Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energici e virili nell’apostolato

Poche settimane fa,
un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un
convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare
alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della
comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che
non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che,
forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla
italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta,
qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare
della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei
tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il
termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per
estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e
meditazione spirituale.


Ho ripensato a questo
piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di
questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe
da dire. Che il culto del fitness,
del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal
nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il
caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo
seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città
satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le
sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che
parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni
giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto
pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno
risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva
coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un
po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress
di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle
donne sono lì, a fare palestra.

Quante
volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso,
lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce,
cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far
ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa
che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come
inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo
benessere.

Tempo
fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che
mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano
proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su
cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la
volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile
diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare,
entra, suda e starai bene.

Giuseppe
Allamano
sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi
missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di
reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo,
intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche
presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso
san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della
volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr.
1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io
dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi
batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù
perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso
squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il
semplice benessere fisico.

E
noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende
oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili
nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il
termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie
che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine
nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a
chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità,
risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue
stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo
da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente
disinvoltura.

Un
missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di
compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare
in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua
missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese
parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è.
La miglior prova di questo è che
ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico
spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi
sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente
parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe
Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una
capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice
dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della
Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia,
forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio
della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari
e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente
si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più
insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente,
la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto.
L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre
molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale
ha bisogno di ore di palestra.

Una
missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al
mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva
le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il
Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto.
Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e
instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto
culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in
poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la
forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio
di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte,
totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi
piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione
per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un
messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente
un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per
competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e
frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che
porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di
passaggio a segnare una crescita graduale.

È un
mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È
un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per
sostenee l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una
narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così
vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero
senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura
. Quanto valga tutto
ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e
altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima
regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di
imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a
imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della
comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra»
ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva
anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza,
insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del
lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria
rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà
e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco,
il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di
Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti
con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione:
uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle
loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della
missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco
della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale
ieri come oggi.

È
interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di
significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è
uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò
che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere
fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e
virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini

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L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli
 

1  È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione

4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di
trasformazione

Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento
stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del
circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto
dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli
precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai
nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a
tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è
come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza.
Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne
segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita
quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente
prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un
leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole
essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti
continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era
riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk
show
televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a
chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più
grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna
esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione
e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più
irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul
lavoro.

Chi
urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle
imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la
marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare
con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli
effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a
esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a
trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del
verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa»…).
«Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu,
nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il
nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa
2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori,
soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management.
Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi
come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i
giorni.

È
certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il
taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato
tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la
possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi:
piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è
morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte.
Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è
meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan
all’attivo.

Non
dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi.
Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che
stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce
accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e
silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo
impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a
dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non
solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una
persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese
ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere
la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione».
Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine
possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore
questo si verifica.

Chi
suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio,
che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che
la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di
parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella
prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine
mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è
applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti,
atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il
filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere
apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto
è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e
lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione
del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione
dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di
cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio,
Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014,
pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della
mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella
relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per
Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due
determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere
mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua
mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più
necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello
di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una
persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono
mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare
caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato
beato e fatto erede della terra.

Nella
mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella:
il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche
per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la
persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da
laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il
contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona
passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza
niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al
lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla
costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di
Dio.

Attraverso l’immagine della mitezza, la
pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare.
Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che
siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la
Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su
questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato
ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di
discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di
ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide
illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità,
per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La
Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza
come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come
abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza
personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al
Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si
trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…)
Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a
impedie la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per
vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con
tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo
la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i
suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della
trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare
la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a
costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova
narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su
queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli

Tags: Allamano, spiritualità

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  

3. Amate una
religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla
terra.

Se una pillola non
aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio
vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere
perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va
certificata con tanto di risultati.

La pillola di questo
mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno.
Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se
molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste
davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte
persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?

Colui
che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado
di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con
tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può
essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il
cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo,
non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole
felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se
Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano
felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è
convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere
Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo,
l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi
alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la
principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile
proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in
poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in
effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la
Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti
analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in
generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge,
una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del
mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio
trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da
questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa
dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore
che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che
non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi
e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle
nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato
dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia
invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi,
completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad
affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico,
con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non
solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non
è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura
papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata
scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del
Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se
desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse:
perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui
di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima
caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano
vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi
bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione
con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le
parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata.
Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il
pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti
uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della
civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le
promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su
questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso»,
capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto
all’amore della fede.

Un
approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è
quello della
testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere
testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come
scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie
della Felicità. Gesù e le beatitudini
(Rizzoli, Milano 2010): «Noi
cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma
risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti
della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di
beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia
oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come
persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano
fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e
oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume
in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da
Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di
Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la
croce che può assumere nel concreto diversi aspetti: servizio, sofferenza,
impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le
beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e
propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il
relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali
delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la
propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il
nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla
felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà
a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi cioè a
fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a
causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità
di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di
sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che
esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di
giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza,
felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è
entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità
o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che
gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro,
di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli
ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del
cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le
persone che soffrono.

La
pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa
Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con
questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica
intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo
giornioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza
ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata
nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo
finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi
invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità
fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla
felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi
dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di
essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali
momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che
l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter
eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi
anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per
questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la
felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva
sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a
ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente

Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con
calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato
Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che
i modei strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili
tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi
chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi
uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io
la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco
il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione.

Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati.

Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo.

Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato.

Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare.

I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24).

Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano.

L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate.

La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade.

Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti?

L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabeacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli
Ugo Pozzoli




Angioletto nero

Ricordando un missionario … e il suo estro artistico

Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.

Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.

Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand  nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.

Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!

Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




FRATELLO NELLE PICCOLE COSE

Il messaggio del vangelo, rivolto ai piccoli e agli umili della terra, è stato il centro della vita di padre Joseph Otieno, keniano, uno dei primi missionari della Consolata ad essere inviato in Corea del Sud. È morto durante un evento sportivo, tradito dal suo cuore grande, sempre aperto alle esigenze della gente che il Signore aveva chiamato a servire. Così lo ricordano i suoi compagni di missione.

