PROVOCAZIONI MISSIONARIEAccade a Tunisi

A 45 anni, dopo una lunga esperienza di volontariato, Otello Bisetto è stato ordinato sacerdote della diocesi di Tunisi. Essere prete in Tunisia, dove si registrano profondi mutamenti, costituisce una grande sfida per la chiesa locale.

La lunga strada percorsa da Otello Bisetto, sfociata nell’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 22 maggio 2004 nella cattedrale di Tunisi, potrebbe racchiudere, per molti versi, una parabola di questo nostro tempo, sia che cerchiamo di interpretarlo dal punto di vista umano che da quello di Dio.

Otello ha 45 anni.

Negli anni di infanzia è passato attraverso qualche anno di collegio, poi ha frequentato la scuola pubblica fino a diventare geometra.
Parte per tre anni nello Zaire come volontario. Ritorna per continuare a esercitare la sua professione; ma poco dopo… incorre (!) nella Caritas diocesana, che lo impegna nel servizio ai migranti. È il periodo in cui il fenomeno dell’immigrazione assume proporzioni sempre più importanti anche qui da noi.
Diventa così il primo responsabile della Casa di Accoglienza di Giavera (TV), di cui aveva contribuito sia per il disegno, che per la ristrutturazione e per l’impostazione dello stile di convivenza.
Dà inizio insieme con altri alla cornoperativa «Una casa per l’uomo» a Montebelluna.
Viene allontanato dalla Caritas e si lascia assorbire totalmente dalla cornoperativa che, anche per suo impulso, si espande e crea nuovi servizi: dall’offerta di alloggio alla politica regionale per l’alloggio delle fasce sociali a rischio di esclusione, alla mediazione culturale, segretariato sociale, ricerca e formazione, disagio sociale, insegnamento della lingua seconda «L2», ecc…

Abbandonata Giavera,
va a vivere con tre algerini, musulmani praticanti, uno dei quali è presente a Tunisi nel giorno dell’ordinazione sacerdotale.
Si propone ad alcuni responsabili diocesani di Treviso per essere prete nel segno di una doppia fedeltà: ai poveri e alla chiesa locale. Ma il periodo del «discernimento» si conclude con un rifiuto: «Sei bravo ma non sei fatto per noi…».
Si sposta a San Floriano, dove va a vivere con don Olivo Bolzon e Marisa Restello; nel frattempo continua a confrontarsi da un punto di vista vocazionale con don Feando Pavanello. Decide, quindi, di partire per due anni per la Tunisia, dove può continuare la sua ricerca fino alla richiesta, questa volta accolta, di diventare prete a servizio di quella chiesa locale che vive la sua fedeltà a Gesù e la sua testimonianza di fede e di speranza cristiana in contesto musulmano.
Il 22 maggio 2004 diviene prete per l’imposizione delle mani del vescovo Twal, del nunzio dell’Algeria e Tunisia e di tutti i preti della Tunisia, che per l’occasione s’erano riuniti al gran completo. Con tutta evidenza si tratta di una vita che è parabola di questo nostro tempo.
Una esistenza che incrocia alcune fra le molte situazioni di frontiera e di rottura che si sono prodotte e si stanno producendo in questi ultimi decenni della nostra storia.
La sua decisione di essere prete per la chiesa in Tunisia si realizza, d’altra parte, in tempi che sembrano annunciare una mutazione della chiesa locale, non da tutti condivisa e che alla lunga potrebbe risultare non adeguata.
La sua ordinazione
sacerdotale si svolge alla luce di una intuizione luminosa. Era dal 1962 che non accadeva un tale avvenimento in Tunisi, al punto che la stessa stampa locale ne traccia un sia pur breve trafiletto. Dopo 42 anni, un adulto di nazionalità italiana, Otello, e un giovane francese, Nicolas, vengono chiamati all’ordine del presbiterato ringiovanendo per ciò stesso la chiesa locale.
Nella medesima liturgia si celebra il 50° di sacerdozio di due preti: Mario Garau, un italiano nato in Tunisia, figlio di minatori sardi, e Michel Prignot, un francese della Mission de France, che ha fatto l’operaio, ora in pensione.
I due preti giovani ricevono le pianete dai due anziani. Questo gesto ha tutta la dolcezza e il sapore di un passaggio del testimone.
I due anziani hanno realizzato la loro vocazione attraversando il periodo coloniale, poi quello dell’indipendenza, infine il periodo della costruzione, dell’autonomia identitaria, politica ed economica del paese.
Molti dei loro colleghi non se la sono sentita di affrontare cambiamenti talmente rapidi e radicali e sono ritornati alle chiese dei loro paesi d’origine. Ma chi è rimasto ha cercato di leggere con gli occhi dello Spirito e con amore appassionato la storia della Tunisia.
Hanno vissuto una fedeltà dinamica alla chiesa locale. Per guadagnarsi da vivere, uno ha fatto l’infermiere nel modesto ospedale di Gafsa, l’altro l’operaio, scoprendo via via nuove strade di sequela, di testimonianza e servizio all’ambiente e al popolo musulmano che essi non hanno cessato di amare.
Si sono trovati a essere, insieme a tutti gli altri che avevano preso la decisione di rimanere in Tunisia, costruttori e partecipi di una chiesa essenzialmente missionaria, proiettata al di fuori di se stessa, ma non proselistica.

Ora si affaccia
su questa chiesa la tentazione di una mutazione genetica. Essa è tentata di spegnere lo slancio missionario, la sua particolare diaconia al mondo musulmano, paga del fatto che imprenditori, funzionari di banca, personale di ambasciata con le loro famiglie al seguito riempiano le poche chiese rimaste.
Otello e Nicolas dovranno essere in grado di scegliere tra la fedeltà alla missione di diaconia della chiesa o il ripiegamento gratificante su se stessa. Tale decisione dovrà essere presa comunque all’interno di una società e di una chiesa che cambiano.
Solo qualche anno fa era impossibile parlare di cristiani tunisini. Ora ho sentito che alla vigilia della pasqua di quest’anno, su iniziativa di un professore di università, è stata affittata una grande sala in un hotel del centro di Tunisi, dove si sono riunite 550 persone per cantare e proclamare la propria fede in «Gesù, il Vivente».
Si ha l’impressione che il confessare la propria fede in Cristo sia ormai più frequente, anche se non meno difficile, che nel passato.
È successo che, quando alcuni di questi cristiani (senza alcun’altra specificazione: evangelici, ortodossi, cattolici…) furono interrogati su chi era stato all’origine della loro scelta di fede, rispondevano che la televisione, internet o i contatti con il mondo esterno avevano fatto loro conoscere ciò che prima non conoscevano.
Stanno franando
le barriere che pretendono circoscrivere e legare fedi e religioni a un determinato territorio. Non esiste più nei fatti né una «casa dell’islam» né una «casa degli infedeli».
Essere preti in Tunisia, dentro a queste mutazioni profonde, diventa una grande sfida, probabilmente paragonabile a quella che la chiesa dovette affrontare dopo la dichiarazione d’indipendenza di questo paese.
Fatti nuovi stanno domandando a questo e agli altri paesi islamici risposte nuove sul piano culturale, religioso e politico.
Il fatto che la Tunisia, come altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, abbia deciso di far parte della zona di libero scambio con la Ue, inciderà sulla vita economica, ma anche sul costume del paese.
All’interno delle società arabo-musulmane alcune realtà come «democrazia», «promozione della donna», «libertà di coscienza», «pluralismo religioso e culturale» sono concetti in movimento e di cui ancora non si avvertono gli esiti futuri.
C’è un continente in movimento da questa parte del Mediterraneo e Otello ha preso la decisione di viverci dentro da uomo e da prete.

Giuliano Vallotto




ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo




L’OPINIONE – Incontro con Bartolomeo Sorge

Padre Sorge, lei è un esperto della dottrina sociale della chiesa. Come la valuta oggi?

Esprimo una valutazione di fondo: la dottrina sociale della chiesa cambia con l’evolversi della «questione sociale». Nell’ottocento la dottrina sociale è nata dalla lotta fra la classe operaia e quella capitalista; poi ha risentito dello scontro fra i sistemi del capitalismo e del comunismo.
Con il papa Giovanni XXIII la questione sociale è divenuta mondiale: non dipende più da classi, nazioni e ideologie. Resta la contrapposizione fra nord e sud del mondo, mentre la pace è in pericolo. Allora Paolo vi, nell’enciclica Populorum progressio, afferma che «il nome nuovo della pace è lo sviluppo».

Oggi la questione sociale investe anche l’etica.

