sociale, ecc.).

Psicostimolanti

Sono le sostanze in grado di esplicare un’azione eccitante. Il più noto psicostimolante è la caffeina, la droga di uso più comune, che si trova in eguale quantità in the e caffè (circa 100-150 mg per tazza), nonché nel cacao e nelle bevande alla cola (circa 50 mg per tazza). Anche se si tratta senz’altro della sostanza psicostimolante più blanda, una overdose di caffeina può causare sovrastimolazione, tachicardia e insonnia. Tra gli altri psicostimolanti vi sono oltre la cocaina, la nicotina, gli antideoressivi e le anfetamine, quest’ultime causa di sensazioni di euforia particolarmente intense.

Sostanze psicotrope

Per sostanza ad azione psicotropa (o farmaco psicotropo o psicotropo) si intende un qualsiasi medicamento o principio attivo in grado di agire sulle funzioni psichiche e sul SNC, si da modificarle. Gli effetti psicotropi si riferiscono a tali modificazioni che possono essere di tipologia differente: depressiva (psicolettica), eccitatoria (psicoanalettica) e di alterazione (psicodislettica).

Ser.T

Acronimo di «Servizi per le Tossicodipendenze», che sono servizi pubblici ad accesso gratuito e diretto: non è richiesto il pagamento di ticket, né la richiesta del medico di base. In molte regioni le aziende sanitarie hanno mutato tale sigla in Ser.D. ad indicare, più correttamente, un servizio deputato alla cura delle Dipendenze Patologiche sia quelle derivanti dal consumo di una sostanza (tossicodipendenze) sia quelle cosiddette comportamentali o «senza» sostanza (gioco patologico, shopping compulsivo, web addiction, ecc.).

Servizi a bassa soglia

Nel campo delle tossicodipendenze si parla di bassa soglia qualora ci si riferisca a quei servizi che sono facilmente accessibili agli utenti e, come tali, anche in grado di raggiungere la potenziale utenza costituente il cosiddetto sommerso (persone che potrebbero aver bisogno di cure, ma non riescono a raggiungere i servizi stessi), andando loro incontro (lavoro di outreach, fuori dalle strutture). Per essere a bassa soglia di accesso, un servizio deve richiedere pochi ed essenziali requisiti alla persona, accogliendo questa nella sua condizione socio-sanitaria attuale. Per le dipendenze ciò si traduce in assenza di vincoli burocratici (accesso anche a persone senza una residenza anagrafica o stranieri non regolari) e di richiesta di disintossicazione o di trattamento volto all’interruzione del consumo.

Disturbo da uso

Nel DSM 5 l’uso patologico di sostanze psicoattive viene incluso nella categoria dei Disturbi Correlati a Sostanze, comprendenti sia i disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcornol), sia i Disturbi da Uso di Sostanze, che raggruppa in un’unica categoria sia la dipendenza che l’abuso.

Recidiva

Come da dizionario: «Ricomparsa dei sintomi di una malattia in un paziente che ne era stato colpito in precedenza e che ne era guarito». Nel caso dei disturbi da uso, la recidiva si riferisce alla ripresa delle condotte consumatorie e alla riattivazione del craving.

Anedonia

Come da dizionario medico; «incapacità di provare piacere», quadro psico-emotivo spesso associato alla depressione.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Rapporti e relazioni

  • European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction (Emcdda) – Europol, EU?Drug Markets Report. In-depth Analysis, Lisbona 2016; http://www.emcdda.europa.eu
  • United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), World Drug Report 2016, Vienna 2016; http://www.unodc.org
  • Global Commission on Drugs, Guerra alla droga – Rapporto, Ginevra 2011; http://www.globalcommissionondrugs.org
  • Goveo italiano-Dipartimento politiche antidroga-Presidenza del Consiglio dei ministri, Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, Roma 2015; http://www.politicheantidroga.gov.it

Testi in inglese

Bastos FI, Bertoni N. Mendes A, et al. Smoked Crack cocaine in contemporary Brazil: the emergence and spread of Oxy. Letters To Editor. Addiction, 2011;106, 1190–1193.

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EMCDDA. Cocaine and ‘base/crack’ cocaine 2001, selected issue. Annual report on the state of the drugs problem in the European Union, 2001.

Galera SAF. Coping with crack consumption. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2013;21(6):1193-4.

Guedes da Silva FJ Jr and Ferreira de Souza Monteiro C. The meanings of death and dying: the perspective of crack users. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2012;20(2):378-83.

Krawczyk N, Veloso Filho CL and Bastos FI. The interplay between drug-use behaviors, settings, and access to care: a qualitative study exploring attitudes and experiences of crack cocaine users in Rio de Janeiro and São Paulo, Brazil. Harm Reduction Joual, 2015;12:24.

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Articoli in italiano

EMCDDA. Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga nell’Unione europea, 2001.

EMCDDA. Relazione europea sulla droga. Tendenze e sviluppi, 2016

Zuffa G. Cocaina, il consumo controllato. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2010.

Zuffa G, Voller F, et al. Indagine sull’uso di sostanze legali e non nel mondo giovanile: i modelli, i contesti e le traiettorie dei consumi. ARS edizioni, 2012.

Libri in italiano

AA.VV., Cocaina. Consumo, psicopatologia, trattamento, Edz, Cortina Editori, 2009.

Aao G. Cocaina e crack. Usi, abusi e costumi, Edz. Feltrinelli, 1993.

Carlotto M, Carofiglio G, De Cataldo G., Cocaina, Edz. Einaudi, 2012.

Gessa GL., Cocaina, Edz Rubbettino, 2008.

Samorini G., Animali che si drogano, Edz. Shake, 2013.

Taussing M., Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, Edz. Mondadori Bruno, 2007.




La Tbc “malattia dei poveri”

“Hola Guido, mi dispiace disturbarti.
Però, come ti avrà già informato Michel, i miei genitori sono morti di tubercolosi nel
giro di neanche due anni.

Dopo la morte di mio padre, ho chiesto ai miei fratelli di farsi un controllo medico,
affinché fossero sicuri di non essee colpiti. Da quello che so (mi scrivono poco e
quello che mi scrivono mi genera solo dubbi), ora anche Juan si è ammalato di
tubercolosi.

Ho scritto a mia sorella Maria, che vada a casa tua e ti chieda un consiglio medico.
Allo stesso tempo, dovresti dirle quali misure igieniche deve osservare in casa.

Vorrei sapere direttamente da te quello di cui hanno bisogno: controlli medici,
medicine… Se puoi, chiamami dopo la visita a Maria, per dirmi quello che è
necessario”.

Questo è il messaggio inviatomi per posta elettronica da Raul, un ragazzo di Villa El
Salvador (Perú), emigrato in uno dei nostri paesi europei dove si è sposato, lavora, ha
una figlia e una bella casa.

Tempo fa sono stato suo ospite. Ho visto la sua vita normale come quella di ciascuno di
noi, ho sentito i suoi problemi simili a quelli di ciascuno di noi, ma al tempo stesso ho
percepito un fondo di tristezza per la lontananza dal suo paese e per la tragedia che
incombeva sulla sua famiglia e di cui si rendeva conto solo ora che la guardava da
lontano.

Raul era tornato in Perù per il funerale di sua madre e poi non era riuscito a
rientrare per quello di suo padre.

Ricevuto il suo messaggio in Perù, dove mi trovavo per la mia consueta visita, andai
dall’amico Michel Azcueta. Professore di Raul in Villa El Salvador, ex-sindaco della
città, leader politico e grande conoscitore della realtà sociale e politica del Perù,
nonché personaggio di fama internazionale, Michel mi disse che, all’epoca dei
funerali della madre, aveva parlato lungamente con Raul ed era rimasto molto colpito dallo
shock di questi al tornare a Villa dopo anni.

Raul era tornato in Perù dopo 5 anni di Europa e, scontrandosi con la dura realtà
della sua famiglia e della città, ne era rimasto sconvolto. Continuava a ripetere
piangendo che non era possibile vivere e morire così. Raul aveva potuto confrontare i due
mondi e, da ragazzo (ora poco più che trentenne) sensibile e preparato, non aveva retto
il confronto tra le sue due vite.

Con la tubercolosi, malattia infida e legata alla povertà, ho lavorato molto. Dopo il
primo anno e mezzo di lavoro in Perù, tornato a Roma per una vacanza di alcuni giorni
(allora avevo solo 28 anni ed ero un medico alle prime armi), ero andato a trovare, in
cerca di consigli, il medico responsabile del programma di lotta alla tubercolosi
(ex-dispensario) di Roma.

Erano gli anni ’80. Trovai un vecchio medico che mi chiese, colpito dalla mia
visita, del lavoro che facevo, di quanti pazienti vedevo. Finito l’interrogatorio,
disse che non mi poteva dare alcun consiglio perché lui oramai aveva solo uno o due
pazienti tubercolotici al mese, mentre io ero l’esperto visto che ne vedevo uno o due
al giorno.

Il vecchio medico mi disse però un paio di cose importanti: “Guarda collega, la
tubercolosi non è stata sconfitta da noi medici, dalle medicine o dalla vaccinazione. La
tubercolosi in Italia e negli altri paesi europei è stata sconfitta dal miglioramento
dell’alimentazione, dal radicale cambiamento delle case (che ora hanno stanze grandi
con luce e ventilazione), dal maggior livello di educazione delle famiglie, da un ritmo di
lavoro meno stressante e con i giusti riposi. In una parola, è il progresso economico e
sociale, la ricchezza della società che hanno vinto la tubercolosi. Noi abbiamo solo
curato i pazienti”.