Una fredda domenica, di quel 18 dicembre. Ma il rigore dell’inverno coreano non aveva impedito a padre Joseph di calzare le scarpette e, approfittando dell’assenza di impegni parrocchiali, di prender parte alla «maratonina» di Seoul, una competizione organizzata per beneficienza. Trentun anni compiuti in maggio, fisico scattante ed asciutto, Joseph, da buon keniano, amava correre al punto che, in estate, si era iscritto al Seoul Synergy Running Club, un’associazione sportiva per patiti della corsa a piedi. Era un atleta ed era allenato.
Per questo motivo la telefonata che ne annunciava la morte (avvenuta sull’ambulanza che lo portava d’urgenza all’ospedale dopo che si era accasciato nel mezzo della gara) è suonata come assurda. Sgomento, incredulità, shock sono stati i sentimenti di tutti. Come poteva esser Joseph quell’atleta che si era accasciato al bordo della strada? Ci siamo precipitati all’ospedale di Sadang, ancora increduli, ma abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza. Era proprio lui, Joseph… e il dolore ha avuto la meglio sull’incredulità. Abbiamo pianto.
Il corpo di Joseph è stato trasportato il lunedì 19 dicembre all’ospedale della Sacra Famiglia di Bucheon, vicino a casa nostra. E nello stesso luogo è stata allestita la camera ardente.
Fin dalle prime ore del pomeriggio, incessante è stato l’afflusso di fedeli, di religiosi e religiose, di persone che avevano conosciuto Joseph. La classica cantilena ritmata delle preghiere per i defunti che si usano nella chiesa cattolica coreana ha fatto da sottofondo continuo per due giorni, fino alla messa di esequie. Tutta la nostra comunità era mobilitata, inclusi gli studenti e le signore del nostro «Gruppo Amici Imc», che sono state ancora una volta meravigliose nel loro impegno e nella loro vicinanza.
Intanto, le cose, per quanto riguardavano il funerale, si stavano complicando. Ci voleva un permesso da parte dell’Ambasciata del Kenya, che forse non sarebbe arrivato presto. Ci siamo visti costretti a fare la messa esequiale, il mercoledì 21 dicembre, sapendo già che avremmo dovuto poi riportare il corpo del nostro Joseph all’ospedale, in attesa della sepoltura.
Alle 10.00 del mattino, la chiesa parrocchiale di Yokkok-2-dong, (la parrocchia alla quale territorialmente apparteniamo) era piena colma di gente (400-500 persone), senza contare i celebranti, che erano una ventina. Abbiamo cercato conforto nella parola di Dio, che ci ha accompagnato attraverso i vari stadi dell’incredulità, del dolore e della rabbia per questa tragedia, fino a portarci alla certezza che niente puo’ mai separarci dall’amore di Dio mostratoci in Gesù.
Abbiamo letto la morte di Joseph come quella del chicco di grano che, caduto in terra, muore come condizione per portare molto frutto. Sì, Signore: la vita di Joseph era già donata alla missione, alla Corea, ai fratelli e sorelle di questo paese, e quindi la sua morte non fà altro che rendere quella donazione definitiva, e fonte di molto frutto.

I l permesso di sepoltura che attendevamo giungesse dall’Ambasciata del Kenya si faceva attendere ed è giunto solo il 4 gennaio. Due giorni dopo ha avuto luogo la messa di funerale, attesa da più di 250 persone e in cui il vescovo di Incheon, mons. Choi Kisan Bonifacio, ha ricordato ai presenti che anche Andrea Kim-Dae Gong, primo sacerdote e martire coreano era morto giovane, per non parlare dello stesso Gesù. Ha anche affermato che attraverso questa morte il Signore ci ammonisce, invitandoci tutti a tendere incessantemente alla santità.
Nel 2002, Joseph Otieno aveva raggiunto la Corea, sua prima destinazione missionaria, insieme ad altri due sacerdoti missionari africani. Dopo i primi anni della formazione e del noviziato, tutti vissuti in Kenya, aveva studiato teologia in Inghilterra, presso il Missionary Institute di Londra.
Chi ha avuto modo di incontrarlo in quegli anni lo ricorda come una persona semplice e umile ma, nello stesso tempo, molto affabile. Attento agli studi e alle sue responsabilità, che sempre assumeva in prospettiva al futuro missionario, Joseph non disdegnava momenti di sana vita sociale che gli permettevano di avvicinare la gente in modo più informale e spontaneo. Davanti a un bel boccale di Guinness, sovente condiviso con il parroco di Whetstone (la comunità dove per 4 anni ha prestato servizio pastorale), Joseph si relazionava con gioia con i giovani che incontrava.
In parrocchia, fino al momento della sua ordinazione diaconale, aveva contribuito non poco a ravvivare le celebrazioni, grazie alla sua abilità nel suonare le percussioni. I giovani gli volevano bene, proprio per quell’approccio semplice e immediato, che gli aveva conquistato la simpatia di tutti, anche all’università.
Joseph era generoso, e metteva sempre gli altri prima di sé. Era anche modesto nel suo stile di vita e rispettoso di tutti, sicuro delle sue idee, ma estremamente aperto a quelle degli altri. Una volta ordinato diacono, a lui e a altri tre compagni fu chiesto se volevano essere i primi missionari africani ad andare in Corea: era sicuramente una grande sfida. Joseph chiese un tempo per riflettere e per prendere una decisione. Era coraggioso e amava cimentarsi con l’avventura. Passato il periodo di riflessione, rispose di sì. Del resto, questa risposta era perfettamente in linea con lo stile della sua persona.
Era molto cosciente delle sue radici culturali, che venivano espresse in modo particolare nella danza e nella musica, come pure nella prontezza a partecipare ad ogni tipo di conferenza e riunione. Ma il suo mondo andava ben oltre, verso quegli spazi infiniti che solo la missione può aprire.