Certamente, perché le nuove tecnologie, applicate anche alla biologia, hanno fatto nascere problemi morali inediti. Si pensi alla bioetica. Siamo ad una svolta epocale. Si rischia di creare un mondo senz’anima. Questo, ovviamente, sfida anche l’evangelizzazione.

L’evangelizzazione – affermano i vescovi italiani in Comunicare il vangelo in un mondo che cambia – presuppone «un metterci in ascolto della cultura del nostro mondo, per disceere i segni del Verbo già presenti in essa» (35)

Se lei continua la citazione, trova una bellissima descrizione del missionario, il quale, di fronte agli uomini del suo tempo, deve diventare «servo della loro gioia e speranza». Inoltre non possiamo escludere che i non credenti abbiano qualcosa da insegnarci riguardo la comprensione della vita. Lo richiede anche la globalizzazione.

Il termine «globalizzazione» è sulla bocca di tutti. Padre Sorge, può definire questo fenomeno con parole semplici?

Per spiegare con parole semplici la globalizzazione, direi: oggi tocchiamo con mano come l’umanità stia diventando una sola famiglia. È un fatto stupendo. Questo mondo, non più diviso tra est ed ovest, non più con missili puntati gli uni contro gli altri o con muri di divisione, è un mondo nuovo che ci supera tutti.

Tuttavia in questo «mondo-famiglia» domina la superpotenza degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti che, di fronte al terrorismo, affermano: «Pensiamo noi a mettere ordine nel mondo!». Di qui la guerra in Afghanistan e Iraq, con atteggiamenti di sufficienza. Però, oggi, fa impressione vedere il presidente americano George Bush che quasi prega in ginocchio le Nazioni Unite: «Datemi una mano, perché dall’Iraq non ne vengo più fuori e, dopo avere vinto la guerra, non riesco a vincere la pace!».
Ebbene, questa è la prova più bella che non esiste al mondo un’unica nazione, per quanto potente, che possa costruire da sola un nuovo mondo. O ci salviamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.

Questo significa che dobbiamo tutti pensare e comportarci allo stesso modo?

Noi siamo chiamati a diventare tutti «glocali». È una parola nuova, composta da «glo» (inizio di «globali») e «cali» (fine di «locali»). Il pericolo è che si rompa l’equilibrio tra globale e locale, per chiudersi nel «particolare», così che una diocesi o una provincia vede solo se stessa. C’è pure il pericolo opposto: che si punti all’«universale» attraverso l’economia del libero mercato.
Il libero mercato è anche uno strumento che produce una nuova cultura. Essa impone un modo di pensare e agire, ma rischia di creare un nuovo colonialismo: un colonialismo culturale, molto più grave di quello economico tradizionale. La cultura del libero mercato rischia di generare razzismo, mancanza di solidarietà; allarga il divario fra il nord ricco del mondo e il sud povero; produce sacche di povertà fra le stesse nazioni benestanti.
Pertanto la globalizzazione, come dice il papa, non è né buona né cattiva. È un bisturi che può anche uccidere, se usato male.

Però – si rileva – a uccidere è stato soprattutto il comunismo, non il capitalismo, padre della globalizzazione!

Il comunismo non poteva risolvere i problemi sociali: ecco perché è fallito. Ma questo non significa che, venuto meno il comunismo, siano scomparsi anche i problemi. E sono problemi dovuti al capitalismo.
Nella lettera Novo millennio ineunte il papa scrive: «Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale e tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità e lascia milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che nel nostro tempo ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all’analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?» (50).

Che dire del movimento «no global» o «new global», che contesta il capitalismo?

Più che il capitalismo, si contesta l’Organizzazione mondiale del commercio. Si tratta di una contestazione che nasce anche dai paesi del sud del mondo. Lo si è visto nel vertice di Cancún, in Messico, dove per la prima volta il fronte dei poveri si è unito e ha impedito che la cultura neoliberista facesse pagare ai poveri le scelte utili ai ricchi. Questo è un segno positivo.
E non dice niente che l’anno scorso, in un solo giorno di marzo, circa 110 milioni di persone siano scesi in piazza in tanti paesi del mondo gridando «no alla guerra»? Sapevano che era imminente la guerra in Iraq. Ma questo ha reso ancora più valida la loro protesta, perché hanno dimostrato di resistere contro la rassegnazione dell’inutilità.

Padre Sorge, direbbe pure che non ci si rassegna che qualcuno pensi per tutti?

Anche questo. Non ci si rassegna al «pensiero unico».

In altre parole?

Il pensiero unico è la cultura neoliberista, che ci viene trasmessa anche dalla tivù. Finito il comunismo, sembra che parlare di solidarietà e socialità sia parlare ancora di comunismo. Ecco qual è il virus: ritenere che abbia valore solo ciò che è efficiente, che consente i risultati migliori in termini economici.
Di conseguenza il giudizio etico deriva dal consenso sociale, dovuto al successo. Se piaci alla gente, sei nel giusto. Ma scherziamo? Anche Hitler godeva del consenso sociale e piaceva!
Il papa, all’Accademia delle Scienze, ragiona così: l’etica non può legittimare un sistema sociopolitico; essa richiede che i sistemi si adattino ai problemi dell’uomo, non viceversa.
In Italia, per venire incontro ai problemi dell’uomo – si dice ancora -, tutte le pensioni sono state elevate a un milione di lire.
Ma per fare questo, è stato tolto il sostegno alle regioni, mentre sta per nascere la sanità regionale. Pertanto, se una regione non ha soldi, che medicine dà ai suoi abitanti? Inoltre, mentre un anno fa le famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese erano il 38%, oggi sono il 51%.

Qui nasce il problema del «bene comune». La vera etica non può ignorarlo.

Ma è proprio il bene comune che viene stravolto dal pensiero unico. Si ritiene che il bene comune sia la somma dei beni individuali… dove ognuno si arrangia. Questo è individualismo puro.
Esempio: io ho 100 pecore. Quando avrò raggiunto il bene comune del gregge? Quando ogni pecora avrà brucato la sua erba e avrà la pancia piena. Ma il bene comune non è questo! Si è dimenticato che, nel gregge, vi può essere un montone, che incoa la pecora debole e mangia per due. Altro che bene comune!
Il bene comune è rappresentato anche da ospedali pubblici che abbisognano di infermiere, da cantieri che richiedono manodopera… E se mancano le braccia?
La domanda rimanda alla «bomba demografica». Il nord del mondo è abitato da un miliardo di persone, che consuma l’83% delle riserve che Dio ha destinato all’intera umanità. Nel sud del mondo abitano 5 miliardi di individui, che sopravvivono con il restante 17% delle risorse… E tu vuoi che ci sia pace tra i due mondi? Cosa faranno, un giorno, i due terzi di questi 5 miliardi di persone che, oggi, hanno solo 15 anni?

Le Nazioni Unite raccomandano alle nostre famiglie di avere almeno due figli…

Intanto nell’Europa del nord la crescita è zero. Mentre, fra 15 anni, quei due terzi di 5 miliardi di persone avranno 30 anni: con la loro forza e le loro idee! Fra una decina d’anni l’Europa avrà bisogno di manodopera, pari a 150 milioni di stranieri. In Italia, dove ce ne sono 1 milione e mezzo, ne occorreranno 10 milioni.
I problemi non mancano quando si parla di extracomunitari. Si pensi alla Francia: che pasticcio con il chador delle musulmane! In ogni caso le difficoltà si risolvono insieme.

Anche l’Italia è divenuta multiculturale e multireligiosa, dove non ci dovrebbero essere culture e religioni di serie A e serie B. O è una pia illusione?

No, è solo giustizia, oltre che realismo. Le culture e le religioni devono dialogare. Per iniziare il dialogo, partiamo (almeno noi cattolici) da ciò che ha detto il Concilio ecumenico Vaticano ii: ci sono elementi di verità anche fuori della nostra chiesa (Lumen gentium, 8); le religioni non cristiane riflettono raggi di verità che illuminano tutti gli uomini (Nostra aetate, 2); si trovano verità anche presso quei non credenti che coltivano altri valori umani, perché non ne conoscono ancora la sorgente (Gaudium et spes, 92). Il coraggio del Concilio è dire: noi siamo portatori della verità, perché il Signore ci ha fatto conoscere tutto ciò che è necessario alla salvezza; però nella chiesa non ci sono tutte le verità.

Lei, padre Sorge, in una conferenza ai missionari della Consolata, ha dichiarato: «Il vangelo non è stato scritto solo per quelli che hanno la fede».