José Atencia è un medico che lavora in un Centro di salute (poco più che un
poliambulatorio) di Villa El Salvador. Il Centro appartiene al ministero della Sanità del
Perù e si chiama “Hospital Juan Pablo II”. Opera su un bacino di circa 100 mila
persone. Il dottor José Atencia è l’attuale cornordinatore del programma di lotta
alla tubercolosi.

Dottor Atencia, quanti pazienti sono entrati nel programma nel 2000?

“Circa 180 pazienti provenienti dal territorio di giurisdizione del nostro centro,
che conta 102.966 abitanti. Di questi 180 pazienti un 5/10 per cento è ricaduto”.

Per quali cause tanti pazienti ricadono?

“Fondamentalmente per problemi sociali ed economici. Sono persone che non sono
riuscite a reinserirsi nella società, senza un lavoro stabile e magari con altre persone
da mantenere. Sono persone, il cui apporto nutrizionale non è sufficiente. Ricadono
semplicemente perché continuano a vivere negli stessi luoghi dove endemicamente è
presente la TBC”.

Che caratteristiche hanno questi luoghi endemici?

“Non hanno i servizi di base, non hanno acqua, fognature. Un mese fa ho avuto un
caso tipico, un paziente di 25 anni.

Io gli ho domandato: “Tu stai prendendo regolarmente le medicine. Però il tuo
peso non cresce. Che sta succedendo? Perché non hai più cura di te?”. E lui mi ha
risposto: “Dottore, io prendo le medicine con regolarità. Però devo trovare lavoro
perché ho famiglia. A volte lo trovo per una settimana e la mia famiglia vive tranquilla
per quei giorni. Poi il lavoro finisce e devo cercarne un altro. Dottore, quando cerco
un’occupazione, la cerco dal mattino alla sera. Non me la sento di tornare a casa se
non ho tentato fino alle 10 di notte. Ma ci sono periodi che non trovo nulla. Per una,
due, tre settimane. Quando poi finalmente ci riesco, lavoro magari per un po’ e poi
si ricomincia””.

Come medico non è frustrante lavorare sapendo che, affinché i tuoi pazienti possano
guarire veramente, sarebbe necessario che si alimentassero, che riposassero, che …?

“Sì, è così. È frustrante non dare una soluzione integrale al problema dei
pazienti. La tubercolosi è fondamentalmente un problema dei paesi poveri o impoveriti. Ma
noi possiamo dare soltanto una risposta medica e le medicine. Mensilmente diamo anche un
appoggio nutrizionale con una cesta di viveri. So bene che è un palliativo, però non
possiamo risolvere i problemi economici e sociali dei pazienti. Certo, sapere che
potrebbero ricadere nella tubercolosi perché le condizioni che li hanno portati a questa
malattia permangono, è proprio frustrante”.

Dal punto di vista medico queste ricadute sono potenzialmente pericolose, anche perché
generano resistenza nei batteri. È così?

“Sì, è così. Noi abbiamo tre schemi di trattamento.

Il primo schema, che applichiamo a pazienti con BK positivo nello sputo, generalmente
porta ad una buona percentuale di guarigioni: tra il 90 e il 95%. Quando invece c’è
una ricaduta ed applichiamo il secondo schema di trattamento, le percentuali di guarigione
scendono al 70%. Il restante 30% va verso la cronicizzazione, perché in questi casi il
micobacterium, responsabile della TBC, comincia a sviluppare una certa resistenza agli
antibiotici. Ora, per esempio, abbiamo una decina di pazienti cronici, alcuni giovani,
altri adulti”.

Qual è il livello di mortalità in pazienti con tubercolosi?

“Nel Duemila, nel nostro ospedale, sono morti 4 pazienti. Dei 4 morti, 3
presentavano la TBC associata all’AIDS”.

Quanti pazienti con AIDS ci saranno nella vostra giurisdizione?

“Questo dato non lo conosce nessuno. Fino ad ora mi pare che nessuno si sia messo
a lavorare per conoscere questa realtà. Per quello che so io, qui c’è un’alta
percentuale di pazienti con AIDS. È una zona catalogata a rischio, con una delle più
alte percentuali di Lima e forse del Perù”.

Ci sono farmaci nuovi nella cura della TBC?

“No, non ci sono nuovi farmaci. Personalmente ritengo che la tubercolosi sia ormai
considerata come una malattia non “commerciale” dai laboratori di ricerca delle
multinazionali farmaceutiche. Mi pare che i grandi laboratori non siano interessati alla
sua cura. Essendo una malattia dei paesi poveri, probabilmente non dà guadagni
interessanti. Questa è la mia opinione”.

E la prevenzione? Cosa fate o cosa si dovrebbe fare?

“Sarebbe necessario fare diagnosi precoci e far conoscere a tutti che un paziente,
che tossisce per 15 giorni consecutivi e che sta espettorando, è un paziente che può
essere ammalato di TBC e che deve rapidamente correre ad un Centro di salute.

La prevenzione è più difficile. La tubercolosi è strettamente relazionata con il
livello di nutrizione della popolazione. Avere una popolazione ben nutrita, sarebbe
sufficiente per evitare la “strage” che vediamo attualmente. Bisognerebbe poi
evitare la promiscuità nelle case, che altro non è se non un aspetto della povertà.
Occorrerebbe che le persone avessero la possibilità di accedere ai servizi basici e di
mantenere la propria famiglia. Adesso devono distribuire la propria povertà con i
numerosi figli. Questa sarebbe la vera prevenzione nei confronti della tubercolosi”.

Un medico in prima linea come te, è soddisfatto delle sue condizioni di lavoro?

“Sono un medico contrattato e quindi senza stabilità lavorativa. I medici
dovrebbero essere maggiormente appoggiati, siano essi contrattati o di ruolo.

Noi lavoriamo, come nel mio caso, in condizioni difficili e con la possibilità di
essere contagiati. Non abbiamo le precauzioni minime per evitare il contagio. Come vedi
devo lavorare in questa stanza piccola e poco ventilata. Inoltre, visto che guadagnamo
poco, dobbiamo fare due o tre lavori allo stesso tempo e questo logora”.

Quanto guadagna un medico?

“Io guadagno 1.300 soles al mese (circa 750.000 lire) ed un medico di ruolo 1.800
soles (circa un milione). Lavoro qui 36 ore alla settimana ed altrettanto in un altro
posto”.

Sei assicurato?

“No, non sono assicurato, non siamo assicurati. Posso contagiarmi con la TBC e non
sono assicurato. Posso ammalarmi, come è già successo a due miei colleghi, e non sono
assicurato”.

Michel Azcueta, parlandomi di Raul e della tubercolosi, mi aveva detto: “Cosa vuoi
che faccia? Non sai quante persone bussano alla mia porta. Quello di Raul è solo un caso
come tanti altri. Solo nel mio isolato, non sai quante famiglie hanno smesso di pagare
luce ed acqua. L’energia elettrica la prendono abusivamente dai pali
dell’illuminazione pubblica; il telefono è diventato un soprammobile”.

Ricordo che rimasi perplesso davanti a una risposta così fredda e pessimista. Ma è
così. È la stessa storia che si ripete: io non potevo aiutare Raul e gli ho indicato il
dr. José Atencia che farà quello che potrà fare.

L’unica cosa che potevo fare ancora, era scrivere per parlare ai lettori di questa
malattia e delle condizioni che la favoriscono. Ma servirà? Tutto è tanto conosciuto,
tanto normale, tanto quotidiano (e indifferente ai più) ed ora, dalla mia casa di
Venezia, anche tanto lontano…

Guido Sattin




Interrogarsi sull’aiuto

L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg), nel suo 3° rapporto, presenta lo stato del mondo letto attraverso uno dei diritti umani più basilari: la salute. Speciale attenzione è riservata agli aiuti umanitari, che alleviano i danni senza rimuovee le cause, e agli aiuti inteazionali, che spesso finiscono in tasche sbagliate o servono a fini diversi.

C ooperazione internazionale, diritto alla salute, salute globale, aiuti allo sviluppo, sistemi sanitari, quadro delle malattie, strategie, analisi critiche, possibili strade. Sono alcuni degli argomenti e degli spunti di riflessione che trovano spazio nelle oltre 350 pagine del 3° Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (Salute globale e aiuti allo sviluppo. Diritti, ideologie, inganni, Edizioni ETS, Pisa 2008).
«L’aiuto allo sviluppo in campo sanitario dovrebbe intervenire per fare fronte alle impressionanti diseguaglianze “globali” nella salute», si legge nelle prime righe della prefazione al volume. Diseguaglianze cui era stato dedicato il secondo Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale e che trovano nuovamente spazio in questo terzo libro, dando un significato, rappresentando un obiettivo (la loro eliminazione) e impregnando i diversi aspetti dell’aiuto allo sviluppo e della situazione sanitaria mondiale, questa volta protagonisti del volume.