Q uattro vescovi erano intervenuti all’ordinazione di Joseph, il 14 ottobre 2001, a Nairobi (Kenya). Prendeva il via in quel momento il ministero che avrebbe caratterizzato la sua breve esperienza presbiterale, quello di «lavare i piedi agli altri». Sempre diceva che «il sacerdozio è per il servizio».
Questo, unito a una gentilezza del tutto speciale nelle sue relazioni con gli altri; gentilezza che non era debolezza, ma qualcosa di grande e vero, una tenerezza che toccava il cuore della gente in profondità.
Una volta giunto in missione, dopo essersi dedicato allo studio della difficile lingua coreana, Joseph era entrato a far parte della comunità di Kuryong, una baraccopoli nel cuore della capitale, manifestando da subito la decisione a vivere la sua vocazione missionaria tra i poveri.
Anche in questo contesto era emerso il suo cuore semplice e buono, che gli aveva permesso di adattarsi con piacere a fare i piccoli servizi che l’uso ancora limitato dell’idioma gli consentiva di prestare. Insegnava inglese a qualche ragazzotto della zona e aiutava le «nonne» del quartiere, rendendosi utile in qualche piccolo lavoretto.
A più di uno questa sua disponibilità era suonata come una pazzia. Ma come? Uno straniero, sacerdote per di più, adattarsi a incombenze come andare a fare la spesa al supermercato per qualche anziano che non avrebbe avuto la possibilità di muoversi! Quando uno dei parrocchiani espresse ad alta voce questo sentimento, la risposta di Joseph fu evangelicamente disarmante: «Siamo venuti qui per servire e aiutare nelle piccole cose che possiamo fare…».

T re giorni soltanto prima della sua prematura scomparsa, Joseph era stato chiamato ad aiutare in parrocchia nella celebrazione del sacramento della riconciliazione. Una signora si era recata da lui per la confessione ed era stata così toccata dal calore e dalla comprensione di quel sacerdote africano che, il giorno seguente, aveva lei stessa accompagnato due altre persone presso la casa dei missionari della Consolata, affinché potessero ricevere da Joseph la pace e la gioia del perdono.
La tristezza per la sua morte lascerà il segno per lungo tempo, questo è certo. Eppure è viva in noi la profonda sensazione che il Signore, con la sua grazia, ha preparato Joseph a incontrasi con lui. La semplicità della sua vita testimonia con i fatti questo suo essere pronto. Sentiamo con forza che la sua morte è un seme di vangelo, un esempio da ricordare e vivere.
Riposa nella pace del Signore, Joseph, e intercedi per noi dal cielo, affinché sappiamo portare avanti bene la missione alla quale anche tu avevi cominciato a partecipare con entusiasmo. Ricordati che stiamo aspettando i «frutti» che la tua morte non può non portare.
Non resta che esprimere «santo orgoglio» per come tutta la nostra comunità (inclusi gli studenti) ha reagito a questa improvvisa tragedia: con dignità, profonda partecipazione, unità e totale disponibilità da parte di tutti. E constatare ancora una volta come la gente ci voglia bene, e come tutti abbiano fatto davvero del loro meglio per aiutarci.

I missionari IMC in Corea




Dalla parte degli esclusi

A mezzogiorno le strade di Camaçari sono ancora deserte. La gente sta sbadigliando tra le lenzuola, mentre qualche netturbino toglie dal marciapiede i resti dei fuochi accesi davanti alle abitazioni durante la notte di follie. È la festa di São João. A fine giugno tutto il popolo di Bahia perde la testa.
Importata dai portoghesi, originariamente mescolava il culto dei santi cattolici con quello della dea delle coltivazioni Feronia, cara ai Romani. Ma adesso è completamente diventata bahiana: un’occasione per scatenarsi con il ballo del forró e sparare tutta la notte mortaretti e fuochi d’artificio.
Un uomo apre lentamente il suo chiosco di dolciumi, ha ancora la testa stordita da tutta la birra bevuta. Dal negozio di pompe funebri, con le porte spalancate sulla via, esce il canto di una radiolina. Una fuoriserie fiammeggiante supera svogliata un uomo a cavallo e nell’aria, all’ora di pranzo, l’unica cosa che vibra è la voce roboante del predicatore della «chiesa universale», una delle tante congregazioni d’affari spirituali, sorte negli ultimi decenni ad opera di sedicenti vescovi ricchi e potenti, con l’appoggio, si dice, degli americani, per contrastare la forza sociale della chiesa cattolica brasiliana.
Il predicatore per tutta la notte si è sgolato contro il diabolico forró, che trascina i giovani sulla cattiva strada dei mille peccati, consumati nel grande spettacolo musicale, offerto dal sindaco che, per farsi rieleggere, «ha stipulato un patto con il popolo e con la verità», come si legge sul cartellone pubblicitario.

M a la città non è solo festa. Qui funziona un grande polo petrolchimico e la Ford ci ha costruito uno stabilimento. Tra le ciminiere fumanti svetta anche l’insegna della Monsanto, l’azienda americana di prodotti per l’agricoltura, redarguita dal governo italiano per aver importato illegalmente partite di semi di soia geneticamente modificati.
A prima vista, Camaçari si direbbe una cittadina sviluppata, per via delle industrie; invece solo pochi raggiungono un salario minimo e sono i tecnici altamente specializzati; per tutti gli altri, la manovalanza, lo stipendio è misero a fronte, per di più, di un lavoro pericoloso, logorante e non protetto dai sindacati.
Si viene a creare dunque una situazione di estrema disuguaglianza. Le imprese moltiplicano i loro guadagni mentre un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, minacciata dalla disoccupazione, e il rischio della perdita di dignità, come persone e come cittadini, perpetua lo sfruttamento che fa del Nord-Est una delle regioni più arretrate del paese.
In questa difficile situazione socio-economica, i più colpiti sono i bambini. Non solo perché più esposti alle malattie respiratorie, provocate dall’inquinamento delle industrie chimiche, ma soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, vivono soli accanto alla madre, talvolta con un padre adottivo, che declina le proprie responsabilità di educatore.
Tale stato permanente di instabilità mina gli stessi rapporti umani, a volte inquinati da violenza e alcol, e spinge sempre più persone verso gli strati più bassi della società.
Q uando don Paolo arrivò a Camaçari si mise subito a lavorare con gli esclusi, come aveva fatto a Saõ Salvador, dove aveva difeso dalla prepotenza di politici e poliziotti il diritto alla casa di tante famiglie costrette a invadere terreni su cui costruire abitazioni fatiscenti.
Nei suoi 30 anni brasiliani, la pastorale di don Paolo è stata sempre rivolta a quelli che non hanno voce, quelli che si devono accontentare delle briciole, che tuttavia incarnano una protesta non-violenta, una innata rivendicazione affinché la storia umana possa voltare pagina.
Oggi il «fischietto», ossia Apito, l’associazione a lui dedicata, è una colorata scuola matea, un ambiente pedagogico creativo e mirato alla formazione dei bambini in sintonia con i loro genitori, ed è inoltre un progetto di accompagnamento di famiglie bisognose, non solo di beni materiali, ma anche di una nuova coscienza.
Le 50 donne volontarie che fanno parte del progetto si riuniscono frequentemente per organizzare visite a domicilio, monitorare i casi d’indigenza e realizzare attività manuali e artistiche che coinvolgono le famiglie nella ricerca di una più forte autostima e di una piena consapevolezza dei propri diritti politici e umani.
Applicarsi nella produzione di medicine alternative o di cibi naturali sfruttando la saggezza popolare diventa un mezzo efficace per far emergere capacità che la miseria e l’ignoranza tendono a oscurare.
La fantasia e la calda solidarietà di queste volontarie sono i veri strumenti civili per far alzare la testa a chi l’ha sempre tenuta tra le ginocchia. Tra di loro si avverte sempre un clima giornioso, perché nessuno giudica l’altro, perché si è allegri con semplicità, si va dritti al centro delle emozioni accettando quello che viene oggi.