Sì, perché il vangelo contiene la risposta agli ultimi interrogativi che ogni uomo si porta dentro. Per me, in tanti anni di lavoro culturale, è stata un’esperienza impressionante vedere come la cultura laica rispetti il vangelo; non solo, ma trovi in esso la risposta ad alcuni interrogativi, anche senza la fede. È chiaro che, se uno crede che Gesù è figlio di Dio ed è l’unico salvatore, cambia molto.

Però il vangelo produce anche cultura, e non sempre la cultura è vangelo.

Il rapporto tra fede, cultura e storia è centrale nella nuova evangelizzazione. Se la rivelazione non si serve della cultura, il messaggio rimane muto. La cultura nasce e cambia con la storia e la geografia. La fede no: essa nasce dall’obbedienza a Dio che si rivela; quindi non dipende da eventi umani. Tuttavia fede e cultura, pur essendo diverse (e guai se si identificano), non prescindono l’una dall’altra. Quindi l’inculturazione del messaggio cristiano, di cui tanto si parla, è questione di vita o di morte per l’evangelizzazione. Non si tratta di battezzare le culture, ma di assumerle in ciò che hanno di vero. Una cultura lontana dal cristianesimo può insegnare a capire il vangelo stesso.
Questo è dialogo.

Come dialogare con l’islam?

La domanda è secca, e me l’aspettavo… Se noi crediamo di essere portatori di una Parola non nostra, ma di Dio; se la Parola è luce e dà luce… perché temere di dialogare con ciò che può sembrare oscuro? È mai successo che un raggio di luce, attraversando il buio, si sia spento? O, piuttosto, non è forse la luce che rischiara la tenebra? Un po’ di coraggio apostolico dobbiamo averlo!
Uso un’altra immagine: quella dei raggi della ruota. I raggi non formano un’unità, anzi non si incontrano mai: sono disparati e vanno in direzioni diverse. Questo è evidente alla circonferenza della ruota. Però, se si guarda al centro della ruota, da dove partono tutti i raggi, l’unità è inscindibile… Papa Giovanni ci ha detto: partiamo da ciò che ci unisce.
Sia chiaro che il dialogo non è passatempo, moda, pubblicità. Il dialogo è fatica e diventa efficace specialmente quando si è «sale», «lievito», non «massa».

Nel vero dialogo si può scegliere l’interlocutore?

Direi di no. Il dialogo è come l’evangelizzazione: non deve escludere nessuno. Ci è richiesto di compiere la missione ad gentes anche in Italia fra gli emigrati. Pur con rispetto verso le loro culture e religioni, dobbiamo essere capaci di testimoniare il vangelo anche a loro. E, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunziare loro la benedizione di Dio, promessa ad Abramo e a tutti i popoli. Non dimentichiamo che Gesù è morto e risorto anche per i musulmani. Però c’è un guaio…

Quale guaio?

Noi viviamo «come se il vangelo fosse vero». Invece «è» vero. Si sentono prediche sul messaggio di Gesù Cristo, sull’esistenza di Dio come se «fosse» vero… Dov’è la profezia? Noi parliamo perché abbiamo studiato. Forse non abbiamo ancora raggiunto quella maturità che è «la trasformazione in Gesù». Noi siamo chiamati ad essere Lui.

Chi è? Bartolomeo Sorge

Nato a Rio Marina (LI) nel 1929. Gesuita, docente di Dottrina sociale, direttore di Aggioamenti Sociali e di Popoli.

Direttore de La Civiltà Cattolica dal 1973 al 1985. Dal 1986 al 1997 è direttore dell’Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe» di Palermo. Dal 1998 opera quale superiore dei gesuiti nella residenza di San Fedele a Milano.
Conferenziere, giornalista, saggista, scrittore.

Tra le sue pubblicazioni:
Le scelte e le tesi dei cristiani per il socialismo, Torino-Leumann 1974; Capitalismo, scelta di classe e socialismo, Roma 1976;
La ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Roma 1979; Il dibattito sulla ricomposizione dell’area cattolica, Roma 1981; Uscire dal tempio, Genova 1989; Cattolici e politica, Roma 1991; L’Italia che verrà, Casale Monferrato 1992 – Bur supersaggi Rizzoli, 1992; I cattolici e l’Italia che verrà, Casale Monferrato 1993 – Oscar bestseller Mondadori 1993; Per una civiltà dell’Amore. La proposta sociale della Chiesa, Brescia 1996 (traduzione in portoghese, spagnolo e polacco).
Per Missioni Consolata, settembre 2002, ha scritto: «Il missionario fa politica. Ma come?».

L’IRAQ COME PALERMO

Il fenomeno della globalizzazione si realizza nel bene e nel male: quindi si globalizzano i rapporti fra ricchi, le comunicazioni tra poveri, la giustizia, il diritto… Si pensi, ad esempio, al diritto internazionale. Nel gennaio 2003 è nata la Corte penale internazionale, che rivoluziona il mondo.
Fino a ieri si diceva: ciò che avviene nei confini nazionali sono affari interni e nessuno ci può mettere le mani. Oggi non più: c’è una coscienza nuova.
Se un criminale ha commesso un delitto contro l’umanità, ne deve rispondere alla comunità internazionale. Se Milosevich ha compiuto dei genocidi nell’ex Jugoslavia, la Corte penale internazionale può intervenire e portarlo davanti al tribunale. Infatti i crimini contro l’umanità non vanno in prescrizione, anche se commessi molto tempo fa. Però alcune importanti nazioni (Russia, Cina, Israele) non hanno accettato la nuova regola. C’è da augurarsi che la coscienza maturi.
Quella donna musulmana, Amina, che doveva essere lapidata viva, perché non è stata uccisa? Perché, grazie alla globalizzazione, da tutte le parti del mondo sono arrivati, via internet, milioni di messaggi come questo: «Non uccidere Amina». Questo è un altro esempio di globalizzazione positiva, che favorisce la vita, che porta la giustizia.

Anche il terrorismo può globalizzarsi. E questa è una grave minaccia che pesa sull’umanità. Noi, prima dell’11 settembre 2001, non l’avevamo capito. Pensando alla violenza nel Medio Oriente, dicevamo: «È solo un terrorismo locale, con palestinesi e israeliani che si combattono». Non avevamo capito che il terrorismo è ormai globalizzato. Ed è un fenomeno senza volto. Non ha volto in Afghanistan, in Iraq.
Ma è una follia pretendere di vincere il terrorismo con la guerra. Esso è un fenomeno anche culturale, con radici disseminate in tutto il mondo: per esempio, nei campi-profughi, dove un povero palestinese (pur essendo la sua terra) nasce, cresce e muore. Allora i kamikaze, che uccidono se stessi per uccidere altri, diventano una forma di sublimazione. «Così mi rendo utile alla causa comune» ragiona il kamikaze suicida e omicida.
Quando ho sentito i rumori di guerra per sconfiggere il terrorismo internazionale, mi è stato spontaneo pensare alla mafia a Palermo, dove ho lavorato 11 anni guardandola in faccia. Mi è venuto istintivo questo paragone: bombardare l’Iraq per vincere il terrorismo internazionale, sarebbe come bombardare Palermo per sconfiggere la mafia… Quando tu avrai bombardato Palermo, la mafia starà meglio di prima, perché il fenomeno non è bellico, ma culturale, pseudoreligioso, fondamentalista…

Oggigiorno, se piglia fuoco la terra in un angolo, tutto il mondo è coinvolto… Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, già nel 1987 proponeva una soluzione, scrivendo: «Nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che l’assuma e la traduca sul piano morale» (26). Ecco la nuova questione sociale.
Bartolomeo Sorge
(da una conferenza ai missionari della Consolata, Torino 10 febbraio, 2004) •

Francesco Beardi




Rispetto per la vita

Teologo, pastore evangelico, organista, medico nella foresta africana,
premio Nobel per la Pace, scrittore
di opere di filosofia della religione
e musica… oltre alla sua poliedrica vita, di Albert Schweitzer rimane
sempre attuale il messaggio etico
e l’esempio della sua azione per il «rispetto per la vita».

«L’uomo ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia», così Albert Schweitzer scriveva in Civiltà ed etica nel 1923, un’opera in cui propone considerazioni, suggerimenti e moniti su un argomento che è stato il credo di tutta la vita: il «rispetto della vita», applicato a ogni settore dell’attività umana che entri in contatto con esseri viventi.
Lo stesso principio fu da lui ribadito nel discorso tenuto nel 1953, in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace, e nel famoso Appello all’umanità, discorso sul problema della bomba atomica, lanciato da Oslo nel 1957 e trasmesso in varie lingue da molte reti radio.
Il «rispetto per la vita», come legge morale, mantiene il suo valore, oggi più che mai, per il comportamento del singolo e della società.