Lo sguardo alla storia
per capire
L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg, http://www.saluteglobale.it) è una rete di operatori e ricercatori che promuove il diritto alla salute a livello globale e fornisce strumenti di analisi e valutazione, quali, per esempio, i rapporti pubblicati periodicamente. Già nella prefazione al terzo Rapporto, a firma di Gavino Maciocco (Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze) e Adriano Cattaneo (Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo, Trieste), vengono toccati diversi aspetti della salute mondiale e proposti elementi di stimolo alla riflessione, grazie anche a una veloce panoramica storica della situazione sanitaria nel mondo.
Questo a partire dal 1978, anno della Dichiarazione di Alma Ata, documento che, «sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, segnava una svolta per le politiche sanitarie globali». Una svolta che avrebbe dovuto portare a buon fine l’impegno per una salute accettabile per tutti, con una scadenza prefissata e ben precisa (il 2000), con un risultato definito raggiungibile.
Così non è stato e, a 30 anni da tale Dichiarazione, il terzo Rapporto dell’Oisg traccia un quadro della situazione sanitaria e cooperazione in ambito sanitario; un quadro che, nelle speranze di quel documento di Alma Ata, avrebbe dovuto essere assai diverso e già da qualche anno: «Così, se nel 1978 appariva realistico l’obiettivo di garantire entro l’anno 2000 a tutti gli abitanti del pianeta il libero accesso ai servizi sanitari essenziali, poco tempo dopo ciò divenne un semplice miraggio per almeno l’80% della popolazione mondiale», scrivono ancora Maciocco e Cattaneo.
Ecco quindi che lo sguardo sul passato è di stimolo a muovere passi efficaci e adeguati da subito e a programmare il futuro. Non dunque, scorrendo i diversi capitoli del Rapporto, una carrellata disfattista della situazione attuale di salute globale e degli interventi di aiuto allo sviluppo posti in atto nel corso degli anni, ma un invito a conoscere la realtà del passato e quella presente e ad agire senza aspettare.
«Il destino di molte delle inaccettabili diseguaglianze nella salute globale, e dei sistemi sociali e sanitari che le sostengono, dipenderà dalle politiche che adotteranno negli anni a venire i paesi ad alto reddito» si legge ancora nella prefazione che, a partire da un articolo pubblicato sulla rivista medica Lancet (Stckler D, McKee M. Five metaphors about global-health policy. Lancet 2008; 372: 95), riporta subito dopo le «cinque possibili metafore sulla salute globale», con cinque possibili diverse impostazioni nell’aiuto allo sviluppo: una salute globale vista come politica estera, sicurezza, carità, investimento, salute pubblica. Gli autori pongono una domanda: «E se riuscissimo a far muovere il pendolo della salute globale verso la quinta metafora e la salute pubblica?».

Un tema,
tante declinazioni,
diversi autori
Il libro è il risultato del lavoro di 39 autori, che ha portato alla stesura dei diversi capitoli, suddivisi in due parti principali. Una prima sezione è espressamente dedicata al tema che dà il titolo alla pubblicazione, l’aiuto allo sviluppo in campo sanitario; la seconda parte presenta un aggioamento della situazione sanitaria mondiale, dal punto di vista delle politiche messe in atto, di alcune malattie e dei sistemi sanitari di quattro nazioni.
Nella prima parte, il tema dell’aiuto allo sviluppo in ambito sanitario viene affrontato nei suoi diversi aspetti, a partire ancora una volta, e prima di tutto, dall’evoluzione delle politiche sanitarie a 30 anni dalla Dichiarazione di Alma Ata. Nello scorrere delle pagine, attraverso aspetti storici, numeri, descrizioni, elementi economici, esempi, vengono approfonditi temi quali i livelli essenziali di assistenza, l’aiuto pubblico allo sviluppo, la cooperazione sanitaria.
In questi ultimi due ambiti, per esempio, viene fornito il quadro di «proliferazione e frammentazione nella cooperazione internazionale», ovvero l’aumento negli anni del numero di donatori (proliferazione) e delle attività finanziate da un donatore (frammentazione), e di come questi due aspetti abbiano reso maggiormente complicato lo scenario generale.
Ma vengono riportati anche dati sulle promesse non mantenute da parte dei paesi donatori, o sull’importanza della valutazione dell’efficacia degli interventi. A quest’ultimo tema viene dedicato, nelle pagine successive, un intero capitolo, che si occupa proprio dei possibili sistemi di valutazione degli interventi effettuati, considerando, per esempio ma non solo, la rilevanza, l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità.
Sezioni con panorami generali sulla situazione e sulle note dolenti o da migliorare si alternano dunque ad altre con possibili risvolti pratici, il tutto sempre con il supporto della letteratura. Inoltre, nel susseguirsi dei diversi capitoli, temi comuni vengono ripresi, approfonditi da altri punti di vista, allargati con prospettive differenti, con l’aiuto pubblico allo sviluppo come filo conduttore, su cui si agganciano e intrecciano i diversi elementi, presentati e poi ripresi nelle singole situazioni e contestualizzati nei vari ambiti.
Da un quadro generale della cooperazione sanitaria si passa, per esempio, a situazioni concrete quali la cooperazione italiana o quella cinese; dalle questioni in sospeso dell’aiuto allo sviluppo ai possibili esempi di valutazione prima accennati; dalle diseguaglianze nella distribuzione delle malattie sul pianeta e delle forze messe in campo come operatori sanitari all’approfondimento sulle migrazioni di personale sanitario, completato dal panorama del personale infermieristico straniero in Italia.
A proposito di tali diseguaglianze, si legge nel Rapporto, citando come fonte l’Organizzazione mondiale della sanità, come le Americhe con il 10% del carico mondiale di malattie abbiano il 37% di operatori sanitari del mondo e oltre il 50% della spesa sanitaria mondiale, mentre l’Africa, con il 24% del carico di malattie, abbia il 3% di operatori sanitari e meno dell’1% della spesa sanitaria mondiale.

Una visione complessiva:
dal generale al particolare
e ritorno
Tante informazioni, come si diceva, di tipo numerico, economico, di efficacia o meno, successo e insuccesso che mostrano la complessità dell’aiuto umanitario, di come questo abbia diverse sfaccettature e diversi elementi da tenere presenti, per trovare la strada per proseguire.
Nel capitolo intitolato Gli aiuti umanitari: tra carità, ideologia, inganno, si legge che «l’aiuto umanitario è per definizione un indicatore di insuccesso, perché arriva sempre quando il disastro ha già avuto luogo; il suo unico obiettivo è alleviare e ridurre il danno, a volte solo a breve termine». Un capitolo che conclude sottolineando: «Gli aiuti tendono gradualmente a rendere i paesi che ne dipendono incapaci di affrontare le proprie crisi. Inoltre, l’aiuto umanitario si focalizza spesso sul diritto alla sopravvivenza, dimenticandosi del diritto alla vita… L’aiuto umanitario infatti tende a soccorrere le popolazioni senza interrogarsi troppo sulla complessa rete di cause che portano alla crisi umanitaria. Non agisce, cioè, sui meccanismi che danno origine al bisogno di aiuti umanitari».
Una complessa rete di cause che le diverse pagine del libro desiderano approfondire, con i contributi, sia generali sia particolari, che si addentrano nelle realtà di paesi o di malattie, da cui emerge l’importanza di una visione globale, complessiva, che tenga conto dei diversi elementi e fattori in gioco. Una visione che, ritornando alla domanda provocazione posta nella prefazione, pensi alla salute globale come salute pubblica.
Il legame con la realtà di cui si sta parlando emerge poi forte dall’alternarsi di capitoli di approfondimento dei quadri generali e globali con quelli sia di applicazione a situazioni concrete sia di testimonianza di chi vive in prima persona l’aiuto allo sviluppo da ambo le parti. Vi sono infatti pagine dedicate alla visione di interventi sanitari, progetti da parte di chi li riceve, con esempi di esperienze in Nicaragua, Nepal, Guinea Bissau, Afghanistan, Mongolia. E subito dopo si succedono tre capitoli che riportano l’esperienza sul campo di tre organizzazioni non governative impegnate in ambito sanitario (Medici senza frontiere, Medici con l’Africa Cuamm ed Emergency), in cui viene espresso il loro punto di vista sull’aiuto allo sviluppo.
Ancora una volta esempi concreti cui il volume si richiama, accanto alle analisi, ai numeri presentati, alla realtà sanitaria nel mondo e alle possibilità di intervento.

L’aggioamento
sulla salute globale
Un quadro della salute e delle malattie che trova spazio anche nella seconda parte del Rapporto, specificamente dedicata ad attualità e aggioamenti sulla salute globale. In questa parte vi sono dunque informazioni sulla situazione sanitaria mondiale attuale, suddivise in tre ambiti ben definiti: le politiche di salute globale, lo stato di salute del mondo (con capitoli in particolare su: malaria, tubercolosi, e Aids; malattie dimenticate; malattie della bocca e dei denti; malattie cardiovascolari) e infine i sistemi sanitari (con un aggioamento sulla situazione in Stati Uniti, Cina, Cuba e Brasile).
Il quadro è complesso, ricco d’informazioni, spunti, stimoli, critiche, provocazioni, inviti. Materiale su cui riflettere in modo costruttivo, da cui partire per elaborare nuove strategie e progetti. Questo terzo Rapporto dell’Oisg, concludono nella prefazione Maciocco e Cattaneo, è dedicato agli studenti universitari di svariati corsi di laurea: non solo discipline sanitarie in genere, ma anche per esempio scienze politiche o sociologia, perché il tema è globale e, come si diceva, l’invito è ad affrontarlo da tutti i suoi punti di vista, con la salute e le malattie inserite nel contesto della vita, della società, del mondo e non disgiunte da tutti i fattori che le influenzano.
Il messaggio finale è positivo, e vuole ancora una volta fornire nuove spinte, nuovi impulsi, a partire proprio anche dagli studenti, in prima persona promotori di iniziative e interessati ai temi di salute globale: «Questa crescente sensibilità verso i temi della salute pubblica e della giustizia sociale è un segnale di speranza e un forte stimolo per la nostra associazione a proseguire e, se possibile, a incrementare, l’attività di analisi, di studio, di disseminazione e promozione». Una sensibilità e un’attenzione che portano ad aprire gli occhi sulla realtà. Una apertura che può portare allo studio e alla realizzazione di un aiuto allo sviluppo efficace, sostenibile e condiviso.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Costruire insieme un futuro

Convegno della Fondazione Ivo de Caeri a Pemba

A Pavia, a partire dall’esperienza sanitaria della Fondazione de Caeri in Africa,
si è parlato di cooperazione, malattie dimenticate ed etica.