Intanto il giorno si è fatto caldo. Mezzogiorno è passato e il fumo dei fuochi ormai si è del tutto diradato, sebbene in lontananza si senta qualche piccola esplosione.
In mezzo al traffico un ragazzo spinge un carretto pieno di cappelli di paglia che nasconde uno stereo e scuote la testa al ritmo della musica distorta che buca le casse.
Sembra che all’improvviso debba accadere qualcosa di sconvolgente. Alcuni dicono che non succederà mai nulla. Altri hanno speranza.

BOX 1

Trenta anni nella Bahia

Paolo Maria Tonucci nacque a Fano il 4 maggio 1939. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1962. Ottenuto il permesso di partire come missionario, arrivò in Brasile alla fine del 1965 e fu destinato alla parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella città di São Salvador de Bahia. Vi lavorò per 15 anni insieme ad altri sacerdoti, per lo più provenienti dalla diocesi di Firenze.
Nella distribuzione delle responsabilità, don Paolo si dedicò soprattutto al quartiere di Fazenda Grande, dove stabilì la propria residenza, in una stanza dietro la cappella. Qui istituì la scuola professionale Primero de mayo, per la formazione di giovani tecnici e l’alfabetizzazione degli adulti. Fu tra i fondatori e poi il responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace, per lo studio delle situazioni di ingiustizia e la difesa dei diritti umani.

Nel 1981, don Paolo lasciò la città di Salvador e si trasferì a 40 chilometri di distanza, nella cittadina di Camaçari, divenendone parroco. Con lo scopo di essere più vicino al popolo, per due volte don Paolo chiese la cittadinanza brasiliana, prima durante la dittatura militare (1964-1985), poi in tempo di democrazia. Gli fu sempre negata «per indegnità», in quanto negli archivi della polizia erano segnalati i suoi interventi in difesa dei senzatetto, proditoriamente sloggiati dalle loro baracche proprio dalle forze dell’ordine.
Il 19 ottobre 1992 il comune di Fano gli assegnò il premio «Fortuna d’oro», con la seguente motivazione: «Al missionario Paolo Maria Tonucci, per la sua attività umanitaria e spirituale a favore delle popolazioni povere del lontano Brasile e per aver saputo coraggiosamente lottare contro gli ostacoli e le incomprensioni di una dittatura militare».
Nell’agosto 1993 gli fu diagnosticato un tumore al cervello. A nulla valsero gli immediati ricoveri in Italia. Morì il 9 ottobre 1994 e fu sepolto a Fano.

Esattamente 10 anni dopo, contemporaneamente a Camaçari e a Fano, si sono svolte manifestazioni e incontri per commemorare il suo impegno di testimone del vangelo nel rispetto pieno della dignità umana.
Per l’ardore con cui lottò fino agli ultimi giorni a fianco dei diseredati, don Paolo è rimasto per sempre nei cuori dei brasiliani e di quanti, in Italia, lo hanno conosciuto. Coloro che hanno collaborato e vissuto con lui hanno dato continuità alla sua opera, costituendo due associazioni a lui intitolate in patria e in Brasile.
In Italia, il 5 dicembre 1996, fu costituita l’Associazione «Centro scuola don Paolo Tonucci» Onlus, con lo scopo di sostenere iniziative di promozione cristiana, umana e sociale delle persone più svantaggiate di Camaçari.
A Camaçari è nata l’Associazione Paolo Tonucci «Apito» (in brasiliano significa fischietto), che ha attivato diversi programmi sociali:
Fami-Apito si occupa delle circa 260 famiglie bisognose.
Centro-Apito attua programmi di educazione per l’infanzia, di cui usufruiscono 140 bambini dai 3 ai 6 anni.
Eco-Apito ha programmi di complemento scolastico per 120 ragazzi da 7 a 12 anni.
Arte-Apito è un biennio professionale per circa 80 giovani sopra i 14 anni.


Paolo Brunacci




Convertirsi al Vangelo

Annunciare Cristo in un mondo globalizzato, complesso e in continua evoluzione, costringe la chiesa a interrogarsi sulla natura della propria missione. Soprattutto impegna a un rinnovamento costante, ritornando alla radicalità evangelica.

Assumere l’oggi di Dio come spazio della missione significa accettare il nostro tempo, in tutta la sua ampiezza e profondità, complessità e drammaticità, come il luogo che Dio ci dà per l’annuncio del vangelo e l’edificazione del regno. «La missione oggi» è tutto ciò a cui siamo chiamati come uomini e come cristiani nel mondo.
Il tema è estremamente ampio e dinamico; per cui mi limito a formulare alcune domande, che la situazione e una più profonda riflessione sulla parola di Dio impongono.

