Di stampo URSS

Qualche mese fa, in un pubblico intervento, è stato detto dal più alto responsabile del governo italiano che la nostra Costituzione, quando tratta di iniziativa economica, sarebbe impostata secondo l’ideologia «sovietica», imperante nel contesto politico di allora. Di fronte a questa affermazione, a dir poco stupefacente, pare doveroso cercare di capire ciò che effettivamente la magna charta repubblicana afferma e, soprattutto, se può essere fondata una interpretazione del genere.
La nostra Costituzione (una delle migliori del mondo, tanto da essere presa a modello da non poche altre nazioni) nella sua prima parte, «Diritti e doveri dei cittadini», è personalista, solidale e rappresenta il frutto maturo di una positiva convergenza di diversi filoni di pensiero cattolico e laico, tutti animati da un alto senso dello stato democratico e del bene comune per costruire insieme una «casa per tutti i cittadini».
Sappiamo come nei dibattiti alla Costituente, vivaci e battaglieri, si è sempre cercato da tutte le forze politiche rappresentate non di prevaricare gli uni sugli altri, con l’arroganza tipica di oggi, ma, con viva intelligenza, profonda cultura e operosa pazienza, di raggiungere una piattaforma comune di valori umani nel rispetto di tutti.
Cosa dice la Costituzione circa la tematica economica in questione? «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e cornordinata a fini sociali» (art. 41). Due le affermazioni importanti: la libertà di iniziativa privata, o di impresa come qualcuno preferisce; una libertà però non assoluta, ma da situarsi in un contesto di rispetto della persona («sicurezza, libertà, dignità umana»), perché l’attività economica non può essere fine a se stessa o per il benessere di pochi, ma di tutti, poiché esiste «una utilità sociale» dell’economia stessa.
A questo punto viene da chiedersi: questa impostazione è frutto dell’ideologia «sovietica» oppure di una ispirazione genuinamente umana e cristiana?

Chi conosce, anche sommariamente, il vangelo e l’insegnamento sociale della chiesa, specialmente dell’enciclica Rerum novarum, fino ai pronunciamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e di Giovanni Paolo II, sa benissimo che la tesi circa «l’utilità sociale» dell’economia, assunta dalla Costituzione, è in piena consonanza a questo Magistero. Si potrebbe dire che è la traduzione laica della genuina visione cristiana sui rapporti eticamente corretti tra uomo e beni materiali. Solo chi è inspirato da un pensiero neoliberista e, purtroppo, governa di conseguenza, può trovare nel testo costituzionale una impostazione «sovietica».
D’altronde non è il caso di meravigliarci più di tanto. Ai tempi di Leone XIII, il papa della Rerum novarum, in cui si affermava che il lavoro dell’uomo non è merce, che la persona viene prima del profitto, che è lecito agli operai associarsi per difendere i loro giusti diritti, parecchi, anche nel cosiddetto «mondo cattolico», dicevano che il papa era diventato «socialista»! C’è di più: probabilmente se si continua a leggere nella Costituzione, l’accusa di essere «sovietica» potrebbe ancora diventare più grave. Infatti l’articolo 42 dice: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurae la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Dunque non solo l’attività economica, ma pure la proprietà privata deve rispettare e adempiere una funzione sociale. Addirittura si afferma che la società (e perciò chi governa) deve fare in modo, con opportune leggi, che tutti possano accedervi. Evidentemente perché i costituenti erano convinti che l’uomo è più importante delle cose e che occorreva evitare il rischio quanto mai reale per cui, avendo pochi il possesso di molto o moltissimo, i molti non giungano mai neppure al possesso di poco. E questo certo non è conforme alla volontà di Dio al riguardo.
Insegna il Vaticano II nella Gaudium et spes: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli e pertanto i beni creati devono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità; pertanto quali che siano le forme della proprietà, si deve sempre tenere conto di questa destinazione universale dei beni» (69).
Allora la nostra Costituzione reca l’impronta «sovietica», oppure, felicemente e genuinamente, quella biblica-cristiana, anticipando perfino, in una certa misura, il dettato conciliare?… È perciò triste dover constatare come alcuni politici, con relativi loro sostenitori che pur dicono di inspirarsi ai princìpi sociali cristiani, possano pubblicamente fare certe affermazioni, senza neppure suscitare motivate e giuste reazioni.

Sebastiano Dho, vescovo di Alba




«CUI PRODEST?» A chi giova il terrorismo?

Ecco la guerra del terzo millennio…
Il terrorismo è la guerra del terzo millennio. Colpisce
quando meno te l’aspetti e ammazza gli inermi, vale a
dire chi non c’entra niente. È la mannaia mascherata
di poteri occulti, studiata ad arte per spaventare le libere
coscienze.
Eppure, a pensarci bene, qualcosa non quadra. Perché
mai questi vigliacchi sono tornati a colpire proprio ora che
la guerra contro Saddam Hussein è finita? La raffica di attentati
a Riad, Casablanca ed Ankara sembra scattata
in ritardo rispetto al presunto orgoglio dell’estremismo
arabo. Come mai, quando le bombe cadevano a grandine
su Baghdad, questi dementi sono rimasti in letargo?
Qualcuno dice che Al Qaeda, il movimento di Osama
bin Laden, è un mostro che ha tali e tante ramificazioni
che potrebbe colpire sempre e ovunque. Dunque – si suggerisce
– è bene tenere sempre alta la guardia, mobilitando
gli eserciti per sconfiggere il famelico nemico. Sarà anche
vero che il miliardario saudita è davvero capace di tutto,
visti i disastri che ha combinato a destra e a manca, da
Nairobi nel 1998 a New York con le Twin Towers nel
2001, fino ai giorni nostri.
Premesso che le armi chimiche del rais Hussein per
ora nessuno sa che fine abbiano fatto (e dire che prima
c’era chi era pronto a giurare di averle viste con i satelliti!),
non è nemmeno stato provato il legame tra il regime
iracheno e Al Qaeda.
Scusate, però, in tutto questo ragionamento manca
una pedina, quella della storia. Per chi non lo sapesse,
lo scenario della campagna attuale contro il
terrorismo era già scritto nel 2000 in un rapporto della
Commissione nazionale sul terrorismo del Congresso
americano (*).
Questo rapporto afferma che, «se gli Stati Uniti vogliono
proteggersi, restare un leader mondiale, devono
sviluppare e perfezionare delle politiche di antiterrorismo
adattate alla rapida evoluzione del mondo». Il rapporto ha
pubblicato la lista dei movimenti considerati come «organizzazioni
terroriste straniere», tra i quali figurano, tra gli
altri, i pazzi di cui sopra.
Ma allora, scusate, a chi giova il terrorismo?
Certamente l’attacco dell’11 settembre 2001 non è servito
un granché ai popoli oppressi del Sud del mondo.
Direi piuttosto che ha fatto bene all’industria bellica
statunitense che ha finanziato (non è un mistero per
nessuno!) l’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca.
Anche bin Laden, che nei misteriosi video fatti arrivare
alla televisione in lingua araba Al-Jazeera si proclamava
difensore dei musulmani, tutto sommato sta sempre più
mettendo nei guai l’intero mondo arabo.
Una cosa è certa: questo terrorismo ha già vinto
a modo suo. Se infatti per combatterlo usiamo le armi
all’uranio impoverito o le B52 – quando, per inciso, il kamikaze
di tuo potrebbe essere nascosto dietro l’angolo
del portone di casa nostra – e, soprattutto, le democrazie
rinunciano alle garanzie proclamate dalle loro costituzioni
o dal diritto internazionale, «il serpente – recita un proverbio
africano – ha già posto le sue uova nel nido delle
aquile».