Sono passati 30 anni, ma la frase riportata nella Dichiarazione di Alma Ata, alla Conferenza internazionale sulle cure primarie del settembre 1978, non ha trovato la sua realizzazione. Era riportata la possibilità di un «livello di salute accettabile» per tutti, entro il 2000.
Il termine è passato, la Dichiarazione dopo 30 anni è ancora attuale. Salute di base, sistemi sanitari, interventi di cooperazione e loro sostenibilità, malattie dimenticate e popolazioni dimenticate sono temi che hanno animato una giornata di relazioni a Pavia, presso l’Almo collegio Borromeo. Il Convegno, «La Fondazione Ivo de Caeri a Pemba: un’esperienza sanitaria locale per un confronto globale», organizzato dal Collegio stesso e dalla Fondazione Ivo de Caeri di Milano, con il patrocinio della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, si è svolto il 16 aprile scorso: a partire dal lavoro della Fondazione sull’isola di Pemba (arcipelago di Zanzibar, Tanzania), ha proposto un percorso di riflessioni sulla situazione sanitaria dei più poveri del mondo.

SULL’ISOLA DI PEMBA

«È tutt’ora prevedibile che molte parassitosi continueranno ancora per molti anni ad affliggere gli strati più poveri delle nostre popolazioni e intere nazioni in zona tropicale». Sono parole di Ivo de Caeri, professore di parassitologia all’Università degli studi di Pavia e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dalla prefazione della prima edizione del suo testo sulle malattie parassitarie, anno 1961.
Le ha ricordate Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione de Caeri (www.fondazionedecarneri.it), nata nel 1994 in memoria del parassitologo (scomparso l’anno prima), nella relazione sulle attività di cooperazione e formazione sanitaria e sostegno alla ricerca scientifica.
La missione della Fondazione («promozione dei piani di lotta alle malattie parassitarie nei paesi in via di sviluppo e incremento degli studi di parassitologia») ha portato a costruire un Laboratorio di sanità pubblica a Pemba, a sostenee strategie, attività e ad avviare interventi a fianco della popolazione locale, dal sostegno a un dispensario materno infantile al progetto di controllo delle malattie trasmesse dall’acqua, con la formazione di laboratorio e la riabilitazione della rete idrica, all’invio di chirurghi per il sostegno e la formazione di personale locale.
Il laboratorio si propone come esperienza di cooperazione nuova e per certi versi difficile. A otto anni dall’avvio delle attività, Marco Albonico, direttore scientifico della Fondazione e consulente dell’Oms, ha stimolato la riflessione sui punti di forza e i nodi da risolvere in un progetto di sostegno alla sanità pubblica e di un centro di esami di qualità. Il laboratorio sostiene le attività di salute pubblica del ministero della Sanità di Zanzibar: svolge attività di monitoraggio e valutazione dei programmi di controllo, esegue controlli di qualità per le diagnosi dei laboratori periferici, promuove la ricerca secondo le priorità locali, raccoglie e analizza i dati epidemiologici sociosanitari, è attivo nella sorveglianza delle epidemie e svolge attività di aggioamento e formazione.
Vi sono diversi aspetti positivi dell’esperienza. Vi è impiegato personale locale con un salario dignitoso e possibilità di formazione. Il profilo scientifico è alto e, ha raccontato Albonico, «i progetti hanno dato buoni risultati: studi scientifici, raccomandazioni per politiche sanitarie, pubblicazioni scientifiche»; nel corso degli anni è «sempre più un servizio trasversale che affronta molteplici problemi sanitari, col potenziale di migliorare il cornordinamento e la supervisione dei centri di salute periferici e degli ospedali».
Al tempo stesso, tuttavia, non è stata ancora raggiunta un’autonomia da parte del personale stesso, un senso di appartenenza che porti a costruire in modo autonomo possibilità di lavoro e di ricerca. Il laboratorio in questi anni è stato anche fonte di dibattito fra gli operatori della sanità locale e ha incontrato difficoltà nell’essere compreso dalla popolazione come elemento importante per la sanità. Il percorso non è dunque concluso, ma si hanno di fronte le sfide da cogliere, prima fra tutte la completa autonomia locale del progetto.

MALATTIE UNITE ALLA POVERTÀ

Quando Ivo de Caeri arrivò la prima volta a Pemba erano in atto ricerche sulla schistosomiasi, che fa parte del gruppo delle malattie tropicali dimenticate. Queste malattie, oggetto di una relazione al Convegno, hanno come denominatore comune la povertà, nella quale prosperano e che loro stesse alimentano, ostacolando l’istruzione, le possibilità di lavoro, diventando causa di emarginazione e isolamento per le lesioni e disabilità che provocano, ostacolando lo sviluppo economico.
Ne sono elencate indicativamente 14 dall’Oms (colera/malattie diarroiche, dengue/febbre emorragica di dengue, dracunculosi, elmintiasi, filariasi linfatica, lebbra, leishmaniosi, malattia di Chagas, oncocercosi, schistosomiasi, tracoma, treponematosi, tripanosomiasi umana africana, ulcera di Buruli), indicativamente perché la lista può comprenderne altre.
Nel mondo circa un miliardo di persone presenta una o più malattie dimenticate, presenti soprattutto in comunità povere e isolate; la maggior parte di queste malattie può essere prevenuta o eliminata. Rappresentano una minaccia per la salute locale, ma hanno poco peso politico, sono economicamente poco interessanti. Per alcune vi sono concrete possibilità di diagnosi e terapia, programmi di controllo su più malattie; per altre invece il percorso è più difficile, i farmaci sono vecchi, costosi o tossici. Molte sono trasmesse da vettori (insetti) e hanno collegamenti con l’ambiente; sono ben presenti in posti con acqua non sicura, condizioni igieniche sanitarie scadenti e accesso limitato a cure sanitarie di base.
Le strategie nei confronti delle malattie dimenticate seguite dall’Oms sono state oggetto della relazione di Albis Gabrielli, dell’Oms. Vengono distinte in due gruppi principali: le elmintiasi, causate da elminti (vermi), visibili a occhio nudo, e le protozoosi, causate da protozoi, non visibili a occhio nudo: «L’Oms è impegnata nell’elaborazione di strategie globali che siano adattabili ai paesi in cui queste malattie sono presenti, cioè per la massima parte del Sud del mondo. La strategia per le elmintiasi, chiamata chemioterapia preventiva, consiste nel trattare a intervalli regolari, con farmaci sicuri, efficaci e accessibili dal punto di vista del costo, interi gruppi di popolazioni che vivono in aree dove le malattie sono diffuse. La strategia contro le protozoosi prende invece il nome di approccio clinico intensificato. A causa di strumenti diagnostici e terapeutici vecchi e costosi, di difficile utilizzo e tossicità alta, non è possibile il trattamento di popolazioni, bensì individuale, a opera di personale specializzato, che deve agire con una strumentazione adeguata. La strategia si focalizza pertanto sul garantire un accesso al trattamento al numero più alto possibile di persone».
Ma uno degli aspetti critici della sanità nei paesi poveri è proprio la carenza di personale locale. Maurizio Bonati, dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha tracciato un quadro del ridotto numero di operatori sanitari, a partire dall’esperienza personale, da un lato di cooperazione in paesi del Sudamerica, con interventi in villaggi sperduti ove si cerca di portare aiuto ma anche di formare personale che possa proseguire nel lavoro, dall’altro di formazione in Italia di persone che dovrebbero poi portare le proprie conoscenze a vantaggio del paese di origine. Dovrebbero, perché talora le condizioni locali non permettono l’utilizzo delle conoscenze acquisite o la persona stessa, una volta raggiunte capacità superiori, preferisce cercare lavoro in posizioni migliori all’estero.
Si aprono dunque spunti di riflessione sull’importanza non solo della formazione di personale nei paesi del Sud del mondo ma anche di condizioni locali di lavoro che ne favoriscano il ritorno o la permanenza.