ESISTE UN’UNICA MISSIONE?
Se «la chiesa che vive nel tempo è per sua natura tutta missionaria» (Ad gentes 2), è chiaro che ovunque c’è chiesa c’è missione. Ma è la stessa missione ovunque?
Oggi, anche l’Europa è terra di missione, ma essa è del tutto diversa da quella che i missionari svolgono in Asia, in Africa o in alcune parti dell’Oceania.
Guardiamo alle peculiarità della missione, nel suo concreto svolgimento: nei paesi musulmani vediamo una missione nella debolezza, nel silenzio e nel nascondimento, che ha poco in comune con la missione in Africa centrale o in alcuni ambienti tribali dell’Asia.
Se guardiamo alla missione nei paesi cattolici dell’America Latina, vediamo prospettive e problemi del tutto diversi da quelli che la missione affronta in India o in altri grandi paesi a maggioranza indù, buddista, shintornista.
La domanda diventa ancora più necessaria se si passa dal piano spaziale-geografico, a quello storico-temporale: che cosa ha in comune la missione di quegli «inviati apostolici» dei secoli scorsi con i missionari di oggi? I primi avevano come scopo la salvezza delle anime attraverso il battesimo: anime che venivano quasi strappate dal proprio popolo e dalla propria cultura, talora anche dagli affetti familiari, per essere «incorporate» in una nuova entità sovrumana come la chiesa, nella quale sola si riteneva risiedesse la salvezza.
Tanti missionari di oggi vogliono, attraverso il vangelo, difendere la dignità e l’integrità delle persone e dei popoli, delle loro culture e sistemi di vita, sottraendoli all’imperialismo economico, politico, militare e culturale dell’Occidente, e pensano alla chiesa più come segno e strumento di salvezza che come porto universale e obbligato della stessa salvezza.
Si obietterà che la missione è senza dubbio unica, perché nasce dall’unico mandato di Cristo ai dodici, rappresentanti tutto il popolo di Dio: «Andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15); ma il Concilio Vaticano ii fa risalire la missione alla Trinità, dicendo che la chiesa trae la propria origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo.
La domanda diventa teologicamente molto intrigante, quando, a partire dalla Trinità, ci si chiede se è unica la missione che nasce dal Padre o sono due? Il testo del Vaticano ii dice: «La chiesa che vive nel tempo per sua natura è missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine» (Ad gentes 2). Non si dice dalla missione del Figlio e dello Spirito Santo, ma «dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo (nel testo originale latino: ex missione Filii missioneque Spiritus Sancti).
Senz’altro due sono i protagonisti: il Cristo e lo Spirito (cfr. Lumen gentium 3 e 4; Ad gentes 3 e 4). Nella Redemptoris missio il problema viene affrontato in maniera «difensiva», dicendo che «quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per opera dello Spirito, per operare lui, uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale» (RM 29). E ancora che «l’azione universale dello Spirito non va separata dall’azione peculiare che egli svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa» (RM 29).
Ciò non toglie che la missione, la quale fa capo al mandato di Cristo come proclamazione del vangelo, sia diversa dalla missione che lo Spirito svolge nella storia, servendosi non sempre e non solo della chiesa e dei suoi strumenti, per salvare, in modi misteriosi, ma reali, come dice lo stesso Concilio (LG 16; GS 22; AG 7) e come ripete la Redemptoris missio (10), quanti mai in questa vita potranno passare attraverso la fede esplicita nel vangelo e l’appartenenza alla chiesa visibile.
Questo ci introduce a una seconda domanda, molto impegnativa.

LE ALTRE RELIGIONI HANNO UNA MISSIONE?
Lo Spirito Santo agisce nel mondo, non solo mediante la chiesa e la sua azione, che pure egli suscita e sospinge, ma anche attraverso altre persone e istituzioni che si muovono, sia pure inconsapevolmente, nella prospettiva del regno di Dio. È quindi legittimo chiedersi: anche le altre religioni hanno una missione nei confronti dell’umanità? Se sì, questa loro missione è rivolta anche a noi cristiani, alle nostre chiese?
I francesi, che hanno la tendenza a risolvere in felici espressioni verbali problemi teologici molto complessi, parlano di mission de réciprocité o mission réciproque. Perché il dialogo interreligioso sia un vero dialogo, dicono, e quindi si parta da una condizione di parità iniziale, occorre che ognuno dei partner religiosi riconosca la missione dell’altro; cioè, riconosca che l’altro è deputato a conferirgli qualcosa di sé. Missione è dare e ricevere.
In questa ipotesi, avremmo qualche cosa da ascoltare da buddisti, musulmani, shintornisti, confuciani… e dovremmo riconoscere che questo «qualcosa» è il dono che Dio ha concesso e affidato a loro per noi.
Le chiese cristiane devono continuare ad annunciare Gesù Cristo e il suo vangelo, il mistero pasquale nella sua integrità; ma a loro volta devono accogliere la verità custodita nelle altre religioni.
Questa posizione fa scattare due tipi di attenzione: la prima, contro ogni forma di integralismo di chi dice di possedere l’intera verità. È chiaro che ogni religione si sente depositaria della Verità. Per il cristianesimo la Verità è Gesù Cristo stesso: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6; cfr. Gv 1,17-18; 8,31-32).
Ma dobbiamo fare tre notazioni: la prima è che si tratta di una verità «storicizzata». Dio si manifesta in pienezza nella storia di un uomo, che vive e muore dentro la storia e la cultura di un popolo. Dio, così, viene raccontato e non definito. Noterà l’evangelista Giovanni: «Dio nessuno l’ha visto mai. Proprio l’unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha manifestato (exeghésato = lo ha tratto fuori, fatto uscire; ma anche: lo ha narrato, raccontato. La Volgata infatti traduce: ipse enarravit).
La seconda notazione è che questa verità è la verità dell’amore, perché il culmine della narrazione di Dio sta proprio nella croce di Cristo, come supremo atto di amore per l’umanità. Non si potrà mai disgiungere la verità di Dio dall’amore di Dio.
La terza notazione si ferma sul fatto che questa verità di Dio in Cristo è ancora nascosta ai nostri occhi, proprio perché gli occhi non sono capaci: «Molte cose ho da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portae il peso (Gv 16,12). Solo lo Spirito Santo ci condurrà lentamente verso la verità tutta intera (cfr. Gv 16,13). Deve esserci in noi la tensione verso quella Verità che è Dio stesso, ma nessuno può dire di possederla e tanto meno usarla come un bastone contro gli altri!
Siamo rimandati al grande principio di Gregorio Magno: «Scriptura cum legente crescit». Benché la sacra scrittura contenga tutta la rivelazione di Dio, questa si fa strada nella mente umana man mano che l’uomo stesso cresce: intellettualmente, spiritualmente, culturalmente.
Il principio si può estendere alla chiesa, formata da tutti noi: «Scriptura cum legente ecclesia crescit». Anche la chiesa deve crescere, sotto l’azione dello Spirito Santo, per penetrare quel tesoro di verità che ha nelle sacre scritture.
E per crescere, la chiesa ha sì bisogno dei grandi santi e grandi teologi, dell’esperienza di fede di tutti i cristiani e del cammino secolare della sua tradizione; ma ha anche bisogno delle altre culture, altre religioni, altre «storie dell’uomo».
Solo quando tutti i popoli avranno dato il contributo della loro sapienza e religiosità, il vangelo di Cristo sarà meglio capito e la «narrazione di Dio» sarà completata.
Capiamo l’importanza di tutto questo nella natura della missione?
Il secondo tipo di attenzione ci porta sul lato opposto all’integralismo e fondamentalismo: il dialogo interreligioso non deve puntare alla riduzione delle varie religioni al loro minimo comune multiplo, a quella cosiddetta religione universale, che nasce come un vestito ritagliato da tante stoffe, con una scelta tutta umana di «pezze buone» e «pezze da buttare».
Alcuni cosiddetti pluralisti, anche in campo cattolico, tendono a questa formula. Uno di essi sosteneva, in un recente saggio, che tra le «pezze da buttare» ci fossero le categorie teologiche della «elezione» e della «incarnazione».

MISSIONE O EVANGELIZZAZIONE?
Questa terza domanda ha un riferimento storico-dottrinale preciso. Nell’esortazione apostolica di Paolo vi Evangelii nuntiandi (1975) la parola missione e derivati sono usati con molta parsimonia, mentre riprendono piede nella Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo ii.
Questo cambiamento linguistico nasconde una diversa prospettiva o accentuazione. In Paolo vi prevale l’attenzione «agli uomini del nostro tempo», tutti bisognosi, in diverse situazioni, dell’annuncio evangelico. L’evangelizzazione ha come destinatario la chiesa stessa: «Evangelizzatrice, la chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore» (EN 15). Fanno seguito i lontani, il mondo scristianizzato, le culture, le religioni, i non credenti, i non praticanti… L’evangelizzazione è vista come un compito complessivo, globale, che si specifica per la diversità di situazioni e soggetti, ma resta necessario per tutti.
In Giovanni Paolo ii prevale invece il concetto dell’andare, con il richiamo ai suoi viaggi, uno dei simboli più evidenti del suo pontificato. «Già all’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria; e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha reso ancor più convinto dell’urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica» (RM 1).
Rimane quindi più marcata la distinzione fra «quelli che restano» e «quelli che partono». Gli istituti missionari riacquistano tutto il loro risalto, anche nel nuovo contesto ecclesiale post-conciliare. Le chiese locali vengono esortate all’invio di religiosi e religiose, sacerdoti e laici.
Quali le conseguenze di una scelta nell’uno o nell’altro senso?
Nel primo caso (Paolo vi) è favorito il «sentirsi tutti missionari», perché ovunque c’è da evangelizzare; ma con il rischio che questa «evangelizzazione diffusa» rimanga nelle intenzioni, perché mancano metodi, mezzi, strutture appropriate.
Nel secondo caso (Giovanni Paolo ii) vengono favorite le vocazioni missionarie specifiche, la proiezione verso l’esterno, con il rischio, però, di far prevalere la visione geografica della missione, rispetto a quella antropologica, e di conservare il modello illusorio ed etnocentrico di un mondo occidentale cristiano, da cui il vangelo parte per altre regioni del globo.
Appare chiaro che, con l’affermarsi della globalizzazione, la prospettiva della evangelizzazione ovunque e sempre, in diversi contesti umani e con diversi approcci, si vada consolidando. È necessario però che la coscienza missionaria non rimanga solo un fatto verbale, che la corresponsabilità missionaria si affermi davvero e sia verificata da scelte concrete di testimonianza, annuncio, promozione umana, diversificate secondo i differenti ambiti. In questa prospettiva nasce la seguente domanda.

CURA PASTORALE,
NUOVA EVANGELIZZAZIONE
MISSIONE AD GENTES:
DISTINZIONI ANCORA VALIDE?
Sembra che già il papa, nel formulare questa distinzione nella Redemptoris missio, avvertisse una certa sua precarietà: «D’altronde i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è possibile creare fra di esse barriere o compartimenti stagno» (RM 34).
Nella realtà concreta delle nostre comunità cristiane, poi, si è andati verso una certa polarizzazione tra cura pastorale e attività missionaria specifica. Si è creata una certa dicotomia tra chi si interessa prevalentemente della missione ad extra o del Sud del mondo e chi si interessa dei pochi cristiani rimasti. Quella che è rimasta completamente scoperta è la cosiddetta nuova evangelizzazione.
Nella relazione tenuta al Seminario di studio sul tema «L’ad gentes nella vita della chiesa italiana oggi» (Pesaro, 1-6-2004), mons. Dho, vescovo di Alba, vede questi segni nella crescita di missionarietà delle diocesi nel post-concilio:
– l’invio dei fidei donum in forma organica;
– progetti di aiuti vari con relativi gruppi di appoggio in diocesi;
– il ricupero delle forze missionarie religiose oriunde, ma non conosciute né valorizzate sul piano diocesano;
– prime esperienze di seminaristi nostri in missione temporanea;
– visite dei vescovi in loco;
– ristrutturazione degli Uffici missionari diocesani, fino allora piuttosto burocratici, in Centri missionari di animazione e cornordinamento;
– il coinvolgimento di piccole famiglie religiose non espressamente missionarie in progetti diocesani di invio ad gentes nei vari gemellaggi;
– la preparazione e formazione dei primi laici per le missioni diocesane e altre.
Parlando poi di parrocchie, il vescovo dice che manifestano la loro crescita in missionarietà:
– accogliendo le iniziative del Centro diocesano, dalla veglia di preghiera alle campagne di frateità e impegnandosi con rappresentanze parrocchiali o vicariali nel Centro stesso;
– instaurando molti rapporti con i fidei donum non solo delle proprie comunità, ma pure della diocesi;
– ricuperando contatti con i religiosi e missionari oriundi;
– offrendo forze giovani, specie laici, per i progetti diocesani in missione;
– favorendo molto in loco gruppi di sensibilizzazione sui grandi problemi della pace, globalizzazione, accoglienza e integrazione degli immigrati, con iniziative di commercio equo e solidale, banca etica, ecc.
In questi lunghi elenchi non c’è il minimo accenno a una crescita della missionarietà in loco, né a un «ritorno» dell’ad gentes nella pastorale della chiesa locale. Questo rende evidente la dicotomia di cui si è detto sopra. È possibile un’apertura missionaria verso le genti senza un contemporaneo entusiasmo di evangelizzazione nella propria terra?

QUALE MISSIONE NELL’ERA
DELLA GLOBALIZZAZIONE?
Abbiamo avuto questa fortuna: la chiesa ha presagito, profeticamente, la globalizzazione. Ha scritto Karl Rahner: «In un mondo che ancora cerca a tastoni se stesso, il Concilio Vaticano ii è stato germinalmente la prima autornattuazione ufficiale della chiesa in quanto mondiale».
Fin dagli anni ’60, la chiesa è pronta per la globalizzazione. I documenti conciliari parlano ben 17 volte dell’unità del mondo, e non solo sul piano religioso o filosofico (un Padre solo e tutti gli uomini idealmente fratelli!), ma su quella della concreta attuabilità storica. Del resto in due encicliche uscite nei tempi conciliari, Pacem in terris di Giovanni xxiii e Populorum progressio di Paolo vi, si insiste sul ruolo dell’Onu in vista della pace e della giustizia a livello mondiale.
Ma che cosa ha significato concretamente per la missione questo «presentimento storico» della chiesa? Ha significato un rapido, anche se non sempre omogeneo e ordinato, cambiamento degli atteggiamenti della missione e dei missionari di fronte ai popoli. Una vera e propria conversione.
Sono diventate rapidamente priorità per la missione: l’indipendenza di quei popoli; la necessità di liberazione dei poveri da ogni condizione oppressiva; la pace; i diritti umani; il rispetto delle culture e delle tradizioni popolari; la necessità di inculturare il vangelo e le chiese che nascevano dal suo annuncio; il dialogo interculturale e interreligioso; la difesa dell’ambiente; lo scambio fra le chiese, per il quale ognuna di esse (antica o nuova che fosse) si sentisse debitrice dell’altra; la comunione fra le chiese, non come uniformità, ma come commensalità delle differenze; il pluralismo ecclesiale nell’unità della fede («tanti cristianesimi in una sola Chiesa»).
Queste priorità non sono però ancora entrate nella coscienza di tutti i cristiani. Anzi, gran parte del mondo cristiano (e una parte più piccola di missionari in senso stretto) non ha fatto questa conversione e fa resistenza ad essa.

COME VINCERE LE RESISTENZE
A QUESTI MUTAMENTI?
La percezione errata della missione è una percezione sbagliata del cristianesimo; anzi ne è stravolgimento e strumentalizzazione ideologica.
È errata l’immagine romantica della missione, come antitetica al vero annuncio evangelico; ma lo può diventare anche l’immagine che vede la missione come difesa dei poveri.
Una percezione vera della missione passa attraverso una sua riscoperta nell’ascolto della parola di Dio.
Una immagine vera della missione passa attraverso una necessaria e permanente riforma della chiesa, che sia anche autoriforma di ogni nostra comunità e di ognuno di noi.
La «missione oggi» è prima di tutto un’esigenza di radicalità evangelica, un vivere il vangelo di fronte al mondo e contro lo spirito del mondo. Se questo avverrà anche solo in piccole, povere e disperse comunità sulla faccia della terra, la chiesa riprenderà lo slancio dei primi secoli. A giudicare da tanti segni, che solo chi ha fede può vedere, questo sta avvenendo.

Francesco Grasselli




ARTICOLO Raccontami la storia

Il peggiore nemico della verità non è tanto l’errore quanto la noia. Per far sì che i contenuti dottrinali arrivino al cuore, è necessario tornare al metodo evangelicodel «raccontare» la storia della salvezza.
Un metodo raccomandato sia nel dialogo ecumenico, che nella predicazione e catechesi.

È evidente, almeno così sembra, che anche in campo ecumenico, di dialogo con le altre confessioni cristiane, o in campo religioso e pastorale, nella predicazione e nella catechesi, occorra essere chiari, cioè usare un linguaggio capito da tutti. La qual cosa, oggi come oggi, non avviene. Colpa soprattutto dei teologi e degli autori dei documenti ufficiali che ci piovono sulla testa.
Ripeto ancora una volta ciò che ebbe a dire il noto predicatore padre Raniero Cantalamessa: «Uno dei motivi per cui in molte parti del mondo si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sette è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa, da non attivare direttamente il cuore di una persona».
Purtroppo il problema non è solo quello di parlare in maniera chiara e comprensibile, ma è anche soprattutto di contenuto, di quello che si dice, se è giusto, appropriato e importante.
Il padre Y. Congar in un libro del 1987 dal titolo Conversazioni d’autunno (Entretiens d’Automne), giunto quasi al termine della sua vita, scriveva a riguardo dell’islam e del cristianesimo: «La prima qualità dell’islam è la semplicità. Non c’è che un dogma: Dio è Dio, Maometto è il suo profeta. È un’affermazione forte della pura trascendenza, in confronto alla quale è certo che la fede cristiana, soprattutto la fede cattolica, è qualcosa di abbastanza complicato; quando si aggiunge la Trinità, l’incarnazione, i sacramenti; tutto ciò diventa complesso, lo sappiamo» (pag.116).
Ma lo sappiamo? Pare proprio di no! Il padre Eesto Balducci, a sua volta, in un libro del 1985, in modo più graffiante, com’era nel suo stile, osserva: «Le prediche fanno sbadigliare».
In senso più umoristico, Alessandro Pronzato riporta una lamentela della collaboratrice domestica (mai esistita) di Casa Guareschi, che muove al suo padrone, al quale dà del «lui», un rimprovero che, tutto sommato, è un elogio: «Lui non mi piace come scrive… Intanto lui adopera delle parole che tutti conoscono per dire delle cose che tutti capiscono e allora dove va a finire la cultura?». (G. Guareschi, Vita con Gio’. La gloria di Montassù, Milano 1995).
La predica, sovente, scrive sempre don Pronzato, come è stato da più parti denunciato, rappresenta «un vero tormento dei fedeli. Personalmente resto convinto che il grosso e più temibile nemico della verità non sia tanto l’errore, quanto la noia» (prefazione in Don Camillo. Il Vangelo dei semplici, 2001, p.11). Al punto, e la cosa pare sia sufficientemente documentata, che Giovanni xxiii avrebbe voluto affidare la stesura di un catechismo a uno «scrittore popolare», accettando la proposta che fosse Giovannino Guareschi, magari affiancato da un bravo teologo.
Comunque le presentazioni dottrinali e persino le letture evangeliche sono in genere «esasperatamente intellettualistiche, fredde, aride, in un linguaggio impervio, precluso alla gente comune». Questo lo dice il card. Giacomo Biffi.

L’eresia degli eunomiani

Non c’è forse sotto sotto un rigurgito di un errore antico, già condannato nei primi secoli (eunomiani), che consisteva nell’affermare che Dio lo si può conoscere con la ragione e definire perfettamente. Dio invece è ineffabile. Per cui ogni discorso su Dio non è mai adeguato alla realtà descritta; si tratta sempre di un discorso analogico: Dio è chiamato luce perché ha verso le intelligenze un ruolo analogo, cioè simile, a quello della luce per gli occhi; è chiamato spirito perché conserva la vera vita, come l’alito conserva la vita del corpo. Così la pensava Origene, nato nel 185.
San Tommaso a sua volta scrive: «Poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamente, quasi balbettando… Imperfecte nominamus, quasi balbutiendo» (I Sent. 22,1,1,1 sol.).
Mentre per secoli su Dio si è pensato di poter dire tutto e con estrema sicurezza, con definizioni su definizioni, i fedeli di oggi forse non sopportano più un atteggiamento del genere.
Nell’Apocalisse (14,6) si legge: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra». Un vangelo eterno: cosa potrebbe essere? Senza lettere, senza figure, senza immagini, cioè pura buona notizia?

«Sono cristiano
secondo il vangelo,
non secondo i parroci»

Affermazioni del genere esprimono la crisi in cui si trova il cristianesimo e il cattolicesimo ai giorni nostri. È come piangere sul latte versato. Anche se le motivazioni di tali affermazioni non sono del tutto disinteressate o appaiono dettate, a volte, per motivi di comodo.
Ignazio Silone, e con lui moltissimi altri, si definiva «un cristiano senza chiesa». Anche la moglie, Elisabeth Darina, irlandese e cattolica, morta nel luglio 2003, scriveva di sé: «Io, povera cristiana. Resto una credente, ma al di fuori di ogni chiesa. I motivi? Troppa rigidità e anche grettezza nel cattolicesimo irlandese. Dopo la guerra, a Roma, mi trovai seduta a pranzo accanto a Jacques Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, e colsi l’occasione per chiedergli cosa pensasse del cattolicesimo irlandese. “Le catholicisme irlandais? – rispose senza esitare – C’est du jansénisme obscurantiste”. Pronunciata da Maritain, mi confermava tutto».
Oggi forse il cattolicesimo, specie in Europa, non pecca per oscurantismo, ma per complessità, oscurità, per troppe parole, per troppo raziocinio. Eesto Balducci in L’uomo planetario (1985) riporta una canzone dello Zaire, dove si canta: «Cristiani, come siete infelici! La mattina alla messa, la sera dallo stregone, l’amuleto in tasca, lo scapolare al collo».
Anche il filosofo Norberto Bobbio, deceduto il 9 gennaio dello scorso anno, nel suo testamento spirituale scriveva: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì! Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornare di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico, come uomo di ragione e non di fede. So di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e che le religioni interpretano in vario modo».
Nel 2001 uscì, tradotto dall’inglese, un piccolo best seller di una donna statunitense, Joan Brady, dal titolo: Dio su una Harley. La trama fa sorridere. Si tratta di un’infermiera sulla quarantina, in crisi anche religiosa, quando una sera scorge sulla spiaggia, baciato da un raggio di luna, un uomo a cavalcioni di una potente moto, una Harley Davidson. Incominciano a chiacchierare, ma quando lei gli chiede il suo nome, lui risponde: «Dio».
Dapprima la donna crede che sia scappato da un manicomio, poi, a poco a poco deve arrendersi. Il misterioso motociclista conosce tutto della sua vita, comprese le sue difficoltà religiose: «Una religione che non funziona. Una religione dove tutto è scritto in maiuscolo… e poi dieci comandamenti, non sono forse troppi?».
E questo Dio «in moto» le insegna come ridurre quei dieci comandamenti a sei. Ma anche così sono impegnativi, ma hanno il vantaggio di essere su sua misura. Sono molti coloro che hanno bisogno di comandamenti personali. Per concludere, le dice il Dio della moto, «vorrei che tu la smettessi di pensare a me come Dio… È un termine così antiquato! La tua concezione di Dio è piuttosto imprecisa ed è mia intenzione modificare questa immagine… Voglio essere importante per te, Christine, e non un tizio grande e grosso che dall’alto dei cieli prende nota dei tuoi errori».
Abbiamo un cristianesimo con molte «mediazioni» e molti simboli. Tutti validi o alcuni inflazionati? Oppure è da molto tempo che abbiamo dimenticato qualcosa di molto importante?
Piccoli segnali ci giungono da molte parti, per dirci che c’è bisogno di qualcos’altro, anche senza ridurre i dieci comandamenti a sei.
Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».
Così quando nel 1925 uscì l’enciclica di Pio xi su Cristo Re, Teilhard de Chardin ebbe un moto di ribellione e scrisse: «Lo voglio gridare: il vostro Cristo è troppo piccolo! Lasciatemelo fare più grande; grande come il mondo!».

«Fin dalla mia infanzia,
mio padre mi raccontava»
(Ester 4,17)

Un noto biblista, il gesuita Jean-Noël Aletti, già da qualche anno, si sta chiedendo quale fosse la teologia delle prime comunità cristiane. È del parere che il messaggio cristiano non poteva essere espresso in concetti, ma come racconto. Scrisse infatti L’arte di raccontare di Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Brescia 1991 e anche Il racconto come teologia, Roma 1996.
Per cui i nostri contemporanei, a tutti i livelli, ne dovrebbero tener conto, perché troppo spesso dimenticano la natura propriamente narrativa, non solo del vangelo di Luca, ma di tutta la scrittura. Di fatto se dai vangeli, specie da quello di Luca, si eliminassero i racconti, in mano ci resterebbe ben poco.
Anche se non è sufficiente fermarsi al racconto o alla composizione scenica, perché il racconto e ogni racconto occorre renderlo stimolante, esemplare, compararlo con l’insieme, per rendere evidente il suo insegnamento. Gesù, ad esempio, parla del regno dei cieli solo in parabole; non dice «il regno dei cieli è…», ma «il regno dei cieli è come…».
D’altra parte il Concilio ha dato corpo a tutta la rivelazione cristiana come «storia della salvezza», e la storia è composta in massima parte di fatti e di eventi significativi.
Il noto teologo E. Schillebeeckx nella prima pagina del suo volume dal titolo Gesù, storia di un vivente, del 1973, scrive: «Ho cercato di colmare l’abisso tra la teologia accademica e i bisogni concreti dei fedeli».
E alla fine del volume (p. 714) commenta: «Negli Atti (4,10-12) si racconta che Pietro guarì lo storpio del villaggio quando gli raccontò la “storia di Gesù”».
Per dimostrare l’efficacia della narrazione o della «fede narrativa», riporta quanto scrisse M. Buber, in relazione al racconto dello storpio degli Atti: «Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora mio nonno raccontò come il santo Baal Shem avesse l’abitudine di saltare e danzare mentre pregava. Mio nonno, dimenticando di essere paralitico, si alzò e raccontò; la storia lo eccitò al punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie».
E se noi cristiani di oggi fossimo tutti un po’ paralitici?

Igino Tubaldo