INCONTRO CON GLI IPPOPOTAMI

Fin dall’infanzia Schweitzer sentiva grande compassione per gli animali: nelle sue preghiere, prima di addormentarsi, non dimenticava di volgere un pensiero a tutti gli esseri viventi, compresi gli animali.
Grazie all’influsso del «Movimento per la protezione degli animali», sorto negli anni della sua giovinezza, tale sentimento diventò sempre più radicato nella sua coscienza, fino a diventare un autentico assillo, nella convinzione che anche la filosofia morale dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali.
Un giorno del 1915, mentre navigava il lungo fiume Ogooué per recarsi al capezzale di un ammalato, stanco per i tre giorni di viaggio, dovette costeggiare un isolotto. Sopra un banco di sabbia, quattro ippopotami si muovevano pacificamente nella sua direzione: ebbe come un lampo che illuminò un problema che da anni lo assillava: si convinse che un’etica limitata al nostro rapporto con altri esseri umani è incompiuta, parziale e priva di energia; gli venne in mente un’espressione che sintetizzava il suo pensiero morale e filosofico nei riguardi del mondo e dell’esistenza umana: «Rispetto per la vita».
Tale espressione era tradotta nella vita pratica: oltre ad essere vegetariano, il dottor Schweitzer era attentissimo a non calpestare i fiori; nella costruzione dell’ospedale di Lambaréné si preoccupava personalmente che, scavando le fondamenta o le buche per i recinti, non venissero uccisi insetti e lombrichi, fino a scavare con le proprie mani.

VIVERE E FAR VIVERE

Cos’è il rispetto per la vita? come nasce in noi? «Per far luce su se stessi e sul rapporto con il mondo – spiega il dott. Schweitzer – bisogna accantonare la congerie di elementi che costituiscono il nostro pensiero e cultura, per rifarsi al primo fatto della propria coscienza, il più immediato, perennemente presente: la volontà di vivere. Solo da qui può giungere a una visione ragionata del mondo… Affermare la vita è l’atto spirituale con cui si cessa di lasciarsi vivere e si comincia a dedicarsi alla propria vita, per elevarla ai suoi massimi valori. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare, esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita, nato nella volontà di vivere, divenuta consapevole, contiene strettamente congiunte l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica del singolo e dell’intera umanità».
Fin dai primi anni del secolo scorso, Schweitzer si dedicò a una lunga ricerca sul pensiero etico dei filosofi degli ultimi decenni, per mettere a fuoco il nostro comportamento nei confronti del creato e fondare razionalmente il suo concetto di rispetto per la vita.
Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», ma poi si perde nell’astratto; Schweitzer, rimanendo sul concreto, afferma: «Io sono la vita che vuole vivere, in mezzo alla vita che vuole vivere. Bisogna dunque rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente». Ossia, l’essere umano può chiamarsi «essere etico» soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia quella umana che quella di ogni altra creatura.
Il «rispetto per la vita» nel pensiero di Schweitzer non è una semplice, pur nobile, affermazione di principio, ma una chiave di volta per la modea capacità di giudizio del progresso tecnologico e le sfide culturali che ne derivano. Anzi, tale principio diventa una professione di fede incrollabile: il sì alla vita diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e di tutta l’umanità.
Tale concetto è legato a quello di «moralità» come principio fondamentale. «Un uomo è veramente morale – sosteneva – soltanto quando osserva l’obbligo impostogli di aiutare ogni vita che può assistere e quando si fa scrupolo di uscire dalla sua strada per evitare di danneggiare un essere vivente. Non chiede quanta comprensione meriti questa o quella vita a causa del suo intrinseco valore; neppure chiede di quanta sensibilità sia dotata. Per lui la vita, come tale, è sacra».

LA GUERRA È DISUMANITÀ

Ma con il passare degli anni, analizzando i due conflitti mondiali e relative conseguenze, Schweitzer constatava che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti; e affermava: «Siamo venuti in possesso di armi nucleari: la possibilità e la tentazione di distruggere la vita superano ogni limite. Oggi, grazie al grandioso progresso della tecnica, il destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento della vita». E si domandava come presentare a tutti e in modo nuovo, il problema della pace.
Se un tempo si considerava la guerra un male accettabile, se non addirittura utile per il progresso umano, almeno dei popoli più forti, dopo i due conflitti mondiali tale ipotesi era fortemente messa in dubbio. Il dottor Schweitzer non aveva esitazioni: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire».
Un monito caduto nel nulla: nell’ultimo mezzo secolo le guerre si sono susseguite e intensificate in tutto il mondo. «Quello che oggi ci manca – proseguiva il grande pensatore – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli uni verso gli altri di atti disumani. L’orrenda esperienza collettiva, attraverso la quale siamo passati, deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano impegnate verso tutto ciò che può portare a un’epoca in cui non ci siano più guerre. Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno spirito nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di trattenerci da un uso infausto delle energie di cui disponiamo».
Il suo pensiero non è nuovo. Quattro secoli prima, nel 1517, Erasmo da Rotterdam (1469-1539) aveva pubblicato un volume intitolato Querela Pacis (Lamento della Pace), in cui la Pace (retoricamente personificata) espone al tribunale dell’umanità il suo desolato lamento e chiede di essere ascoltata. Il grande umanista olandese, per primo, ha osato opporsi alla guerra con motivazioni puramente etiche, definendola contraria alla natura umana; ma non ebbe seguaci. Il suo appello alla pace, come imperativo etico, fu considerato un’utopia.
Nel 1795, Immanuel Kant (1724-1804) pubblicò un’opera dal titolo significativo: Per la pace perpetua; per realizzarla, suggeriva il filosofo tedesco, c’è bisogno di un’autorità arbitrale internazionale, che abbia l’autorevolezza di dirimere le controversie tra i popoli.

MASSE DA SPIRITUALIZZARE

Constatava che le istituzioni inteazionali (Società delle nazioni e Onu) non sono state in grado di promuovere una situazione di pace, perché hanno dovuto operare in un mondo in cui manca una mentalità orientata alla realizzazione della pace. «Essendo istituzioni giuridiche, non potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico».
Secondo Schweitzer la pace dipende dalla formazione di tale mentalità nei singoli e nei popoli, la quale consiste nel rifiutare la guerra in base a motivi etici, cioè, perché essa ci rende colpevoli di disumanità.
I tempi di Schweitzer e i nostri attuali si equivalgono: i popoli si sentono tuttora minacciati da altri popoli. «È inevitabile – precisava il premio Nobel nel ricevere il premio – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per legittima difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Convinto di esprimere la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, concludeva: «Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per quanto sta in voi, siate in pace con tutti”».
La figura di Albert Schweitzer e il suo concetto di «rispetto per la vita», sono più che mai attuali, fonte di ispirazione per chi lotta per conservare la propria umanità: un bene da tutelare a ogni costo. Ma è una lotta che non si combatte unilateralmente, è la spiegazione sottile ma concreta del filosofo alsaziano. «Essa chiama a riflettere sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con la realtà della propria vita, ben più di quanto di fatto si realizzi. È una lotta che spinge a conservare, se qualcuno vi avesse rinunciato, la meditazione e il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare a una spiritualizzazione delle masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole ottenere per la propria vita mediante la lotta per l’esistenza, sulle difficoltà legate alle circostanze estee e su ciò a cui è disposto spontaneamente a rinunciare».

Non c’è dubbio che, nei decenni passati, il filosofo alsaziano ha contribuito allo sviluppo storico e spirituale del nostro tempo, che ne rispecchia le tendenze, le speranze, le angosce. Il principio del «rispetto per la vita» è ancora un’affermazione che obbliga tutti, in qualunque situazione si trovino, a occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani. Responsabilità che si traduce in vari modi e vari nomi: nonviolenza, pacifismo, neutralità, difesa dei popoli, impegno per la giustizia, salvaguardia del creato.

(*) Gioalista scientifico, addetto stampa
Associazione Italiana Albert Schweitzer

Eesto Bodini




Felice di servire

Dopo vari anni di attività in Kenya e in Italia, dall’ottobre 2003 suor Gina Motta presta servizio infermieristico
ai missionari della Consolata bisognosi di cure, nell’infermeria della casa madre a Torino.
Ecco la sua storia.