LO SGUARDO DELL’ETICA

Cooperazione, malattie dimenticate, operatori sanitari, Sud del mondo. Nel filo conduttore del Convegno è stata data la voce all’etica della salute e degli interventi. Laura Palazzani, della Lumsa (Libera università Maria ss. Assunta) di Roma ha approfondito il tema della bioetica, a partire dai diversi tipi: etnocentrica, multietnica e interculturale; quest’ultima delineatasi in contrapposizione alle prime due: «La rilevanza della bioetica interculturale consiste nella ricerca critica di una continua mediazione e integrazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle diverse culture, nel tentativo di evitare la prevaricazione, per affermare la logica relazionale della diversità nell’uguaglianza. In tal senso, il dialogo interculturale in bioetica non sarebbe né conflitto né accettazione passiva di un compromesso, ma piuttosto ricerca costruttiva di integrazione».
Una comprensione della bioetica interculturale come punto di partenza per ragionare sulla cooperazione sanitaria, l’equità sanitaria, la salute come diritto. Aspetti ripresi da Gaia Marsico, dell’Università di Padova (Bioetica-Scienze politiche), che ha parlato di accesso ai farmaci, ricerca nel Sud del mondo e ruolo della bioetica. Perché le domande sulla ricerca nei paesi poveri non possono prescindere dal chiedersi quali sono i bisogni reali e gli orientamenti della ricerca in generale: «Se vogliamo interrogarci sulle criticità e gli aspetti etici della ricerca nel Sud globale (non solo in senso geografico), dovremmo partire dal senso, dalla rilevanza e modalità della ricerca in generale; delle ricerche che promuoviamo e vediamo svilupparsi nei nostri paesi. Da chi è disegnato questo progresso, in funzione di chi lo si costruisce?».
Tanti interrogativi e questioni aperte. Mettersi in discussione di fronte alla sofferenza dimenticata di centinaia di milioni di persone, per capire il modo migliore di porsi e costruire, insieme, una possibilità di vita uguale per tutti, indipendentemente dal luogo di nascita.

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



Il ritorno dell’ebola

Malattie dimenticate (13): ebola

La febbre emorragica di ebola è stata segnalata di nuovo nella Repubblica Democratica del Congo, con un’epidemia iniziata prima dell’estate.

Ancora una volta si è fatto vivo, e ha portato paura e morte. Paura, perché i virus che causano le febbri emorragiche, come Ebola e Marburg, portano con loro non solo la preoccupazione della morte, ma anche lo spavento per qualcosa di contagioso, che non si capisce; per la vista di uomini in tute bianche, completamente coperti, con guanti, stivali, maschere, che vengono in casa per vedere malati o per portare via i morti. Morti che non possono essere toccati dai parenti, che vengono seppelliti secondo precise norme per bloccare la diffusione della malattia.

Epidemia dimenticata
L’allarme è scattato in settembre nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’epidemia di febbre emorragica da virus Ebola, a quanto sembra più contenuta di quella del simile virus di Marburg di qualche anno fa in Angola, ha seminato preoccupazione e morte. Ma se l’epidemia di Marburg in Angola aveva trovato un po’ di spazio nelle cronache italiane, davvero poca risonanza ha avuto questa nuova comparsa del virus Ebola, dimenticata e relegata al paese lontano.
Non sono noti i numeri precisi delle persone infettate e di quelle che hanno perso la vita a causa del virus, e quindi le dimensioni dell’epidemia attuale. Secondo gli ultimi conteggi di inizio ottobre, dall’inizio di maggio ci sarebbero stati oltre 380 casi sospetti, fra cui 176 morti.
L’aggettivo «sospetti» viene mantenuto, perché solo in una minima percentuale di casi è stato possibile avere la conferma di laboratorio. Il dato numerico è ulteriormente in sospeso perché in questo stesso periodo l’Ebola non è l’unica infezione che circola: è stato infatti trovato un altro germe, la Shigella, responsabile di un’infezione intestinale con dissenteria. Oltre alla Shigella, l’Ong Medici senza frontiere segnala come nella zona vi siano altre malattie con manifestazioni simili a quelle iniziali della febbre di Ebola, come malaria e febbre tifoide.
In ogni caso, all’inizio di ottobre i casi di Ebola confermati dagli esami di laboratorio erano 24 e l’ultima vittima del virus risalirebbe al 22 settembre: un paziente morto nel reparto di isolamento allestito da Medici senza frontiere a Kampungu, un villaggio nella zona più colpita del paese.

La febbre mortale
Il virus responsabile della febbre emorragica di Ebola viene trasmesso dal contatto con materiale infetto, come sangue, vomito, diarrea e così via. Possono dunque essere pericolose per la trasmissione della malattia anche le cerimonie funebri, per il contatto diretto dei parenti con la persona cara morta a causa dell’Ebola.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta come, dopo un periodo di incubazione che può variare da due giorni a tre settimane, l’infezione si manifesti con febbre, debolezza importante, dolori muscolari, mal di gola, spesso seguiti da vomito, diarrea, manifestazioni sulla pelle, disturbi alla funzione del rene e del fegato e, in alcuni casi, emorragie intee ed estee. Da qui il nome di febbre emorragica.
La malattia è mortale nel 50-90% dei casi. Non vi sono terapie specifiche, se non cure di supporto, per esempio, per la disidratazione; al momento non sono nemmeno disponibili vaccini. I casi in cui si sospetta l’infezione da virus Ebola vengono isolati, per impedire la diffusione del contagio. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, Medici senza frontiere ha allestito a Kampungu un centro di isolamento, che prevede tre diverse parti: una dove vi sono i casi da isolare, una dove il personale si veste con le tute che lo isolano e si sveste dopo il contatto con i malati, e una per la disinfestazione.

Primi casi ad aprile
La conferma ufficiale dell’epidemia di febbre emorragica da Ebola nel paese africano è arrivata solo il 10 settembre ma, come riporta Medici senza frontiere, già dalla fine di aprile erano stati segnalati casi di una malattia sospetta. La conferma di laboratorio della presenza del virus Ebola è arrivata dai laboratori di Atlanta negli Stati Uniti e di Fancesville in Gabon.
Oltre all’identificazione dei casi sospetti e delle persone venute in contatto con possibili malati, alle misure di isolamento e all’utilizzo di pratiche sicure nel seppellire i morti, è stato portato avanti un lavoro di informazione sulla popolazione rispetto alla malattia, l’epidemia e come si diffonde il contagio, come riconoscere i primi sintomi e chi avvisare.
Gruppi di persone addette alla comunicazione, giornalisti, utilizzo di trasmissioni radio: grazie a queste ultime, l’Oms stima di avere raggiunto oltre il 60 per cento della popolazione locale. Sono stati svolti anche lavori di informazione con gruppi della società civile, non solo per mettere sull’avviso rispetto ai possibili rischi di trasmissione dell’infezione, ma anche per tranquillizzare, ridurre la paura e il panico nei confronti di questa malattia.

Cauto ottimismo
Con i primi di ottobre sia l’Oms sia Msf, che ha seguito l’epidemia sul posto, hanno riportato segnali positivi sull’andamento dell’epidemia, come una riduzione nel numero di persone nel centro di isolamento di Kampungu, dove nel mese di settembre vi erano stati 32 ricoveri.
Nonostante le prove quanto meno di un rallentamento dell’epidemia di Ebola, viene sottolineata l’importanza di mantenere alta l’attenzione, con l’identificazione e l’isolamento dei casi sospetti. In questo senso, Medici senza frontiere ha segnalato come ci siano nel paese villaggi isolati e difficili da raggiungere, con casi sospetti di questa febbre emorragica. E per dichiarare di avere sotto controllo l’epidemia devono passare 42 giorni dall’isolamento dell’ultimo paziente cui è stata confermata la diagnosi di Ebola, pari a due volte l’intervallo di tempo di possibile incubazione della malattia, prima della comparsa dei sintomi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Conosciuto ma dimenticato

Malattie dimenticate: colera

Il colera continua a mietere vittime dove manca l’accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici di base.

I l settimo Obiettivo di sviluppo del millennio, fra quelli stabiliti alle Nazioni Unite nel 2000 e da raggiungere entro il 2015, riguarda l’ambiente. Un obiettivo importante perché comprende problematiche quali l’accesso all’acqua pulita, la possibilità di avere servizi igienici adeguati e fognature, con separazione dell’acqua sporca da quella usata per bere e mangiare.
Ma secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) in un resoconto dello scorso anno, la strada è ancora lunga, vista la necessità di aumentare di un terzo gli sforzi per l’accesso all’acqua pulita e addirittura raddoppiarli sul versante servizi igienici e fognature. Ed è collegato all’acqua contaminata il colera, malattia dimenticata nel momento in cui vengono garantite le norme igieniche, ma che si ripresenta quando tali condizioni di sicurezza vengono a mancare. L’Oms riporta infatti il colera come uno degli indicatori chiave per quanto concee lo sviluppo sociale, una minaccia che svanisce nel momento in cui viene raggiunto un livello igienico minimo.
Nonostante questo, epidemie di colera, dimenticate, continuano a imperversare nei paesi poveri, non solo, sottolinea l’Oms, seminando sofferenza e morte, ma danneggiando anche la struttura economica e sociale delle comunità colpite e ostacolandone lo sviluppo.

Acqua da bere
e dA eliminare
Secondo quanto riportato dal resoconto di Oms e Unicef, supera il miliardo il numero di persone in aree urbane e rurali senza ancora un accesso ad acqua pulita e sarebbero oltre due miliardi e mezzo quelle senza servizi igienici e fognari adeguati.
A fare le spese di questa situazione sono soprattutto i bambini: nel solo 2005 ogni giorno 4.500 piccoli con meno di 5 anni sono morti per cause collegate all’acqua non sicura e a norme igieniche inadeguate, per un totale di 1,6 milioni. In particolare rappresentano una minaccia le malattie con diarrea e quelle parassitarie, con un rischio aumentato di epidemie di colera, tifo e dissenteria.
E proprio fra i bambini, nell’ambito di una situazione sanitaria sempre più precaria, sono stati segnalati a giugno i primi casi sospetti di colera in Iraq, dove veniva calcolato che meno di un piccolo su tre (il 30%) avesse l’accesso ad acqua sicura.

