Di Rom e Sinti, fatti e pregiudizi

Libri per aprire gli occhi e il cuore.

Leonardo Piasere, Scenari
dell’antiziganismo. Tra Europa e Italia, tra antropologia e
politica, Seid editori, Firenze 2012, Euro 13,00.

Rom: Odio razziale e democrazia

La
storia dell’esclusione sociale, quando non della persecuzione o dei tentativi
di sterminio, delle popolazioni «zingare» in Europa e in Italia è lunga. Anche
nei momenti in cui si è cercato di accoglierle è capitato di ghettizzarle. E
anche oggi, tra razzisti e «buonisti», per troppi Rom non è semplice vivere
dignitosamente.

«Viviamo in un momento di grave
crisi economica e politica: l’Europa è in pericolo; gli stati […] decidono che
la colpa è tutta degli zingari […]. All’unisono, tutti […] cacciano gli zingari
che vivono entro i loro confini. Invece di cambiare continente, gli zingari
decidono di radunarsi tutti in un’unica regione, facendosi a loro volta largo a
spallate, cacciando i non zingari locali e costruendosi […] uno stato zingaro!
A quel punto i rom come minoranza scompaiono di colpo! Non solo non sono una
minoranza, ma sono una maggioranza importante: si trovano al dodicesimo posto,
sui quarantasette stati del Consiglio d’Europa, per numero di abitanti (più di
11 milioni di persone, ndr). […] Rom è uno degli stati più popolosi
d’Europa, posizionato subito dopo la Romania e l’Olanda, ma prima di ben
trentasei altri stati, più popoloso di Portogallo, Grecia, Ungheria e così via!».

Se un lettore interessato al tema «Rom»
volesse trovare delle risposte chiare, semplici, lineari, ai quesiti che esso
ci pone, non dovrebbe leggere il libro di Leonardo Piasere. Dovrebbe leggerlo
invece chi volesse lasciarsi interpellare: come mostra l’iperbolico brano
riportato sopra nel quale l’autore usa alcune certezze (ad esempio che i Rom
sono una minoranza, la quale, secondo certe parole d’ordine, «assedia le nostre
città») per capovolgerle e quindi spiazzarle. Nella lettura del volume non si
troverebbero confermati né i razzisti (tra cui, più per calcolo opportunistico
che altro, alcuni esponenti e gruppi politici) che vorrebbero far sparire dalla
faccia della terra un intero popolo, né quelli che dai razzisti vengono, a
volte giustamente, chiamati «buonisti». Le generalizzazioni criminalizzanti così
come quelle «romantiche», allontanano dalla realtà e dalle concrete
vicissitudini di persone che cercano, come tutte, di vivere dignitosamente e
che a volte si trovano segregate sia a causa delle prime che delle seconde.
Quando il testo di Piasere cita le semplificazioni operate quotidianamente dal
discorso pubblico (e privato) nei confronti dei «Rom», lo fa per mostrae la
falsità.

Uno
dei pregi di Scenari dell’antiziganismo, è quello di argomentare e
dimostrare un’ovvietà: i Rom sono molti, e vivono in molti modi differenti.
Impossibile ridurre allo stereotipo del «ladro», del delinquente per cultura o
per genetica, della «zingara rapitrice» che «ruba» i bambini, e così via, un
popolo complesso, disperso in decine di paesi, principalmente europei ma non
solo, in decine di gruppi, con differenti credi religiosi e convinzioni
politiche, e con differenti livelli di «integrazione», a volte di «assimilazione»,
allo stile di vita dei non rom.

Forse per disattendere le
aspettative del lettore, Piasere, antropologo tra i maggiori conoscitori del
mondo «zingaro» italiano ed europeo, docente di antropologia, etnografia,
epistemologia ed ermeneutica etnografica all’università degli studi di Verona,
non apre il suo volume con la definizione di cosa sia l’antiziganismo
annunciato dal titolo, ma con l’invito, rivolto al lettore, a «non dare per
scontate» le proprie conoscenze, e nemmeno i propri criteri di comprensione del
mondo, problematizzando alcuni concetti di uso comune: cosa sono i confini
(delle nazioni, ma anche di altro tipo)? Cosa sono i contenitori, gli insiemi e
sottorninsiemi in cui siamo abituati a categorizzare la realtà che ci circonda
allo scopo di comprenderla (e di sentirci meno insicuri)? Cosa sono le culture?

La
definizione, molto poco definita, di cosa sia l’antiziganismo arriva solo al
decimo e ultimo capitolo, quando il lettore è oramai passato attraverso 160
pagine che parlano di cosa siano i nomadi – smentendo sia la convinzione
diffusa tra molti che tutti i Rom lo siano, sia la convinzione diffusa
tra altri che nessuno lo sia e che tutti lo siano stati solo per
costrizione -, di cosa siano i campi nomadi, delle due filosofie che
sottostanno ai differenti modi in cui i Rom vengono trattati, quella del
riconoscimento che tiene conto solo della cultura (i Rom sono differenti perché
Rom, e vanno trattati come differenti), e quella della redistribuzione che
tiene conto solo della dimensione socio-economica (i Rom sono differenti solo
per contingenze storiche ed economiche e vanno trattati a prescindere da
qualsiasi altra dimensione). Particolarmente interessante, a nostro avviso, il
capitolo ottavo, intitolato Flussi di bambini, nel quale si affronta la
questione dei «ladri di minori» portando alla luce la realtà inquietante –
opposta a quella narrata dalle leggende metropolitane – di uno strisciante «genocidio»
culturale perpetrato nei confronti dei Rom: se una ricerca porta alla luce che
tra il 1986 e il 2007 nessun Rom è stato dimostrato essere colpevole di
rapimento, un’altra ricerca parallela ha fatto emergere che i bambini rom hanno
una probabilità di essere sottratti alle loro famiglie biologiche per venire
dati in adozione di 17 volte superiore rispetto al resto della popolazione.

L’antiziganismo
è, secondo Leonardo Piasere, uno dei pilastri su cui è fondato l’ordine
democratico attuale. Superare l’odio antizingaro significherebbe approdare a
una nuova fase, più matura e inedita, di democrazia, ed è ciò che l’autore si
augura.

Luca Lorusso
Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato

Libro di Carla Osella, Tau editrice,
Todi (Pg) 2013, Euro 15,00.

Un viaggio a più riprese nei luoghi dello
sterminio nazista per raccogliere documentazione e testimonianze sui Rom e
Sinti uccisi o inteati nei campi di concentramento.

Carla Osella, fondatrice e presidente dell’Aizo
(Associazione Zingari Italiani Oggi), sociologa e pedagogista, da oltre 40 anni
al fianco delle comunità sinte e rom, racconta il suo itinerario europeo alla
ricerca di una memoria diretta del massacro della Seconda Guerra Mondiale.

Il testo si apre con un primo capitolo di inquadramento
storico, utile per comprendere come l’antiziganismo, che ha avuto la sua
massima espressione nel Terzo Reich, e che ancora oggi continua pericolosamente
a serpeggiare nelle democrazie del Vecchio Continente, abbia radici profonde
che affondano nella storia dell’Europa fino al Medio Evo. Dal secondo capitolo
in avanti si snoda il racconto del viaggio che porta l’autrice attraverso i
campi di concentramento e gli altri luoghi in cui morirono milioni di Ebrei,
insieme a centinaia di migliaia di Rom e Sinti, omosessuali, diversamente
abili, testimoni di Geova, oppositori politici. Auschwitz e Treblinka in
Polonia, Lety nella Repubblica Ceca, Dachau in Germania, Westerbork in Olanda,
Natzweiler-Struthof in Francia, Mathausen in Austria, Komarom in Ungheria,
Jasenovac in Croazia, e altri.

L.L.

Silvio Mengotto, Sole di periferia, Paoline, Milano 2014,
Euro 11,00.

Ci sono bambini che dormono sotto i raggi della luna e si svegliano
con il canto degli uccellini nelle orecchie. Sono i bambini che non hanno la
fortuna di avere una casa, fra cui i tanti Rom che vivono nei campi nomadi.

Questo
libro raccoglie le storie e le tradizioni di coloro che abitano nella cintura
periferica di Milano, ma che appartengono alla grande famiglia rom di qualsiasi
altra periferia d’Italia. Sono racconti di coraggio e di ottimismo, nonostante
i protagonisti debbano subire i ripetuti sgomberi, operati dalle forze civili,
senza prospettive di miglioramento, nei quali vedono affondare le loro poche
cose, a volte anche i libri e i quadei che si erano faticosamente
conquistati.

(dal risvolto di copertina)

Gabriele Roccheggiani, Come
spighe tra grano e campo. Lineamenti filosofico-politici della ‘questione Rom’
in Italia
, Aras Edizioni, Fano (PU) 2013, Euro 20,00.

Si tratta di una riflessione
(filosofico-politica) su noi stessi. Sul nostro modo di simbolizzare,
categorizzare e gestire politicamente la presenza secolare di migliaia di
persone (italiane e non) definite ancora oggi “zingari” o “nomadi”. Ciò a
partire da un’analisi documentale critica, attorno ad una domanda che è anche
un dato di fatto storico: perché da decenni la presenza dei “figli del vento”
pone una costante ed irrisolta “questione problematica”, se non un’”urgenza”,
al nostro apparato politico-normativo?

(dalla quarta di copertina)

Alessandro Pistecchia, I Rom di
Romania
, Nuova Cultura, Roma 2010, Euro 12,00

Nella prima parte del volume l’autore analizza l’impatto della
minoranza rom sulle terre romene e le conseguenze della condizione sociale
marginale nei secoli della schiavitù. Nella seconda parte l’autore descrive la
parabola dell’associazionismo interbellico dei Rom romeni e le deportazioni in
Transnistria avviate dal governo Antonescu nei primi anni ’40. Il riconoscimento
ufficiale del genocidio (porrajmos, in lingua romanes) da parte del
governo di Bucarest si è realizzato in via definitiva solo nel 2007.

(dal risvolto di copertina)

Fondazione Romanì Italia, Romanipè 2.0. 99 domande sulla popolazione Romanì,

Futura Edizioni, San Vito al Tagliamento (Pordenone), dicembre 2014, Euro 9,90.

Un popolo poco e mal conosciuto

Rom,
Sinti, nomadi, zingari, camminanti, giostrai: qual è il nome giusto? Perché
emigrano ancora oggi? Sono nomadi per cultura? Perché i bambini rom frequentano
poco o non vanno a scuola? È vero che rapiscono i bambini? 99 cartoncini con
domande e risposte in un piccolo cofanetto curato dalla Fondazione Romanì
Italia allo scopo di «diffondere una diretta conoscenza delle comunità romanès
e della cultura romanì per contribuire ad avviare un diverso dibattito pubblico
con la popolazione romanì e alimentare un profondo e radicato cambiamento nelle
comunità romanès, nell’opinione pubblica e nelle istituzioni».

Se il volume di Piasere ha tra i
suoi scopi quello di mostrare la complessità e una certa irriducibilità delle
popolazioni Rom a schemi semplicistici che portano con sé il rischio delle
generalizzazioni, Romanipè 2.0 si pone come obiettivo proprio quello di
dare delle indicazioni di base semplici e chiare a chiunque non avesse alcuna
conoscenza del mondo rom, allo scopo di offrire una prima, seppur rudimentale,
infarinatura. L’operazione è rischiosa, perché proporre 99 cartoncini con una
domanda e una risposta ciascuno sui Rom, la loro storia, cultura, situazione
sociale, educativa, e sulle prospettive future, non porta certamente con sé la
realtà densa, contraddittoria, sfaccettata che ogni popolo è. Però è
un’operazione importante, soprattutto in una fase storica nella quale il
discorso d’odio nei confronti dei Rom appare completamente sdoganato, anche
nelle reti radiotelevisive e sui periodici locali e nazionali, per non parlare
di post e commenti sui social media.

 

Alla domanda n. 6: «Il paese di origine dei
Rom è la Romania?», la seconda faccia del cartoncino risponde: «I Rom non sono
originari della Romania, anche se molti Rom vivono in Romania […]. L’origine
della popolazione romanì è l’India del Nord, territorio da cui partirono le
comunità romanès circa mille anni fa. Oggi sono presenti in tutto il mondo,
stimate in 12-15 milioni di persone». Alla domanda 23: «Perché le comunità
romanès hanno scelto una “chiusura culturale”?», viene data la seguente
risposta: «I rapporti tra i Rom e la società maggioritaria sono sempre stati
tesi, con punte di ostilità esasperate, e i Rom, al tentativo di assimilazione
hanno risposto con la chiusura e l’autoemarginazione. […]». Alla domanda 39: «È
vero che vivere nei campi nomadi è un elemento della cultura romanì?», la
risposta è: «No, è una grande falsità. In Italia […] più dell’80% dell’intera
popolazione romanì vive in una civile abitazione di proprietà o in affitto. I
campi nomadi sono una scelta di politica abitativa e non un dato della cultura
romanì». Domanda 84: «È vero che le famiglie rom sono favorite
nell’assegnazione delle case popolari?», risposta: «[…] non c’è alcun tipo di
punteggio che premia l’appartenenza alle comunità romanès. Determinate
condizioni di vita di una famiglia, come il basso reddito, figli numerosi, una
condizione abitativa disagiata, ecc., permettono invece di ottenere un buon
punteggio nella graduatoria di assegnazione degli alloggi [a prescindere da
ogni tipo di appartenenza: etnica, politica, religiosa, ecc., ndr.]».

Romanipè 2.0 offre un minimo di
conoscenza semplificata nella speranza di far sorgere il dubbio rispetto alla
narrazione dominante, e di stimolare l’approfondimento.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Il coraggio della verità

Lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Grinzane Cavour 2002 nella sezione Narrativa straniera e premio Nobel per la letteratura 2006, è stato portato davanti ai giudici per «avere offeso la turchità».

Orhan Pamuk, che nei suoi romanzi spazia dalla realtà al sogno, ha vissuto un vero e proprio incubo nel dicembre 2005, quando fu costretto a comparire davanti al giudice di un tribunale turco con l’accusa «di avere offeso la turchità», poiché, come dichiara lo stesso scrittore, «in un’intervista per una rivista svizzera nel febbraio dello stesso anno ho detto che in Turchia sono stati uccisi 1 milione di armeni e 30 mila curdi. Ho detto anche che nel nostro paese non si parla di queste cose perché rappresentano un tabù. Mi riferivo a quello che è accaduto agli armeni ottomani a partire dal 1915… Alcuni giornali hanno dato il via a una campagna d’odio; alcuni editorialisti hanno detto apertamente che era il momento di farmi tacere; gruppi di fanatici nazionalisti mi hanno insultato per le strade e hanno organizzato dimostrazioni; i miei libri e le mie fotografie sono stati bruciati».
Pamuk ha rischiato tre anni di carcere ma, grazie anche al sostegno a livello internazionale, il processo è stato interrotto e le accuse sono state ritirate il 22 gennaio 2006.
È stata, perciò, una splendida realtà vedere cento e più persone in coda per far firmare copie dei suoi libri a Orhan Pamuk, dopo una conferenza organizzata a Torino, giovedì 6 settembre 2007, dal Premio Grinzane Cavour nel bel cortile di palazzo Chiablese, conferenza a cui ha partecipato un pubblico di circa 400 persone. 
Durante tale conferenza Pamuk, con la consueta sincerità e chiarezza, ha sviscerato il suo rapporto amore-odio nei confronti dell’Occidente, ricordando come nei primi volumi del Diario di André Gide, premio Nobel per la letteratura 1947, «s’incontrano punte beffarde e irose scagliate contro la Turchia, da lui visitata nel 1914, dopo le guerre balcaniche». Eppure Gide è ammirato da tanti intellettuali turchi come Tanpinar, che prova «stupore» davanti al suo «disprezzo per i turchi».
Lo stesso Gide, però, ammira Dostoevskij che, nel suo Diario di uno scrittore parla «dell’ipocrisia francese, di come i grandi principi di questa terra siano svaniti, estinti di fronte al denaro». Uno scrittore può, quindi, amarci o non amarci, ma ci attrae «per i mondi, i valori, la maestria».
Pamuk sviscera i suoi sentimenti affermando: «Dalla finestra da cui mi pongo a osservare l’idea d’Europa o d’Occidente si manifesta appunto fra le ombre di quel rapporto. Essa non è solare, brillante. Immaginare l’Europa, per me, significa trovarmi in forte tensione tra ripugnanza e amore, attiva nostalgia e disprezzo patito». Ricorda, poi, le riforme influenzate dall’Occidente, effettuate da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica, il padre della nazione turca modea, dal 1923 agli anni Trenta. Infatti, «accanto a cambiamenti formali, quali il passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino, l’adozione del calendario “cristiano”, lo spostamento alla domenica del giorno festivo settimanale, ne esistono altri che hanno lasciato tracce più marcate nella società, come il miglioramento dei diritti delle donne».  Riforme, ancora oggi, oggetto di tante dispute tra gli intellettuali turchi.

Mentre Pamuk mi firmava una copia de Il libro nero gli ho detto, in inglese, che quando leggo i suoi libri non posso fare a meno di pensare a Pirandello. Lo scrittore turco si è fatto una bella risata, affermando che era arrivato a Pirandello tramite Borges. Ha poi risposto con un vigoroso assenso con il capo quando gli ho chiesto se è stato influenzato dal drammaturgo siciliano.
Infatti, solo pensando a Pirandello, che spazia sul continente e trasforma i suoi personaggi al massimo in Enrico iv, sono finalmente riuscita a capire Il castello bianco di Pamuk, ambientato nel 1600, dove la trasformazione avviene tra Oriente e Occidente, ovvero il sosia turco di un dotto prigioniero schiavo veneziano ne assume sembianze e sapere.
Chi è lo scrittore Orhan Pamuk, amato ed odiato, certamente perseguitato per la sua sete di «verità»?
Sin da giovanissimo Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel 1952, ha navigato tra i 1.500 libri della biblioteca di suo padre, erede di un’agiata famiglia e lui stesso imprenditore di altee fortune con l’animo del poeta. Durante i suoi frequenti viaggi, molti a Parigi, Pamuk padre prendeva appunti, scriveva poesie, ascoltava gli amati scrittori francesi, acquistava libri e, sollecitando la fantasia del figlio, inconsciamente forgiava lo scrittore.
Orhan ricorda: «Quando divenni uno scrittore, non ho potuto mai dimenticare che era in parte grazie al fatto che ho avuto un padre che mi parlava degli scrittori del mondo molto più che di pascià o leader religiosi».
Nel 1974, osteggiato dalla madre e incoraggiato dal padre, Pamuk ha iniziato a scrivere regolarmente, dopo aver frequentato la facoltà di architettura all’Università di Istanbul e essersi laureato in giornalismo. Da allora ha vinto prestigiosi premi letterari a livello internazionale, tra cui il Grinzane Cavour nel 2002 con Il mio nome è Rosso, e ha continuato da laico, ma quasi come un eremita, nel faticoso lavoro d’introspezione in se stesso e a produrre romanzi di altissimo livello letterario.
Pur non avendo mai fatto il giornalista, Pamuk conosce tutti i trucchi, le grandezze e le meschinità del mestiere. Lo dimostra bene ne Il libro nero, tratteggiando, anche con un pizzico di ironia, il personaggio «fantasma» del famoso giornalista Celâl, fratellastro di Ruya, la moglie sparita dell’avvocato Galip, che alla ricerca dei due ci conduce dagli interminabili e prevedibili pranzi di famiglia ai meandri più segreti di Istanbul. Pamuk è stato insignito del premio Nobel per la letteratura proprio perché «nella ricerca dell’anima melanconica della sua città natale ha scoperto nuovi simboli per lo scontro e l’intreccio delle culture». 

Nel discorso ufficiale a Stoccolma, dedicato con affetto al padre scomparso nel 2002, Pamuk afferma: «Solo scrivendo libri ho potuto raggiungere la comprensione dei problemi dell’autenticità (come ne Il mio nome è Rosso e Il libro nero) e i problemi della vita in periferia (come in Neve e Istanbul)». Ma ricorda anche il travaglio e la fatica del bravo scrittore: «Il segreto dello scrittore non è l’ispirazione – non è mai chiaro da dove arriva – ma la sua ostinazione e pazienza… Nel mio romanzo Il mio nome è Rosso, quando scrissi degli antichi miniaturisti persiani che hanno disegnato lo stesso cavallo con la stessa passione per molti anni, memorizzando ogni pennellata tanto da poter ricreare lo stesso bellissimo cavallo anche a occhi chiusi, sapevo che stavo parlando della stessa professione dello scrittore e della mia vita». E, finalmente, dopo aver cercato a lungo un «centro» di vita ha capito che: «Per me il centro del mondo è Istanbul. Non perché ho vissuto qui per tutta la vita, ma perché negli ultimi 33 anni, ho raccontato le sue strade, i suoi ponti, la sua gente, i suoi cani, le sue case, i suoi giorni e le sue notti, facendole divenire parte di me, abbracciandole tutte».
Eppure è con il romanzo Neve, ambientato nella città di Kars sul confine orientale della Turchia ai piedi del Caucaso, che Pamuk nel microcosmo di una società ristretta, per di più isolata dalle abbondanti nevicate, ci svela idee, azioni ed emozioni degli attori che animano lo scontro islam-occidente, spaziando dalle azioni violente dei fondamentalisti, della polizia e delle frange comuniste allo sgomento dei poeti, di tante donne e dei veri credenti di Allah.
Il protagonista del romanzo è Ka, un poeta esule in Germania, che dopo tre giorni di viaggio raggiunge Kars per indagare sulla misteriosa vicenda di ragazze suicide, perché non è loro permesso di portare il velo all’università, ma anche per incontrare la bella Ipek di cui è sempre stato innamorato. Quattro anni dopo questo viaggio, che ha risvegliato in lui la creatività del poeta, Ka sarà assassinato in Germania da mani misteriose.
L’amico del poeta, lo scrittore Orhan (alias Pamuk), indaga ripercorrendo, aiutato da un diario, le vicende di Ka.  Omicidi, faide, tradimenti (lo stesso Ka si rivelerà un traditore), dolore, tanto dolore, esaltazioni mistiche e ambizioni di potere accompagnano i protagonisti disperati di questa saga. Malgrado ciò, contemplando la neve, il poeta sente che «quei fiocchi suscitavano in lui un sentimento che gli ricordava la bellezza e la brevità della vita e gli faceva pensare che, malgrado le ostilità, gli uomini si somigliassero: l’universo e il tempo erano vasti, mentre il mondo dell’uomo era piccolo». •

Silvana Bottignole




Uccidera l’anima

Gamal Ghitani, giornalista e scrittore egiziano, nato il 9 maggio 1945, incarcerato dal regime nasseriano nel 1966, è autore di Zayni Barakat «un grande romanzo storico che rivela, con una sconcertante analisi, gli eterni meccanismi del potere e della corruzione», tradotto in 25 lingue (in italiano edito da Giunti). Nel 2006 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la raccolta di racconti Schegge di fuoco (Jouvence 2005). Lo abbiamo intervistato.

Iniziamo col parlare del grande maestro, Nagib Mahfuz, unico premio Nobel del mondo arabo (1988) da me presentato su Missioni Consolata (mostro l’articolo e foto su MC marzo 1996). Non fu solo un grande scrittore, ma anche intellettualmente molto onesto, che scava dentro i suoi personaggi e mostra la differenza tra quello che dicono e come appaiono e ciò che sono realmente, smascherando mediocrità e corruzione. Come lo ha incontrato e che cosa pensa di Mahfuz?
Lo incontrai nel 1959 quando lui era uno scrittore affermato e io avevo solo 14 anni: la conoscenza di allora è diventata amicizia. Per oltre 20 anni ci siamo incontrati ogni martedì sera: camminavamo lungo le sponde del Nilo e parlavamo di qualsiasi argomento. Era un incontro molto importante per me e per lui. Nel 1994, Mahfuz aveva 83 anni quando gli integralisti cercarono di ucciderlo, picchiandolo selvaggiamente, a causa del libro Il rione dei ragazzi. Smise di scrivere per due anni, dovendo fare riabilitazione fisica alla mano destra; ebbe anche seri problemi agli occhi: memorizzava e poi dettava i suoi pensieri. Il suo stile è molto semplice e nel  contempo molto forte. È ancora il numero uno tra gli scrittori di lingua araba. Tutta la mia generazione vede in lui un modello. Camminiamo alla sua ombra.

Come rievoca nel racconto «La scorta» in Schegge di fuoco, la sua esperienza quando fu imprigionato nel 1966 ha segnato la sua vita e influenzato il suo lavoro…
Avevo 21 anni, lavoravo già e mi ero iscritto a un partito segreto, di ispirazione maoista. Nasser perseguitava tutti questi movimenti politici. Fui arrestato con altri compagni. Fummo sottoposti a ogni tipo di tortura. Abbiamo trascorso così circa sei mesi. All’inizio del 1967 invitarono Jean Paul Sartre, che dichiarò di non poter venire in Egitto se non fossimo stati liberati. Grazie a questo intervento fummo liberati. Ci tengo a precisare che non siamo mai stati processati da nessuna corte e che io avevo lasciato il partito  prima del mio arresto, perché non gradivo che il partito mi dicesse che cosa dovevo o non dovevo scrivere o che censurasse i miei scritti. Sono infatti sempre stato una persona libera che vuole pensare e scrivere da persona libera.

L’esperienza del carcere ha ispirato il suo libro Zayni Barakat. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Ho iniziato Zayni Barakat dopo la sconfitta inflittaci da Israele nella guerra del Kippur (o guerra dei 6 giorni). Continuavano a dirci che avevamo vinto, cioè a raccontarci bugie. Ho indagato nella storia per trovare un periodo storico a cui ispirarmi per poi raccontare che cosa succedeva ai giorni nostri. Nel contempo iniziai a lavorare come giornalista, visitando anche il fronte dell’Iran. Nel 1980 smisi di fare il corrispondente di guerra: un conto è morire per il mio paese, l’Egitto; un altro conto è morire per l’Iran. Sono uno spirito libero non un mercenario.

Un personaggio importante di questo romanzo è Zakaria, capo della polizia segreta: lo definirei un «mostro», che usa tutte le persone che crede di amare, anche bambini, per spiare tutto e tutti.
Descrivendo Zakaria, ho raccontato il comportamento reale della polizia, che usava qualsiasi mezzo: dal pedinamento all’imprigionamento, alle torture più atroci, spesso fino all’uccisione, quasi sempre senza un giusto processo. 

Zayni Barakat, il grande censore del Cairo (titolo del romanzo) in modo più subdolo si comporta come Zakaria. Infatti appare come una persona irreprensibile, ma, usando frasi altisonanti che chiamano in causa Dio, la giustizia, il benessere della comunità, di fatto anche lui usa e manipola le persone.
Zakaria diceva: «Distruggiamo l’anima e il corpo», mentre per Zayni «bisogna distruggere l’anima, cosicché la stessa persona può continuare a camminare, ma sarà un’altra persona», diverrà cioè parte di un sistema e pedina del potere.

Un altro  personaggio, Said, lo studente, è definito nella presentazione il suo alter ego, sempre pedinato, seguito, cade quasi in disperazione, perché non sa come comportarsi.
Said è il simbolo della mia generazione.

In vari suoi racconti ha descritto altri modi, praticati al giorno d’oggi, per «uccidere l’anima». «Cerimonia» è popolato di personaggi quasi grotteschi di una organizzazione umanitaria, che raccoglie ingenti fondi per imprese fantasma, ma non fa nulla per la gente; il protagonista di «Ricetrasmittente» è un giovane onesto e istruito, circondato da poliziotti e amministratori corrotti, che lo obbligano ad andarsene; in «Notizia» il capoufficio non dimostra alcun interesse per il solerte fattorino. Insomma menzogna, camuffata da «buone azioni», corruzione e indifferenza… «uccidono l’anima».
Proprio così. Desidero, però, precisare che quando scrissi quei racconti, mi trovavo in un momento molto delicato della mia vita: 10 anni fa dovetti recarmi negli Usa per un intervento al cuore. Alcuni amici mi consigliarono di scrivere dei racconti. La raccolta Schegge di fuoco è il frutto di quel periodo, in cui mi sentivo in punto di morte.
Che cosa «cura l’anima»? La sorella che cucina per il fratello i piatti preferiti, malgrado gli impegni di famiglia e sia diabetica; la madre che aiuta il figlio preparando panini deliziosi per il suo negozio… In pratica, è la famiglia la «cura dell’anima».
Questo è quanto succede in Egitto. La famiglia è molto, molto importante.

Il protagonista di «Letargo» si rattrista e quasi piange, quando legge il versetto: «Io non vi chiedo altra mercede, se non l’amore per il prossimo». Perché?
Tutte le persone povere e semplici (come l’uomo onesto del racconto «Ricetrasmittente», vittima della corruzione di poliziotti e burocrati) soffrono per la corruzione e sanno che tale versetto troppo spesso si riduce a semplici parole.

In un’intervista lei ha affermato che ci sarà vera democrazia  solo quando nel mondo ci sarà onestà per costruire vera giustizia e vera pace.
Sono obiettivi  ancora molto lontani e non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per l’Occidente. Costruire una società che offra a tutti la possibilità di istruirsi e avere una vita dignitosa è quasi un miraggio. Ho scoperto che lo stesso progresso può, di fatto, uccidere l’uomo.  Nel mondo la situazione è molto brutta se pensiamo che il 5% dell’umanità detiene tutta la ricchezza del pianeta, mentre  milioni di persone sopravvivono a mala pena. Basta leggere alcuni miei racconti come «Cerimonia» per scoprire gli inganni che ci circondano.

Di Silvana Bottignole

NAGIB MAHFUZ Premio Nobel per la letteratura 1988

Nato nel 1911 in un quartiere popolare del Cairo, Nagib Mahfuz è morto il 30 agosto 2006 all’età di 95 anni. Nel 1994 (aveva 83 anni) fu minacciato di morte e poi selvaggiamente picchiato dai fondamentalisti islamici a causa del suo libro: Il rione dei ragazzi. Che cosa contiene questo romanzo di tanto «pericoloso»?
Il rione dei ragazzi (tradotto in italiano nel 2001) era uscito a puntate nel 1959 sul quotidiano egiziano Al Ahram; la raccolta in un volume, edizione leggermente espurgata, è stata pubblicata a Beirut nel 1967.
Con la genialità di grande scrittore, Mahfuz racconta la spiritualità popolare, che ha ispirato i mitici cantastorie delle caffetterie della Cairo Vecchia. Adham (Adamo), Ghabal (Mosè), Rifaa (Gesù), Kassem (Maometto) e un emblematico mago Arafa con assistente (forse Marx e Mao) sono i protagonisti di 144 brevi capitoli, tanti quanti le sure del Corano.  
Come tutti gli abitanti del vicolo discendono da Ghabalawi, l’antenato che vive nella Grande Casa, proprietario di tutti i beni amministrati da un fiduciario. Purtroppo, però, «per ogni uomo che cerca di fare del bene, troviamo dieci capi che brandiscono i loro manganelli e cercano lo scontro; cosicché la gente si è abituata a comprare la propria incolumità con tangenti in denaro, sottomissione e servilismo».
Adham è il capostipite, cacciato dalla Grande Casa per la sua curiosità. Sollecitato da Idris (diavolo in forma umana) e incoraggiato dalla moglie, voleva conoscere i segreti del «libro» proibito. Al contrario di Idris, ladro e seminatore di discordia, Adham vivrà del suo duro lavoro, ma sempre nel rispetto del severo Ghabalawi, che lo perdonerà.
Ghabal, salvato e cresciuto dalla figlia del fiduciario, non sopporterà le oppressioni fatte al suo popolo, parlerà con Ghabalawi e, divenendo incantatore di serpenti, sconfiggerà il fiduciario, rimanendo «proverbiale fra la sua gente per giustizia, forza e ordine».
Riifa, quasi simile a Ghabalawi ed esortato dalla sua voce, vuole scacciare gli spiriti del male che albergano nel cuore degli uomini, per lui «i migliori sono quelli che fanno del bene». Farà un matrimonio pro forma per salvare una prostituta da morte sicura, ma sarà tradito da questa con i capi, che lo uccideranno. «Alla sua morte, Riifa godette di un onore, rispetto e amore che mai aveva sognato quando era vivo. La sua vita divenne una storia gloriosa… specialmente da parte di Ghabalawi, che raccoglie il suo corpo e lo seppellisce nel giardino… Alcuni dei suoi seguaci giunsero agli estremi, evitando persino il matrimonio, con l’idea di imitarlo».
Kassem, grande ammiratore di Ghabal e Riifa, su invito di un servo di Ghabalawi, comincia ad addestrare il popolo nell’uso dei bastoni, perché desidera portare la giustizia di Ghabal, la misericordia di Riifa, ma anche gestire il patrimonio. Dopo molte battaglie, diverrà fiduciario, facendo conoscere alla gente del suo vicolo «fratellanza, amore e pace».
Infine, il mago Arafa giunge quando nel mondo c’è molta sofferenza. Vuole conoscere il libro segreto di Ghabalawi, causandone la morte. Diverrà una pedina del fiduciario, che userà le sue bombe rudimentali per opprimere e spaventare la gente. Qualcuno spera ancora nel suo messaggio.

Silvana Bottignole




Calcio: metafora della vita

Il nostro portiere cercava di trattenere i bianchi che volevano sbranare l’arbitro,
e quel Sancocho ebbe la pessima idea di citare Frantz Fanon, il pensatore anticolonialista che a quell’epoca spopolava… Avete sentito, signori, uno spudorato ha osato citare Fanon… E chi avrebbe citato se avessi dato un rigore alla razza bianca? Althusser? Mao? Lo stesso Marx? La guerra imperiale si porta avanti con modi da cavaliere e colpi da animale…

Osvaldo Soriano, Fútbol, storie di calcio

Il calcio è soltanto un gioco? Certamente è un gioco e un gran bel gioco di squadra, quando i retroscena non l’offuscano con intrighi e imbrogli. Un attento osservatore può, però, scorgere in una o più partite di calcio le avventure della vita.
Lo dimostra molto bene lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, nato a Mar del Plata nel 1943 e prematuramente scomparso a Buenos Aires nel 1997.
"Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla e io. È stato su un prato a Río Cuarto de Córdoba che ho scoperto la mia vocazione da attaccante" scrive Soriano, maglia numero 9, soprannominato el gordo (il grasso). Purtroppo, però, "mi sono rotto il ginocchio contro il Centenario, a Neuquén" prosegue lo scrittore argentino, promettente centroavanti e costretto a divenire un cronista sportivo dai tratti originali.
Nel 1971 è redattore del quotidiano La Opinión, ma, nel 1976 a causa del colpo di stato, è costretto ad abbandonare l’Argentina, per vivere prima in Belgio e poi a Parigi. Rientrerà in Argentina nel 1984, ormai giornalista affermato e conosciuto anche in Italia per i suoi romanzi tradotti in 12 lingue come: "Triste, solitario y final" (1973), "Mai più pene, né oblio" (1979, soggetto di un film del regista Héctor Olivera, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino), "Quartieri d’inverno" (1981).
Con l’ironia condita da humour, che caratterizza tutti i suoi scritti, Soriano si descrive così: "Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime".
Le sue storie sono, infatti, così belle che hanno entusiasmato tutto il mondo. Lo scrittore argentino riesce con leggerezza e realismo a produrre una rara miscela di esperienze realmente vissute, condite con massime di scrittori amati o a mala pena digeriti, e inserite in eventi storici dai risvolti drammatici e farseschi del xx secolo, senza scordare di citare scene e citazioni dei suoi amatissimi film. Insomma, leggendo e ridendo per strabilianti acrobazie, molto spesso inserite in fantasmagoriche partite di calcio, si scoprono realtà sconosciute o fatti notissimi si rivelano in una nuova prospettiva di luci e di ombre.

"Fútbol", una raccolta postuma di alcuni suoi racconti, brilla come un scintillante e originale mosaico di creatività e capacità narrativa. Le tessere del mosaico rappresentano storie di vita vissuta, come quella di Obdulio Varela che, nel 1950, fece vincere "il mondiale" allo spaurito Uruguay contro il favoritissimo Brasile, o la fantastica partita dei mai giocati mondiali del 1942, arbitrata dal figlio di Butch Cassidy e vinta dagli indiani mapuches, perché gli italiani "entrarono in campo nascondendo manciate di peperoncini rossi da tirare negli occhi degli avversari", oppure la storia vera dell’onesto "pibe de oro" Eesto Lazzati, o quella degli arbitri corrotti e venduti che chiedono "mille pesos per dare un rigore e due o tremila per annullare un goal".
Infine, il lungo racconto "Memorie del Míster Peregrino Feández" rappresenta un po’ una "summa" della scrittura spregiudicata e ironica dell’ineguagliabile Soriano. Il giornalista intervista l’ottantacinquenne argentino "el Mister", ormai costretto su una sedia a rotelle, in una casa di riposo nei pressi di Parigi, e scopre che da giovani si erano già incontrati sui campi da calcio in Argentina. Mister Feández, "innamorato del bel gioco e creatore del calcio-spettacolo", ha infatti iniziato a far giocare ragazzi, perché "si comportino bene e mettano sul terreno il meglio che hanno", ma, dopo aver girato il mondo, a malincuore ammette: "Avevamo messo fine alla bellezza per garantire la resa delle squadre".
Dall’Argentina el Mister era approdato in Francia e, "quando l’avevano cacciato dalla Lega francese per aver giocato una partita con dodici uomini, se n’era andato in Australia". Afferma, infatti, che scriverà le sue memorie "in turco, in inglese e in castigliano, senza tradire né reprimere i sentimenti", perché "nella mia vita ho visto diverse epoche di vari paesi", tra questi l’Italia fascista, l’Urss di Stalin, la Francia occupata dai tedeschi, l’Africa di Lumumba.
Lo sfacelo provocato da ogni tipo di dittatura è ben tratteggiato nella partita giocata davanti a Stalin: "Il problema era che nessuno sapeva se il compagno Stalin fosse tifoso della Dinamo o della Stella Rossa, per cui non era possibile fare il trucchetto per lasciarsi vincere… Dovevo stare attento a fare i passaggi tenendo conto dei problemi di ognuno: all’ala destra mancava l’occhio sinistro, per cui non avrebbe visto niente che gli fosse arrivato da quel lato.
Il centromediano portava un collare rigido, per cui non poteva colpire di testa né guardarsi attorno. La mezzala sinistra, te l’ho già raccontato, era zoppo e si spostava saltellando. Invece, l’ala era un piccoletto mezzo sordo, a causa di una granata che era finita nella sua trincea, e con lui bisognava comunicare a gesti. Tarmanowski era monco, ma si difendeva abbastanza bene. Mi sono un po’ rincuorato quando mi hanno detto che quelli della Stella Rossa erano più malconci di noi… Mi dissero che il portiere portava scarpe ortopediche e che uno dei terzini soffriva di amnesia continua, cioè non sapeva nemmeno quale partita stesse giocando".
Il Mister Feández con lucidità denuncia inoltre la situazione del suo paese: "A quel tempo credevo che noi argentini avessimo intelligenza da vendere, per quello me ne sono andato per il mondo a fare il furbo, il presuntuoso. Adesso, invece, a vedere il paese che abbiamo creato penso che non siamo intelligenti, ma siamo furbi, che è un’altra cosa. Tra i furbi ci sono molti cretini. Credo di averlo imparato da un francese che si chiamava Camus, uno dei pochi intellettuali che si intendeva di calcio. Era un ottimo portiere!".

Soriano termina i suoi racconti, fantastici ma non troppo, citando il suo maestro Américo Tesorieri, portiere del Boca, che ha scritto: "Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che forse tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere, se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio, dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio… Questi sono i profeti. I poeti del gioco".
Osvaldo Soriano con il suo narrare metaforico e fantasioso è anche lui "un poeta del gioco".

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




«Pazzo sogno»

Arte e coraggio del regista filippino Lav Diaz, che ha partecipato al XXIII Torino Film Festival (2005) con Ebolusyon ng Isang Pamilyang Pilipino (Evoluzione di una famiglia filippina), della durata di 11 ore e girato in 10 anni.

«Che cosa possiamo fare? Quale responsabilità abbiamo come filippini? Perché siamo in America? Perché milioni di cittadini lottano per lasciare le Filippine? Perché l’80% dei filippini vive sotto la soglia di povertà? Che cosa c’è di sbagliato nella nostra cultura?».
Spinti da queste domande innovative, perché non solo critiche verso l’Occidente, ma anche verso se stessi, il giovane regista filippino Lav Diaz e il produttore Paul Tañedo hanno speso 10 anni della loro vita (1992-2002) nelle riprese di Ebolusyon ng Isang Pamilyang Pilipino (Evoluzione di una famiglia filippina), realizzato con mezzi finanziari molto scarsi «per offrire un contributo di un certo livello estetico al cinema delle Filippine, pervaso dallo squallore commerciale dell’industria cinematografica locale».
Questi coraggiosi artisti filippini (Paul Tañedo è un fotografo di professione) sono riusciti a realizzare il loro «pazzo sogno», tanto pazzo da produrre un film della durata di 11 ore? Che cosa hanno voluto raccontare? «Il film Ebolusyon racconta le lotte della gente nella storia delle Filippine, in questo caso nel periodo tra il 1971 e il 1987 – spiega Lav Diaz, durante l’incontro al Torino Film Festival (11-19 novembre 2005) -. L’introduzione della legge marziale, decretata dal dittatore Marcos nel 1972, l’omicidio del senatore Aquino nel 1983 al suo rientro dall’esilio all’aeroporto di Manila, le speranze suscitate dall’ascesa al potere di Cory Aquino nel 1986 e l’enorme delusione dopo l’eccidio dei contadini a Mendiola (1987) attraversano e peggiorano la vita di una micro realtà, protagonista del film, cioè una famiglia contadina».

Nato nel 1958 a Cotabato (Filippine) da una famiglia di insegnanti, Lav Diaz è cresciuto tra i libri e ha vissuto in prima persona i drammi della dittatura di Marcos e del dopo Marcos. Ha intanto frequentato il Mowelfund Film Institute di Quezon City, scoprendo i lavori di Lino Brocka, suo maestro, e solo nel 1990 è emigrato in America, dove ha collaborato alla redazione di giornali per filippini e, nel tempo libero, è riuscito a dedicarsi alla sua grande passione: la produzione di film.
Ha esordito nel 1997 con Serafin Gironimo e nel 1999 si è aggiudicato il titolo di «Miglior film» al Festival di Bruxelles e al Singapore Inteational Film Festival con Batang West Side, pellicola di 5 ore, che narra le peripezie di un investigatore filippino tra i meandri della comunità filippina d’America.
Con Ebolusyon, presentato ai Festival di Toronto, Rotterdam e Torino, Lav Diaz è ormai un regista conosciuto a livello mondiale.
Per raccontare «la lotta della gente nella storia delle Filippine», Lav Diaz in Ebolusyon narra la vita ai margini della società della famiglia Gallardo, che vive in uno dei tanti barrios della periferia urbana e subisce, anche se quasi a livello inconscio, le ingiustizie e soprusi del regime dittatoriale.
La famiglia, dal passato emblematico, è guidata dall’amorevole e autoritaria nonna Puring, capace di affrontare con dignità e coraggio le tante tragedie che colpiscono duramente il nucleo familiare.
Infatti padre delle sue tre nipoti, è il figlio Kadyo, buono ma debole, che trascinato da cattive compagnie si è trovato coinvolto in un furto e, messo alla gogna dalla legge marziale, è anche stato azzoppato da militari brutali.
La figlia Hilda, generosa e instabile, ha adottato il neonato Raynaldo, trovato abbandonato. Egli viene cresciuto con affetto anche da Kadyo, che lo salverà dalla follia suicida di sua sorella, ma non potrà arrestae la fuga, quando la madre adottiva viene brutalmente uccisa.
La nonna Puring è risoluta nel volere che le tre nipoti, orfane di madre e con il padre in carcere, frequentino la scuola e si guadagnino da vivere con la raccolta stagionale del riso e con lavori occasionali presso famiglie ricche.
La nonna offre stabilità alla famiglia e rievoca la tradizione, unendosi volentieri ai canti tradizionali dopo un buon raccolto e onorando il ricordo dei defunti con visite al cimitero e preghiere di suffragio durante la messa. Rifiuta persino l’allettante proposta di matrimonio per una delle ragazze da parte di un arrogante e impettito pastore protestante (forse Diaz si è ispirato al rifiuto dell’intelligente Liz di Orgoglio e pregiudizio).
La nonna chiede a Kadyo, uscito dal carcere, di cercare lo scomparso Raynaldo, anch’egli amato come le nipoti. Durante questa ricerca, Kadyo incontrerà incalliti criminali, che questa volta gli chiederanno di uccidere. Ma Kadyo, che nei momenti di dormiveglia, pensando a Raynaldo o alla morte della coraggiosa madre Puring, vede Gesù cadere sotto il peso della croce, come il «buon ladrone» preferirà la morte piuttosto che macchiarsi di un crimine, commissionato dai «potenti».
Spezzoni di documentari, inseriti nel film, rievocano la storia del paese e propongono le dimostrazioni pacifiche della gente, l’arrogante dittatore Marcos accompagnato dalla bella e subdola Imelda, il sorriso di Aquino sull’aereo prima di essere assassinato, la massiccia partecipazione della folla ai suoi funerali, la repressione nel sangue dei contadini e filmati sullo scomodo regista Lino Brocka (vedi riquadro), la vittima designata dai potenti per il delitto su commissione.
In Ebolusyon la voce e le scomode idee di Brocka raggiungono gli angoli più remoti del paese tramite un’intervista radiofonica, ma le famiglie dei barrios preferiscono cambiare subito programma, per alienarsi con radiodrammi insignificanti e ripetitivi, che però divengono i «padroni» delle loro semplici abitazioni e le rendono così sempre più vittime di un «potere» assoluto e corrotto.

Ripetutamente Lav Diaz nelle sue interviste dichiara: «Kadyo e Raynaldo rappresentano il filippino medio. L’anima dei filippini deve essere salvata». Diaz ha terminato il film con la toccante storia delle due madri: quella che ha abbandonato il neonato Raynaldo, chiedendo ogni giorno perdono, e quella che lo ha salvato offrendogli la vita in una famiglia.
Perché un film con una trama certamente complessa dura ben 11 ore? Anche con queste scelte il regista filippino esprime il suo netto rifiuto nel seguire le più banali regole dei film commerciali: durata massima di due ore e budget altissimi.
Che cosa vediamo nelle 11 ore di scene eccezionali e innovative, girate in bianco e nero? Non ci sono primi piani; lo spettatore deve vivere con i personaggi e condividere le atmosfere reali vissute dalla gente del Sud del mondo: le interminabili camminate, le estenuanti attese alle fermate di autobus che non arriveranno mai, le lunghe ore nottue rischiarate dalla tremula lampada a petrolio, i ritmi lenti dei tempi della raccolta del riso, la bellezza di un paesaggio che potrebbe dar vita a una mostra di meravigliose fotografie d’autore.
Emblematica è la scena dell’agonia di Kadyo, accoltellato all’addome in mezzo alla folla da un sicario con gli occhiali scuri. L’uomo, per più di 20 minuti, si trascina in strade assolate semideserte, cade esausto, per poi rialzarsi con fatica e morire abbandonato in un fatiscente capannone industriale.
Con questa scena Lav Diaz desidera che «il pubblico capisca le sofferenze patite dalla mia gente per un così lungo periodo di tempo: sotto gli spagnoli per più di 300 anni, sotto gli americani per circa 100 anni e ancora attualmente, sotto i giapponesi per quattro anni, e poi sotto Marcos per 20 anni, con effetti che si protraggono al giorno d’oggi».
Per vedere e apprezzare un film come questo, bisognerebbe dedicare un week-end di «totale immersione». Non sarebbe tempo sprecato anzi, forse si potrebbe sperimentare un modo nuovo di fare «cultura».
Sia i filippini che le persone desiderose di conoscere seriamente la storia dell’«arcipelago dorato» imparerebbero molto di più dalla visione di Ebolusyon che da centinaia di conferenze. E, come auspica Lav Diaz, i filippini potrebbero confrontarsi «apertamente con il nostro passato per costruire un futuro migliore».

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




LINO BROCKA

Il regista filippino contro il dittatore Marcos

Maestro di Lav Diaz e anche lui presente con i suoi film al Torino Film Festival, Lino Brocka (Pilar, Sorgoson, Filippine 1939 – Quezon City, Filippine 1991), è stato il regista che sotto la dittatura di Marcos è riuscito a far conoscere la tragedia vissuta da tanti filippini, approdando nel 1977 a Cannes con il suo film Insiang. Questo film incisivo si rivela un poderoso affresco della vita squallida e devastante nelle baraccopoli di periferia, dove la bella e docile Insiang, figlia di una donna abbandonata dal marito, subisce violenza dal nuovo compagno della madre e, ingannata dall’uomo che credeva l’amasse, si trasforma in «angelo» vendicatore, tanto da indurre la madre a uccidere il suo volgare «gigolò».
Malgrado la censura nel suo paese, grazie ai molti riconoscimenti inteazionali, Brocka riesce a portare a Cannes nel 1984 un altro piccolo giorniello Bayan Ko: Kapit sa patalim (Paese mio), nominato «migliore film dell’anno» dal British Film Institute. Protagonista del film è una modesta e dignitosa famiglia operaia, che lavora in una tipografia e vive in una baracca di periferia. Quando la moglie, in attesa di un figlio, ha bisogno di costose cure mediche, il marito, buono ma impetuoso, non ottenendo un prestito dal padrone, viene stritolato dal crimine.
Bayan Ko, un inno popolare cantato da tutti i filippini, fa da sottofondo alle proteste pacifiche dei lavoratori filippini, che vogliono costituirsi in sindacato e sono duramente osteggiati dal proprietario, mentre i giornalisti appaiono quasi più spietati dei poliziotti nel fotografare le tragedie.
Nell’intervista radiofonica, presentata nel film Ebolusyon di Diaz, Brocka ammette che, per avere i fondi necessari per girare un film di qualità, doveva produrre almeno cinque film commerciali. Il regista aveva, infatti, iniziato la sua carriera producendo spot pubblicitari alla fine degli anni ’60, dopo aver studiato alla Nuova Ecija North High School e alla facoltà di legge dell’Università delle Filippine, divenendo un membro attivo del Laboratorio di teatro diretto da Wilfredo Maria Guerrero.
Disgustato dall’alto tasso di commercializzazione dell’industria cinematografica filippina, solo nel 1974 riuscì a fondare con un gruppo di amici una casa di produzione cinematografica e a realizzare i piccoli giornielli che lo renderanno famoso a livello internazionale, facendolo definire «il poeta del terzo mondo». Morirà tragicamente in un incidente automobilistico nel 1991.

Il critico cinematografico José B. Capino, con un’acuta sintesi, ha tratteggiato bene il lavoro del regista filippino, scrivendo: «Nel presentare e allegorizzare la situazione del paese, Brocka non distoglie lo sguardo dagli elementi più sgradevoli del vasto repertorio di orrori offerto dal terzo mondo: illegalità, gang di vigilanti e cannibalismo… Il successo di Brocka, come polemista che denuncia la situazione determinata dal regime totalitario, finisce con l’oscurare la stupefacente sofisticatezza e ampiezza di respiro della sua visione sociale.
Mostrando di essere molto di più che il lucido critico della tirannide, dispotismo e rapacità, Brocka ha affrontato quasi tutte le tematiche sociali contemporanee, dalla famiglia omosessuale all’imperialismo americano, dagli abusi matrimoniali all’esportazione incontrollata della manodopera filippina. Spesso, ha discusso più tematiche insieme, articolando con sagacia l’indagine della società attraverso la testimonianza intima di vite individuali».

Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Ricerca… di se stessi

«Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d’estate siano tanti…
Soprattutto, non affrettare il viaggio fa che duri a lungo per anni…».
I versi di Costantinos Kavafis, preludio di Viaggio a Itaca, l’ultimo libro di Anita Desai, caratterizzano la vita della scrittrice indiana, premio Grinzane 2005 «una vita per la letteratura».

Il viaggio è fondamentale, ma deve essere inteso come pellegrinaggio. Un pellegrinaggio non necessariamente fisico, ma all’interno di se stessi» afferma la signora Desai, nata nel 1937 a Mussorie (India) da madre tedesca e padre bengali. Lei stessa pare continui a cimentarsi in questo «pellegrinaggio», da quando iniziò a scrivere per comprendere il caos della vita (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000).
Nell’introduzione di Notte e nebbia a Bombay (Einaudi 1999 – premio Grinzane 1993) racconta che «l’idea di quel libro è stata come un granello di sabbia che è entrato nel guscio di un’ostrica e poi è cresciuto, ben radicato nell’inconscio… Volendo essere più precisa riguardo a quell’iniziale granello di sabbia, devo dire che prese vita prima di me, con l’incontro tra mio padre, giovane che dai fiumi e dalle risaie del Bengala andò a studiare ingegneria in Germania, e mia madre, una giovane berlinese, nata negli anni ’20… A un certo punto anch’io faccio la mia comparsa in questa storia e raccolgo intorno a me il mio personale mucchietto di ricordi. La seconda guerra mondiale, per esempio, che fece da sfondo alla mia infanzia, per lontana che fosse dai campi di battaglia europei… Le atrocità, in quel periodo, in India avvenivano su un altro fronte… ed ebbero fine nel 1947 con l’indipendenza dell’India. Un momento che avrebbe dovuto essere glorioso e invece si rivelò tragico, perché coincise con la partizione di India e Pakistan, accompagnata dalla migrazione forzata di milioni di persone e da orrendi massacri».
Questo romanzo, che racconta le tristi vicissitudini di un ebreo tedesco, da 50 anni residente a Bombay, vuole essere soprattutto «una meditazione sopra la guerra e i danni che procura allo spirito umano, che è in grado di sopravvivere solo in condizioni di pace».

L a Desai ha iniziato il suo «pellegrinaggio», tradotto in scrittura, esplorando dapprima il mondo femminile, contesto esclusivo in cui visse fino al baccalaureato. In Chiara luce del giorno (1980 – Einaudi 1998), ambientato nella travagliata India degli anni ’40, famiglie borghesi indù abitano nella vecchia Delhi, vicino a ricche e colte famiglie musulmane, vivendo i conflitti dell’epoca, filtrati dalle emozioni e sentimenti di Bim, una donna forte e coraggiosa, professoressa di storia in grado di fronteggiare le gravi difficoltà della famiglia. Con la sorella Tara frequenta la scuola missionaria anglicana, ricordando: «Le aristocratiche missionarie che gestivano quella scuola grigia e austera… erano tutte anziane e nubili – avevano fatto voto di castità anche se non indossavano la veste monacale – oltremodo frenetiche, disponibili e piene di risorse. Lasciati i prati e le siepi, le canoniche e le feste di beneficenza della loro fiduciosa e donchisciottesca giovinezza, avevano vissuto esperienze che avrebbero piegato chiunque e che invece esse avevano saputo sopportare, restando a galla come barche sulla cresta delle onde (guerre e bombardamenti, disordini e rivolte, carestie e siccità, alluvioni, incendi e usanze locali) per poi ritirarsi, non tra canoniche e feste di beneficenza, ma a dirigere una severa e rigida scuola delle missioni, sostenute dalla propria fiducia e baldanza e da una fede intatta».
L’autrice mi ha confermato di aver rievocato, con queste immagini, le sue insegnanti della Queen’s Mary Higher Secondary School da lei frequentata in gioventù.
Quindi Anita Desai, madre di quattro figli ed affermata scrittrice internazionale nonché docente di scrittura creativa al Massachussets Institute of Technology (Usa), è cresciuta parlando indù e tedesco, ma la sua lingua letteraria è sempre stata l’inglese, appreso con eccellenza in una scuola missionaria.
Anche il suo «pellegrinaggio» con la scrittura è arricchito da questa formazione che le permette di descrivere con maestria e acume situazioni e personaggi, tratteggiati da un occhio critico e disincantato.
In uno dei suoi primi romanzi, Il villaggio sul mare (1982 – Einaudi 2002), tensioni e conflitti vissuti all’interno di semplici famiglie di pescatori indiani, la cui vita si illumina giorniosamente in occasione delle feste tradizionali, sono appesantiti dall’arrivo minaccioso dell’industria con tutte le incognite e, forse, l’inutile distruzione invece della promessa ricchezza.
Nel romanzo In custodia (1984, Tartaruga 1990), la Desai comincia ad esplorare il mondo maschile, lasciando le donne come personaggi marginali. Ma che donne! Informo la scrittrice che la mia presentazione di questo romanzo su Missioni Consolata (gennaio 2000) fu intitolata «La mafia delle donne». Con calma, la Desai conferma: «Altre persone mi hanno chiesto perché le donne di questo romanzo sono così orribili. E io ho risposto che questa è la reazione di donne trattate male e relegate solo nel ruolo di figlie, mogli e madri, senza la possibilità di partecipare alla vita attiva del mondo maschile, come appunto avviene in India. Attualmente, però, in certe fasce della popolazione la situazione comincia a cambiare».

N el recente Viaggio a Itaca (1995 – Einaudi 2005) la Desai cerca di raccontare motivazioni, stereotipi e realtà del «pellegrinaggio» di tanti giovani occidentali in India, moda abbastanza diffusa alla fine degli anni ’80. Un preludio è offerto in Notte e nebbia a Bombay, quando Farrock, il dignitoso proprietario di un caffè di terz’ordine, additando un ragazzo bianco ricoperto di stracci, che pretende di essere servito senza pagare il conto, sbotta: «Già avrà preso a calci in faccia i genitori, immagino; genitori ricchi, che hanno regalato al figlio una moto, un’automobile, l’orologio, i soldi, il biglietto per l’India, tutto. E che cosa hanno ottenuto? Una pedata, ciao e via. Eh? È così che vengono, in Afghanistan, in Nepal, in India. Dicono ai genitori che non vogliono un impiego, che non vogliono lavorare. Raccontano loro bugie enormi sugli dèi indù; sostengono di amare il Budda, di volere visitare i templi, vivere negli ashram (centri di spiritualità). Sì certo che visitano i templi e vivono negli ashram; ma badano al Budda o a Rama o a Krishna o a qualunque altro dio? Io so che cosa fanno. Prendono droghe in questi ashram, droghe da quei pandit e da altra gente come loro».
Tutti i giovani occidentali si aggrappano a una presunta «spiritualità» per cercare in India lo «sballo» della droga? In Viaggio a Itaca, Matteo, il giovane protagonista italiano, sognatore e ribelle, è sincero nella sua ricerca di spiritualità in India, perché ispirato dal romanzo Pellegrinaggio a oriente di Hesse, unico libro che pare avere influenzato la sua anomala formazione.
Figlio di un’agiata famiglia, residente in una villa sulle sponde del lago di Como, Matteo conosce e sposa Sophie, irrequieta giornalista, figlia di banchieri tedeschi. Inizia così la loro avventura in India, caratterizzata dalla spassionata e ingenua ricerca di Matteo accompagnato dalla razionalità, che talvolta diviene spietato cinismo della compagna.
È proprio Sophie, però, con il suo disincanto e la curiosità tipica della brava giornalista, che riesce a tratteggiare bene motivazioni e intenzione degli occasionali compagni di «pellegrinaggio» e degli stessi indiani.
Malgrado siano foraggiati dal denaro dei ricchi genitori di Sophie, i due «pellegrini» vivono una vita dura in ashram diversi per stile e conduzione. Partecipano anche a un faticoso e colorato pellegrinaggio verso un tempio, che lascerà in Sophie l’amaro ricordo di una donna nel tentativo supremo di salvare il figlioletto moribondo tanto da farla esclamare: «Al centro dell’India c’è un bambino morto».
Dopo aver soggiornato sulle spiagge di Goa, «il pellegrinaggio attraverso l’India si intrinse del denso e aromatico annebbiamento della marijuana: le si appiccicò addosso e diventò il suo abito. Penetrò in lei e diventò il suo essere… In tutta l’India, in quegli anni, cenciosi mendicanti bianchi, in pyjama sbrindellati e bandana, gironzolavano intorno agli ashram, ai santoni, per il divertimento e l’incredulità degli indiani che composero per loro una canzonetta “dai un tiro, dai un tiro, sentiti svenire”».
Quasi sempre questi giovani occidentali sono oggetto di dileggio da parte dei locali, che ne identificano il parassitismo e la lenta distruzione. Infatti non di rado questi «pellegrini» contraggono malattie mortali. Più volte Matteo e Sophie sono ricoverati in condizioni gravi in ospedali diversi. In uno di questi, un medico indiano capisce la sincerità di Matteo, gli salva la vita e con saggezza lo esorta: «La luce divina può uccidere… gli dèi sono distruttivi in questo paese… Viene in India e non si prende neppure la briga di imparare qualche cosa. Pensa di poter capire questo paese senza studiare nulla? Pensa che la luce divina sia come il bagliore di un lampo? Avrei dato qualunque cosa per andare in occidente a studiare».
Matteo riesce a farsi accettare in un rigido ashram, dove studia con rigore, ma deve anche subire la segregazione, ad esempio durante i pasti, perché ritenuto impuro. Quando Sophie scopre che i santoni dell’ashram sono in combutta con bande di malviventi, raggiunge con Matteo l’ashram retto da una leggendaria Madre, di cui Matteo diviene totalmente dipendente, tanto che «ora capiva per quale ragione perfino i dintorni paradisiaci della sua casa sul lago gli erano apparsi vuoti e terribili, perché non c’era nessuno a mostrargli che erano espressione di una verità eterna ed essenziale».
Sophie, intanto, ha avuto due figli che riesce a parcheggiare dai nonni italiani, per avventurarsi alla ricerca del passato della Madre, che si rivela essere un’altra «pellegrina», figlia ribelle di madre francese e padre egiziano. Laila, l’attuale Madre, nata e cresciuta ad Alessandria d’Egitto, conosce l’India in un negozietto di Parigi e diviene ballerina nel gruppo del famoso Krishna, danzando a Venezia, New York e, infine, approda a Bombay, dove danza per un «santone», che diviene suo maestro di vita.
Nella memoria del maestro, la Madre, che come danzatrice prediligeva la figura del «pavone», riesce, come il magnifico e vanitoso uccello, nelle sue apparizioni serali a incantare i «pellegrini» dell’ashram, taluni, come l’ingenuo Matteo, quasi schiavi. Con la morte della Madre l’ashram si avvia, però, verso l’oblio.

Incontro di culture? Secondo la Desai solo con una ricerca sincera e un amore autentico ci può essere un incontro proficuo. Intanto la scrittrice indiana ha proseguito il suo «pellegrinaggio» in Messico, scrivendo il romanzo The zig-zag way, che il prossimo anno uscirà tradotto in italiano.

Silvana Bottignole




AMARE I POPOLI La bandiera olimpica

Parigi 1914. Nella cerimonia commemorativa alla Sorbona…
per la prima volta apparve in pubblico la bandiera olimpica,
di cui erano stati fatti moltissimi esemplari e che ebbe un grandissimo successo.
Tutta bianca, con cinque cerchi intersecati: azzurro, giallo, nero,
verde, rosso, la bandiera simboleggiava le cinque parti
del mondo unite dall’olimpismo e riproduceva i colori
di tutte le nazioni.
Pierre de Coubertin

Com’è nata l’idea delle modee olimpiadi, della bandiera olimpica e del Cio (Comitato olimpico internazionale)? Quali messaggi e quali valori voleva trasmettere l’olimpismo? Al di là dell’imponente scenografia e il cospicuo impiego di mezzi finanziari «le olimpiadi» di oggi sono rimaste fedeli agli ideali del loro fondatore?
È stato il pragmatico barone Pierre de Coubertin a inventare, dopo aver a lungo studiato e sognato, le olimpiadi modee, raccontate con toni leggeri nel libro autobiografico del 1931, tradotto finalmente in italiano nel 2003, col titolo Memorie olimpiche.
Nato a Parigi il 1° gennaio 1863 da famiglia aristocratica, religiosa e legittimista, Pierre de Coubertin consegue nel 1880 il baccalaureato presso il Collegio dei gesuiti frequentato da esterno. Con un’ottima cultura umanistica, si iscrive alla nuovissima École libre de Sciences Politiques, entusiasmandosi ai grandi maestri del pensiero (Montaigne, Rousseau, Tocqueville, Compte, Le Play, Locke, Spencer).
Si reca intanto in Inghilterra, dove è affascinato dai metodi pedagogici dei colleges inglesi; poi, nel 1889, per incarico della Pubblica istruzione francese, va in America per studiare l’organizzazione scolastica e universitaria.
Impegnato nel movimento «scuole nuove» ed «educazione attiva» ispirati al sistema anglosassone, il giovane de Coubertin matura l’idea di organizzare i «Giochi olimpici modei», affinché la gioventù si impegni nello sport, formandosi sugli ideali umanistici dell’antica Grecia: uguaglianza, frateità, pace.
Lo studioso francese presenta i frutti delle sue ricerche in libri di pedagogia, psicologia sportiva, formazione, mentre stabilisce una fitta rete di contatti con persone importanti e influenti a livello nazionale e internazionale, per trasformare in realtà il suo sogno: la nascita delle modee olimpiadi.
De Coubertin muore nel 1937, lasciando con le «olimpiadi modee» un albero maturo dalle radici profonde.

Figlio del suo tempo, Pierre de Coubertin è troppo spesso etichettato come «positivista», «spiritualista», «misogino», tanto da essere ricordato, durante le olimpiadi, da giornalisti superficiali con battute come «chissà cosa direbbe de Coubertin se vedesse le donne competere?». Eppure, leggendo le sue Memorie olimpiche, si scopre un uomo libero e onesto, dai grandi ideali, che ha saputo produrre una vera e propria rivoluzione con «prassi», cioè, come direbbe Paulo Freire, «con azione e riflessione rivolte verso le strutture da trasformare».
Pierre de Coubertin illustra bene nelle sue memorie il grande sforzo iniziale per «mettere insieme» i diversi sport, scrivendo: «Gli sportivi del xix secolo erano profondamente convinti che ciascuno sport era nocivo per l’altro, essendo le rispettive tecniche molto diverse tra loro. Lo schermidore si deteriora facendo la boxe. Il rematore deve diffidare degli esercizi alla sbarra… So per certo che i rappresentanti dei diversi sport non si erano mai messi insieme per un’opera comune, fino a quando io li riunii per la formazione del Comitato per la diffusione degli sport scolastici. Un anno più tardi, l’organizzazione delle gare del congresso del 1889 mise insieme, questa volta ufficialmente, i rappresentanti presso il ministero della Pubblica istruzione».
Malgrado questi risultati, nel 1894 Cupertus ritirava l’adesione dei ginnasti belgi alle prime olimpiadi, affermando: «La mia federazione ha sempre creduto e crede ancora che la ginnastica e gli sport siano cose opposte e ha sempre combattuto questi ultimi come cose incompatibili con i suoi principi».
Intanto il 25 novembre 1892, nel grande anfiteatro della vecchia Sorbona, in occasione della celebrazione del 5° anniversario dell’Union de Sports Athlétiques, con coraggio Pierre de Coubertin annunciò il ripristino dei giochi olimpici.
Quali furono le reazioni? Racconta il padre delle modee olimpiadi: «Applausi, approvazione, auguri di grande successo, ma nessuno aveva capito niente. Cominciava allora l’incomprensione totale, assoluta. E doveva durare a lungo». E prosegue con ironia: «La gente “colta” usava fare dello spirito nell’informarsi se le donne sarebbero state ammesse tra gli spettatori delle nuove olimpiadi o se, come in certi periodi dell’antichità, sarebbe stata imposta la nudità per meglio proibire al sesso debole l’accesso agli stadi».
Finalmente, nel 1896, dopo intensi lavori di preparazione e non pochi patemi, i primi giochi olimpici furono celebrati con gioia in Grecia, dove le diverse categorie dello sport furono presentate «su un piano di eguaglianza». Le olimpiadi modee erano così decollate. Nel 1900 furono celebrate a Parigi, nel 1904 in America (Saint Louis), nel 1908 a Londra, dove «era la prima volta che le dottrine ginniche svedesi e tedesche si affrontavano sul campo; la prima volta che le regate sul Tamigi dovevano essere accessibili a tutte le nazioni. Per la prima volta la sfilata dei 1.500 atleti in marcia dietro alle loro diciannove bandiere…».
Le olimpiadi del 1912 di Stoccolma furono ritenute esemplari da de Coubertin, perché si vide «tollerare la glorificazione di tutti gli sport in piena Stoccolma e l’erezione degli attrezzi, fino allora banditi, proprio in mezzo allo stadio… (mentre) grazie allo sforzo svedese il divorzio tra giochi olimpici ed esposizioni sarebbe stato concesso».
Infatti, il padre delle modee olimpiadi è molto critico circa l’inserimento delle precedenti olimpiadi in grandi fiere o esposizioni, perché «il loro valore filosofico evapora e la loro portata pedagogica diviene inoperante», tanto che, a Saint Louis nel 1904, «in fatto di originalità, il programma ne offriva una sola, ma incresciosa. Si trattava delle due giornate. Denominate bizzarramente anthropological day, riservate alle gare dei neri, degli indiani, dei filippini, degli ainos e, come se non bastasse, a essi furono aggiunti turchi e siriani. E questo solo 20 anni fa!… Osereste dire che il mondo non ha camminato da allora e che l’ideale sportivo non ha fatto progressi!».

La bandiera olimpica, che ancora oggi ci annuncia festosamente le olimpiadi, fu ideata da Pierre de Coubertin e presentata a Parigi nel 1914, in occasione del 21° anniversario delle olimpiadi. La filosofia e gli ideali del suo inventore si intrecciano in quei cinque cerchi uguali, ma di diverso colore, che presentano su un piano egualitario tutta l’umanità.
Conoscendo bene, però, l’enorme diversità tra culture, il padre delle modee olimpiadi ammonisce con chiaroveggenza: «Credo che non ci si debba fidare del cosmopolitismo, che nato da un semplice viaggio, può aprire il passo a pericolose incomprensioni e illusioni».
Se la bandiera olimpica ci offre con un colpo d’occhio l’ideale olimpico, è però il Cio (Comitato olimpico internazionale) il motore che muove e controlla il grande evento. Anch’esso fu inventato da Pierre de Coubertin con caratteristiche ben precise: «Il giorno in cui avesse cessato di essere un self-recruiting body, il Cio avrebbe perduto la sua arma essenziale: l’indipendenza totale.
Il Comitato comprendeva (nel 1911) 43 membri di 31 nazioni diverse. Tutti o quasi erano degli sportivi nel vero senso della parola, rispondenti alla formula che avevo individuato fin da principio: uomini abbastanza competenti da poter approfondire delle questioni tecniche specifiche, ma non schiavi di qualsiasi specialismo esclusivo; uomini di esperienza internazionale, che permettesse loro di non essere dominati da pregiudizi nazionali nel risolvere qualunque questione; uomini, infine, capaci a tener testa ai gruppi tecnici e di sottrarsi a ogni tipo di dipendenza rispetto a quelli».
Inoltre, tutti i membri del Cio dovevano autofinanziarsi, mentre lo stesso de Coubertin pensava alle modiche spese generali del Comitato.

La prima guerra mondiale (1915-18) paralizzò anche le olimpiadi, inno alla pace tra i popoli. Solo nel 1920 si vide sventolare la bandiera olimpica ad Aversa. Pierre de Coubertin, che aveva sempre cercato per il grande evento sportivo una formula di preghiera laica nel rispetto delle diverse culture, commenta: «Ad Aversa niente messa, nessun intervento sacerdotale sull’altare. Il De profundis, inno del ricordo, in memoria dei caduti degli ultimi quattro anni (la lista degli olimpici era terribilmente lunga) e il Te Deum, inno del successo e della speranza; inni laici si potrebbe dire, che si prestavano a belle interpretazioni musicali»; e prosegue: «Nel 1924 a Parigi, il mattino a Notre Dame c’era stata una cerimonia come quella di Aversa, la cui austera “neutralità” aveva assunto un’impressionante maestosità in quella coice unica».
Tra gli amici e preziosi colleghi, de Coubertin ricorda con simpatia due sacerdoti, padre Didon del Collegio di Arcueil, ispiratore del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più in alto, più forte), e il reverendo de Courcy Laffan, preside del collegio di Chelthenam e rappresentante del collegio dei presidi inglesi, conosciuto nel 1897 al Congresso di Le Havre e divenuto subito stimato membro del Cio.
Sempre acuto nelle sue analisi, il pedagogista sportivo ha lasciato pensieri e riflessioni, degni di seria meditazione. «Musica e sport sono sempre stati per me i migliori “isolatori”, i più fecondi strumenti di riflessione e visione, come pure possenti incitatori alla perseveranza e, per così dire, “massaggi della volontà”… Se fortifica, allo stesso modo lo sport calma, purché rimanga un coadiuvante, non divenga un fine ossessivo, esso sa produrre l’ordine e schiarire il pensiero… L’allenamento normale può essere puramente fisico e condurre alla sola resistenza, ma può anche contribuire al progresso morale, con lo sviluppo della volontà».
Infine, con molta chiarezza, già nel 1894, Pierre de Coubertin prevedeva l’uso nel bene e nel male che si può fare dello sport, scrivendo: «L’atletismo può suscitare le passioni più nobili come le più vili; può sviluppare il disinteresse e il sentimento dell’onore come l’amore del guadagno, può essere cavalleresco o corrotto, virile o bestiale; infine può essere usato per consolidare la pace così come per preparare la guerra. Ora la nobiltà dei sentimenti, il culto del disinteresse e dell’onore, lo spirito cavalleresco, l’energia virile e la pace sono i bisogni primari delle democrazie modee, siano esse repubblicane o monarchiche».

Silvana Bottignole
Lo sport dei valori
Bradipolibri 2005, pag. 224, € 15,00

Lo sport propone ancora dei valori?
A questa e altre domande hanno risposto 600 dirigenti, atleti di 111 società sportive collegate alla diocesi di Torino, divenendo attori di una ricerca sociologica che racconta origini e sviluppo delle stesse società insieme ad avventure e disavventure di bambini, ragazzi e adulti che si cimentano nei diversi campi dello sport organizzato. La conclusione è che, nonostante tutto, nello sport amatoriale si crede ancora in certi valori che vengono trasmessi nella vita di tutti i giorni.

Silvana Bottignole




FRANCIAL’isola degli schiavi

Perché vogliamo, io e te, risalire il cammino del sole, cerchiamo di attirare verso di noi il giorno del passato, sentiamo che siamo troppo leggeri sotto quel peso; e per riempire la nostra presenza siamo troppo vuoti in questa assenza, in questo oblio; sì, la nostra presenza nel mondo; una parola troppo grossa per noi.
(Édouard Glissant, Il quarto secolo).

Come si sente una persona che sa per certo di discendere direttamente dagli antichi schiavi africani? Le ferite profonde, causate dallo sradicamento violento dall’Africa e dalla vita disumana sulla nuova terra, si sono rimarginate o popolano ancora l’immaginario collettivo dei popoli delle Antille francesi? Con toni poetici lo racconta Édouard Glissant, scrittore della Martinica anche lui discendente di schiavi, nel suo affascinante romanzo Il quarto secolo, premiato in giugno dal Grinzane Cavour.
Nato nel 1928 a Sainte-Marie in Martinica, Édouard Glissant, dopo aver frequentato, grazie a una borsa di studio, il liceo Schoelcher di Fort-de-France, nel 1946 parte per Parigi, dove prosegue gli studi filosofici ed etnologici alla Sorbona e al prestigioso Musée de l’homme.
Con una solida preparazione culturale, inizia la sua collaborazione con riviste letterarie come poeta e saggista. Nel 1958 ottiene il premio letterario Renaudot per il suo primo romanzo La Lézarde e inizia la sua attività politica per il diritto della disobbedienza nella guerra di Algeria, che lo vedrà perseguitato e anche arrestato.
Il quarto secolo, l’unico romanzo tradotto finora in italiano, esce nel 1964. L’anno dopo Glissant rientra in Martinica dove insegna filosofia al liceo e fonda una rivista letteraria e un istituto di studi su tradizioni e cultura della sua isola.
Tornato a Parigi nel 1980 scrive saggi, poesie, romanzi e diviene redattore capo della rivista Le Courrier de l’Unesco. Negli anni ’90 ottiene riconoscimenti inteazionali in molte università. Attualmente è titolare della cattedra di Letteratura francese alla City University di New York e presidente onorario del Parlamento internazionale degli scrittori.

«Terra, schiavi, magazzini, rum» furono, secondo Glissant, le «manie» dei bianchi dominatori delle Antille francesi, forse nobili o criminali fuggiaschi dalla Francia, che per quasi tre secoli si arricchirono con il lavoro degli schiavi, cioè dal 1635, anno di annessione della Martinica alla Francia, sino al 1848, anno in cui fu abolita la schiavitù.
Sulla storia travagliata della Martinica, filtrata dall’insolito sguardo degli «schiavi», si snoda la trama de Il quarto secolo. Nel 1935 iniziano, infatti, gli incontri regolari tra i due protagonisti del romanzo: l’anziano papà Longoué, stregone e chiaroveggente, e il quattordicenne Mathieu, un ragazzino sveglio e curioso di conoscere il perché della loro presenza sull’isola.
Papà Longoué racconta come nel 1789 arrivarono sull’isola il primo Longoué e il primo Béluse, antenato di Mathieu, sulla nave negriera Rose-Marie capitanata dal francese Lapointe. Persino la madre Africa, terra di provenienza del macabro traffico, era stata infettata da tanto squallore. Con occhio disincantato e spietato Glissant rievoca: «Quando il capitano arrivava c’era già il carico… L’intero paese era stato drogato, le madri avevano venduto i figli, gli uomini i fratelli, i re i sudditi, l’amico vendeva l’amico per il rum senza canna. E così compravano la morte con la moneta della morte, per potersi tuffare nella morte del rum».
Con ironia denuncia poi i cinici calcoli dei negrieri: «Il capitano era un uomo umano e organizzato. A che cosa serviva mettee 800 nelle stive e arrivare con 200, quando si poteva tranquillamente allineae seicento fra i ponti e arrivare con quattrocento?». La traversata fu terribile e disumana, ma ancora più terribile fu l’arrivo nella nuova terra sconosciuta, dove arroganti e beffardi «bianchi» si spartivano il carico.
Eppure, prima di sbarcare, Longoué e Béluse si batterono in un’epica lotta, sotto gli occhi sbalorditi dei loro futuri padroni, La Roche e Senglis. Due rivali che, di solito, usavano gli schiavi anche per le loro sfide personali. Mentre Béluse e la sua discendenza vissero come schiavi nella tenuta di La Roche, Longoué riuscì subito, con una fuga rocambolesca, a seminare cani inferociti nella foresta di acacie, e divenne un negro maron, con una vita libera insieme alla bellissima giovane schiava che, chissà come, aveva compreso un suo gesto tradizionale: gli aveva tagliato le corde e poi era stata rapita dall’audace Longoué mentre scontava l’atroce supplizio della croce.
Glissant racconta le vite parallele in un mondo dove coloro che si credono i «padroni» sono di fatto schiavi di usi e costumi talvolta ridicoli, che mal si adattano all’isola tropicale. Ai loro occhi, però, gli altri abitanti dell’isola sono «schiavi e inesistenti, senza qualità umana, come voleva l’uso della società». Il padrone può fare di tutto: scegliere il nome dello schiavo, farlo accoppiare come ritiene più opportuno, torturarlo (su una croce), seviziarlo, mutilarlo, ucciderlo. Gli schiavi diventano così «un popolo ai margini, soddisfatto di una penombra in cui sopravviveva alla maniera degli animali e che fingeva persino coll’affezionarsi ai padroni». I pochi neri liberi (maron), che vivono nella foresta, si chiedono perché gli altri non fuggano, senza capire che proprio la sottomissione degli altri protegge la loro libertà.

N el 1848 fu decretata la liberazione degli schiavi. Tutti furono registrati con nomi e cognomi di fantasia. Gli abitanti delle foreste scesero a valle, ma, commenta Glissant, «non c’è da stupirsi che questi negri si urlassero addosso e abbiano disprezzato il colore del legno sulla pelle», perché «il paese laggiù era morto per sempre; sì, certo, c’era la nuova terra, ma non la sentivano dentro il loro ventre, non vedevano l’unico cielo sopra di loro, cercavano in lontananza altre stelle, senza contare il loro fiume asciutto e la loro foresta senza radici».
Nasceranno, poi, le città, «il santuario della parola, del gesto, della lotta», si consoliderà la lingua creola, mentre la «gente di colore» si batterà per ottenere posti di lavoro dignitosi e poi – osserva con ironia lo scrittore della Martinica – per «strappare gli altri diritti che ne derivano (il diritto di agitarsi in quanto cittadino che elegge il suo sindaco e il suo deputato… il diritto di aprire bottega e di pavoneggiarsi, il diritto di addobbare la notte con una scintillante ghirlanda di parole)».
Intanto, malgrado fosse terminata la schiavitù ufficiale, l’isola si sarebbe, fino ai giorni nostri, popolata dei nuovi «negrieri», cioè persone che sfruttano gli abitanti locali e agiscono come l’antico capitano Lapointe, ma nel ruolo di «ricchi funzionari con il beneficio di una cospicua indennità di soggiorno».
Anche la religione è stata imposta agli schiavi dai padroni, credenti in un dio «che temevano tanto, ma verso il quale si comportavano in modo disinvolto», e si è perciò rivelata una sequela di feste e vuoti rituali.
Spicca, comunque, la bella figura di Melchior, «un uomo buono con tutta la forza della bontà, quando è fortificata dalla solitudine», nato dal primo Longoué e dalla schiava rapita, che volle mettere al figlio il nome del mitico re, e vissuto libero nella foresta per curare e guarire, lenire le pene, capace di non vendicarsi del male subito (l’uccisione del fratello) e con la sua presenza di far «maturare la forza e la pazienza».
Melchior è il nonno di papà Longoué e ne diviene un maestro da indicare come esempio; infatti, «non lo afflisse con ricette o conoscenze precise; ma, come un uccello che fischia invisibile fra i rami e altrettanto tenue e insistente, gli diede in quella parola frusciante il gusto dell’acqua che si cerca, del ramo che cresce, della roccia che si sgretola, della terra che lavora; di quello che dolcemente si anima e aspetta paziente sotto il sole». •

Silvana Bottignole




I sermoni di Vieira

Con quale luce e quali immagini possiamo tradurre il corpo grafico dei Sermões? Luce, questa luce trasformatrice, tropicale, differenziatrice, che è stata essenziale nello stile di Vieira? La pittura è la glorificazione della luce e dello spazio. Esiste una teologia della luce. Prima di tutto c’è la luce.
Julio Bressane, regista brasiliano

«Antônio Vieira, creatore della più grande musica della prosa portoghese, pensa così: dove il dire è fare, l’udire è vedere. Supponiamo che, davanti a una visione stupenda, i nostri sensi escano dalle loro sfere e inaugurino il vedere delle orecchie e l’udire degli occhi!». Lo scrive il regista brasiliano Julio Bressane che, affascinato dalla carismatica figura di padre Antônio Vieira ha raccontato con poesia alcuni episodi significativi della vita di questo missionario e maestro di letteratura, nel film Sermões, presentato in novembre al Torino Film Festival nell’omaggio a questo regista (vedi Missioni Consolata, marzo 2003).

Chi è padre Antônio Vieira? È conosciuto soltanto in Brasile e Portogallo o se ne parla anche in Italia?
Sfogliando la Garzantina della Letteratura apprendiamo che il «missionario e scrittore portoghese» Antônio Vieira, nato a Lisbona nel 1608 e morto a Bahia (Brasile) nel 1697 «visse per lo più in Brasile… Razionalità pratica e idealismo utopico coesistono nella sua opera letteraria, che comprende 200 Sermoni e vari scritti meditativi e profetici (Storia del futuro, 1663). La sua prosa vigorosa è un modello del barocco portoghese».
A parte le brevi note che ricordano la sua opera, a quattro secoli dalla nascita pare che nessuno dei suoi lavori sia stato tradotto in italiano, forse anche a causa della sua movimentata esistenza, meglio tratteggiata nell’Enciclopedia della Letteratura (De Agostini).
«Vieira nel 1625 prese i voti come gesuita (a Bahia, dove risiedeva dal 1614 n.d.r.) e iniziò lo studio della lingua guaranì. Nel 1640 fu inviato dall’ordine in missione diplomatica a Lisbona da Giovanni iv. Tornato in Brasile (1652) attaccò i metodi inumani dello sfruttamento colonialistico, tanto da provocare la rivolta dei coloni contro i gesuiti, che lo indusse a tornare in patria. Morto Giovanni iv (1656), suo protettore, l’Inquisizione lo condannò al ritiro conventuale per eresia sebastianista; ottenne, tuttavia, altri incarichi diplomatici, ma, alla fine, deluso dalla politica, riprese la via del Brasile. I suoi sermoni insieme all’epistolario sono la testimonianza più valida della vastità d’interessi di Vieira: dallo studio dei classici greco-romani, alla scienza rinascimentale, dalla teologia alla teoria dello stato».
Senza conoscere a grandi linee le fasi più salienti della vita di Vieira, è quasi impossibile comprendere il film di Bressane, pur ammirandone le scene, quasi dipinti d’autore, le musiche dei grandi, come Bach, Schumann, Haendel, Albinoni, Gabriel Fauré, e scene di film d’autore (Welles, Dreyer, L’Herbier e altri), inserite ad arte per sottolineare alcuni drammi della vita del missionario o evidenziare il contenuto di qualche sermone.
Come sempre, prima di girare il film, Bressane ha studiato a fondo l’opera di Vieira, con la consulenza del poeta Haroldo de Campos, e ha respirato l’aria di Bahia, riprendendo scene del famoso carnevale, per comprendere meglio l’atmosfera in cui il missionario scrisse i suoi magistrali sermoni fino alla morte.
Infatti il film è stato quasi interamente girato a Bahia, in soli tredici giorni, con pochi attori ben scelti. Spicca la brillante e meditata interpretazione di Othon Bastos, un Antônio Vieira vigoroso, dalla voce armoniosa, possente e affascinante.
Il film è, per ora, in lingua portoghese, con sottotitoli italiani; ma anche se fosse tradotto, alcuni testi dei sermoni dovrebbero rimanere in luso-brasiliano perché è proprio la musica di questa lingua che Bressane vuole trasmettere con il film.
Un critico ha scritto: «In Sermões, padre Antônio Vieira è l’immagine fantasmagorica della parola, del discorso e della retorica. Un film dove ogni elemento assume radicalmente la sua tessitura, secondo la sua natura. La parola scivola tra l’insinuazione e il trauma, tra l’enigma e l’argomentazione. L’immagine cerca angoli e movimento a cui il discorso verbale non arriva. La musica è usata come tessitura acustica, una seconda pelle della pellicola».
Mentre Bressane rivela: «Io penso al cinema – e in questo intendo iscrivermi nella tradizione di quei registi che riflettono sul loro oggetto creativo – come a un organismo intellettuale, smisuratamente sensibile, che confina con tutte le arti, la scienza e la vita… Le interrelazioni che intercorrono tra le conoscenze, il piacere di scivolare, abbattendo le barriere delle discipline e delle categorie, la coerenza della complementarietà, paradimensionale e pluridimensionale, questa è la tela di Sermões… Vieira ha sempre preferito il frammento e il paradosso e ha sempre evitato accuratamente il quietismo».
Bressane si è impegnato a «mappare» il «segno Vieira», per creare nel suo film un’immagine che rifletta linguaggio, forza e bellezza dei sermoni.
Tra i molti tipi di sermoni, che caratterizzano l’opera di Vieira (storico, politico, metafisico… anche sculaccione), il regista brasiliano si è formato su tre «ombre», con le quali ha costruito la sua trama: sermoni-musica, sermoni-pittura, sermoni-cinema.
Il film inizia con la morte di padre Vieira, che declama: «Non mi fa paura la polvere che devo essere. Mi fa paura ciò che dovrà essere polvere. Non temo nella morte la morte. Temo l’immortalità»(sermone-musica).

Subito dopo l’Adagio di Albinoni diviene l’anima di una lunga sequenza in cui, sull’oceano che unisce e divide Portogallo e Brasile, ondeggia e fluttua una barchetta, quasi a voler trasportare i sermoni del famoso predicatore. Argomenta Vieira: «Volete vedere tutto questo con gli occhi? Allora guardate: un albero ha le radici, ha il tronco, ha i rami, ha i fiori, ha i frutti. Così deve essere il sermone» (sermone-pittura).
Molte sequenze sulla vita alla corte di Giovanni iv, in cui Vieira si aggira invidiato e calunniato, ricordano quadri d’autore, mentre alcune scene riproducono autentici capolavori come La Venere allo specchio di Velasquez.
Il dramma della condanna di Vieira da parte dell’Inquisizione, che ricorda tra gli antenati del predicatore una nonna negra o mulatta, è sottolineata dall’innesto di un film sul martirio di Giovanna d’Arco, arsa viva. Intanto Vieira mostra il crocifisso e tuona: «Ciò che penetra attraverso gli occhi convince tutti» (sermone-cinema).
Alla fine del film compare la dotta poetessa messicana, suor Juana Inés de la Cruz (1651-1695), che afferma: «Pur dissentendo da lui, egli innamora con la bellezza dell’orazione, sospende con la bellezza e strega con la grazia ed eleva, suscita ammirazione e incanta con il tutto».

D iceva Vieira: «Leggere è una cosa; rileggere è un’altra». Ciò vale anche per questo film, che va visto e rivisto.

Silvana Bottignole