Padre Giulio Albanese è direttore della Misna, l’Agenzia informazione
missionaria, fondata dalla Cimi (Conferenza degli istituti
missionari italiani) e dalla Fesmi (Federazione della stampa
missionaria). Misna ha vinto nel 2002 il «Premio San Vincent di
giornalismo» per il miglior portale internet.
(*) http://www.fas.org/irp/threath/commission.html

GIULIO ALBANESE




GESÙ E LA SPADA, I SANTI E LA GUERRA…

Nel vangelo c’è proprio tutto?
Caro signor Giancarlo, grazie della lettera comparsa su
Missioni Consolata. Finalmente un discorso educato,
che si fa carico delle obiezioni di chi scrive e che, soprattutto,
non fa ricorso all’ironia che sovente maschera
malamente un complesso di superiorità, per nulla confacente
a chi, oltre tutto, si definisce cristiano.
Ciò detto, ragiono su alcune tue osservazioni che mi
lasciano perplesso. Affermi: «Non mi risulta che nel vangelo
esista una parola a legittimazione di uccisioni a scopo
di difesa». Hai ragione, ma ti domando: «Sei sicuro che
tutto quello in cui crediamo sia chiaramente affermato nei
vangeli o nel Nuovo Testamento? Citare i dogmi di cui nel
tempo, con l’aiuto dello Spirito, ci siamo arricchiti, mi
sembra sin troppo facile. Ti parlo allora dei sacramenti».
Il battesimo e l’eucaristia sono documentati (ma per la
seconda non tutti i cristiani concordano); la confessione
è oggetto di profonda discussione; e gli altri sacramenti?
Non proseguo. Il mio scopo è solo farti riflettere sulla tua
affermazione. Forse con più ragione mi sento di affermare
(e credo tu sia d’accordo con me) che ciò che è
espressamente vietato nel Nuovo Testamento è certamente
male (ma anche qui con dei «distinguo»).
Ti propongo un ulteriore passo, molto emblematico:
tutte le volte che Gesù incontra dei soldati non dice loro
di buttare la spada alle ortiche, ma di fare con onestà il loro
mestiere, che (a scanso di equivoci) è quello di difendere
la comunità (allora erano le popolazioni dell’impero)
con la spada, cioè anche uccidendo.
Parliamo, se lo desideri, delle beatitudini: beati i pacifici
(o «operatori di pace»). Certo il cristiano è operatore
pacifico, ma: le beatitudini sono riferite al singolo individuo;
si può essere operatore di pace pur combattendo
(pensa ai santi militari, per i quali la spada non è stata d’intralcio
alla santificazione).
Consentimi anche un discorso antropologico. Secondo
la tesi da te sostenuta, l’uomo o una società non hanno
mai la possibilità di difendersi se ciò comporta la possibilità
o la certezza di uccidere; pertanto:
– sono moralmente colpevoli i carabinieri che sparano, anche
se contro omicidi o mafiosi e per legittima difesa; – non
sono in sintonia con Cristo coloro che combatterono le
battaglie di Poitier, Lepanto e Vienna, che salvarono la nostra
civiltà e, a mio giudizio, lo stesso cristianesimo;
– fu ingiusta e illegittima la guerra contro il nazismo.
Credo che ci sia sufficiente materiale per meditare sulla
«consistenza» del pacifismo (lo definisco così per distinguerlo
dalla realtà di pace che il vangelo ci chiede di
costruire).
L’ultimo punto: i comunisti che votano contro la guerra
sono motivo di gioia. Consentimi la battuta: hanno sempre
votato contro le guerre, anche durante gli anni del più
oscuro stalinismo, poiché le guerre per loro erano sempre
e solo scatenate dalla insaziabile ingordigia dei biechi
capitalisti, affamatori dei popoli rappresentati da quella
sentina di tutti i vizi che sono gli USA (a proposito: mi
sembra che questi discorsi siano tutt’altro che superati).
È vero: una prostituta guiderà lo stuolo delle vergini, e
il pastore lascerà le pecore fedeli per cercare quella perduta;
ma la prima si è pentita e le pecore fedeli sono difese
da un recinto costruito dal pastore.
Possiamo dire lo stesso dei «fratelli comunisti»?
Proprio quelli (che sono per te motivo di gioia) non hanno
avuto una parola di rimpianto per le moltitudini trucidate
dalla ideologia (sicumera, stupidità, satanismo?) che
ancora professano; le loro mani (le stesse di alcuni che votano
contro la guerra) sono ancora rosse per gli applausi
rivolti al «grande padre Stalin», a Mao, a Pol Pot dopo essere
andati, magari anche a nostre spese, a constatare de
visu i «paradisi» che i suddetti avevano creato.
Tutto ciò ha nulla a che fare con la solidarietà, la giustizia
e la pace; il perdono è la nostra caratteristica, ma
prima del perdono c’è la giustizia. Dobbiamo fare festa
per i peccatori che si convertono, non per quelli che violentano
la verità (non è forse questa la prerogativa della
«Bestia»?).