Il batterio e la tossina
Il responsabile del colera, malattia infettiva intestinale, è un batterio dal nome Vibrio cholerae, che arriva all’uomo attraverso l’acqua o il cibo contaminato. Solo raramente vi può essere una trasmissione diretta fra le persone.
Le epidemie di grandi dimensioni con inizio improvviso, tuttavia, sono in genere collegate all’utilizzo di acqua contaminata. La diarrea acquosa è causata da una tossina prodotta dal batterio e può portare a una perdita importante di liquidi dell’organismo, con disidratazione grave e morte se il malato non viene curato. Insieme con la diarrea vi può essere anche vomito.
Tuttavia, la maggior parte delle persone infettate non presenta la malattia, nonostante elimini con le feci il batterio, e lo diffonda quindi nell’ambiente, per una o due settimane. Inoltre, nel caso in cui vi sia la malattia, si ha il quadro clinico di colera con disidratazione moderata o grave in un paziente su dieci circa, mentre negli altri il quadro è meno importante e può essere sovrapponibile ad altri tipi di diarrea acuta.

rischio alto se impreparati
Il numero di morti causati dal Vibrio cholerae è molto differente a seconda degli interventi che vengono messi in atto e della loro tempestività. Si tratta infatti di una condizione che se si verifica in una zona pronta a rispondere in modo adeguato, con reidratazione del malato e se necessario con farmaci, i casi mortali sono meno di uno su 100; quando però l’infezione intestinale si diffonde in comunità non preparate e viene a mancare il trattamento o l’intervento rapido, il numero di morti sale, arrivando anche al 50% dei casi, uno su due.
Accanto poi ai provvedimenti nei confronti delle persone malate, vi sono le misure igienico-sanitarie, personali e della comunità, e di utilizzo di acqua e cibo sicuri per bloccare la diffusione del batterio e dell’infezione.

Decine di migliaia di casi
Il colera è diffuso e rappresenta un rischio costante di malattia, e morte, in diversi paesi. Vi sono anche epidemie isolate, favorite da tutte quelle condizioni che mettono a rischio l’accesso ad acqua e cibo sicuri e le condizioni igieniche di base, per esempio in zone con sovraffollamento o nei campi profughi. In queste situazioni il rischio di morte per colera è alto: l’Organizzazione mondiale della sanità riporta come nel 1994, nel campo rifugiati a Goma (Congo) durante la crisi rwandese, il Vibrio cholerae in un solo mese sia stato responsabile di 48 mila casi e 23.800 decessi.
Nonostante il suo possibile carico di morti evitabili, il colera viene dimenticato, confinato nelle periferie povere delle città, fra i profughi, nelle zone dove l’acqua pulita non è scontata. Alla fine di gennaio dello scorso anno, per esempio, sono stati segnalati i primi casi di colera nel Sud del Sudan: in meno di un mese le infezioni sarebbero state oltre 3.700, con decine di morti. Il numero complessivo di casi di diarrea acquosa nella prima metà del 2006 (fra il 28 gennaio e il 14 giugno) avrebbe superato i 16 mila, con 476 morti in otto su dieci stati del Sud Sudan.
Sempre in Africa, l’infezione avrebbe colpito in Angola oltre 40 mila persone, uccidendone migliaia. Comparso a Luanda a metà febbraio, anche qui come in Sud Sudan collegato a consumo di acqua non sicura, il colera si sarebbe poi diffuso a 14 delle 18 province, arrivando a una media di 25 morti ogni giorno. La popolazione si è trovata impreparata di fronte a una malattia per la quale da diversi anni non venivano segnalate epidemie nel paese. E quella del 2006 è stata definita da Richard Veerman, capo missione nel paese dell’organizzazione non governativa Medici senza frontiere, come «una delle peggiori mai viste in Angola».
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità, il 21 giugno, quando la diffusione dell’epidemia era in calo (seppur con ancora 125 casi segnalati ogni giorno), il totale delle infezioni riportate era arrivato a 46.758 casi, con 1.893 morti.
Ma lo scorso anno il colera in Africa ha imperversato anche in altre zone del continente: nel Nord del Sudan (con oltre 6.200 casi di infezione e circa 200 morti in quattro mesi) e nel Darfur, o ancora in Liberia, con la segnalazione di Medici senza frontiere ad agosto, di un aumento improvviso di casi nella capitale, in un paese in cui la malattia si presenta regolarmente con epidemie nella stagione delle piogge.

Insegnare ai bambini
Nel caso dell’epidemia in Angola, secondo quanto riportato da Medici senza frontiere, la conoscenza da parte delle persone di quello che era possibile fare per proteggersi dall’infezione era limitata, come pure nel caso dell’epidemia nel Sud Sudan, dove il colera non è solitamente diffuso.
Accanto a sovraffollamento, condizioni igieniche precarie e così via, assumerebbe un ruolo anche la conoscenza delle popolazioni dell’infezione, di come si trasmette, di cosa fare per bloccarne la diffusione. Sulla mancata conoscenza delle norme igieniche più semplici e le possibili conseguenze sulla diffusione di malattie hanno pensato di lavorare, per esempio, due cooperanti dell’organizzazione non governativa Coopi, proponendo un percorso ludico e nello stesso tempo istruttivo. Con un progetto di educazione sanitaria, indirizzata ai bambini in un quartiere povero di Kampala, capitale dell’Uganda, hanno cercato di renderli consapevoli dell’importanza delle condizioni igieniche e sanitarie nella vita di tutti i giorni, insegnando per esempio a non buttare la spazzatura nei canali di drenaggio sotto casa. Un gioco con tanto di pedine, percorso che rappresenta la città, dado da tirare per muoversi, carte con domande su salute, igiene e ambiente, a cui rispondere e su cui discutere insieme, imparando mentre si divertono.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Quando il ritardo è fatale

Malattie dimenticate (11): tripanosomiasi (malattia del sonno)

Sono ancora decine di migliaia i pazienti con la malattia del sonno, decine di milioni le persone che rischiano di ammalarsi.

Migrazioni, guerra, povertà. Tre elementi strettamente collegati alla malattia del sonno. Una malattia mortale, se non trattata, che continua a imperversare nelle zone dell’Africa subsahariana, la cui diffusione, e il riemergere di epidemie, viene spesso collegata ai conflitti.
Non sono note le cifre precise sul numero di malati, ma secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), potrebbero variare da 50 mila a 70 mila le persone infettate, mentre sarebbero 60 milioni quelle che vivono in zone a rischio e potrebbero ammalarsi.

Due differenti possibilità, stesso destino
La tripanosomiasi umana africana, più conosciuta come malattia del sonno, è diffusa in 36 paesi nell’Africa subsahariana, dove è presente la mosca tse tse, che con il suo morso può trasmettere l’infezione: una zona di oltre 9 milioni di chilometri quadrati, pari a circa un terzo dell’intera superficie del continente africano.
Il responsabile è un tripanosoma, che può essere di due tipi, con una distribuzione geografica, e caratteristiche temporali differenti della malattia. Il Trypanosoma brucei gambiense, cui vengono attribuiti 9 casi su 10 di malattia del sonno, è diffuso nell’Africa occidentale e centrale e causa un’infezione cronica: possono passare mesi o anni prima della comparsa dei segni e sintomi più gravi, che segnalano lo stadio avanzato della malattia, con coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
Invece, il Trypanosoma brucei rhodesiense viene localizzato a oriente e nel sud dell’Africa e causa una malattia assai più rapida, che si manifesta nel giro di pochi mesi o anche settimane e si diffonde al sistema nervoso centrale.

Dal sangue al cervello
Il tripanosoma viene trasmesso dalla puntura della mosca tse tse, che predilige vivere in zone ricche di vegetazione vicino a fiumi e laghi, in ambienti umidi, con penombra e temperature alte. Nel caso del Trypanosoma rhodesiense, animali quali antilopi, iene, pecore e bovini possono fungere da «serbatornio» della malattia, da cui la mosca tse tse può prendere il tripanosoma che poi trasmette all’uomo con la sua puntura.
La mosca tse tse, e con essa la malattia del sonno, è recentemente salita all’attenzione dei media per la sua «passione» nei confronti dei colori nerazzurri, caratteristici delle maglie di alcune squadre di calcio italiane. Sembra infatti che le mosche tse tse siano attirate da questa combinazione di colori, utilizzata per la costruzione di trappole in cui attirarle.
Una volta entrato nell’organismo, il tripanosoma si diffonde nei tessuti sotto la pelle, nel sangue e nel sistema linfatico, per poi superare la barriera ematoencefalica e arrivare al sistema nervoso centrale. Vengono lasciate aperte altre possibilità di passaggio dell’infezione, come dalla madre al bambino in gravidanza, accidentale in laboratorio, attraverso trasfusioni e trapianti d’organo.
La malattia del sonno, se non viene riconosciuta e trattata, porta alla morte del paziente e le manifestazioni dell’infezione sono suddivise in due fasi. La prima, definita emolinfatica, con febbre e sintomi poco specifici, come mal di testa, dolori alle articolazioni e prurito (in un quarto dei casi vi può essere rigonfiamento dei linfonodi cervicali). La seconda, neurologica, si manifesta, come accennato prima, a intervalli di tempo differenti a seconda del tripanosoma responsabile, a seguito dell’arrivo dell’infezione al sistema nervoso centrale.
È caratterizzata dalla comparsa dei sintomi da cui prende il nome di malattia del sonno. Infatti, accanto a disturbi psichici e neurologici (come confusione, disturbi sensoriali e di cornordinazione), compaiono le alterazioni del ritmo sonno-veglia: i pazienti tendono a dormire di giorno e fanno fatica di notte.

Il ritorno della malattia
Le popolazioni a rischio di infezione sono quelle che vivono nelle zone rurali, dedicate ad agricoltura, pesca, allevamento o caccia. Altri fattori segnalati dall’Oms collegati alla diffusione della malattia sono gli spostamenti delle popolazioni, la guerra e la povertà.
Negli ultimi 100 anni sono state segnalate nel continente africano tre principali epidemie: fra il 1896 e il 1906, nel 1920 e nel 1970, quest’ultima non ancora sotto controllo.
In occasione dell’epidemia del 1920, l’utilizzo di squadre mobili per monitorare le popolazioni a rischio aveva permesso di arrivare al controllo della diffusione dell’infezione a metà degli anni ‘60. Ma il venir meno dei controlli ha permesso al tripanosoma di tornare a manifestarsi negli anni successivi in diverse regioni: i dati del 2005 contano fra i 50 mila e i 70 mila casi.
La diffusione della malattia varia fra i diversi paesi e, anche all’interno degli stessi, fra le diverse zone. Nel 2005 sono state segnalate epidemie importanti in Angola, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, e la tripanosomiasi umana africana rimane un problema di salute pubblica per Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Uganda e Tanzania. In altri paesi il numero di casi riportati è più basso o non vi sono segnalazioni, ma non si hanno certezze, perché manca una sorveglianza adeguata con diagnosi dei possibili casi.
Vi sarebbero tuttavia segnali positivi: l’Oms riporta che gli sforzi da lei compiuti insieme con quelli dei governi e di organizzazioni non governative hanno permesso di interrompere la continua salita nel numero di nuovi casi.

Il ritardo
peggiora la prognosi
L’ambiente in cui è maggiore il rischio di essere infettati dal tripanosoma è anche quello che condiziona l’andamento peggiore della malattia. Infatti i malati spesso vivono in zone isolate, lontano dai centri sanitari e quindi dalla possibilità di essere visitati e di avere una diagnosi nelle prime fasi della malattia. Il ritardo nella diagnosi restringe le possibilità di cura, perché le prospettive di guarigione diminuiscono con il procedere dell’infezione.
Dal punto di vista terapeutico infatti, i farmaci indicati per la prima fase della malattia del sonno non solo sono più efficaci, ma hanno anche meno effetti collaterali dannosi per il paziente e sono più semplici da somministrare. Viceversa, una volta che il tripanosoma ha superato la barriera ematoencefalica ed è arrivato al sistema nervoso centrale, i farmaci a disposizione possono arrecare maggiore danno al paziente e sono anche più complicati come modalità di somministrazione. Uno, per esempio, è un derivato dall’arsenico e può causare un danno grave al cervello, che può essere mortale in una percentuale che varia dal 3 al 10% dei casi.
Proprio nell’ottica di migliorare la diagnosi e anticiparla si colloca l’annuncio, dato a febbraio del 2006 dall’Oms e dalla Fondazione per la diagnostica innovativa (Find, Foundation for Innovative New Diagnostic), della partenza di ricerche per arrivare a nuovi esami per la diagnosi. Infatti, nei primi stadi della malattia la diagnosi è più difficile per la presenza di pochi sintomi, tanto che si ritiene sia identificato correttamente solo un paziente su dieci.
Lo scopo delle nuove ricerche è arrivare a esami che migliorino le possibilità di una diagnosi precoce e con esse di un trattamento tempestivo e con maggiori possibilità di successo.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




A un passo dall’eradicazione

Malattie dimenticate (1): dracunculiasi

Per l’Organizzazione mondiale della salute,  fra meno di due anni la dracunculiasi sparirà con il suo carico di sofferenza e povertà.

Una malattia nota fin dai tempi più lontani, una malattia tropicale dimenticata, collegata alla povertà, che affligge ancora migliaia di persone in villaggi dell’Africa, potrebbe diventare un ricordo nel giro di due anni. La dracunculiasi (o malattia del verme di Guinea) potrebbe essere infatti la seconda malattia, dopo il vaiolo, dichiarata scomparsa dal pianeta e non più diffusa fra gli uomini, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un comunicato alla fine di marzo di quest’anno.
Sparirebbe dunque una malattia segnalata addirittura nelle mummie egiziane e menzionata da filosofi e medici greci, romani e arabo-persiani.

Da milioni a migliaia di casi
Secondo quanto riportato dall’Oms all’inizio di marzo, la Commissione internazionale incaricata di seguire e certificare i risultati nei confronti dell’eradicazione della dracunculiasi (Inteational Commission for the Certification of Dracunculiasis Eradication, Iccde) ha dichiarato liberi dalla malattia altri 12 paesi. Si tratta in particolare di Afghanistan, Algeria, Camerun, Repubblica Centrafricana, Djibouti, Gabon, Liberia, Mozambico, Sierra Leone, Swaziland, Tanzania e Zambia.
Dal momento della sua istituzione, avvenuta nel 1995, la Commissione ha dichiarato senza dracunculiasi 180 nazioni: se all’inizio degli anni Ottanta il verme di Guinea affliggeva circa 3 milioni di persone, allo stato attuale i casi segnalati si aggirano intorno a 25 mila, concentrati in 9 paesi: sembra più vicino il traguardo di eradicazione nel 2009.

Il verme più lungo
La dracunculiasi è una malattia infettiva causata da un verme (Dracunculus medinensis o verme di Guinea) simile a uno spaghetto, che supera il mezzo metro di lunghezza (fra 0,5 e 0,8 metri) e ha un diametro di 2 millimetri. Fra quelli che infettano i tessuti umani è il parassita di dimensioni maggiori. Migra lungo i tessuti sottocutanei delle persone infettate, provocando dolori anche importanti, soprattutto quando raggiunge le articolazioni. Può emergere alla superficie della pelle con gonfiori e ulcere dolorose, insieme con febbre, nausea e vomito. Le ulcere possono essere ampie, di solito localizzate agli arti inferiori e in nove casi su dieci ai piedi.
Il bruciore intenso causato dall’infezione porta i malati e cercare sollievo immergendo in acqua le parti del corpo colpite. Spesso si tratta della stessa acqua utilizzata poi dalle comunità come fonte per bere, ed è in questa azione che risiede la catena di trasmissione di malattia da spezzare. Infatti nell’acqua il verme presente nella zona infetta rilascia migliaia di larve, che vengono poi ingerite da pulci d’acqua, diffuse in tutto il mondo.
Nel momento in cui queste acque non filtrate e contaminate vengono bevute dalla popolazione, le pulci presenti sono distrutte dall’acidità dello stomaco, si liberano le larve che passano attraverso la parete intestinale, dando così origine a una nuova infezione e riparte il giro. In pratica, dice l’Organizzazione mondiale della sanità, «quando le persone bevono l’acqua stanno in effetti bevendo la malattia».

Il circolo della povertà
La dracunculiasi è diffusa ancora in Africa, in particolare in villaggi dell’Africa subsahariana. Seppure raramente mortale, il verme di Guinea porta con sé non solo i sintomi e le manifestazioni cliniche per il singolo individuo, ma anche ricadute importanti e a lungo termine di tipo socioeconomico, sulle famiglie e la società. Le persone infettate sono infatti rese invalide e impossibilitate a lavorare, anche per lunghi periodi: rimangono malate diversi mesi e alla dracunculiasi possono sommarsi sovrainfezioni causate da batteri.
Un’ulteriore aggravante è data dal carattere stagionale della malattia, che tende a presentarsi in particolare durante le stagioni del raccolto, tanto da meritare il nome di «malattia del granaio vuoto».
Secondo uno studio effettuato in Nigeria, riportato dall’Oms, circa una persona su due non è in grado di alzarsi dal letto per mesi e in Sudan, nelle famiglie dove più della metà degli adulti ha preso la dracunculiasi durante l’anno, i bambini con meno di sei anni corrono un rischio triplicato di malnutrizione. Questo perché gli agricoltori non riescono a svolgere il lavoro di raccolta nei campi. Le ricadute sui bambini non finiscono qui, perché, nel caso in cui vengano infettati, la malattia è responsabile di assenze prolungate, anche di mesi, da scuola.
Tutto questo, impossibilità al lavoro, malnutrizione, mancanza di istruzione, aggrava sempre più lo stato di povertà delle persone malate nei villaggi: «La malattia tiene le sue vittime imprigionate in un ciclo di dolore e povertà», sottolinea l’Oms.