«Sono l’ultima di quattro figli: un fratello e tre sorelle. In famiglia ho respirato armonia e gioia, pur nella semplicità.
Come tutti i giovani, nell’età dell’adolescenza mi ponevo la domanda: che cosa vuole Dio da me? Di una cosa ero sicura: desideravo vivere pienamente la mia vita ed essere felice. Ma come? Nel matrimonio? Oppure rimanendo nel mondo e consacrando la mia vita per il bene dei fratelli e sorelle? O come suora?». Così suor Gina comincia a raccontare la sua storia.
A quei tempi si chiamava Franca. Non lo dice, ma è certo che parecchi giovani le ronzavano attorno. L’attrazione di Dio, però, era più forte. Attirata dal silenzio e dalla preghiera, un giorno sentì perfino un forte desiderio della vita claustrale. Volle fare l’esperienza di condivisione con la comunità di un monastero di clausura. Alla fine della settimana, però, comprese che quel tipo di vita non era fatto per lei.
Provò un’altra strada: accettò l’invito a partecipare a un corso di esercizi spirituali presso le missionarie della Consolata, a Grugliasco (Torino). Seguì una breve esperienza di «vieni e vedi» con alcune suore e juniores di quella stessa casa: il loro stile di vita le piaceva, l’ideale di servire Cristo nei più poveri rispecchiava la sua indole. Forse era proprio lì che Dio la voleva.

«A 19 anni feci una drammatica esperienza – continua a raccontare -: Gino, il mio unico fratello, mentre stava assistendo a una corsa automobilistica a Monza, venne falciato insieme ad altri da una Ferrari uscita di pista».
Era il 10 settembre 1961: all’inizio della gara, il pilota Von Trips fu tamponato dalla Lotus, guidata da Jim Clark; la Ferrari schizzò contro le reti di protezione della tribuna della leggendaria curva parabolica, mietendo la vita di 13 spettatori.
L’improvvisa e tragica morte del fratello, accrebbe in Franca l’innato desiderio di aiutare chi soffre e cominciò a prestare servizio in un ospedale. Dopo solo due anni, il ricordo della morte del fratello ravvivò in lei la decisione di una scelta radicale: essere missionaria a vita.

«Il 28 ottobre 1963
salutati i miei amatissimi genitori e le sorelle, lasciata la casa, tante persone amiche e il lavoro, mi presentai alle missionarie della Consolata. Da quel giorno non mi voltai più indietro e ancora oggi, dopo 40 anni, sto vivendo in pienezza e con gioia la mia vita missionaria» continua suor Gina.
Non sono mancate le difficoltà; la principale veniva proprio da suo padre, che amava teneramente e da cui si sentiva profondamente amata. Egli non aveva alcuna obiezione che sua figlia abbracciasse la vita religiosa, ma la scelta di farsi missionaria le sembrava troppo radicale e obiettava: «Perché andare in Africa, così lontano…?». La sentiva perduta per sempre.
Tuttavia, Franca poté trascorrere gli anni della formazione in serenità. Giunto il giorno della professione religiosa cambiò nome, come si usava ancora a quei tempi, e prese quello del fratello.
Arrivò anche il giorno della destinazione: era proprio l’Africa. Suor Gina si recò in famiglia per salutare i genitori, parenti e amici. Il papà toò alla carica: «Perché in Africa? Perché tanto lontano…?».
«Senza minimamente pensare a san Francesco di Assisi – racconta la suora -, feci il gesto di slacciarmi l’abito religioso, dicendo: “È questo che vuoi, papà?”. Da quell’istante cessò ogni perplessità e mio padre approvò in pieno la mia scelta».
Prima di spiccare
il volo per l’Africa, suor Gina fu inviata in Inghilterra, per imparare la lingua inglese e specializzarsi nel campo infermieristico. Vi arrivò nel 1967 e cominciò a frequentare i corsi di infermiera professionale e ostetrica nell’ospedale di Kendal.
Per cinque anni lavorò in un ospedale protestante a Londra, facendosi subito stimare per la sua servizievole attenzione, non solo verso i malati affidati alle sue cure, ma anche a quelli di altri reparti.
La sua popolarità era alle stelle. Un giorno, una paziente ricevette un mazzo di fiori. «Che belli! Sono meravigliosi, stupendi! Ma che pensiero gentile…» diceva la signora con questi e altri convenevoli che solo gli inglesi sanno fare; in fine, rivolgendosi alla suora che la assisteva notte e giorno, concluse: «Grazie, grazie! Portateli a suor Gina, per favore».

Il 2 settembre 1972
suor Gina raggiunse il Kenya e cominciò il suo servizio nel Nazareth Hospital, gestito dalle missionarie della Consolata a Nairobi. Era stato appena avviato il nuovo reparto di mateità, voluto e inaugurato da suor Prisca, poco prima della sua tragica morte. Le fu affidato il compito di attendere alle mamme, che giungevano da varie parti del Kenya per essere assistite nel parto o per problemi connessi con la mateità.
Furono tempi indimenticabili, carichi di ricordi, vissuti intensamente e ripagati dalla gioia di aiutare una media di 2.000 bambini a venire al mondo ogni anno.
Una di quelle mamme, appena giunta all’ospedale, le disse: «Sister, voglio che il mio dodicesimo figlio nasca qui, perché sento che morirò… Sono venuta all’ospedale missionario perché voglio essere battezzata». La battezzò personalmente e le prestò tutte le cure necessarie per salvarla.
Purtroppo, poco dopo aver dato alla luce la sua creatura, Mary, la neo-battezzata, morì a causa di un’inarrestabile emorragia post partum. Era serena, sicura di lasciare il suo piccolo in buone mani. Le sue ultime parole furono: «Sono contenta di riunirmi ai miei antenati».

Nel 1977 si presentava
in Kenya un’urgenza inderogabile: trovare personale capace di formare infermiere locali. A suor Gina fu chiesto di prepararsi a tale compito, frequentando il corso biennale in Community Nursing Training presso il Nairobi Hospital.
Unica suora cattolica presente nell’ospedale statale, a contatto con persone di ogni razza, cultura e religione, suor Gina visse altri tre anni (1978-1980) indimenticabili, ricchi di episodi che lasciano il segno.
Un giorno, un indiano di religione sikh, ricoverato per sottoporsi a una difficile operazione, le disse: «Suora, lei è una donna di Dio: mi metta le mani sulla fronte e mi dia la pace».
La richiesta la colse di sorpresa. Pochi giorni prima, alla fine di un incontro del «Rinnovamento dello spirito», il prete, un americano, le aveva domandato se imponeva le mani sui malati; la suora aveva risposto con un sorriso di diniego; ma il prete, con una fanatica filippica, le aveva ordinato di imporre le mani sui pazienti e operare guarigioni. E lei, per nulla convinta, aveva risposto con serafico sorriso che avrebbe continuato a pregare per i suoi malati, ma le mani non le avrebbe imposte mai.
Passato il flash back, suor Gina rispose all’indiano: «Le mani sulla fronte te le metto volentieri, ma quanto alla pace, questa non viene da me: devi essere tu a riconciliarti con Dio e con i fratelli». Il paziente confessò che aveva litigato con un fratello a causa di un garage. Ma come riconciliarsi?
Si avvicinava il giorno dell’operazione e del compleanno dell’indiano: la suora gli suggerì di invitare tutta la parentela per la duplice occasione. E così avvenne: chiamò tutti familiari e si riconciliò con loro.
Una signora anglicana era in attesa di sottoporsi a una gastroscopia, poiché soffriva di tremendi crampi allo stomaco. Confidandosi con la suora, raccontò di avere litigato con il suo datore di lavoro e le chiese consiglio sul da farsi. «Cosa leggi nel vangelo – rispose suor Gina -? Se hai qualche cosa contro un tuo fratello, vai e riconciliati con lui». La donna chiese qualche ora di permesso; si fece accompagnare dal marito dal suo datore di lavoro e chiarì la faccenda: i crampi scomparvero e la donna non toò più in ospedale.
Più preoccupato della prenotazione cancellata e relativa perdita della parcella che dell’improvvisa guarigione, il responsabile dell’ospedale domandò alla suora che cosa avesse fatto a quella signora. «Niente; le ho solo consigliato di rappacificarsi con il suo datore di lavoro» rispose serafica suor Gina.