San Francesco ministro degli esteri?
Caro signor Musso, la tua lettera mi ha lasciato una
sensazione di tristezza: mi è apparsa lontana dallo
spirito di speranza, ma anche di severo ammonimento
che riconosco nelle pagine del vangelo.
Ho riletto i quattro vangeli, per vedere se contengono
qualche sostegno a taluna delle gravi obiezioni da te avanzate.
Non vi ho trovato nulla, ad eccezione di un passo (Lc
22, 35-38). Francamente, mi sembra che la parola di Dio
dovrebbe essere letta più con il cuore che con l’intelletto,
colta nel suo insieme profondo piuttosto che analizzata con
l’atteggiamento del giurista, puntualizzando sui termini e sulle
virgole.
Per introdurci a ciò che, secondo il mio cuore, è lo spirito
del vangelo, nulla mi sembra più adatto di due preghiere.
In una si dice: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori»; nell’altra: «Porta in cielo tutte
le anime, specialmente le più bisognose della Tua misericordia
». Altrove ci sono stati impartiti questi ammonimenti:
«Così anche il mio Padre celeste farà
a ciascuno di voi, se non perdonerete
di cuore al vostro fratello» (Mt
18, 35)… «non giudicate per non essere
giudicati, perché col giudizio
con cui giudicate sarete giudicati e
con la misura con la quale misurate
sarete misurati» (Gv 7, 1-2)… «chi di
voi è senza peccato, scagli per primo
la pietra contro di lei» (Gv 8,7).
Non pare anche a te, signor
Antonino, che lo spirito del messaggio
di Cristo sia proprio quello
del perdono, accanto a quello del fiducioso abbandono in
Lui? «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e
odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e
pregate per i vostri persecutori… Se amate quelli che vi amano,
quale merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa
fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt
5, 43-47).
Tu mi chiederai: è possibile fare politica con il vangelo?
La risposta mi sembra chiara: non solo si può, ma si deve.
Un vescovo del nord Italia, subito dopo l’attentato al World
Trade Center, quando ferveva il dibattito su quale risposta
dare al terrorismo, si è espresso alla tivù in questi termini.
«San Francesco mi sta bene come santo, ma non come
ministro degli esteri». Il papa, però, nel messaggio
per la giornata mondiale della pace (1° gennaio 2002), ci
ha ammoniti: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia
senza perdono». Perciò non dobbiamo temere di dire anche
ad un vescovo: «Rifletti, perché alla luce del vangelo ora
stai sbagliando». Qualcuno, a suo tempo, lo fece con il vescovo
Romero, in Salvador, ed è stata una illuminazione,
che ha portato il vescovo alla conversione.
La giustizia? Può essere una di quelle parole «contenitore», prive di significato definito o, meglio, alle quali ciascuno
sembra essere libero di attribuire il contenuto che più
preferisce. Così c’è la giustizia dei carabinieri, che sarebbero
legittimati ad uccidere i «malfattori» in nome della legalità;
c’è quella di George W. Bush in nome della civiltà occidentale
e quella di Bin Laden in nome dell’islam; c’è la giustizia
che Sharon invoca per gli ebrei, quella reclamata dai
palestinesi, quella che Milosevic pretende per i serbi, quella
che le nuove destre estreme europee reclamano in nome
del diritto alla salvaguardia della propria identità culturale…
Tutti rivendicano la legittimità dell’uso della forza in nome
della loro giustizia, ovviamente l’unica degna di questo nome.
Così si perpetua il gioco al massacro.
C’è poi la giustizia del «discorso della montagna», al quale
si ispira il papa: la giustizia dei «poveri in spirito», dei «miti
», dei «misericordiosi», degli «operatori di pace» e… degli
utili idioti pacifisti. Tu dici: «Le beatitudini sono riferite al singolo
individuo». Così esisterebbero un’etica cristiana individuale
e un’etica cristiana sociale, che possono anche essere
antitetiche? Dici ancora: «Tutte le volte che Gesù incontra
dei soldati non dice loro di buttare la spada alle ortiche,
ma di fare con onestà il loro mestiere… anche uccidendo».
Ma questo non è scritto nel vangelo
o negli Atti degli apostoli. Io ho trovato
solo un passo, che potrebbe
prestarsi a qualche equivoco e che
recita: «Chi non ha spada venda il
mantello e ne compri una» (Lc
22,36). Ma non credi che sia lo sfogo
amaro di Colui che si trova davanti
all’ostinato rifiuto del mondo di
accoglierlo? Ha operato il bene, eppure
lo tratteranno come un malfattore.
Allora si acquistino pure delle
spade, così si avrà un motivo in più
per calunniarlo. «Perché vi dico: deve compiersi in me questa
parola della Scrittura: e fu annoverato tra i malfattori»
(Lc 22,37).
Tu dici infine: «Si può essere operatore di pace pur combattendo
(pensa ai santi militari, per i quali la spada non è
stata d’intralcio alla santificazione)». È vero: per esempio,
san Francesco e sant’Ignazio di Loyola sono stati soldati;
però si sono guadagnati la santità non perseverando nella
guerra, ma dopo aver cambiato radicalmente vita, a dimostrazione
che nessun errore è tanto grande da non permettere
una luminosa redenzione, con l’aiuto del Padre, a
patto di non ostinarsi a costruire giustificazioni su giustificazioni,
ma purificandosi in un profondo pentimento.
Invece sembra che, dalla battaglia di Ponte Milvio in poi,
gli uomini si siano dati un gran da fare per elaborare ogni
giustificazione che consentisse loro di professarsi cristiani
pur continuando a fare i propri comodi. Forse il più subdolo
e tragico tiro mancino che la storia ha giocato alla chiesa
è stato, nell’anno 313, l’editto di Milano di Costantino,
quando il cristianesimo è diventato religione di stato (e quindi
strumento di potere) e il convertirsi una faccenda di convenienza
politica.
Ho l’appello contro la guerra di alcuni veterani delle forze
armate degli Stati Uniti. In esso sta scritto: «Se mai i popoli
dovranno essere liberi, deve arrivare un momento in cui
essere un cittadino del mondo ha la precedenza sull’essere
il soldato di una nazione. Quel momento è arrivato».

ANTONINO MUSSO GIANCARLO TELLOLI




«Nestlé? No, grazie!»

Quando il latte uccide
Il prodotto della multinazionale uccide migliaia di bambini.
Come un attacco alle Torri gemelle. Quotidiano.

Da qualche tempo siamo impegnati in una campagna
di boicottaggio contro la NESTLÉ, appoggiati
alla «Rete italiana boicottaggio
Nestlé» (R.i.b.n.) (1). La multinazionale promuove
la vendita del latte in polvere con metodi ritenuti illegali
dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) e spaccia addirittura per «aiuti»
le sue scorrette pratiche di marketing. «Ogni giorno
4.000 bambini nel sud del mondo potrebbero essere
salvati dalla morte per malattie e denutrizione se
fossero allattati al seno e non con latte in polvere» dice
l’Unicef.
Quattromila bambini al giorno! Nel terribile attacco
alle Torri gemelle sono morte circa lo stesso numero
di persone: i mezzi di comunicazione ne hanno
dato amplissimo risalto, condannando gli atti terroristici.
Ma nel caso della Nestlé, sebbene i dati Unicef siano
da brivido, pochissimi ne parlano e, comunque, anche
quando ne veniamo a conoscenza, sembrano cifre
esagerate.
Eppure non è così. Anche noi stentavamo a credere
che il problema fosse di tali dimensioni e quindi abbiamo
scritto all’Unicef, che dopo poco tempo ci ha
risposto nella persona del presidente Gianni Micali,
che ha confermato la veridicità dei dati.
«Ovunque – scrive Micali nella lettera di risposta
– i benefici dell’allattamento al seno
sono incontestabili, ma nei Paesi in
via di sviluppo (Pvs) l’allattamento naturale è indispensabile.
Infatti, la sopravvivenza dei bambini di
questi paesi dipende dalle proprietà del latte materno,
in grado di aumentare le difese immunitarie e di
proteggerli contro la diarrea e le infezioni intestinali
e respiratorie, cause principali della mortalità infantile
nei Pvs. A determinare la pericolosità dell’allattamento
artificiale è soprattutto la scarsa igiene dei
contesti in cui viene utilizzato. Spesso le famiglie povere
diluiscono eccessivamente questi prodotti con acqua
non potabile e li versano in biberon sporchi, aumentando
il rischio di malattie. Rispetto ai neonati allattati
esclusivamente al seno, quelli nutriti con latte
artificiale sono esposti ad un rischio dieci volte maggiore
di infezioni batteriche che richiedono il ricovero
in ospedale, e ad un rischio quattro volte superiore di
meningite e di infezioni all’orecchio medio e gastroenteriti.
Nonostante gli indubbi benefici del latte
materno, solo il 44% circa dei bambini nei Pvs viene
allattato esclusivamente al seno e il fattore determinante
di tale realtà è sicuramente l’inesorabile promozione
gratuita dei surrogati artificiali.
Il fatto che questi campioni vengano distribuiti gratuitamente
dagli stessi medici e infermieri invita facilmente
una madre a passare dall’allattamento al seno a
quello dal biberon. Dopo che il bambino è stato nutrito
con latte artificiale anche solo per pochi giorni e
si è abituato alla tettarella di gomma, è difficile che accetti
nuovamente il seno. Inoltre, in quest’arco di tempo
la produzione di latte materno diminuisce notevolmente.
Quindi, la madre dovrà ricorrere definitivamente
al latte artificiale, che a questo punto sarà
costretta a comprare con un conseguente dispendio di
denaro. E chi non può permettersi scorte sufficienti,
spesso diluisce il prodotto oltre misura, provocando
così al bambino casi di diarrea e infezioni intestinali.
Tali problemi vengono raramente spiegati alle donne
durante la consegna dei campioni-omaggio e per tale
motivo è ancora alto il tasso d’allattamento artificiale,
così come è alto il numero delle piccole vittime.
L’Unicef, insieme a diverse Organizzazioni non governative
(Ong) e l’Organizzazione mondiale della sanità
da 20 anni condanna e combatte la promozione dei
surrogati artificiali del latte materno nei reparti mateità
degli ospedali e nelle altre strutture sanitarie dei
Pvs.
Dal 1981 esiste un apposito “Codice internazionale
sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno”,
sottoscritto dall’Unicef, dall’Oms, da varie Ong
e da rappresentanti dell’industria di alimenti per bambini.
Numerose violazioni commesse da alcune industrie
multinazionali del settore sono state denunciate
nel 1996 con il rapporto Cracking The Code (“Infrangere
il codice”). La Nestlé è stata riconosciuta tra i
maggiori responsabili di questo tipo di violazioni, ed è
quindi stata fatta oggetto di una campagna di denuncia
che è tuttora in atto, dato il reiterarsi di questi comportamenti».
Ora, lanciamo un appello a voi lettori di Missioni
Consolata: al fine di spingere la Nestlé a mutare
politica e a rispettare il Codice internazionale,
vi chiediamo, di astenervi dal comperare Nesquik
e Nescafé (prodotti simbolo della multinazionale) fino
a quando la Nestlé non rispetterà il Codice internazionale
e per i più coscienziosi, di esporre per iscritto
alla Nestlé il motivo di tale decisione (2).
Contiamo nella vostra collaborazione, per evitare che
ogni giorno 4.000 bambini continuino a morire ai margini
della storia, con il silenzio-assenso di noi tutti.
(*) Gruppo missionario di Casella D’Asolo (Treviso)
(1) Per contattare la «Rete Italiana Boicottaggio Nestlé»:
E-mail: ribn@yahoo.com
Sito internet: www.ribn.it
Fax: 06.8270876
(2) Indirizzare a:
NESTLÉ ITALIANA SPA,
viale G. Richard n.5,
20143 Milano
www.nestle.it

Paolo Baruffa Patricia Xillo




«Venite donne, è qui la festa!»

«È sempre misero chi a lei s’affida, chi le confida malcauto il core…». Detto così, il giudizio del duca di Mantova sulla donna (nel «Rigoletto» di Giuseppe Verdi) sembra un po’ troppo pessimistico: maschilista e misogeno.

Tuttavia, in questo florilegio prenatalizio di supermercati, ipermercati, «shopville», «discount» e, persino (lo sapete?), «cleromarket» (deo gratias), avete mai provato a confessare alla vostra compagna che avreste volentieri fatto un giretto al mercatone per buttare un occhio?

Se vi è capitato, vi ricorderete di aver firmato la vostra condanna, perché la vostra dolce compagna, improvvisamente galvanizzata da questa idea, vi ha trascinato in una estenuante maratona tra banchi, reparti e scale mobili di uno di questi paradisi della famiglia tipo. Il teatro, cioè, pervaso dall’inebriante e dolciastro profumo di saponette, delle memorabili e fantozziane «spedizioni commerciali» della sana famiglia italiana con bambini, il sabato pomeriggio.
Un rito di massa che, dopo la terza ora di assurda permanenza nei reparti, riduce un individuo, non particolarmente votato allo shopping, ad un barcollante e stravolto babbo-natale, sepolto da pacchi, pacchetti, borsoni e scatoline… Però il marito, mentre provava il costume per le spiagge alle isole Seicelle, ha fatto la pipì nel gabinetto di prova; poi dall’interno ha gridato alla moglie: «Non è la misura giusta!». E lei: «Guarda che perdiamo Chiara! Fai veloce che chiudono!».

Ma il meglio di sé la vostra fantasiosa compagna potrà darlo nella più elegante «shopville», tra le sue scintillanti boutiques: in pratica un invitante e tentacolare market show.

Dopo un suo primo approccio alla «shopville», voi non siete più in grado di cogliere il fascino delle vetrine luccicanti, del «paghi due e prendi tre», del «compri a natale e paghi a pasqua»: insomma delle raffinate e suadenti tecniche di promozione delle vendite. Lei poi organizzerà irresistibili matinées con amiche e colleghe, tutte entusiaste alla prospettiva di un tour della «shopville» con escursioni al bar (oh, quei croissants col cappuccino!), con lunghe soste dal giornielliere e nelle maison e atelier, tra griffe e deliziose «creazioni».

E, poi, vuoi mettere? Ti si rompe un tacco? C’è il «tacco espresso»… Hai i capelli un po’ spenti? C’è l’«intercoiffeur»… E c’è il meccanico, il gommista. «Ragazze, faccio un salto a farmi gonfiare le gomme e vi raggiungo subito!» dice ovviamente lei… Ma c’è anche il «discount», molto conveniente. Sì, è vero, ma è così squallido: niente bar, non parliamo di ristorante, compri e scappi dalla malinconia. Non c’è confronto.

Insomma la vostra cara compagna ha scoperto il programma ideale per i noiosi giorni di pioggia e il più efficace rimedio nei momenti di depressione: si fa un giro alla «mecca del consumatore». E, in questo «paese di bengodi», ci si rifà gli occhi e… magari il guardaroba. Specie a natale.

Dunque: aveva ragione il duca di Mantova a dire «è sempre misero chi a lei s’affida»? O forse quel grande poeta, che scriveva: «donna: mistero senza fine bello?».

Ma, quanto a consumismo, gli uomini sono poi tanto diversi dalle donne?

Arcadio Corradini




Il bene del singolo o quello della collettività?

«Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te».

Questa regola non è così d’oro come si è soliti ritenere. La preziosità infatti dipende da «ciò che vorresti». E tutti sperimentiamo quanto differenti e contraddittorie siano le opinioni, convinzioni e categorie di valori cui ognuno fa riferimento nelle sue scelte. Molti oggi sono convinti che occorre lasciare il più possibile spazio all’iniziativa personale, affinché si raggiungano risultati positivi per tutti.

«Sii egoista e migliorerai la tua vita! Nel cercare il meglio per te, contribuirai al progresso di tutti!». Il ragionamento è quasi un assioma. Ma è il principio su cui si fonda la distruzione dell’umanità come comunità, dove invece si dovrebbe perseguire il «bene comune» con l’obiettivo di garantire una vita dignitosa ad ogni suo componente: solo così sarebbe reale il bene di tutti.

Nel «fare o non fare» ci troviamo a dover scegliere tra due sistemi di pensiero: uno che dà risalto al valore del singolo per il bene di tutti e un altro che cerca di promuovere il «noi cornoperativo» per il bene di ciascuno.

Nell’esaltazione dell’iniziativa privata la regola d’oro potrebbe essere tradotta con questa sequenza logica:

«Io ti lascio libero di fare ciò che vuoi. Accanto ad altre persone libere, sarai costretto a migliorare sia il tuo modo di produrre (beni e servizi) sia quello di vendere i tuoi prodotti (se non vendi, fallisci). La concorrenza diventerà il motore di sviluppo e garantirà standard sempre più alti della qualità della vita per tutti. La competizione richiederà di attrezzarsi per una lotta dura contro gli avversari-concorrenti: se vuoi vincere, devi essere il più forte, il più competitivo, il più conveniente. La tua squadra dovrà prevedere mosse vincenti di difesa e attacco: o vinci o perdi. Quali strumenti utilizzerai? Tutti i possibili: leggi, mercato, armi».

La regola d’oro è salva. Lascio che gli altri facciano ciò che ritengono più opportuno. È così che desidero anch’io di essere trattato dagli altri. Tutti liberi di cercare i propri vantaggi!

Da più parti si replica che questo sistema provoca emarginazione ed esclusione, concentrando privilegi e ricchezze nelle mani di pochi vincenti. Però molti sono convinti che, per ora, sia la formula migliore per lo sviluppo e il superamento della povertà. Ma se così è, come spiegare i muri di separazione attorno ad alcuni quartieri per impedire l’accesso ad ogni estraneo, il moltiplicarsi dei sistemi d’allarme e delle guardie private di vigilanza?

La regola d’oro forse è servita a far maturare nell’umanità l’idea della pari dignità di ogni uomo e donna, concetto sempre messo in discussione quando si sono dovute prendere delle decisioni per garantire pari opportunità di accesso alla fruizione delle ricchezze di questo mondo.

Ma la regola d’oro acquista il suo vero valore solo in una logica che persegua, nello stesso tempo, e il bene del singolo e della collettività. Nemmeno l’imperativo «ama» è sufficiente a garantire il bene per tutti. Gesù ha aggiunto un’altra indicazione di percorso: «Amatevi l’un l’altro come io vi ho amati», introducendo la nuova regola d’oro del servizio, del dono di sé.

Chi nella vita cerca i suoi vantaggi forse offrirà al mercato qualche prodotto in più, ma priverà l’umanità di una ricchezza irreperibile altrove: il dono della sua stessa esistenza, del suo essere per – con – dagli… altri.

Il nostro «ben-essere» dipende da quello che sappiamo produrre per gli altri.

Filippo Gervasi




Perché si fanno le guerre?

In attesa della nuova guerra contro Saddam, l’autore parla
dei conflitti nel Golfo Persico, nell’ex Jugoslavia e in Afghanistan.

Sottopongo ai lettori di Missioni Consolata alcune
mie considerazioni. Parto dall’affermazione
«islam guerriero», per confrontarla con i fatti di
questi ultimi 20 anni.
Giusto una ventina d’anni fa, l’Iran, cacciato lo scià,
veniva assalito dal laicissimo Iraq di Saddam Hussein. Era
una guerra fra musulmani, ma non era stato l’«islam guerriero
» a scatenarla. Furono gli Stati Uniti (Usa)
a commissionarla, armando
e finanziando
Saddam Hussein. Ci
furono un milione di
morti e otto anni di
guerra. Non mi risulta
che qualcuno sia stato
chiamato dinanzi a un
tribunale internazionale
per rispondere di
quei morti.
Certamente quel
«servizio» ebbe un prezzo:
infatti, quando Saddam
Hussein chiese all’ambasciatore americano «luce verde»
per occupare il Kuwait, gli fu data. Attirato in trappola
Saddam, non ci si limitò a liberare il Kuwait, bensì a
bombardare l’Iraq e ad annientare il suo esercito. Poi ci
furono l’embargo e altri saltuari bombardamenti contro
il paese.
Sono passati pochi anni ed è la volta della Repubblica
Federale Jugoslava (RFJ). Essa viene distrutta, ridotta
a pezzi, come una pecora sbranata da lupi. Anche qui
l’«islam guerriero» non c’entra; in loco ci sono i musulmani,
certo, ma sono preziosi alleati dell’Occidente nel
processo di disgregazione che esso ha deciso per quella
regione balcanica.
Vale la pena di ricordare alcuni «dettagli». L’intervento
diretto degli Usa (quello indiretto – embargo, armi e altro
-, di cui non si sono dati la pena di comunicare, era
in opera da un pezzo) inizia con il bombardamento contro
i serbi della Bosnia-Erzegovina, giustificato dalla «strage
del mercato» (l’Onu poi accerterà che il razzo era partito
dal settore musulmano e non già da quello serbo). Il
bombardamento di Belgrado e la distruzione sistematica
della R.F.J. e del Kosovo hanno come copertura la
«strage di Racak». Però una commissione delle Nazioni
Unite rivelerà essere stata una farsa (vedi La Stampa,
30 ottobre 2001), della quale, paradossalmente,
Milosevic è tuttora accusato dal tribunale dell’Aia.
E siamo all’«11 settembre».
A distanza di 9 mesi (mentre scrivo), né un tribunale
né un’autorità internazionale ha accertato e processato
un solo terrorista. Tuttavia, subito, le parole (stravolte)
hanno assunto un altro senso, di comodo, con
insospettabili adesioni di persone che dovrebbero
essere illuminate dallo Spirito. Si è parlato di «atto
di guerra», di «legittima difesa», di operazioni di
«polizia internazionale». Ma l’atto di guerra presuppone
l’azione identificabile di uno stato;
la legittima difesa, un aggressore visibile
e ben individuato, nonché una risposta
immediata per impedire
l’evento. Quanto all’operazione di polizia,
supportata da missili Cruise,
bombardieri e altri strumenti di morte,
è un segno del livello di ipocrisia
e stravolgimento intellettuale a
cui i nostri capi ci hanno portato.
Gli Stati Uniti hanno affermato che era stato Bin
Laden e la sua organizzazione Al Qaeda. Però si sono
ben guardati dal dae le prove, e a ragion veduta: se le
avessero date, avrebbero dimostrato
di essee gli autori, perché Bin
Laden e Al Qaeda sono, visibilmente,
una loro creatura.
Nel recente passato gli Usa
hanno agito contro i sovietici in
Afghanistan, in Cecenia e in
Cina; hanno destabilizzato la
Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, per
mettere in scena il genocidio
da parte dei serbi e
giustificare i propri
bombardamenti.
Se non fossimo
ciechi o decisi ad esserlo,
vedremmo
che l’11 settembre
è stato l’espediente
perfetto, lo strumento preciso, per attuare
la politica che il governo Usa vuole
perseguire, superando nel contempo
il suo isolamento internazionale.
Grazie ad esso, ora Bush figlio, dopo
aver aggredito l’Afghanistan, può
continuare l’azione contro l’Iraq,
completando l’opera patea, minacciare
ogni altro stato (tra i primi
l’Iran e via via chi riterrà opportuno);
dando un volto al nemico, ancorché
di fantasma, può perseguirlo dove gli fa comodo e giustificare
lo scudo spaziale, l’ingigantirsi della Nato e della
sudditanza degli stati membri.
È un’incredibile messa in scena, dove i poveri (unica
realtà indiscutibile) proveranno sulla loro pelle i frutti della
tecnologia più avanzata.
Capire l’islam? In primis, è urgente capire chi siamo
noi. E, sul tema, mi sembra particolarmente centrato il saggio
di Aleksandr Zinov’ev «Il totalitarismo dell’Occidente».
Qualche riflessione la suggerirei anche agli alti esponenti
della Chiesa e all’Ufficio per la difesa della fede, visto che
le massime gerarchie hanno approvato tre guerre di bombardamento
(in Bosnia-Erzegovina, Repubblica Federale
Jugoslava, Afghanistan). La guerra sfugge alla morale: è
sempre cieca e brutale. Ma perché le uniche
vite che contano sono quelle degli aggressori,
resi quasi invulnerabili dalla loro
costosissima tecnologia?…
Recentemente sui giornali ho letto tre
episodi:
– lo stanziamento da parte dell’Amministrazione
Bush d’una certa somma
per convincere le donne alla castità, come
mezzo per prevenire aborti;
– le dichiarazioni in Cina dello stesso
presidente a favore dei «diritti umani» e l’invito ad un accordo
col Vaticano;
– la sorprendente sincronia con cui all’Onu Santa Sede e
Stati Uniti si sono pronunciati per fermare le ricerche sugli
embrioni umani.
Sia chiaro: non intendo entrare nel merito delle singole
questioni; però mi domando quale sia il prezzo di scambio
in tale accordo e quale influsso abbia avuto sull’approvazione
della guerra di bombardamento in Afghanistan…
Un pensiero di solidarietà e apprezzamento lo rivolgo
a Paolo Moiola e ai redattori che, su Missioni Consolata,
si espongono per portare un po’ di verità e di chiarezza nel
mare di disinformazione in cui siamo avvolti.

GIUSEPPE TORRE




GLOBALIZZAZIONE / Un altro mondo non è possibile?

Egregio professor Panebianco

Vogliamo accettare un mondo dove 4 miliardi di persone sopravvivono con 2 dollari al
giorno? Un mondo dove alcune persone possono avere "stipendi" maggiori del
Prodotto interno lordo di interi paesi? Eppure in molti cercano di legittimarlo asserendo
che questo è l’unico mondo possibile. No, forse non è proprio così…

Egregio professor Panebianco, non sono mai stato un suo estimatore. Tuttavia, per avere
un’informazione il più possibile completa, anch’io leggo i suoi editoriali sul
"Corriere della sera".

"Un’idea pericolosa – lei scrive (Angelo Panebianco, Vanataggi globali e la
società chiusa, Corriere della Sera del 23 giugno 2001) – si va diffondendo. È
l’idea che i contestatori della cosiddetta "globalizzazione" abbiano più
ragioni che torti".

Il pericolo non sono i danni evidenti ed esplosivi prodotti dalla globalizzazione, ma
sono i contestatori della stessa. Questa sua affermazione ha dell’incredibile,
professore!

"Tutti costoro accettano troppo facilmente gli slogan degli antiglobalizzatori:
credono davvero che il potere di vita e di morte sui destini del mondo sia nelle mani di
un pugno di multinazionali".

Le multinazionali non sono un pugno, ma qualcuna di più: 63.459 secondo le statistiche
dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite.

Le 200 multinazionali più grandi rappresentano oltre il 30% dell’attività
economica mondiale. Il fatturato della General Motors è più elevato del prodotto interno
lordo della Danimarca; quello della Ford è maggiore del Pil del Sudafrica. Le entrate
dell’Ibm superano ampiamente il prodotto interno lordo dell’Argentina. E così
via. Davanti a numeri simili, chi può dubitare del potere di vita e morte delle
multinazionali? Però, proviamo ad immaginare che queste compagnie siano
"etiche" e, dunque, non abusino del loro potere. Andiamo a vedere, come direbbe
la Confindustria, quello che effettivamente fanno. Ebbene, l’elenco dei misfatti di
cui esse sono imputabili è lunghissimo. Ma facciamo pure qualche nome.

Le multinazionali statunitensi Chiquita, Dole e Del Monte posseggono i 2/3 del mercato
mondiale delle banane. Nel loro curriculum sta scritta una lunga lista di crimini
(sociali, ambientali e sindacali). Interi paesi latinoamericani (Honduras, Guatemala,
Costa Rica, Panama, Ecuador) sono stati segnati dalla loro nefasta presenza.

La Monsanto (Usa) e la Novartis (Svizzera), dopo aver inquinato mezzo pianeta con
pesticidi ed erbicidi, ora si sono buttate sulla manipolazione genetica, non per sfamare
il mondo, ma per instaurare un regime di monopolio sulle sementi.

La multinazionale alimentare Nestlè (Svizzera) è accusata di aver spinto per
l’utilizzo del suo latte in polvere a scapito di quello materno. Secondo
l’Unicef, un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno nei paesi poveri perché
non vengono nutriti con il latte materno, e altri milioni si ammalano.

Le multinazionali petrolifere sono tra i maggiori responsabili dei disastri ambientali
del pianeta. La Royal Dutch-Shell, per esempio, è famosa soprattutto per le sue
operazioni in Nigeria: contro l’ambiente (il fiume Niger) e il popolo degli ogoni.

E che dire del presidente George W. Bush? Tutti sanno che l’ex petroliere texano
ha trovato generosi sponsor nelle compagnie petrolifere statunitensi: Exxon-Mobil, Texaco,
Chevron, sopra tutti. Sarà un caso che, appena entrato alla Casa Bianca, il presidente
abbia dichiarato morto il protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas a effetto serra?

Caro professore, non c’è dubbio che le multinazionali costituiscano un enorme
pericolo per il mondo, soprattutto da quando, in nome del neoliberismo e della
globalizzazione, è passata l’idea di "stati leggeri", privi di un
effettivo potere di regolamentazione e controllo. Quello della perdita di potere degli
stati nazionali è uno degli effetti più subdoli della globalizzazione.

"Credono davvero che la globalizzazione accresca la povertà al di fuori del mondo
occidentale. Nessuno di loro è sfiorato dal dubbio che queste siano falsità. Nessuno di
loro è disposto, ad esempio, a prendere in considerazione il fatto, ampiamente
documentato, che, lungi dall’accrescere la povertà, l’apertura dei mercati
abbia, nell’ultimo decennio, contribuito potentemente a ridurla".

È proprio vero che in questo mondo tutto è relativo. Io non so quale documentazione
abbia in mano, professor Panebianco. Ma forse basterebbe che lei facesse un viaggio nelle
periferie di Lagos, San Paolo, Manila, Lima o di altre megalopoli del Sud del mondo. Le
statistiche più recenti parlano di un miliardo e 175 milioni di persone che sopravvivono
con un dollaro al giorno, mentre altri 3 miliardi ogni giorno portano a casa un po’
di più: 2 dollari (4.500 lire).

D’altra parte, la globalizzazione fa molto bene ai ricchi (chiamiamoli così): ci
sono stipendi annuali che superano il prodotto interno lordo di interi paesi (Charles Wang
della Computer Associated nel 1999 ha guadagnato 507 milioni di dollari) o patrimoni
personali che un paese potrebbero acquistarlo (Bill Gates con 58,7 miliardi di dollari è
il primo, ma anche Silvio Berlusconi con 10,3 non può lamentarsi).

Ghandi diceva: "Il mondo è abbastanza ricco per soddisfare i bisogni di tutti, ma
non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno".

"Il problema è sempre uno, da quando è nato il capitalismo: il conflitto fra i
fautori della società chiusa, tra quelli che pensano che il commercio senza barriere e
restrizioni porti, col tempo, benessere e libertà a tutti coloro che vi vengono
coinvolti, e quelli che lo intendono solo come una forma di sfruttamento e di oppressione
(oltre che, va da sé, di "mercificazione" dell’esistenza)".

Benessere per chi? Libertà di che? Nel mondo globalizzato la sola certezza è la
"libertà di profitto", indipendentemente dai costi sociali che questa produce.
Professore, si ricorda ancora di quella che si chiama "libertà dal bisogno"?
L’evidenza quotidiana dimostra che essa non sussiste per la maggioranza
dell’umanità. E poi, mi scusi, lei contrappone società aperte e società chiuse.
Allora perché paesi ultraliberisti come Argentina, Brasile e Messico sono periodicamente
sull’orlo della bancarotta?

Ma dove il suo ragionamento cade miseramente è davanti al fenomeno delle migrazioni. I
paesi dell’Occidente sono aperti? Lo sono per ricevere i capitali delle speculazioni
finanziarie, ma non per accogliere tutte le persone (donne e bambini compresi) che
scappano alla ricerca di un’esistenza dignitosa.

Lei sceglie il sarcasmo per liquidare coloro che parlano di sfruttamento, oppressione e
mercificazione dell’esistenza. Non è forse sfruttamento quanto avviene in moltissime
unità produttive del Sud del mondo, dove la gente (bambine e bambini compresi) è
costretta ad accettare condizioni di lavoro disumane? Non è forse oppressione non essere
liberi di vivere nelle proprie terre perché concupite da qualche multinazionale? Non è
forse mercificazione dover pagare per curarsi o rimanere in salute?

"Non colpisce il semplicismo del pensiero di certi portavoce del movimento
antiglobalizzazione (che immaginano il mondo retto da un governo occulto delle
multinazionali). (…) Poi ci sono le cose serie (…). Che poco sembrano interessare al
"popolo di Seattle" e ai suoi rispettabili simpatizzanti".

Normalmente, quando si accusa qualcuno di semplicismo, vuol dire che quel qualcuno sta
colpendo nel segno. Caro professore, al contrario di quanto lei asserisce, le cose serie
sono proprio quelle che il "popolo di Seattle" cerca di portare
all’attenzione dei cittadini del mondo: una democratizzazione delle istituzioni
economiche che dettano legge a stati e popoli (Organizzazione mondiale del commercio,
Banca mondiale e Fondo monetario internazionale); uno sviluppo sostenibile che non
distrugga foreste, mari, aria, acqua e non dia l’80% delle risorse al 20% della
popolazione mondiale; la tassazione delle operazioni finanziarie speculative (Tobin Tax),
per colpire quel mondo degli affari dove – come ha scritto John K. Galbraith – il senso di
responsabilità per gli interessi collettivi è nullo; la remissione del debito dei paesi
poveri; una ridefinizione del ruolo del mercato, che non è – come i sostenitori del
"pensiero unico" vorrebbero far credere – una legge di natura, ma una mera
invenzione umana.

 

Egregio professore, spero che il mondo che lei difende un giorno o l’altro si
frantumi sotto il peso delle proprie contraddizioni. Con l’aiuto di quel "popolo
di Seattle" (e di Porto Alegre) che lei liquida con accademica sicumera.

Paolo Moiola




GRAZIE, MR. BUSH!

Il surriscaldamento della terra e le scelte miopi del nuovo presidente statunitense. Si accoderà anche l’Italia di Berlusconi?

L’uso
indiscriminato dei combustibili fossili e il conseguente aumento della
temperatura del pianeta costituiscono un vero pericolo. I modelli al
calcolatore e le simulazioni, effettuate da centri di ricerca, concordano
nel prevedere aumenti della temperatura media che variano, secondo i
laboratori, da 1,5 a 4,5 gradi centigradi in questo secolo. A queste
conclusioni sono giunti gli scienziati dell’Hadley Centre dello Uk
Meternorological Office, quelli dell’Ufficio svizzero dell’ambiente e l’Intergovemental
Panel on Climate Change dell’ONU.

La
valutazione sugli incrementi di temperatura deriva dall’ipotesi di un
raddoppio del consumo di combustibili fossili nel corso del secolo: una
proiezione ragionevole, difficilmente smentibile, se non grazie a scelte
politiche coraggiose che coinvolgano tutte le nazioni. L’aumento di
temperatura avrebbe conseguenze molto gravi: crescerebbe il livello del
mare (con una drastica riduzione delle aree agricole), sparirebbero boschi
e foreste dalle zone temperate, si scioglierebbero i ghiacci perenni delle
regioni polari, si intensificherebbero le precipitazioni e assisteremmo a
violente manifestazioni meternorologiche.

A fronte
di scenari così inquietanti, l’amministrazione Bush si è opposta al
trattato internazionale di Kyoto (dicembre 1997), il protocollo secondo
cui i paesi industrializzati (tra cui l’Italia) dovrebbero diminuire
l’emissione dei gas che, come il biossido di carbonio, intrappolano il
calore realizzando l’effetto serra. Nonostante gli Stati Uniti siano
firmatari del protocollo, il presidente George W. Bush non lo ha
sottoposto al senato per la ratifica. Il trattato, secondo la Casa Bianca,
danneggerebbe l’economia degli Usa.

La signora
Christie Whitman, dell’Agenzia statunitense per la protezione
dell’ambiente, ha cercato invano di avere dall’amministrazione istruzioni
sulle risposte da dare agli alleati occidentali sulla nuova politica
statunitense circa l’uso incontrollato dei combustibili fossili. E, dato
il silenzio, al meeting di Montreal sulla politica ambientale Whitman ha
dichiarato che sarebbe stato più saggio, da parte della Casa Bianca,
esprimere la presa di posizione contro il trattato di Kyoto solo dopo aver
elaborato una strategia alternativa. Non aveva torto Whitman. Ora infatti
l’amministrazione Bush  cerca suggerimenti, consultando scienziati,
economisti e imprenditori in una trafelata azione di recupero.


All’imbarazzo seguito a scelte ambientali discutibili, si aggiunge il
problema della crescita dei prezzi dell’energia. La questione è grave in
Califoia (sesta potenza industriale del mondo), dove il governatore
Davis e l’opinione pubblica accusano l’ex petroliere Bush di favorire una
deregulation (liberalizzazione) del mercato che arricchisce i produttori
del Texas, il suo stato.

Per far
fronte alle crescenti richieste di energia, l’amministrazione Bush ha
pensato di dare il via alla costruzione di nuovi impianti nucleari.
Ebbene, secondo riviste americane conservatrici (quali Forbes), nel
passato gli investimenti statunitensi nel nucleare avrebbero causato solo
perdite. I costi di costruzione e gestione sono stati assai superiori alle
aspettative: e questo sia per errori sia per ragioni tecnologiche. Il vero
problema – si sa – è quello delle scorie. Il loro esaurimento richiede 500
anni! Dove conservarle nel frattempo?

La
questione, in realtà, non è affatto controversa: ben 5 laboratori
americani hanno dimostrato che il risparmio e l’efficienza, più che nuove
centrali nucleari, potrebbero rappresentare la vera soluzione alla crisi
energetica. Nuove tecnologie sul risparmio potrebbero ridurre il
fabbisogno statunitense dal 20 al 47%: una diminuzione corrispondente a
265 centrali da 300 megawatt.


All’osservatore imparziale risulta poco chiaro che cosa impedisca
all’amministrazione statunitense di percorrere quella che, agli occhi di
tutti, è la strada più ragionevole. Soprattutto quando scopre che gli
Stati Uniti, con una popolazione pari al 5% del totale, sono responsabili
del 24% dell’emissioni inquinanti mondiali e che il consumo medio annuo di
energia di uno statunitense è doppio di quello di un europeo e pari a
quello di 16 africani.

(*)
Fisico, Maurizio Dapor lavora a Trento. Oltre a numerosi articoli
pubblicati su riviste scientifiche inteazionali, è autore di due libri
usciti per «La Stampa»: «L’orologio di Albert» (1998) e «Sfere di
cristallo» (1999).

Maurizio Dapor