Eradicabile perché
Associata all’utilizzo di acqua da bere infetta, la dracunculiasi viene definita dall’Oms una malattia «vulnerabile», nel senso che il suo ciclo di trasmissione dipende esclusivamente dall’uomo ed è nelle sue mani la possibilità di interferire con la sua diffusione.
Non ci sono al momento farmaci per prevenire e curare l’infezione da verme di Guinea, ma il suo stretto legame con l’elemento acqua per la trasmissione la rendono relativamente facile da contrastare con interventi di basso costo, come rendere sicure le fonti di acqua, trattare i pozzi per eliminare le pulci, filtrare l’acqua da bere per impedie il passaggio con il loro possibile carico di larve, contenere i casi con la cura delle ulcere e la prevenzione della contaminazione delle acque causata dall’immersione del paziente in cerca di sollievo al bruciore, portare avanti una educazione sanitaria.
Vi sono diverse caratteristiche, indicate dall’Oms, per le quali il verme di Guinea è considerato un buon candidato all’eliminazione, come è avvenuto in passato per il virus del vaiolo. Prima di tutto, la diagnosi è facile e sostanzialmente certa, per la possibilità di vedere direttamente il verme responsabile, che può emergere esteamente dalle lesioni. La trasmissione delle larve, e con esse della malattia, è legata alle pulci che si trovano nell’acqua, e non come per altre malattie a insetti con maggiori possibilità di movimenti e spostamenti, come le zanzare.
La malattia colpisce solo l’uomo; non è nota l’infezione in animali, e la sua incubazione, sia nelle pulci, sia nelle persone, non è lunga, come pure è limitata la distribuzione geografica e i periodi dell’anno in cui si manifesta. Gli interventi possibili per contrastare la dracunculiasi sono efficaci, non costosi e possono essere aumentati facilmente.
Infine, vi è la disponibilità a impegnarsi da parte dei governi ed è stato già dimostrato in Asia e Medio Oriente che è possibile arrivare alla sua eliminazione. «La Commissione ha concluso che l’eradicazione rimane una meta raggiungibile» chiude il comunicato dell’Oms di fine marzo. «L’impegno recente del Direttore Generale di dedicarsi alle malattie tropicali dimenticate, come parte delle strategie di riduzione della povertà, dando particolare attenzione all’Africa, apre una finestra di opportunità più che mai necessaria per raggiungere questo obiettivo».

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Farla scomparire una volta per tutte

Malattie dimenticate (8): framboesia

Quarant’anni fa si pensava di averla sotto controllo e che appartenesse al passato. Ma la framboesia non è mai sparita e conta mezzo milione di casi nel mondo.

Un nome pressoché dimenticato per una malattia infettiva che sembrava scomparsa, ma che non lo era e ha ricominciato a diffondersi: framboesia (yaws in inglese). Deriva  dalla parola francese framboise, per l’aspetto delle manifestazioni sulla pelle caratteristiche di questa infezione, che ricordano il lampone: colore rosso vivo e superficie irregolare.
I numeri non sono altissimi: per quanto le stime non possano essere precise, oggi nel mondo sarebbero circa 500 mila le persone con questa infezione. Cinquecentomila casi, però, di una malattia che 40 anni fa si pensava di avere sotto controllo.

ANCORA UNA VOLTA INFANZIA E POVERTA’

La framboesia è una malattia infettiva causata da un batterio, di nome Treponema pertenue, che appartiene alla stessa famiglia del batterio responsabile della sifilide (il Treponema pallidum); al contrario di quest’ultima però, non è una malattia venerea. I treponemi della framboesia si trovano principalmente nella pelle: le lesioni ulcerative della cute ne sono piene e il passaggio del batterio avviene a seguito del contatto pelle contro pelle o attraverso lesioni per traumi, escoriazioni eccetera. La malattia è diffusa soprattutto fra i bambini, al di sotto dei 15 anni di età, che rappresentano i due terzi dei malati; la fascia di età con un maggior numero di casi è fra i 6 e i 10 anni.
Dal punto di vista climatico e geografico, la si trova diffusa soprattutto in ambienti caldi, umidi, nelle aree tropicali di Africa, Asia e America Latina, in particolare nelle comunità povere, nelle zone rurali, che vivono in condizioni di sovraffollamento e con scarsa igiene e inadeguato apporto di acqua.

CICATRICI E INVALIDITA’

L’infezione da Treponema pertenue coinvolge in particolare la pelle e le ossa. Una volta che il batterio è arrivato nell’organismo, a seguito del contatto diretto con la pelle di una persona infetta, dopo circa 2-4 settimane si forma una lesione nel punto di ingresso. La ferita iniziale è piena di treponemi e, dopo 3-6 mesi, va incontro a una cicatrizzazione naturale. Se il paziente non viene curato, compaiono in seguito numerose lesioni in tutto il corpo e possono manifestarsi dolori e lesioni alle ossa.
Nello stadio più avanzato della malattia, dopo 5 anni circa dall’infezione iniziale, il paziente può avere conseguenze invalidanti al volto (che può rimanere sfigurato), alle ossa, alle mani e ai piedi. Raramente la framboesia è causa di morte, ma in assenza del trattamento appropriato (che prevede un’unica iniezione di un antibiotico economico ed efficace, e le ricadute con ripresa della malattia sono rare), un paziente su dieci riporta le conseguenze invalidanti prima accennate, per la distruzione di pelle e ossa causata dall’infezione, con deformità in particolare di gambe, naso, palato e mascella.

TORNATA DALLA CENERI

Fra il 1950 e il 1970, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) hanno portato avanti una campagna per il controllo della framboesia in 46 Paesi. Grazie a quella campagna, sono stati raggiunti con la terapia 50 milioni di persone e nel 1970 la prevalenza della malattia era crollata del 95%.
Il successo ottenuto in 20 anni ha ridotto il controllo sulla presenza e diffusione di questa infezione. Negli anni ‘70, riporta l’Oms, sono stati smantellati i programmi verticali indirizzati alla eliminazione della framboesia e le iniziative contro questa malattia sono state incluse nelle altre attività di sanità di base. Piano piano si è arrivati a un’attenzione sempre minore nei confronti della framboesia che, alla fine degli anni ‘70, è tornata a far parlare di sé.
Gli sforzi compiuti negli anni ‘80, soprattutto nell’Africa occidentale, sono falliti nel giro di pochi anni, per una mancanza di volontà politica e di risorse insufficienti; dal 1995 si sono rinnovati gli sforzi per eliminare la framboesia in diverse zone del mondo, ma senza un cornordinamento globale degli interventi.
Attualmente non è noto il numero esatto di casi di framboesia in tutto il mondo, perché in molti paesi, a partire dal 1990, non è prevista la segnalazione dei casi. Secondo una valutazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, negli anni ‘90 la prevalenza globale, cioè il numero complessivo di persone con questa malattia, era pari a 2 milioni e mezzo, delle quali 460 mila nuove infezioni.
Nonostante non sia possibile sbilanciarsi su una cifra di diffusione attuale, vengono segnalati ogni anno 5 mila nuovi casi di infezione nel Sudest dell’Asia, e in particolare in Indonesia (4 mila casi) e Timor Est (mille casi), cui si aggiungono pochi casi in India.
Inoltre, anche se non si hanno resoconti precisi, la framboesia dovrebbe essere ancora presente in alcuni paesi dell’Africa subsahariana e nelle regioni del Pacifico occidentale: nel 2005 sono stati segnalati circa 26 mila casi in Ghana e 18 mila in Papua Nuova Guinea. Infine, non si sa quanti siano i casi di questa malattia nelle Americhe.

CON RINNOVATO VIGORE

Le caratteristiche della framboesia ne fanno una malattia che può scomparire dalla faccia della terra. Secondo gli esperti, come riportato dall’Oms, può essere controllata ed eliminata perché si tratta di un’infezione che interessa solo gli esseri umani (non vi è un passaggio attraverso gli animali), e la sua diffusione è ormai limitata a poche zone nel mondo, focolai localizzati dove programmare e mettere in atto interventi mirati. Inoltre, è disponibile un trattamento efficace, che prevede una singola iniezione di antibiotico: in questo modo non solo si ottiene la guarigione dei malati, ma viene anche bloccata la trasmissione del Treponema pertenue da una persona all’altra.
Infine, la diagnosi clinica è facile con un minimo di formazione del personale sanitario e le esperienze del passato in diversi paesi, e più di recente in India, hanno dimostrato che quella dell’eliminazione è una strada percorribile con successo.
A fine gennaio 2007, l’Organizzazione mondiale della sanità, con un comunicato, ha richiamato l’attenzione sulla framboesia, sottolineando come stia riemergendo nei contesti poveri e nelle popolazioni isolate di Africa, Asia e Sudamerica.
Lorenzo Savioli, direttore del dipartimento dell’Organizzazione mondiale della sanità sulle «Malattie tropicali dimenticate», ha sottolineato come sia inaccettabile la persistenza nel ventunesimo secolo di questa malattia infettiva, per la quale è disponibile una terapia non costosa ed efficace.
Ritornano dunque, ad anni di distanza dalla campagna del 1950, gli sforzi per eliminare la framboesia e le sue devastanti conseguenze, trattando tutti i casi di malattia e le persone che ne sono venute a contatto, interrompendone così la trasmissione e prevenendo le possibili complicanze invalidanti.
L’obiettivo complessivo è quello di ridurre al minimo la sofferenza e le conseguenze socioeconomiche della framboesia nelle popolazioni ove è presente, incoraggiati in questo dai successi ottenuti in India in tempi recenti. Nel Sudest dell’Asia è stato messo come termine per l’eliminazione della malattia il 2012, in particolare in India, Indonesia e Timor Est; inoltre, si stanno confrontando sul tema i paesi dove la framboesia è ancora diffusa, per sviluppare una strategia globale che si spera porti al successo, come quarant’anni fa.
«Una volta per tutte», però, conclude il comunicato dell’Oms. Senza riabbassare la guardia. 

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri