La legalità conviene

L’Italia è ai primi
posti nel mondo per l’illegalità, l’evasione fiscale, l’inefficienza della
giustizia, il consumo di suolo, la disoccupazione giovanile. Non si può
continuare così, lasciando il paese nelle mani di furbi, affaristi e impuniti.
Soltanto con il coraggio e la coscienza civica si riuscirà a uscire da questa
palude.

Mafia e corruzione sono piaghe infami del nostro
paese. Le cifre annuali dei rispettivi business sono letteralmente da capogiro:
150 miliardi per le mafie (grazie all’accumulazione dei capitali illeciti
derivanti tra l’altro dai traffici di droga, armi, rifiuti tossici, esseri
umani, appalti truccati e via seguitando); 60 miliardi la corruzione, 1.000
euro l’anno per ogni cittadino italiano, neonati compresi, una tassa pesante,
vergognosa e occulta. Altrettanto da capogiro sono alcuni dati che concorrono a
comporre un quadro generale assai inquietante. Per evasione fiscale siamo il
terzo paese al mondo, dopo Messico e Turchia, con un gettito che Confcommercio,
nel 2012, ha calcolato in 155 miliardi di euro. La media europea di consumo del
suolo è del 2,8%, da noi è del 7,3 % (cfr. Ispra,
marzo 2014): un dato devastante in sé e soprattutto per le nefaste conseguenze
che ne derivano sul piano idrogeologico. La disoccupazione giovanile supera il
44% (media europea 22,5%). Per investimenti in cultura siamo ultimi in Europa.
La ricerca praticamente non sappiamo più che cosa sia. La fuga dei cervelli è
una slavina inarrestabile. Le imprese che chiudono sono purtroppo sempre più
numerose, e di quelle ancora relativamente in salute fanno sovente incetta
investitori stranieri. Aggiungiamo ancora che la Banca mondiale, nella
classifica dei paesi in cui conviene investire, colloca il nostro paese agli
ultimi posti su 189 paesi esaminati a causa della inefficienza della giustizia
(cfr. World Bank Group, Doing Business 2015).

In
questo quadro complessivo, la tenaglia mafia/corruzione/evasione
fiscale/inefficienze crea una profonda spaccatura fra l’Italia delle regole e
quella dei furbi, degli affaristi e degli impuniti. Sullo sfondo una palude,
quella degli indifferenti, che non vedono o non capiscono (perché non vengono
loro offerti adeguati strumenti di conoscenza) che ogni recupero di legalità ha
effetti immediati sul reddito nazionale e sulla qualità della vita. Se non
altro perché può ridurre i salassi delle periodiche manovre finanziarie.

In
altre parole, la legalità è una delle chiavi per affrontare la questione
economico-sociale; scegliere la legalità equivale a scegliere uno sviluppo
ordinato, tendenzialmente a vantaggio di tutti. Perché senza regole non c’è
partita o la partita è irrimediabilmente truccata a favore dei soliti: quelli
che senza regole sono e rimarranno sempre
in posizioni di privilegio e superiorità se non di sopraffazione o
sfruttamento, a tutto discapito di coloro che delle regole hanno bisogno per
crescere in diritti e opportunità. Senza regole ci si avvita sempre più e alla
fine si può anche andare a sbattere ritrovandosi sotto un mucchio di macerie.

Per
contro, è evidente che la legalità non è solo una questione di guardie e ladri,
ma una questione che riguarda tutti, da vicino e in presa diretta. Perché la
legalità conviene, ci fa vivere meglio, offre per il futuro prospettive di vita
certamente più serene. Recuperando almeno una parte delle risorse che le varie
forme di illegalità quotidianamente ci rapinano potremo avere, ad esempio, un
campo sportivo in più, un centro per anziani in più, un ospedale meglio
attrezzato, una scuola più funzionante, trasporti più efficienti, periferie
urbane meglio illuminate… tutte cose che non abbiamo, o abbiamo in misura
insufficiente, mentre se l’illegalità ci «vampirizzasse» un po’ meno, le
avremmo di più e meglio e la qualità della nostra vita ne trarrebbe sicuro e
diretto giovamento.

 

Per cambiare le cose e poterci salvare occorre
anche una ritrovata coscienza civica. Che significa rifiuto di omologazione e
conformismo, rifiuto di rassegnazione e quieto vivere. Significa coraggio (come
costruzione sociale collettiva). Coraggio di denunziare quel che non va e di
pretendere soluzioni adeguate. Coraggio di sostenere chi denunzia per non
lasciarlo isolato e sovraesposto. Coraggio di essere coerenti: predicare moralità
e legalità, ma praticare strade opposte, rafforza sempre di più  quel che si dice di voler cambiare. Significa
coraggio di progettare, senza inseguire sempre e soltanto le emergenze.
Coraggio che, nel rispetto della legalità, sappia andare oltre la legalità
stessa, puntando alla giustizia: perché ciascuno possa sperare di avere il suo
e perché le risorse possano essere più equamente distribuite.

C’è
tanta strada da fare, ma è un percorso che si può intraprendere. Insieme. Nel
nostro intresse.

Gian Carlo Caselli

Gian Carlo Caselli




Il Papa del Sud e il risveglio di un continente

Uno degli eventi più importanti negli
equilibri inteazionali di questi ultimi anni è stato certamente il
riavvicinamento fra gli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione cubana.

Un atto di coraggio del presidente nordamericano Obama,
possibile però solo ora che il primo presidente nero degli Stati Uniti è
arrivato all’ultima parte del suo secondo mandato alla guida del paese più
poderoso del mondo. Possibile soprattutto grazie alla mediazione di un papa
speciale (in visita proprio a Cuba e Stati Uniti dal 19 al 28 settembre), che
non ha avuto dubbi sull’esigenza di parlare seriamente di pace, e non rimanere
prigioniero, anche lui, delle troppe belle parole che circolano in un mondo
abituato ormai a non essere conseguente.

Quello che tuttavia non hanno voluto considerare i media
occidentali, specie quelli italiani, è che questo inatteso cambio nella
politica degli Stati Uniti riguardo all’isola della Revolución è
avvenuto perché tutta l’America Latina sta con Cuba, perfino le nazioni come
Colombia e Messico dilaniate dalla violenza e da sempre molto vicine agli
interessi del governo di Washington.

In America Latina, in questo momento, ci sono almeno dieci
paesi che hanno governi di centrosinistra o addirittura di sinistra dichiarata,
come la Bolivia indigena del presidente Evo Morales, quello che ha fatto dono a
papa Francesco, nella sua visita di luglio a La Paz, di un crocefisso guarnito
di falce e martello, o l’Ecuador del presidente Rafael Correa, laureato in
economia e con un master e un dottorato negli Stati Uniti e un altro master
conseguito all’Università cattolica di Lovanio in Belgio. Queste sono prove
inconfutabili del riscatto di un continente che solo vent’anni fa aveva al
potere feroci dittature militari e ora fa incetta di conquiste democratiche
(per esempio, nel campo dei diritti nel lavoro e nella sanità) le quali, al
contrario, incominciano a essere negate a molti proprio nei paesi dell’Occidente.
Ancora un esempio: chi violenta la natura è punibile, nelle nuove Costituzioni
di Bolivia ed Ecuador, con le stesse pene inflitte a chi offende un essere
umano. Questa non è forse modeità? Non è forse etica?

Piaccia o non piaccia, tutto questo è
stato ed è possibile anche per la resistenza, nel tempo, di un paese come Cuba,
o grazie al coraggio di un leader d’avanguardia come Hugo Chávez, il defunto
presidente del Venezuela che, proprio per la svolta impressa non solo nel suo
paese ma anche in buona parte delle altre terre di Simón Bolívar (1783-1830),
ha anticipato il cambio che ora si vive nel continente.

Al cospetto di questa trasformazione l’informazione
occidentale fa a gara a chi, pateticamente, è più capace di irridere le
speranze e i tentativi di liberazione dell’America Latina. Gli interessi degli
ex padroni o di quelli che furono i conquistadores non si discutono.

Nel frattempo, il Brasile, che dalla presidenza di Lula Da
Silva fino a Dilma Rousseff ha condiviso quella svolta politica, è diventato la
settima potenza economica del mondo. Un fatto che, come hanno dimostrato le
intercettazioni (ovviamente illegali) della Nsa statunitense (insieme alla Cia,
i servizi segreti Usa, ndr) ai danni della Petrobras brasiliana,
disturba le strategie commerciali del governo di Washington. Un paese, il
Brasile, che un tempo era considerato solo «la terra del samba e del calcio»,
oggi, insieme a Sudafrica, Russia, India e Cina (in pratica, metà
dell’umanità), è parte dei Brics, il gruppo principale tra i cosiddetti paesi
emergenti.

Alla fine di settembre (dal 28 al 30) si sono riuniti a
Quito, in Ecuador, alcuni fra gli intellettuali e i pensatori più prestigiosi
del continente latinoamericano. Una specie di proseguimento di quello che nel
2001 fu il Forum di Porto Alegre e che, insieme all’insurrezione zapatista in
Messico, venti anni fa (era il 1994), ha il merito, ormai riconosciuto, di aver
fatto risvegliare la coscienza di un continente per tanto tempo schiacciato.

L’Encuentro latinoamericano progresista (Elap) è un
appuntamento organizzato, per il secondo anno, dal Movimiento Alianza Pais
(il partito che sostiene il governo ecuadoriano) e voluto con forza dal
presidente Correa, che continua il discorso portato avanti per anni da Cuba e
ribadito da Hugo Chávez.

Come si può capire, completamente assente era l’informazione
italiana. Per questi media il mondo nasce e muore in Occidente, pur essendo
ormai chiaro che quello di oggi e di domani è un mondo multipolare e che le
istituzioni occidentali (come la Ue) politicamente ed eticamente spesso non
rappresentano più nessuno.

Forse non è un caso che questo vuoto di attenzione e di
conoscenza sia in questi ultimi anni coperto solo da papa Francesco che, quando
lo scorso luglio andò in visita in Ecuador (oltre che in Bolivia e Paraguay),
davanti a una folla di un milione di persone, affermò: «I poveri sono il debito
più grande che ancora abbiamo con l’America Latina». Un credo, come
l’avversione alle guerre, che, in questo momento, è ribadito con sincerità solo
da una parte della Chiesa cattolica, quella più vicina al papa venuto dal Sud.

Gianni Minà

Gianni Minà




I bastioni della sicurezza

Le intercettazioni
telefoniche e ambientali sono come le radiografie per un medico:
indispensabili. Se si vuole accertare la verità, non si può rinunciare a questo
strumento investigativo, fissando però qualche «paletto» che salvaguardi gli
altri diritti coinvolti e bilanci gli interessi in gioco.

Di sicurezza si fa un gran parlare, nel nostro paese, e con
toni sempre forti. In campagna elettorale esagitati. Ma la propaganda e le
strumentalizzazioni possono spingere a scelte illogiche e incoerenti. Penso a
chi per tutelare la sicurezza invoca persino l’impiego dell’esercito nelle
strade. Penso a chi vorrebbe che la flotta respingesse in Libia i disgraziati
in cerca di sopravvivenza (scriviamo queste righe nei giorni dell’ultimo,
gigantesco naufragio). Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre
città con ronde di salute pubblica. E sono spesso le medesime persone che,
mentre strepitano di «tolleranza zero», non si preoccupano più di tanto dei
tentativi – ciclicamente ricorrenti – di smantellare i veri bastioni della
sicurezza, che sono le intercettazioni telefoniche e ambientali.

I vari tentativi di restringere il campo di operatività delle
intercettazioni che hanno costellato la storia del nostro paese negli ultimi
anni, avrebbero infatti ostacolato o condannato a esiti infausti le indagini su
delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e
più solido baluardo. Il segreto della efficacia delle intercettazioni sta nel
fatto che esse sono vere e proprie «radiografie giudiziarie» che consentono di
vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Ma
a certuni non piacciono perché sarebbero troppo «invasive». Facendo un
parallelo fra sicurezza sanitaria e sicurezza sociale, essere contro le
intercettazioni equivale a pretendere che i medici rinunzino a radiografie,
tac, risonanze magnetiche e simili perché – pur essendo utilissime – sono
appunto invasive. Meglio tornare alla medicina tradizionale, battere con le
nocche sulla schiena del paziente facendogli dire trentatrè… Se mai qualcosa di
simile dovesse accadere, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma
tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, potrebbe
accettare che si giochi con la sua pelle. Così come nessuno dovrebbe mai
accettare che si giochi con la sua sicurezza sociale comprimendo la possibilità
di ricorrere a quelle speciali «radiografie» che sono le intercettazioni.

Per fortuna questi tentativi «riduzionisti» sono stati per
lo più respinti. Almeno fino a oggi. E così possiamo tuttora constatare come
l’esperienza di un qualunque ufficio giudiziario inquirente o giudicante
quotidianamente offra un elenco interminabile di casi risolti grazie alle
intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono
individuati, o persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a
questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali.

Personaggi e
cittadini comuni

Per altro, il problema delle intercettazioni e della loro
disciplina sta tornando prepotentemente di attualità sotto un diverso profilo,
quello dell’utilizzo processuale ed extraprocessuale delle conversazioni
registrate. Questo problema, che periodicamente viene riproposto, acquista
speciale intensità quando emergono vicende che riguardano personaggi di una
certa notorietà, soggetti «forti» che hanno voce politica e/o mediatica. In
questi casi, infatti, scatta regolarmente – con significativa tempistica – la
richiesta di interventi restrittivi a tutela di coloro che si trovano sbattuti
o temono di finire sulle prime pagine dei giornali. Preoccupazione più che
comprensibile, ma non c’è populismo nel sottolineare come analoga sensibilità
quasi mai si riscontra quando sono in gioco gli interessi di «semplici»
cittadini comuni. Vero è che da sempre gli «arcana imperii» segnano le
barriere  con cui il potere cerca di
proteggere le sue deviazioni.  Poiché le
intercettazioni violano queste barriere e mettono a nudo il potere, ben si
spiega l’ostilità pregiudiziale di certa politica per gli incisivi controlli
che le intercettazioni consentono e per la divulgazione dei loro contenuti. Ma
questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare siluri sotto la linea
di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri cittadini.

Comunque la si pensi di questa «reattività» selettiva, è un
dato di fatto che le intercettazioni – strumento investigativo irrinunciabile –
pongono però complessi problemi di bilanciamento fra i diversi interessi in
gioco. Vale a dire: l’esigenza di accertare la verità, cioè la colpevolezza o
l’innocenza degli indagati, che può entrare in conflitto con il diritto alla
riservatezza dei soggetti intercettati; il diritto-dovere dei media di
informare; il diritto del cittadino di conoscere le vicende di interesse
pubblico; e infine anche il cosiddetto controllo sociale sulla amministrazione
della giustizia, il diritto cioè dei cittadini di verificare il funzionamento
della macchina giudiziaria. Il giusto equilibrio fra questi interessi non è
facile da trovare, ma va cercato senza sacrificarne nessuno, essendo tutti di
rilevanza costituzionale.

L’informazione e le
intercettazioni

In questi ultimi anni l’informazione ha avuto un ruolo
decisivo per far conoscere e, quindi, per contrastare meglio alcuni gravi
scandali avvenuti nel nostro paese. Basta ricordare le cronache cosiddette di Tangentopoli, Mafiopoli, Bancopoli, Furbettopoli,
Calciopoli, Vallettopoli e via seguitando. O
elencare i principali «scandali finanziari» italiani: dalla vicenda Sindona, ai
fondi neri di grandi imprese italiane (petrolieri e non solo), ai casi
Eni-Petromin, Banco Ambrosiano e Ior, alle trame della P2, ai retroscena del
lodo Mondadori, all’Enimont madre di tutte le tangenti, al crollo di Ferruzzi e
Montedison, alle traversie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, fino ai
crack Cirio e Parmalat e alle scalate bancarie, per arrivare ai giorni nostri
con Expo, Mose e Mafia capitale.

Se non ci fosse stata una informazione attenta (basata
anche su un’ ampia divulgazione delle intercettazioni), come per fortuna invece
c’è stata, la qualità della nostra democrazia avrebbe potuto subire delle
ripercussioni negative. Dunque, il ruolo che l’informazione ha avuto in questi
casi deve costituire un punto di partenza. E se questo ruolo viene cancellato o
gravemente impedito, sono guai. Guai irreparabili, se del processo – mentre è
in corso – non si potesse raccontare più nulla (o quasi). E se, per raccontare
finalmente qualcosa, si dovesse aspettare la fine del processo stesso, una fine
che a causa del pessimo funzionamento della nostra giustizia arriva (se non
interviene la prescrizione che tutto cancella, cfr. MC 4/2015) con
ritardi biblici. Premesso ciò, si comprendono le preoccupazioni che solleva
l’intenzione proclamata dal presidente del Consiglio (per altro senza che sia
stato ancora presentato un qualche progetto scritto) circa la riforma delle
intercettazioni, posto che tra gli orientamenti che si fanno trapelare ve ne
sarebbero di drasticamente ispirati alla riduzione della pubblicabilità delle
intercettazioni, con gravi pene (persino il carcere) per i giornalisti e gli
editori che non rispettassero il divieto.

Accade spesso che si registrino conversazioni non
rilevanti per l’accertamento della verità ovvero relative a fatti e soggetti
del tutto estranei al processo. In linea di principio si è di solito d’accordo
nel ritenere che tali registrazioni non devono essere utilizzabili all’interno
del processo e neppure pubblicate all’esterno. Resta però il problema di
definire la «rilevanza» delle registrazioni tutte le volte che essa assuma
contorni sfumati e non sia possibile ancorarla a parametri univoci. Problema
che si pone soprattutto in presenza di «reti relazionali» articolate che
coinvolgano più soggetti (con posizioni diversificate, anche penalmente
irrilevanti), quando questa rete nel suo complesso possa incidere sulla prova
del reato indagato alla luce della sua tipologia (ad esempio, mafia e
corruzione, che tipicamente si nutrono di un intreccio di relazioni ricercate e
stabilite allo scopo di apparire in un certo modo, così da facilitare il giro
d’affari e l’accettazione nei salotti buoni).

Sciolto questo nodo, fissati i paletti necessari per
delimitare il perimetro delle conversazioni intercettate non utilizzabili nel
processo (in quanto relative a fatti o soggetti estranei), rimane soltanto il
materiale che è utile, necessario per l’accertamento della verità. All’interno
di questo perimetro, comprimere più di tanto la libertà di informazione
(costituzionalmente garantita) mi sembra pericoloso, perché rischieremmo di non
conoscere tempestivamente fatti gravi che i cittadini hanno il diritto di
conoscere. Di più: si impedirebbe anche alle autorità di controllo e al potere
politico che voglia ben funzionare di intervenire per frenare o raddrizzare le
storture segnalate. In altre parole, comprimere oltre i limiti suddetti il
diritto/dovere di informazione rischia di far prevalere l’«Italia delle impunità»
sull’«Italia delle regole». Con pregiudizio diretto per i cittadini onesti.

Grande fratello e
sperpero di denaro?

Si è soliti dire (e a forza di ripeterlo si finisce per
crederci) che la magistratura italiana avrebbe creato un «grande fratello» che
tiene sotto controllo (o scacco) milioni di cittadini, sperperando una quantità
incredibile di denaro pubblico. I dati della Procura di Torino parlano un
linguaggio tutt’affatto diverso. Le rilevazioni statistiche evidenziano che il
numero delle indagini (fascicoli) in cui è stato utilizzato lo strumento delle
intercettazioni telefoniche è in media di circa 300 all’anno, a fronte di un
introito medio dell’intero ufficio di Procura di 170.000 (noti e ignoti)
fascicoli all’anno. In percentuale, di tutte le indagini svolte dalla Procura
di Torino, quelle condotte anche attraverso l’utilizzazione di intercettazioni
telefoniche restano sotto lo 0,5%.

Per quanto riguarda la spesa, dal 2003 essa ha subito un
decremento costante. È giusto tuttavia continuare a pretendere un certo self restraint dei
magistrati sul numero delle intercettazioni, ma non è certo colpa dei
magistrati se il crimine (specie quello organizzato) ha la diffusione che ha
nel nostro paese, e se, per fronteggiarlo, gli strumenti principe sono i
collaboratori di giustizia e le intercettazioni.

Infine, va ricordato che, in Italia, tutte le
intercettazioni sono disposte e si svolgono sotto il controllo della
magistratura. In altri paesi quelle disposte dalla magistratura sono in
percentuale ridottissima rispetto ad altri organismi pubblici (si pensi alla
statunitense National Security
Agency e al caso Edward Snowden), mentre si sta
estendendo enormemente la raccolta massiva di intercettazioni telefoniche e di
dati internet soprattutto sul versante della lotta al terrorismo
internazionale. Ora, non v’è dubbio che il terrorismo vada combattuto senza
riserve, ma la risposta non può essere soltanto «militare». La sicurezza è un
bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e
dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che tuttavia non può essere
esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che i diritti diventino ostaggio della
sicurezza. Se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità,
allo sviluppo umano, ecco che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e
inefficaci. Un circolo vizioso che occorre rompere. Anche perché esso rischia
di preparare e introdurre nuovi poteri. Magari così assoluti da costituire – al
di là delle intenzioni – un pericolo per le libertà e la democrazia, nel
momento stesso in cui si avviano azioni finalizzate a tutelare proprio libertà
e democrazia.

Gian Carlo
Caselli

Tag: sicurezza, intercettazioni, diritti, giustizia

Gin Carlo caselli




Lo scandalo della prescrizione

Toiamo a parlare di
corruzione e dei danni che produce. Pur registrando livelli da primato, nelle
carceri italiane ci sono soltanto una decina di persone (su 54 mila!) detenute
per quel reato. Colpa anche della prescrizione che, da norma di garanzia, si è
trasformata in una scappatornia legale per imputati eccellenti e colletti
bianchi. Le soluzioni ci sarebbero, ma troppo spesso manca la volontà politica.
Così, a 25 anni dall’uscita di «Educare alla legalità», in Italia la situazione
è addirittura peggiorata.

Papa Francesco ha fatto riferimento al tema della
corruzione, dal giorno della sua elezione a Pontefice, in moltissime occasioni,
in particolare nella Evangelii gaudium.
Parole dure egli le ha pronunziate anche in occasione dell’incontro con la
delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre
2014). Secondo il Papa la corruzione, come gravità, viene subito dopo la tratta
delle persone. È un male più grande del peccato e, più che perdonato, va
curato. È diventata «una pratica abituale nelle transazioni commerciali e
finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti
dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà». Quanto alla sanzione
penale, essa «è come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i
grandi liberi nel mare». Meritano maggiore severità le forme di corruzione «che
causano gravi danni in materia economica e sociale». Per esempio, «le gravi
frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione»; ovvero «qualsiasi sorta di ostacolo frapposto
al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per
le proprie malefatte o per quelle di terzi».

Di
corruzione, purtroppo, ce n’è un po’ dovunque, ma in Italia – almeno rispetto
gli altri paesi europei – di più, se è vero che da noi si registra una
corruzione pari al 50% di quella dell’intera Comunità. Le parole del Papa,
dunque, ci interpellano in modo speciale.

 La prima considerazione da fare è che la
corruzione (nonostante le tante inchieste, da «Tangentopoli» in poi) sembra
riprodursi all’infinito. C’è quindi prima di tutto un problema di regole, di
leggi che riescano a rendere la corruzione non conveniente. Questo problema
investe l’adeguamento delle pene (non solo carcerarie; anche e soprattutto  interdittive, quelle in ultima analisi ancor
più temute e  quindi assai efficaci).
Nonché la definizione delle fattispecie, che una recente riforma (attesa per
oltre vent’anni e tradottasi nella cosiddetta «legge Severino») ha finito per
confondere e annacquare, costringendoci a mettere in cantiere una nuova
riforma. Ma ancor più gravi e urgenti sono i problemi connessi alla certezza
della pena. Se i tempi del processo sono biblici e la prescrizione quasi sempre
inghiotte tutto e lo azzera, o si interviene
efficacemente su questo versante o si continua a ballare sul Titanic.
Per salvarsi bisogna avere coraggio: interrompere la prescrizione quanto meno
con la condanna di primo grado, come accade ovunque nel mondo salvo che da noi
(ed ecco perché i processi non finiscono mai…), e abolire il grado di appello,
che di fatto non c’è nei sistemi accusatori cui anche noi ci siamo allineati
col nuovo codice di procedura penale del 1988.

Occorre
poi prendere atto che la corruzione in Italia non è riconducibile a un circolo
delimitato per quanto esteso, ma  è
sempre più un vero e proprio «sistema», che mette in crisi l’intero apparato
economico-sociale del paese. Per poter fotografare questa realtà, la legge
anticorruzione deve allo stesso tempo essere inserita in un sistema di misure e
interventi che la supportino. Per cominciare vanno incentivate le denunzie
delle situazioni illecite. La corruzione è un fenomeno occulto, e il controllo
più efficace è quello interno (nell’ambito pubblico e privato), per cui sono
indispensabili misure  protettive e
premiali per i collaboratori di giustizia. Va inoltre disciplinato l’impiego di
«agenti provocatori» come fonte di prova. Nello stesso tempo anche il nostro
paese deve dotarsi di forme di difesa tipo Whistleblower
(letteralmente «suonatori di fischietto»), ovvero le vedette civiche che con le
loro segnalazioni possono smascherare comportamenti illeciti. Ovviamente tutto
ciò deve viaggiare di pari passo con un monitoraggio e un potenziamento degli
istituti ispettivi che puntino a uno Stato con mura di vetro e porte blindate,
attraverso la trasparenza integrale della pubblica amministrazione (specie in
punto svolgimento ed esiti di gare e concorsi; dati sull’uso delle risorse;
bilanci). Utili possono essere appositi test di integrità per politici,
amministratori e funzionari. Confisca dei beni e reimpiego per fini sociali
vanno estesi dalla mafia alla corruzione. Per la loro decisiva funzione di
reati civetta vanno perseguiti – con efficacia e non per finta – il falso in
bilancio, l’evasione fiscale, vari reati societari e l’autoriciclaggio
(quest’ultimo dopo una lunga attesa segnata da veti contrapposti, alla fine
vietato e punito, ma con la ambigua esclusione del reimpiego del denaro sporco
per… godimento personale).

 

Va da sé infine che la battaglia va combattuta con
determinazione, senza che gli ammonimenti
del Pontefice restino isolati o peggio senza seguito concreto. Come
invece sembra purtroppo essere accaduto per la nota pastorale della Commissione
ecclesiale della Cei «Giustizia e pace» del 4 ottobre 1991 intitolata Educare
alla legalità, che denunziava come inquietante «la nuova
criminalità così detta dei “colletti
bianchi”, che volge ad illecito profitto la funzione di autorità di cui è
investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza
collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a
interessi di parte». Parole energiche e di straordinario valore, ma presto
dimenticate: forse perché non vi è stata quella «mobilitazione delle coscienze»
che i vescovi di allora segnalavano come assolutamente necessaria, e che ancora
oggi è conditio sine qua non per
sperare di  frenare e ridurre i fenomeni
illegali. Perché «non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo
disimpegno ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma
spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si
potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo
criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio”
politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità».
Peccato che queste parole del 1991 sembrano essere state  come cenere al vento, tanto da poter essere
ripetute pari pari ancora oggi. La speranza è che gli interventi di papa
Francesco riescano finalmente a trasformare le buone intenzioni in vere
attitudini cristiane.

Gian Carlo?Caselli

Gian Carlo Caselli




Tra aquile e merli neri

Kosovo /1

«Tutto quel che scopro mi aiuta a ricostruire questo grande rompicapo, il cui punto centrale è:
come ha potuto l’Umanità arrivare a tale violenza fisica e simbolica nel cuore dell’Europa
colta e civilizzata?
Non ho risposte; sento che dovrò dedicare buona parte della mia vita a questo quesito,
per capirci molto poco…
Concludo dicendo che sono l’unico responsabile per qualsiasi equivoco
e/o errore di interpretazione sul conflitto».
                                                                                          Marcos Reigota

G li uccelli devono sempre aver avuto un significato speciale da queste parti. Il Kosovo, in serbo, è la terra dei «merli neri»; mentre gli albanesi sono gli shqiptare, «figli dell’aquila». Nei nomi propri, invece, prevalgono «alba» (Agim)e «tramonto» (Agon).
Case distrutte e altre da poco ricostruite, apparentemente mai abitate, si susseguono lungo la strada che dall’aeroporto porta al centro di Pristina. Poi Viale Bill Clinton, dove l’immagine del «liberatore» sulla facciata di un palazzo stile soviet, dà il benvenuto a chi entra in città.
Ai kebab-tore (negozi di kebab), c’è la fila fuori e i bar sono pieni di giovani che sorseggiano un espresso e fumano senza fretta . Dall’alto della collina, ove si trova il quartier generale degli organi deputati al mantenimento della pace (Unmik, Missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e alla implementazione della legge (EuLex, programma dell’Unione Europea per «portare e radicare lo stato di diritto in Kosovo) si ha una bella panoramica della città: le moschee con i minareti argentei, la chiesa ortodossa e il terreno ove sorgerà la nuova cattedrale, tutto avvolto in una luce rosata.
Ma è l’inquinamento della centrale elettrica di Obeliq a rendere così belli i tramonti invernali. Le 2 ciminiere concentrate in questa cittadina alla periferia di Pristina producono da sole emissioni 74 volte superiori a quelle ammesse dagli standard europei. Nel 2003 una grande quantità di fenolo si riversava dagli impianti della centrale nel fiume Ibar e nelle falde acquifere della regione di Kraljevo (Serbia centro-meridionale). Le autorità serbe gridarono al sabotaggio, ma è più facile attribuire l’accaduto all’abbandono in cui versano strutture che dovrebbero essere già da tempo reperti di archeologia industriale.
Obeliq è anche uno dei luoghi del «Ritoo»: nel 1999, quando le truppe serbe abbandonarono la regione, più di 230 mila persone si diressero in Serbia e Montenegro. Tra i profughi anche molti Rom, che fuggivano temendo ritorsioni da parte degli albanesi che li accusavano di sostenere i serbi. Ora trovano accoglienza al Plementina camp, proprio di fronte alla centrale.

Qui incontriamo Orest, che apre la sua casa nel campo agli inteationals, come i locali chiamano i membri delle innumerevoli agenzie governative e non governative che negli anni della guerra si sono installate in Kosovo. Togliamo le scarpe e ci sediamo sul tappeto insieme a musicisti che improvvisano, con trombe e fisarmoniche, le melodie tradizionali con cui si accompagnano i giovani promessi alle nozze.
Multi-etnicità e donatori sono concetti chiave in Kosovo. Il piano Ahtisaari metteva un forte accento sulla formazione di uno stato multietnico, e la costruzione di una società democratica e fondata sulla diversità è dichiarata una priorità dall’autoproclamato neo-governo, che freme per il riconoscimento pieno del Kosovo e il suo ingresso in Europa. Ma, a parte le dichiarazioni di intenti, gli sforzi di politici illuminati e le buone intenzioni della gente comune, quando si transita per una enclave serba si ha l’impressione di varcare una frontiera.
Gracanica è uno degli antichi monasteri, ora sotto la protezione di un drappello di soldati e soldatesse svedesi della Kosovo Force (Kfor) forze armate guidate dalla Nato che dal 1999 presidiano il territorio kosovaro per «garantire la sicurezza e la libertà di movimento dei serbi». Qui le indicazioni sono soltanto in serbo; i passanti (i serbi che sono rimasti o quei pochi che sono tornati) abbassano lo sguardo; e la nostra macchina targata KS tira dritto senza indugiare. La targa con l’abbreviazione KS, istituita dall’Unmik, permette di viaggiare soltanto in Kosovo, Albania e Macedonia.
Arriviamo a Mitrovica, dove la parte nord e sud della città sono separate non solo dal tristemente noto «Ponte sul fiume Ibar» – immagine quotidianamente propinataci nei mesi della guerra da tutti i telegiornali – ma anche da una sottile striscia di terra di nessuno. Bisogna lasciare la macchina e continuare a piedi, oltre il posto di blocco, dove un altro soldato della Kfor si scalda annoiato le mani, sullo sfondo di un cielo grigio infuocato per le esalazioni della Trepca, industria di estrazione e lavorazione del piombo che dava lavoro a centinaia di persone ora chiusa.
Qui i tassi di inquinamento sono almeno 200 volte superiori ai limiti fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Il rappresentante serbo dell’organizzazione internazionale per conto della quale mi trovo in Kosovo, forse l’unica a operare anche a Mitrovica, ci viene incontro sorridente e stringe forte le mani a me e ai colleghi kosovari. Incontriamo anche Svetlana, la responsabile del centro di riabilitazione per ragazzi disabili. Il suo volto si fa teso quando ci racconta che il centro non riceve alcun sostegno dalle autorità locali serbe che, per l’educazione e l’assistenza sanitaria, dipendono direttamente da Belgrado. Il funzionamento del centro è garantito solo dall’organizzazione che ha la sede a Pristina.
Se hanno problemi di salute, i serbi di Mitrovica preferiscono andare sino a Belgrado, mentre, mi dicono i colleghi kosovari, gli albanesi di Mitrovica sud non mettono piede in un ospedale serbo dai tempi dell’apartheid imposto da Milosevic a partire dal 1989.
Alcune organizzazioni non governative hanno profuso notevoli sforzi per ricreare le condizioni per una pacifica convivenza, puntando soprattutto sulle nuove generazioni: progetti di intercultura – uno chiamato emblematicamente Mozaik – nelle scuole, a partire dall’asilo, perché i futuri cittadini del Kosovo siano plurilingue e multiculturali. In classe si celebrano le feste tradizionali degli uni e degli altri e c’è una maestra per ognuna delle comunità rappresentate. Ma è raro vedere bambini serbi e albanesi giocare insieme: l’esistenza di istituzioni parallele fa sì che questi frequentino strutture scolastiche separate. Nelle classi e scuole albanesi regolari, poi, il serbo non si studia più, così che già la prossima generazione non sarà più in grado di capire la lingua delle altre comunità.

Se prima della guerra non era raro che uomini albanesi sposassero donne serbe, bosniache o turche, adesso ciò avviene di rado, perché non ci sono più gli spazi in cui due giovani appartenenti a gruppi diversi possano incontrarsi. Per fortuna c’è il bar Trafi, il più trendy della capitale, dove si ritrovano proprio tutti davanti ad un buon raki, acquavite aromatizzata con anice, di origine turca.
Questa «meglio gioventù», che a meno di 30 anni ha già visto mezzo mondo e che è tornata «in patria» per cercare un lavoro dignitoso, rappresenta forse l’unica speranza perché la costruzione di una società multietnica e tollerante non resti soltanto vuota retorica e strumentale propaganda politica.
Lasciandosi alle spalle i miti e gli odi del recente passato, i ragazzi di Pristina riusciranno forse pian piano a rimuovere anche il ricordo di una barbarie altrimenti sempre pronta a riesplodere non nella «periferia della periferia dell’Europa», ma in uno dei suoi centri nevralgici e vitali.
E me ne vado via così, con l’impressione di aver sentito solo una campana, quella delle aquile. Mentre i merli svolazzano, mesti e silenziosi, nel cielo di Obeliq.

di Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria




UNA BASE MILITARE NATO FRA I MONASTERI SERBI

Kosovo /2

Il 17 febbraio 2009 merita attenzione: è l’anniversario della proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo. In proposito, vorrei esprimere una mia riflessione, un punto di vista in grande contrasto con quelli già visti e sentiti.
Gli albanesi kosovari hanno festeggiato, entusiasti, il primo compleanno dello «stato più giovane d’Europa»: molti però non sanno, accecati dalle menzogne e dall’odio, che oggi non è un giorno per giornire, ma per provare vergogna. In primo posto bisogna vergognarsi della presenza della base militare Nato fra i templi. È come entrare armati nella chiesa o con le scarpe nella moschea. Nell’anno 2008, dedicato ai diritti umani, sono stati calpestati i diritti fondamentali di uno stato e dei suoi cittadini. Alla fine, si parla della nascita di uno stato nuovo, che in realtà esiste da secoli.
Kosovo e Metohija sono il cuore di uno stato antico, più antico di molti paesi dell’Unione europea e molto più antico degli Stati Uniti. Questo stato si chiama Serbia. Lo sapevano anche gli antenati di quelli che oggi festeggiano, perché vivevano da secoli insieme ai serbi, dividendo il comune destino della burrascosa storia balcanica e gli avvenimenti storici, in cui erano a volte alleati, a volte avversari, ma rispettando entrambi l’umanità e il coraggio gli uni degli altri. Per umanità si intendeva onestà, capacità di mantenere la parola data, rispetto per gli anziani, pietà per i deboli e gli indifesi, generosità. Per coraggio si intende capacità di difendere con la propria vita i valori principali della stessa, fra i quali la fede e la libertà erano al primo posto.
Chiediamoci tutti, quelli che festeggiano e quelli chiusi in un doloroso silenzio, quanto è rimasto, ai discendenti, dell’umanità e del coraggio degli antenati? Se ci fosse un po’ più di umanità e coraggio d’ambo le parti, si potrebbe vivere insieme: non solo rispettarsi, ma anche amarsi a vicenda, perché il sincero amore per il proprio paese comprende l’amore per la natura viva e morta del paese, soprattutto per la gente che ci vive. Allora potremmo edificare un futuro veramente migliore, senza «occupatore» né «liberatore».

Sono passati i tempi in cui i valori umani si difendevano usando la forza (per questo lotta, la parte civilizzata dell’umanità), perciò l’attuale governo serbo usa esclusivamente mezzi diplomatici e legislativi per difendere il valore più grande dello stato serbo, che sono Kosovo e Metohija. Ma non sono passati i tempi in cui la vita umana si  dedica alla difesa dei valori più grandi, anche se molti, anzi troppi, vivono senza valori significativi.  
Ogni serbo in cui sono ancora vivi i valori degli antenati, spenderà la sua vita, le sue energie e le sue risorse fisiche, intellettuali e spirituali per difendere il Kosovo e farlo tornare nel grembo della Serbia.
Lo faremo tornare soprattutto con l’amore. Amare il Kosovo e tutti gli uomini di buona volontà che ci vivono. L’amore è l’arma più potente, che non uccide, al contrario, dona la vita eterna. Questo vuol dire che la prima preghiera di ogni fedele sia dedicata al Kosovo, la prima parola che insegnerà la madre al proprio figlio, sia Kosovo, la poesia più bella del poeta sia dedicata al Kosovo, la lezione più importante a scuola sia sul Kosovo, l’obiettivo più importante del governo sia di mantenere l’integrità territoriale del nostro paese, in cui il Kosovo ha un posto particolare.

La Vecchia Serbia, di cui molti re erano santi, era uno stato dal quale la chiesa non era separata. Nel Medioevo, costruire le chiese e i monasteri era «l’investimento» migliore per ogni famiglia benestante. Così il Kosovo, la Vecchia Serbia, fu oata da tantissimi monasteri e chiesette. Non esiste in Europa un territorio così piccolo con un così grande numero di templi, anche se il tempo e i nemici dei cristiani sistematicamente li distruggevano.
Cosa dobbiamo fare ancora per soddisfare le richieste dei potenti di questo mondo, per unirci con altri popoli dell’Unione europea? Rassegnarci che tutto questo patrimonio spirituale e culturale venga perduto per sempre? Questo si aspettano da noi gli europei cristiani?
«Gli stati che hanno appoggiato la spaccatura della Serbia, hanno dimostrato di non conoscere gran parte della storia del continente europeo, che è strettamente legata al cristianesimo. Il disinteresse per la sorte delle chiese e monasteri ortodossi in Kosovo è la loro rovina culturale. Il comportamento, nel caso del Kosovo, ha dimostrato che molti in Europa non vogliono proteggere la dimensione spirituale nella vita degli europei. Se questa tendenza prevale, allora l’Europa sarà condannata al caos e ai conflitti» (Patriarca Alessio II in «Ortodossia», 1-15 agosto 2008, p.6).
Il Kosovo non ha nessuna valenza spirituale per i potenti della terra. Essi non hanno nessun rispetto per quello che è santo ai popoli. In mezzo ai templi kosovari adesso c’è la base militare Nato, che 10 anni fa bombardava quella regione e la Serbia e il Montenegro, per 78 giorni. Con le bombe all’uranio impoverito seminarono morte e future malattie, inquinarono il suolo, acqua e aria, distrussero l’economia e tutto il resto con l’operazione militare chiamata «Angelo Misericordioso». Portarono enorme danno al popolo serbo e albanese. Le vittime umane, malattie che aumentavano vertiginosamente negli ultimi 10 anni, per loro erano solo «effetti collaterali» per portare la «democrazia», il «progresso» e la «pace». In quella regione «pacifica», però, da 10 anni i serbi vivono nell’enclave.

Alcuni paesi cristiani, fra cui anche l’Italia, hanno riconosciuto lo strappo del Kosovo. Non è possibile che i governi di quei paesi non conoscano la storia, non sappiano che la parola Metohija significa «possedimento della chiesa», non rispettino la proprietà privata, nei loro paesi intoccabile. Allora perché l’hanno fatto? Sentiremo le loro motivazioni quando saranno chiamati a rispondere al Tribunale internazionale per la Giustizia.
L’Assemblea della Serbia oggi ha chiesto al governo di sporgere denuncia al Tribunale internazionale contro gli stati che hanno riconosciuto l’indipendenza della nostra Provincia Meridionale. A questo stesso Tribunale la Serbia chiede se è conforme alle leggi inteazionali la proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte degli organi di autogestione locale in Kosovo.
Il presidente serbo continua a ripetere che la Serbia, rispettando le leggi inteazionali, difenderà i propri legittimi interessi davanti al Tribunale internazionale della Giustizia.
Kosovo e Metohija sono parte del territorio serbo in base alla Costituzione della Repubblica Serba, la dichiarazione delle Nazioni Unite e secondo molte risoluzioni, di cui anche la 1244.
Se il governo della nostra regione Trentino Alto Adige, che ha uno status speciale, decidesse una secessione, dopo un referendum in cui la maggioranza della popolazione la approva, l’Italia lo permetterebbe? Chi delle due parti in conflitto avrebbe un sostegno dall’Europa?

di Snežana Petrović

Snezana Petrovic




TEOLOGHE SFERZANO IL FORUM

B elém, 24 gennaio 2009. Dopo giornate di cielo grigio e pioggia, sulla città amazzonica ieri è tornato il sole, prima timido poi più forte. Belém è tappezzata di cartelloni di benvenuto, scritti in varie lingue. Per il Parà, stato guidato da Ana Julia Carepa, governatrice del Partito dei lavoratori (Pt), ospitare i Forum rappresenta una straordinaria occasione per farsi conoscere. Il Forum di teologia e liberazione, quest’anno incentrato sulle tematiche ecologiche, è stato il primo a partire. Sarà seguito dal Forum amazzonico e dal più conosciuto Forum sociale mondiale.
«Nel nostro breve passaggio su questo pianeta – ha esordito ieri Emilie Townes, professoressa nera della Yale University – abbiamo la responsabilità di preservare l’ambiente, ricordando che ogni nostro atto, sia piccolo che grande, genera una conseguenza». La teologa statunitense, pastore battista, senza enfasi ma con sicurezza, ha ringraziato Dio per l’arrivo del presidente Obama, dopo gli anni di Bush, devastanti anche per l’ambiente. Poi è passata a ricordare alcuni eventi avvenuti nel suo paese, come l’uragano Catrina. Si è detta sicura che le conseguenze (pesantissime) di quel fatto siano da addebitare all’uomo. «Non è stato – ha spiegato – un disastro naturale, ma un disastro costruito dall’uomo, prima e dopo che l’uragano si abbattesse su New Orleans». Che fare, dunque? «Dobbiamo lavorare – ha concluso – in comunione. Dobbiamo enfatizzare l’educazione. Dobbiamo sollecitare i governi. Creati a somiglianza di Dio, dobbiamo vivere in maniera sostenibile. Con l’anima e il cuore».
«Vi porto i saluti dalla terra di Nelson Mandela e Desmond Tutu» ha iniziato Steve De Gruchy, professore sudafricano. Come la relatrice che lo ha preceduto, De Gruchy è partito da un esempio concreto: il problema del colera nei paesi africani, dovuto alla mancanza di acqua e fognature adeguate. Il primo passo è chiaro: «L’acqua va utilizzata meglio e deve rimanere pubblica. La sua privatizzazione è contro la dignità umana». «Non dimentichiamo – ha concluso – che economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica greca, che significa casa. Dobbiamo rispettare e difendere la nostra casa».

O gni giornata del Forum di teologia e liberazione è aperta da una rappresentazione, semplice ma molto coinvolgente. Giovedì la protagonista era stata l’acqua, ieri la terra, oggi tocca al corpo. Il pubblico, sempre numerosissimo nella sala convegni del Centro Tancredo Neves, è chiamato a partecipare e ben volentieri si lascia coinvolgere nei rituali.
Chung Hyun Kyung, sudcoreana, ma da tempo professoressa a New York, affascina il pubblico con la propria coinvolgente vitalità e allegria. Perché dopo 40 anni di Teologia della liberazione, nulla è cambiato, ma anzi il mondo è peggiorato? A questa (impegnativa) domanda la teologa ecofemminista tenta di dare una risposta. «Sarà l’energia femminile a curare questa civiltà umana?» si chiede. «No, noi donne ed ecofemministe non abbiamo intenzione di assumerci questo peso – osserva -. Dobbiamo passare da un mondo di dominazione a un mondo di cooperazione. Soltanto assieme possiamo cambiare».
Secondo Chung, occorre progredire con l’idea di Dio, perché il nostro monoteismo è stata una delle religioni più violente, come ben sanno i popoli indigeni. Occorre che le nozioni di mascolinità (che troppo spesso promuove la cultura della morte e della violenza) e di femminilità siano riformulate. «Sì, un altro mondo è possibile» conclude tra gli applausi la teologa sudcoreana.
Mary Hunt, teologa del Maryland, insegnante a Boston, ringrazia Dio per il miracolo di aver portato Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Ma è subito impietosa verso il passato governo Usa: «Le mani degli statunitensi sono sporche del sangue dei bambini e dei genitori di Gaza. I corpi non mentono». Partendo dal concetto che «il corpo non mente», la teologa affronta argomenti ostici, non lesinando le critiche. Chiede la fine della discriminazione in base alla sessualità. Chiede giustizia per le persone omosessuali. «L’amore, anche fisico – spiega – deve potersi esprimere liberamente, quando nei rapporti ci sia sicurezza e libertà di scelta. Non è facile portare alla luce la sessualità. Persone dello stesso sesso che si amano ci sono in tutti i paesi e in tutti gli ambienti, dalle discariche ai seminari».
Mary Hunt conclude il suo intervento ricordando la donna incontrata ieri tra i riciclatori di rifiuti di Belém: è dal suo coraggio che occorre ripartire.

DI Paolo Moiola

Paolo Moiola




Quando «euro» non fa rima con «democrazia»

Desidero esprimervi i miei più sinceri apprezzamenti per la lucidità, la serietà, il rigore con cui avete affrontato, nel numero monografico di ottobre-novembre, la spinosissima questione dell’unità europea.
Io non sono né euroscettico né europessimista; al contrario, sono entusiasta della moneta unica e spero che, dopo la Slovenia, altre nazioni possano presto aggiungersi al cosiddetto «gruppo dei dodici» (espressione sulla quale nessuno ha mai trovato nulla da ridire, ma che non rende giustizia al Principato di Monaco, Repubblica di San Marino e Stato del Vaticano, che all’euro hanno aderito dall’inizio…).
Proprio la simpatia per l’euro ha fatto nascere in me il desiderio di sapee di più sui motivi per i quali è ancora così contestato in alcuni dei paesi, dove è stato adottato (nella nostra Italia, per esempio, non sono certo pochi quelli che rimpiangono la lira…) e guardato con tanto sospetto in quelli che, secondo gli esperti, potrebbero e dovrebbero adottarlo.
In particolare, pensando all’estremo nord dell’Europa, mi sono chiesto perché vi sia tanta ostilità verso la moneta unica, tant’è che Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda preferiscono tenersi le loro corone, anziché seguire il percorso della Finlandia.

Il caso svedese forse merita qualche parola in più: infatti nel settembre 2003 lo schieramento favorevole all’introduzione dell’euro subì una bruciante sconfitta e dovette accontentarsi del 41% (i contrari, invece, superarono il 56%…) dei suffragi. Secondo i sondaggisti lo scarto sarebbe stato sicuramente maggiore se, pochi giorni prima del referendum, un fanatico, legato ad ambienti neonazisti, non avesse barbaramente ucciso l’allora ministro degli Esteri, Anna Lindh, una delle più convinte sostenitrici dell’adesione all’euro.
Come mai neppure l’ondata emotiva scatenata dal mai abbastanza deprecato assassinio riuscì a far incanalare i voti verso il «sì»? Come mai tanta differenza con le proiezioni dei sondaggisti che avevano dato i due schieramenti praticamente alla pari? Il politologo Hans Magnus Johansson diede una spiegazione molto chiara, usando termini e concetti molto simili a quelli adoperati da Alessandra Algostino e da Beard Cassen negli articoli pubblicati nel vostro numero monografico: «Il ragionamento è stato: no, in Svezia abbiamo la democrazia. A Bruxelles non c’è…».
Credo di poter dire che in questi ultimi 4 anni la situazione non è migliorata; anzi, ho la sensazione che lo schieramento sfavorevole all’euro si sia nel complesso rafforzato.
L’avversione degli scandinavi per la moneta unica dovrebbe costituire anche per noi italiani un ulteriore motivo di riflessione: siamo sicuri che più Europa voglia dire più democrazia? Siamo sicuri che le nuove tasse che le leggi finanziarie ci costringono in un modo o nell’altro a pagare (più tasse sulla casa, sul lavoro, sui servizi essenziali, sulle rendite da capitale accumulato in modo… normale, non per mezzo di speculazioni ai danni della collettività) servono davvero a risanare il debito pubblico e a rilanciare il paese? Non sarà invece che tutti questi miliardi vengono impiegati per aumentare lo stipendio, la pensione, la liquidazione ai superburocrati di tuo?

I paesi scandinavi hanno tanti difetti (certe piaghe come la criminalità, specie quella di stampo politico, e quella legata all’uso di alcornol e droghe, sono purtroppo lungi dall’essere debellate), ma a Stoccolma, a Oslo, a Coopenaghen e dintorni, è impensabile che chi ha amministrato per meno di 2 anni le ferrovie se ne vada con una buonuscita di 5-6 o 7 milioni di euro e chi è alla guida della compagnia aerea di bandiera percepisca 8 mila euro al giorno o giù di lì. È impensabile che codesti compensi vengano corrisposti a manager che hanno lasciato le aziende loro affidate in condizioni molto peggiori di quelle in cui le avevano trovate all’inizio del loro mandato.
Ma soprattutto è inimmaginabile che queste stesse persone e i politici che hanno avuto la sciagurata idea di piazzarle su certe poltrone, continuino, anche dopo aver provocato disastri finanziari dell’ordine di miliardi di euro, a predicare in nome della stabilità, della competitività, dello sviluppo, in nome dell’Europa e ad esigere altri tagli, altro rigore, altre tasse, altri scempi ambientali (Tav, Ponte sullo Stretto, ecc…).
In Svezia la pressione fiscale è, non da ora, una delle più elevate al mondo, ma gli svedesi le imposte le hanno sempre pagate volentieri, perché sono sempre servite ad assicurare servizi di qualità e una lotta efficace contro la povertà, contro la precarietà, contro il disagio, contro l’esclusione sociale, contro la sperequazione retributiva.
In Italia e nel resto dell’area euro possiamo dire la stessa cosa?

C. E. Pace (Pesaro)

Pace




AMERICANI… «ANTI-AMERICANI»

Lettera aperta all’ambasciatore statunitense in Italia, Ronald Spogli, a proposito di «anti-americanismo»

Egregio Ambasciatore,  
            

come cittadini statunitensi in Italia le scriviamo per chiedere una fine alle ingerenze della nostra Ambasciata nella vita politica dell’Italia. La sua lettera firmata da altri 4 ambasciatori per fare pressione sul governo italiano perché continui la sua partecipazione alla guerra in Afghanistan è stata una inaudita e inaccettabile interferenza dell’Ambasciata Usa nella dialettica democratica di questo paese, oltre a suonare offensiva alla grande maggioranza degli italiani, che, secondo i sondaggi, vorrebbero il ritiro delle truppe italiane, anche in rispetto dell’art. 11 della Costituzione, che dichiara che «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali».
Pochi giorni dopo, l’Ambasciata Usa ha compiuto, a parere nostro, una seconda grave scorrettezza: ha inviato a noi statunitensi in Italia una lettera di avvertimento di possibile pericolo per noi qualora avessimo voluto andare a Vicenza il 17 febbraio per protestare, insieme ai cittadini italiani, contro la creazione di una megabase Usa… La lettera caratterizzava tale manifestazione come «anti-statunitense» e consigliava a tutti di stare lontano dalla città dal 16 al 18 febbraio per evitare di diventare «bersagli di manifestanti anti-Usa». I contenuti della lettera non corrispondono alla realtà, diffondono paura e ignoranza, offendono l’intelligenza degli statunitensi in Italia e la realtà democratica della società italiana.

Prima di tutto, la manifestazione del 17 febbraio non è anti-statunitense; è contro la richiesta da parte del governo Usa di costruire una nuova megabase statunitense nei pressi del centro di Vicenza, città riconosciuta dall’Unesco come patrimonio culturale dell’umanità.
La verità è che la stragrande maggioranza dei vicentini e del popolo italiano non vuole questa ennesima base Usa (siamo già presenti in Italia con circa 20 installazioni militari). Il 2 dicembre 2006 circa 30 mila persone hanno manifestato a Vicenza contro la base, con un bel corteo colorato e pacifico, al quale hanno partecipato delegazioni di cittadini statunitensi di Firenze e Roma, senza mai incontrare episodi «anti-Usa». Anzi, la nostra presenza è stata molto apprezzata.
Distribuire una lettera ai cittadini per dire che corrono dei pericoli in Italia a causa di una manifestazione politica è un tentativo neppure troppo nascosto di scoraggiare o mettere il bavaglio ai cittadini che vorrebbero esprimere il loro dissenso dalle politiche di guerra dell’amministrazione Bush.
Lei, Ambasciatore, certamente rappresenta il governo di Bush e Cheney, ma le ultime elezioni federali negli Usa dimostrano che quel governo non rappresenta più la maggioranza del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda politica estera e guerra. La società Usa è profondamente malata di militarismo e i nostri concittadini dicono sempre di più: basta!
Alle manifestazioni contro le basi (Vicenza, Camp Darby, Aviano, Sigonella), alle manifestazioni contro la guerra, qui in Italia e in tanti altri paesi come negli Usa (le centinaia di migliaia di manifestanti a Washington e altre città Usa il 27 gennaio scorso erano dei pericolosi anti-americani?), la gente protesta non contro il popolo statunitense, ma contro la violenza delle guerre e delle occupazioni militari sostenute dal governo Usa in Iraq (più di 655 mila morti dall’inizio della guerra), ma anche in Afghanistan e Palestina. Protesta contro la militarizzazione del territorio e dell’economia, contro la presenza di basi straniere con lo stoccaggio di armi nucleari e all’uranio impoverito; chiede, come Amnesty Inteational, la chiusura del campo di Guantanamo e di tutte le carceri segrete e la fine dei voli segreti della Cia (p.es. il caso di Abu Omar), oltre alla fine della pratica della tortura e la violazione dei diritti umani: sono richieste «anti-americane»? Chiede un altro mondo possibile con una nuova cultura di pace e giustizia globale.

Noi cittadini statunitensi in Italia, come milioni di altri concittadini negli Usa, ci opponiamo alla politica di guerre all’estero e di cancellazione dei diritti civili nel nostro paese, portata avanti dal governo di Bush e Cheney, mentre seri problemi sociali vengono ignorati.
Negli Usa abbiamo il peggior sistema sanitario del mondo occidentale, con circa 50 milioni di persone senza assicurazione sanitaria. Abbiamo il più alto numero di persone in carcere e il più alto tasso di incarcerazione di tutto il mondo (siamo 5% della popolazione globale con 25% degli incarcerati), con più di 4 mila persone nel braccio della morte. Chiediamo risorse non per le forze armate, ma per la sanità, scuola, ambiente, lavoro, ricostruzione delle città, trasporto pubblico, solidarietà con il resto del mondo.
Quarant’anni fa, ai tempi della guerra in Vietnam, Martin Luther King dichiarò: «Siamo al punto, nelle nostre vite, in cui bisogna agire in prima persona, affinché il nostro paese sopravviva alla propria follia. Ogni uomo con le convinzioni umane deve decidere la protesta che meglio si adatta alle sue convinzioni, ma dobbiamo tutti protestare». E aggiunse: «Viene il momento in cui il silenzio è tradimento».
Noi, cittadini statunitensi in Italia, il 17 febbraio saremo presenti a Vicenza, perché a parere nostro la manifestazione contro le basi e contro le guerre è una manifestazione di sostegno anche alla maggioranza dei cittadini statunitensi che desidera un cambio di rotta nella politica statunitense, all’estero e in patria.

Statunitensi contro la guerra (Firenze)
Statunitensi per la pace e la giustizia (Roma)
www.peaceandjustice.it

statunitensi contro la guerra




Notizie, non gossip… e poi?

Se da una parte condivido l’appello della Fesmi, perché anch’io sono convinto che la televisione dia troppo spazio al gossip, dall’altra non me la sento di dire che il piccolo schermo trasmette poche notizie: il problema è quanto tempo vogliamo passare davanti al televisore e, soprattutto, che cosa intendiamo fare concretamente dopo che su un certo problema abbiamo raccolto una certa documentazione.
Se nell’Africa Centrale – ovvero l’area che la Fesmi suggerisce di "tener d’occhio" – le cose vanno ancora tanto male, le responsabilità principali non sono della televisione; ritengo di gran lunga più colpevoli coloro che, pur avendo appreso, grazie anche alla televisione, tante cose sul Congo e sulla Regione dei Grandi Laghi, continuano a comportarsi come se non avessero visto e sentito nulla di particolarmente sgradevole e disdicevole.
Secondo me tantissime persone dovrebbero ringraziare la televisione (intendo innanzitutto la Rai e quegli encomiabili giornalisti e operatori Rai che, per far bene il loro lavoro, hanno rischiato e qualche volta anche perso la vita…) per i tanti pregevoli servizi sul Congo e, più in generale, sui problemi che affliggono i paesi poveri. Di tali persone mi piacerebbe poter dire che hanno fatto del loro meglio per cambiare vita, modo di lavorare, di fare la spesa, di viaggiare, di trascorrere il tempo libero…
Purtroppo non posso dirlo, perché vedo ancora tanta, troppa gente che non solo non ne vuol sapere di rinunciare al superfluo, ma tende a concentrarvi ancora più risorse materiali e intellettuali.

Che cosa pretendiamo dal televisore? Che si spenga da solo quando i vari canali sono in grado di offrire solo gossip, pubblicità, reality spazzatura, overdosi di calcio e formula 1? Che si accenda da solo quando invece vanno in onda il Tg2 Dossier, il Report di Milena Gabanelli, il reportage da una terra di missione o la testimonianza di Gino Strada dall’Afghanistan?
Non possiamo aspettarci questo, non possiamo aspettarci che la televisione sia per noi padre, madre, sorella o, come diceva qualche anno fa un vescovo del Nord Italia, "bambinaia elettronica" (ne abbiamo forse l’età?).
Il presidente della Camera dei deputati ha suscitato vivaci reazioni quando, rispondendo ad alcune domande postegli da Lucia Annunziata, si è spinto ad affermare che per alcune Tv private ci vorrebbe una bella "cura dimagrante". Ho buone ragioni per ritenere che la Fesmi condivida questo giudizio e anche io, in effetti, penso che Bertinotti non abbia torto. Dico però che in Italia il soggetto che ha maggiore urgenza di cure dimagranti è l’industria bellica, il ministero della difesa, l’amministratore delegato di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini il quale non solo non ne vuol sapere di ridurre l’impegno nel comparto militare per rafforzarlo in quello civile (ricordate? Si chiamava "riconversione"; non sono passati molti anni eppure, chissà perché, sembra un secolo), ma fa esattamente il contrario; ossia riduce ai minimi termini gli investimenti nella produzione civile (considerata "poco competitiva" e quindi "perdente") per aumentarli in quella bellica (considerata "vincente", specie se il partner è l’americana Boeing il cui cda, circa il rapporto civile-militare, la pensa esattamente come Guarguaglini e si regola di conseguenza).

Non diciamo dunque che la televisione non c’informa o che ci dà poche notizie. Diciamo invece che non sappiamo tutto, ma sappiamo quel tanto che ci basterebbe per boicottare i vip della politica e della religione, che vanno a benedire le portaerei, le fregate e i sommergibili prodotti da Fincantieri, per boicottare la Fiat e le sue aziende satelliti, produttrici di mine. Tante raccolte di firme, manifestazioni, conferenze inteazionali, appelli di sante donne e santi uomini, non ultimo Giovanni Paolo ii, non sono bastati: le mine continuano a essere prodotte, vendute, usate.
In questo inizio di secolo altri paesi sono andati ad allungare il già lunghissimo e tristissimo elenco delle aree flagellate dai diabolici ordigni: penso alle isole indonesiane di Boeo e Sumatra dove, a farli riaffiorare e spostarli a molti chilometri dai punti in cui erano stati seminati ha provveduto il terribile Tsunami del 26 dicembre 2004. Una cosa del genere era già avvenuta in Nicaragua e Honduras all’epoca dell’uragano Mitch.
Ne sappiamo abbastanza per boicottare la Boeing e le compagnie aeree a basso prezzo, che il viaggio sui Boeing lo fanno pagare una manciatina di dollari, mentre il prezzo del petrolio s’impenna: tagliando le spese per manutenzione, controlli, pezzi di ricambio, formazione del personale, molte compagnie riescono a tener bassi i prezzi dei biglietti, anche quando l’oro nero va alle stelle; poi, quando si verifica una sequenza di disastri, come quella che ha funestato il secondo semestre del 2005, molti hanno la spudoratezza di affermare che l’aereo resta "il mezzo più sicuro" e che gli "assassini sono i cieli".
Siamo sinceri: fare questi nomi è scomodo per tutti, non solo per i giornalisti della televisione. È scomodo per la stampa, ma anche per i sacerdoti, vescovi, missionari, filosofi, teologi cosiddetti "d’avanguardia" e persino per la sinistra più estrema.
Sono nomi che fanno paura, perché a portarli sono persone troppo abituate a farla franca con la giustizia e a mettere nei guai chi "osa" ostacolare i loro piani.
Se non riusciamo a vincere la paura, asteniamoci pure dal fare questi nomi, forse avremo meno grane. Ma evitiamo anche di prendercela troppo con il cda della Rai o di Mediaset, col Grande Fratello o L’isola dei famosi: non è così che daremo al Congo qualcosa che somigli a un aiuto. Non saranno le critiche o le velate allusioni alla Ventura, Venier, Lecciso, Al Bano, Pappalardo, Zequila… a tranquillizzare la nostra coscienza eco-pacifista e a farci sentire più a posto davanti a Dio.

Mario Pace
Fano (PU)

Mario Pace