Conseguito il diploma
di abilitazione, suor Gina fu inviata all’ospedale missionario di Nkubu, come direttrice e insegnante della scuola per infermieri: aveva a carico la formazione di 140 allievi e allieve.
Furono cinque anni di stressante lavoro e responsabilità, che minarono la salute della suora, tanto da dover lasciare quella missione che, nonostante tutto, le procurava immense soddisfazioni.
Toò in Italia e, poco dopo, a Londra, dove rimase tre anni, dedicandosi alle più svariate attività: animazione missionaria nelle parrocchie, assistenza alle giovani suore venute in Inghilterra per imparare l’inglese, incontri ecumenici di preghiera con pastori protestanti e… lavori casalinghi.
Ritornata in Italia, per sei anni fece parte della piccola comunità di Albisano di Torre del Benaco (Verona). Anche là continuò la sua «missione»: oltre a dedicarsi ai malati, sia in comunità che nelle famiglie, si prestò con entusiasmo come catechista e animatrice liturgica nella parrocchia, senza dimenticare i servizi richiesti dalla comunità, compreso quello di autista.
Quando le fu offerta l’occasione di partecipare a un corso di aggioamento spirituale all’università Urbaniana di Roma, nel 1988 si trasferì nella capitale, prestando il suo servizio infermieristico alle sorelle e alle pensionanti della casa di Via Foscari. Nel 2001 continuò lo stesso lavoro nella casa di spiritualità a Caprie (Val Susa, Torino).

Nell’ottobre del 2003
dovette improvvisamente interrompere la sua attività nella comunità di Caprie, perché richiesta di sostituire la sorella infermiera presso i confratelli missionari della casa madre di Torino.
«Devo umilmente e con gioia ammetterlo – conclude suor Gina -: dal giorno in cui ho lasciato l’Africa, Dio ha continuamente aperto nuovi orizzonti nella mia vita, facendomi sentire sempre di più e in modi differenti la bellezza della mia vocazione missionaria.
Oggi ho la gioia di poter servire Cristo nei suoi figli prediletti, curando i confratelli missionari ammalati. Molti vengono dalla missione, altri sono impegnati in attività in vari centri dell’Istituto; alcuni stanno trascorrendo un periodo post-operatorio e abbisognano di cure specifiche, ma tutti vivono e offrono per la missione che desiderano rivedere al più presto.
Qui mi sento autentica missionaria, indirettamente impegnata nell’evangelizzazione. Con loro mi arricchisco nella conoscenza di altri continenti, di vita missionaria concretizzata nelle più diverse culture. Con loro condivido le ansie e le giornie del regno. Di tutto ciò non posso che ringraziare e lodare il Signore». •

Benedetto Bellesi




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto




Fare il bene stando allegri

È possibile parlare dello «humour» dell’Allamano? Certamente sì, anche se, confrontandolo con quello del Cottolengo, don Bosco, Cafasso, le differenze si notano. L’Allamano nel parlare (assai meno nello scrivere) risulta più immaginoso e, soprattutto, più aneddotico, sia del Cafasso come degli altri due santi piemontesi. Il suo humour è certamente meno frizzante, più contenuto e sottile, quasi impercettibile, al punto che anche coloro che lo hanno avvicinato o hanno scritto di lui non si sono accorti della sua esistenza; nessuno, per lo meno, lo ha messo in rilievo, come se in una fuga di Bach, nel turbinio delle note, non si avvertisse l’andamento continuo del pedale.
servire in letizia
Anzitutto, i suoi aneddoti sono quasi sempre corti, pratici e immediati. Come quando, trattando della povertà, racconta che «frate Leone vede in visione molti frati che dovevano attraversare un fiume impetuoso; alcuni avevano un fardello sulle spalle e, giunti in mezzo al fiume, la forza della corrente li travolse. Altri, che non avevano nulla, passarono liberamente».
«Mi ricordo di un frate vecchio, prefetto di sacrestia, che non toccava mai con le mani i denari, ma usava una zampa di gatto». «E sì, quando si ha 60 anni, se ne desiderano 70 e poi… 80. Un canonico racconta: “È morto uno di 60 anni e un altro commentò: Non era poi tanto vecchio!”. Ma lui ne aveva 80 e gli altri hanno sorriso».
Ci sono nell’Allamano inviti generici e insistenti alla letizia come nota fondamentale della santità, specie nei missionari e missionarie. In caso contrario, non avrebbe potuto continuare per tutta la vita ad essere «rettore» di un santuario dedicato alla «consolazione». La conferenza del 29 gennaio 1917 inizia: «Siete sempre allegri? Sempre contenti? Bene, bene». «Vedete, se si vuole fare del bene, bisogna stare allegri». «Vedete come è bello essere sempre allegri! Bisogna che quello sia un carattere vostro: Servite Domino in laetitia, ma servite». «Dovete sempre essere allegri, di vera allegria, in modo che tutti vi possano vedere felici. Che possano dire: hanno lasciato tutto, eppure guarda come sono felici. E, poi, perché non essere felici?».
Parlando alle missionarie, diceva: «Non bisogna addormentarsi sulla calzetta»; voleva dire che bisognava fare le cose con piacere, sereni e allegri, «come i bambini che, quando dormono, hanno un’aria così bella e sorridente; non addormentatevi mai col muso; bisogna andare a dormire con pensieri allegri più che si può». «Dovete sempre avere una bell’aria… Andate avanti come vanno tutti i cristiani, alla buona, cioè, serene, allegre, gentili».
Aborriva però lo «spirito buffonesco»: «Ci sono di quelli che mettono sempre in ridicolo… disturba tanto quel parlare sempre figurato». In un’altra, occasione disse in piemontese: «Il mio spirito l’è nen fé ‘l faseul» (il mio spirito e di non fare il fagiolo).
A volte, a dare il tono dei suoi intrattenimenti spirituali era il suo modo d’introdursi. Stupisce che i suoi ascoltatori siano persino giunti a trascrivere queste espressioni: «Bravi! Là, bene! Eccovi come nel Cenacolo»; «Bene, bravi» o le parole conclusive: «Bé, Bé, là!». Oppure, quando rivolgendosi al più giovane dei suoi ascoltatori (poiché le file dei suoi missionari si erano assottigliate a motivo della guerra), dice: «E tu, Michelino, quanti anni hai? Sedici ancora non compiuti… Fortunati tutte e due: Tu sei giovane e io vecchio» e, per questo, esenti dal servizio militare.
Innumerevoli sono poi i casi in cui, con brevi racconti o addirittura con bisticci di parole, riesce a far esplodere delle piccole scintille, come stesse stropicciando due pietre focaie, e un bel fuoco di sorrisi, riuscendo a trasmettere il suo pensiero senza aggrottamenti della fronte: «Ho chiesto ai ragazzi se avevano preso la febbre spagnola; mi rispondono di sì, ma quella italiana, cioè, l’appetito!». La guerra infatti stava imponendo a tutti restrizioni molto gravi.
A riguardo della «pazienza» a motivo della guerra, dice alle missionarie: «Nel Pater noster, noi domandiamo il pane; nell’Ave Maria domandiamo la polenta… Un canonico mi raccontava che una vecchietta dicendo mulieribus intendeva domandare la polenta alla Madonna. Essa non poteva pronunciare bene mulieribus e così trasformava questa parola in melia (meliga-granoturco). Ricordatevi dunque di chiedere al Signore il pane e alla Madonna la polenta (sorride)».
«Quando si fa una novena ai santi, non si ottiene subito la grazia; sembra che la prima volta non sentano; se ne fa una seconda e il santo incomincia a sentire, se ne fa una terza e il santo apre e ci ottiene la grazia». Invita alla santità di fatto e non soltanto di parole: «Sapete quell’uccellaccio che grida cras, cras (che in latino significa «domani»)… e mai hodie (oggi)».
Nel 1913, raccontò che padre Barlassina, nuovo prefetto apostolico del Kaffa, era stato ricevuto in udienza da Pio x. Parlarono di tante cose, riferisce l’Allamano, «perfino di quegli animali di cui non vogliamo fare il nome, ma dei quali, disse Pio x, si fa un buon prosciutto».
«Anche i nostri cari, cioè i missionari, sotto le armi o in Africa sono tuttavia sempre dell’Istituto, sono sempre uniti a noi… sono sempre attaccati all’albero… Ebbene se vi venisse rivolta questa domanda: o chi sei tu? Sono uno studente della Consolata! – Questo sì! Ma sei un vero aspirante alle missioni? Sei sempre qui, ma qui ci sono anche i gatti, che abitano qui nell’istituto».
Un giorno di luglio, di ritorno da Sant’ Ignazio, dove si era svolto il solito corso di esercizi spirituali, predicati da un gesuita, racconta ai missionari che il predicatore, parlando di come dal noviziato di Chieri erano usciti tre suoi compagni, «fu preso dalla malinconia per timore di dover uscire anche lui e fare la bella figura del gesuita sgesuitato».
Sconcertante è il seguente caso. «Una persona una volta mi domanda se gli permettevo di piangere almeno per un’ora, puramente per sfogo, così… Ma come?! Senza nessun motivo, piangere puramente per sfogo, che stupidaggine!».
Al vescovo di Ivrea, mons. Matteo Filipello, suo compaesano e discepolo, che non permetteva a un suo sacerdote, don Luigi Santa, di entrare nell’istituto, l’Allamano dice: «Tu non solo non puoi trattenerlo, ma devi lasciarlo andare! Se mai, dagli la benedizione con la sinistra».
Racconta padre Ugo Viglino: «In un giorno dell’ottobre del 1924, la nostra piccola classe di otto alunni del ginnasio si recò tutta insieme a trovarlo al Convitto… Gioviale, tanto felice di essere con noi. A un certo punto, rivolgendosi a Pessina, mio vicino: “Di che paese sei?”. “Di Mondovì”. “Cui d’ Mondvì i ciamo i babi cheucc” (Quelli di Mondovì li chiamano i rospi cotti)».
a scuola della vita
Si può dire che la sua semplicità aneddotica e immaginazione non avessero limiti. Si potrebbe comporre un’antologia assai ampia. Il giorno dei morti del 1906, invita a pregare, come faceva ogni anno nella stessa circostanza, per i defunti. Poi, si lascia prendere dalla fantasia: «Quelle tante anime da noi liberate dal purgatorio figuratevi se stanno quiete, quando ci vedono a nostra volta in purgatorio! Andranno da nostro Signore e, per non disturbarlo, dalla Madonna o da san Giuseppe, e ci caveranno presto. Il Signore non può lasciarle agitate, deve quietarle e come fare in altro modo?». Alla fine della conferenza fa distribuire delle castagne, soggiungendo: «Ad ogni castagna che prendete ponete l’intenzione di trarre un’anima dal purgatorio». La frase, annota chi trascrisse la conferenza, suscitò «sorrisi universali».
Ci troviamo, naturalmente, fuori degli schemi rigidi della teologia sui novissimi. Così, un altro apologo di teologia spicciola riguarda la devozione mariana: «Sapete quel fatto della Madonna che faceva entrare le anime in paradiso per un’altra strada… ma non lo voglio raccontare». Lo racconta qualche mese dopo: «E sapete quella storia che si racconta che la Madonna fa entrare in paradiso per la finestra quelli che non passerebbero per la porta. Si racconta che un giorno san Pietro, girando per il paradiso, vede delle brutte facce, che lui certamente non aveva lasciato passare per la porta. Va da nostro Signore e gli dice: “Ma non so! C’è certa gente in paradiso che non so da dove sia passata… Hai dato le chiavi solo a me, le ho solo io, non so da dove passino; poi ho capito che è la Madonna, tua madre; sono stato a vedere bene e ho visto che è proprio lei che le tira su dalla finestra; purché abbiano una medaglia o uno scapolare, e poi essa li tira su! Questo qui non va!”. E allora nostro Signore dice a Pietro: “Ma! Cosa vuoi farci… mia madre è madre! Lasciala un po’ fare!”».
«Là in seminario c’era un campanello e c’è ancora adesso, mi pare, che veniva suonato solo quando veniva l’arcivescovo di Torino a trovarci, così tutti restavano avvisati e si lasciava tutto e si veniva fuori a riceverlo. Un giorno venne una vecchia di montagna, tutta vestita alla moda antica, con in testa certe cose lunghe come si costumava allora, era di Balme… Ebbene costei arriva in seminario e, invece di tirare l’altro campanello, tira quello dell’arcivescovo. Allora noi che eravamo a scuola, siamo venuti tutti fuori in fretta; e poi, invece del vescovo, c’era quella vecchierella; e tanto più che aveva visto che l’uscio era aperto ed è venuta dentro. Ebbene, un chierico mi ha fatto impressione: le è subito corso incontro, l’ha presa per il braccio e ha detto: “È mia mamma!”. Fossimo stati noi, neh?! Avremmo subito detto: “E perché sei venuta adesso? Perché hai tirato quel campanello la!”. Avremmo voluto nasconderla subito, che nessuno la vedesse, vestita com’era. Invece quel chierico, niente: “È mia madre”. E l’ha salutata tutto grazioso, come si deve fare».
Altri aneddoti piacevoli li desume dall’esperienza di tutti i giorni, a contatto con le persone di ogni ambiente sociale, dal confessionale, dalla predicazione. «Non facciamo come quel tale della predica sull’avarizia. Quando il parroco iniziò la predica disse: “Oh! Questo non fa per me!”; si coprì ben bene e cominciò a dormire; e tutta la gente a pensare: “Questa volta la predica fa proprio per lui”».
Anche la gola può fare dei brutti scherzi. «Ho tardato, perché mi sono fermato a raccontare ai giovani la storia della capra. È venuta nella sacrestia della Consolata una ragazzina e piangeva, diceva che le era morta la capra della nonna, perché aveva mangiato una rista d’ai (treccia d’aglio). È gonfiata e poi è morta. E un bel giorno videro che non c’era più l’aglio, ed è morta crepata. Vedete la gola».
Svariatissimi poi i toni dello humour a riguardo del comportamento esteriore e interiore, ch’egli suggeriva ai missionari: «A me piace molto quel pensiero di san Francesco di Sales quando dice: “Entriamo in un palazzo antico; per lo scalone, nelle sale vi sono delle statue, che magari da cent’anni sono sempre lì, non si sono mai mosse; direte dunque che sono inutili? No! Danno gloria al loro padrone. Ora, immaginate che uno voglia gettarle giù. No! – gli si dirà – fanno figura, danno gloria al loro padrone. In chiesa facciamo come quelle statue, diamo gloria a Dio con la nostra presenza”». Tuttavia, quella presenza «come statue» all’Allamano non piaceva molto. Infatti, in un’altra occasione dice: «Oh, come è brutto in una comunità essere come tante statue, dove ognuna sta al suo posto senza toccare le altre»!
con fortezza e dolcezza
È noto come all’Allamano, a causa di certi inconvenienti verificatisi in Africa per modi troppo violenti nei riguardi della gente, abbia fatto della mansuetudine uno dei pilastri fondamentali della sua metodologia missionaria. Deve però trattarsi di vera mansuetudine: «C’era in seminario un chierico che pareva proprio calmo; di quelli che non si muovono, che fanno due passi in una pianella. Un giorno, che passava con un vassoio d’acqua in mano e un altro chierico, lo toccò, egli, voltatosi verso il compagno, gli gettò addosso il vassoio d’acqua. Vedete, anche quelli che sembrano più calmi…».
Così a riguardo della buona educazione. «Mons. Bertagna aveva l’abitudine di tenere le mani in tasca; e così di fermarsi davanti alle vetrine; credo che studiasse un caso di morale; eppure era lì fermo a vedere il cacio».
Neppure è bene tenere le braccia dietro la schiena. «Nei paesi chiedono se uno ha del grano da vendere… e dicono anche un’altra cosa: sapete quello che domandano? Ha la figlia da maritare?».
Come superiore di un istituto femminile, dovette scuotere una suora che «faceva niente ed era sempre a letto», credendosi ammalata; le impose di scendere in refettorio insieme alle altre… ed è guarita. «Essa dice che è un miracolo della Madonna di Pompei… Era un capriccio! In quella comunità si preparavano sei tipi di minestra».
Era venuto a conoscenza che qualche suo missionario in Africa si era ammalato per aver mangiato qualche banana in più o per aver bevuto acqua inquinata «con pericolo di partire per l’eternità»: sarebbe un partire poco glorioso, «da folli», e porta l’esempio della capra.
Nonostante questo costante humour (da pochi avvertito) e tranquillità di spirito, qualche spiffero d’aria fredda non manca neppure in lui, poiché anch’egli ritiene che il vangelo e la santità siano esigenti; per temperamento, poi, era amante dell’ordine, della pulizia, delle cerimonie liturgiche eseguite a puntino. Il che lo può far apparire in qualche caso alquanto «pignolo». Così, ad esempio, quando porta a modello san Francesco Saverio che, passando presso il castello natio, rinuncia a visitare la vecchia madre e i fratelli, dicendo: «Li rivedrò in paradiso».
Sono però, queste e altre piccole cose marginali, che vanno viste in un contesto più ampio. Con lui a Torino ebbe infatti termine il rigorismo morale e ascetico, che aveva imperversato per molti anni. Così come va tenuto presente che, nel suo metodo educativo, il fortiter (fortemente) è sempre abbinato al suaviter (dolcemente).

Igino Tubaldo




Parliamaoci chiaro

«Meglio cinque parole intelligibili che diecimila in lingue» diceva già san Paolo. Tale suggerimento è,
oggi, valido più che mai sia in campo sociale che in quello religioso; anzi, è raccomandato soprattutto nel dialogo ecumenico.

Q ualche passo avanti nel dialogo ecumenico, specie tra cattolici, ortodossi e protestanti, è stato compiuto. Se si paragonasse tale dialogo a una tavola rotonda, è senz’altro assodato che ogni membro che siede a quel tavolo si considera su un piano di perfetta uguaglianza con i suoi partners. La deontologia del dialogo ormai è accettata. Quanto ad accordi, tuttavia, le distanze sono ancora enormi, che assumono a volte tali dissonanze, da sembrare un’orchestra con strumenti non accordati.
Due, soprattutto, sono i punti dove il disaccordo può dirsi totale. Il primo, specie tra cattolici e protestanti, riguarda il culto mariano e dei santi. Su questa questione nel 1990 uscì un documento ecumenico, frutto di un laborioso dialogo tra «cattolici romani e luterani» negli Stati Uniti, svoltosi dal 1983 al 1990, in otto dense riunioni.
Il documento ha un titolo molto significativo: L’unico Mediatore – I Santi e Maria; ed è molto lungo (152 pagine) e disgraziatamente molto complesso; quindi poco accessibile ai comuni mortali. Sembra quasi di assistere a una concitata partita di ping pong, botta e risposta. Non su un vasto campo di calcio, ma su un minuscolo tavolo da pranzo.
Il secondo punto di profondo disaccordo riguarda la figura stessa del papa e la sua funzione nella chiesa. Il 25 maggio 1995, Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica dal titolo Ut unum sint sull’impegno ecumenico. Nella parte finale dell’enciclica, in cui tratta direttamente del vescovo di Roma, riconosce che il papa, proprio lui, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro perdono».
PAROLE VUOTE
DISCORSI INCOMPRENSIBILI
Il prof. Tullio de Mauro, nella prefazione al libro di Roberto Berretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, osserva che, ad esempio, la parola dono, così bella e dolce, diventa acerba come un limone, se presentata in un’«ottica ablativa».
Il noto predicatore Raniero Cantalamessa aggiunge: «Uno dei motivi per cui, in molte parti del mondo, si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sètte, è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa da non arrivare direttamente al cuore di una persona…» e per conto mio aggiungerei: neppure al cervello.
Se anche nell’ambito della stessa nostra chiesa, tra noi cattolici, non riusciamo a capirci, come fare a dialogare con fedeli di altre chiese, che forse devono affrontare le stesse nostre difficoltà?
Tanto più che, a quanto pare, un po’ tutti i settori del nostro vivere civile sono infestati da questo virus del parlare e scrivere senza farci capire.
Un giornale pubblicò la seguente lettera di un cliente di una banca: «Nella mia banca c’è un nuovo consulente finanziario addetto ai servizi di risparmio. Parla da esperto di borsa, usa parole per me incomprensibili. Viene da pensare che non voglia essere chiaro per vendere quello che vuole. Le pare giusto?».
E dopo la firma segue un esilarante articolo a commento e a conferma.
Un altro autore, per dimostrare la mania di certi politici di scrivere in modo incomprensibile – quasi tutti – riporta questo periodo di prosa politica: «Gli elementi di intelligence (evviva l’inglese!) e i risultati delle operazioni di polizia hanno confermato l’esistenza nel nostro paese di poli impegnati in attività, la cui valenza emerge alla luce di una strategia globale che trova nella fase logistica momento nodale per garantire la mobilità dei militanti».
Mi auguro che il tipografo abbia riportato in modo esatto questo testo. Ma il commento del giornalista è questo: «Se fossi presidente della Camera l’avrei rispedito al mittente: “Per favore riscrivete tutto in un linguaggio decente, chiaro e stringato. I rappresentanti del popolo italiano non saranno un granché, però non avete il diritto di offenderli con una prosa così demente”».
Lo scopo di questo mio scritto è, però, religioso, specie nei suoi aspetti ecumenici. Uno di questi aspetti, primario e indispensabile, senza del quale tutti gli altri servono a poco, è di parlare in modo comprensibile.
Ci sarebbe da divertirsi, prima di arrivare al punto, ma il sorriso sarebbe sempre amaro.
Indro Montanelli, nella celebre La Stanza del Corriere, diede una secca risposta alla lettera di un teologo che dissentiva dal suo modo di presentare lo scisma del 1054, che spaccò la chiesa in due: «Vede, questa è la grave stortura della cultura italiana, teologia compresa: di essere una cultura a circolo chiuso… di pochi eletti: ai quali io non appartengo, né mai ho ambito di appartenere. Perché il mio compito – quello che mi sono sempre prefisso – è di spiegare le cose a chi non le sa, non a chi le sa meglio di me, ma vuole tenersele per sé».
E più spassose ancora, a volerle riportare per intero, sarebbero le critiche di Guido Ceronetti a scritti redatti in «un gergo del tutto demenziale», che provano che chi così scrive «non è mentalmente a posto». E aggiunge, e ciò vale anche per il linguaggio religioso: «La prima delle difese è il linguaggio: se le sue porte sono senza cardini, i lupi vi entrano a frotte, con la solita zampina infarinata».
«I RUMINANTI
DELLA SACRA ALLEANZA»
È noto che il papa Luciani parlava in modo semplice. Aveva voluto accanto a sé suor Celestina per un compito speciale: che gli leggesse le sue prediche e gli dicesse se capiva tutto.
Qualcosa del genere aveva fatto anche don Bosco, servendosi di sua madre. Un giorno le lesse un articolo, nel quale chiamava l’apostolo Pietro «il clavigero». Sua madre l’interruppe: «Clavigero? Dov’è questo paese?». «Non è un paese – le rispose il figlio – vuol dire: colui che porta le chiavi». «E allora dillo così e lascia quella parola che io non riesco neppure a pronunciare».
J. Maritain chiamava certi biblisti, teologi, vescovi e papi per i loro scritti troppo lunghi e soprattutto difficili: i ruminanti della sacra alleanza. Come buoi o quei tipi che masticano continuamente gomma americana.
TEOLOGIE DEMENZIALI
E SGANGHERATE
Tempo fa ricevetti in omaggio un libretto dal titolo: La via dell’anima. In prima pagina, quasi come dedica o sintesi del volumetto, si legge:
Nella parusia spirituale
si raggiunge il sé
paradiso metapsichico
che permette di considerare
la morte fisica come
paradiso metafisico.
Ma il buon Dio ci liberi dai paradisi metapsichici e più ancora da quelli metafisici!
In un’altra pagina il cristiano è così definito: «Il cristiano è l’attributo di chi ha subito in modo cosciente-accettato il processo di transizione psiche-pneuma ed è diventato persona».
Il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, su un giornale tra i più diffusi d’Italia propose «una legittima difesa da parte dei credenti – preti inclusi – contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali».
E ciò per un motivo, non solo pastorale, ma anche ecumenico, cioè di possibili dialoghi e accordi.
E i più responsabili di questo degrado sono i teologi di professione, con i loro scritti il più delle volte incomprensibili. Si potrebbe stralciare un campionario, a dir poco, allucinante. Tre esempi soltanto, tra i mille che si potrebbero elencare.
In un libro sullo Spirito Santo leggo: «Lo Spirito perfetto dà luogo alla cre-azione, vero processo teogonico, col quale le potenze praeter Deum, predivinizzate, operano demiurgicamente a formare l’unum-versum, l’universo intero delle cose create, realizzando a un tempo l’individuazione e caratterizzazione delle Persone…» e i puntini indicano che non sarebbe finito!
Così, secondo esempio: «Lo Spirito Santo è il traboccare ad extra dell’exstasi ad intra del Padre e del Figlio». Povero Spirito Santo!
Terzo esempio: «Da Gregorio di Nissa al Concilio Vaticano II, ogni antropologia iconica ha valutato l’autentica relazionalità logonomica dell’uomo e l’autentica relazionalità cristonomica del cristiano»; e tutto ciò per dire che esiste un «io liturgico».
Ma questa è pazzia pura: teologia rompicapo, vaniloquio teologico.
Ripenso a san Paolo che ai Corinti, amanti del «parlare in lingue» da esperti carismatici, li ammonisce (mi si perdoni il latino): «Sed in ecclesia volo quinque verba sensu meo loqui, ut et alios instruam (nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri) quam decem millia verborun in lingua (piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue)», che volgarmente tradurrei: «Preferisco dire cinque parole capite da tutti che diecimila incomprensibili!» (cfr 1 Cor 14,19).
Anche perché è assolutamente impossibile non far scappare la gente dalle chiese o avviare un dialogo ecumenico, anche solo tra noi, con tante e tante parole, non sempre dettate da un comune buon senso.

Igino Tubaldo




L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi