007-Così sta scritto -Nel Giardino di Eden (7)

«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo servisse/coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15)

«Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi
nelle doglie del parto» (Rom 8,22)

Nella coscienza dei popoli aumenta la preoccupazione per il futuro della terra. Lo sviluppo disordinato e lo sfruttamento delle risorse idriche, alimentari ed energetiche hanno imboccato la via di non ritorno verso l’implosione dell’ecosistema. I governi sono i soli a non preoccuparsene, dal momento che essi sopravvivono una manciata di istanti e non interessa loro la sorte delle generazioni future, ma il risultato immediato. Domani altri goveeranno; ad altri i problemi di domani.
Goveare è prevedere. Anzi, governare è anticipare le previsioni. Prendere coscienza della terra o, come si dice oggi, dell’ambiente in cui viviamo è un imperativo morale e religioso, oltre che civile. Per il credente il rispetto e la cura della terra sono un atto di obbedienza al Creatore del cielo e della terra e un inno di lode al Dio redentore dell’umanità e dell’ambiente che la contiene. Chiunque insulta, defrauda, violenta, sfrutta la terra e le sue risorse compie un atto blasfemo contro se stesso e contro Dio.
L’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili; il degrado delle urbanizzazioni selvagge hanno prodotto la cementificazione della terra, con la conseguenza che sono in aumento la desertificazione, alluvioni, mutamento delle stagioni, scioglimento dei ghiacciai, cataclismi di cui siamo attoniti e impotenti testimoni.
Eppure la bibbia si apre appunto con la questione ambientale, fulcro di tutta la storia di salvezza. Il fondamento di tutto ciò era già scritto fin dal principio, ma pochi ne hanno coscienza, anche tra i credenti. In nessun programma di politici sedicenti cristiani e/o cattolici ho mai visto un espresso capitolo dedicato all’ambiente o alla terra e al conseguente sviluppo sostenibile.
Guardandomi attorno, vedo che l’umanità è ancora ferma ai primi 11 capitoli della Genesi: non ha fatto un grande progresso da un punto di vista antropologico. Questa constatazione diventa drammatica se guardiamo al rapporto tra gli uomini, tra uomo e natura, tra uomo e creato. Tutti gli scienziati liberi (non a libro paga dei governi) dicono che il mondo sta morendo per opera dell’uomo e le proiezioni parlano di uno stravolgimento epocale che sovrasta le teste dei nostri figli, perché il rapporto dell’uomo con la terra è un rapporto di violenta aggressione, quasi una volontà positiva di distruggere il creato.

Tutto era previsto dal x sec. a.C. in poi. Tutto era scritto già nel sec. iv a.C., nei primi 11 capitoli del libro della Genesi. Essi sono il risultato finale di una lunga riflessione sull’esperienza di fede del popolo d’Israele, frutto di diverse tradizioni orali e scritte. Sono la proiezione all’indietro dell’esperienza storica vissuta lungo 5 secoli (x-v a.C.): la problematica che attraversa l’anima umana è proiettata su uno sfondo cosmico per dire che si tratta di una realtà universale.
Genesi 1-11 è una «narrazione storica», nel senso che tematiche universali come dolore e morte, violenza gratuita e organizzata, lavoro e fatica, disgregazione dell’ambiente e cataclismi, sofferenza degli innocenti e successo degli ingiusti, attrazione dei sessi e dolore del parto, mistero della vita e mortalità, società e sovversione dell’ordine morale… sono patrimonio dell’umanità che cammina nel tempo della storia. Sempre.
Genesi 1-11, però, supera i confini di un tempo specifico o di una generazione e per questo vengono collocati «in principio», perché fanno parte del patrimonio storico che ogni generazione lascia a quella successiva. Ieri come oggi e come domani. A distanza di almeno 3 mila anni, infatti, anche oggi siamo alle prese con gli stessi interrogativi.
Ai quali interrogativi, l’uomo biblico dà una risposta di fede, che può essere sintetizzata così: l’uomo/Adam che non riconosce la «signoria» di Dio, cioè, non accetta il proprio limite di creatura e si ribella nel tentativo di sostituirsi a Dio stesso, va incontro a una serie di fallimenti senza ritorno.
Adam disponeva del giardino di Eden; era «signore» di tutto il creato; dove svolgeva un compito sacerdotale di rappresentanza. Egli era la «statua/immagine» del Creatore, la coscienza vigile dell’intero creato attraverso l’esercizio di una «signoria vicaria» che avrebbe dovuto fare sperimentare al creato la provvidente pateità di Dio-Signore.
L’uomo poteva «dare il nome» agli animali, cioè esercitare su di essi un compito non di dominio, ma una primazia di signorilità: come il sacerdote nel tempio di Gerusalemme rappresentava liturgicamente Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio attraverso il sacrificio perpetuo e il sacrificio di lode (Sal 53,8; 115,8; 1Mac 4,56; Eb 13,15), così Adam nell’Eden, tempio cosmico, celebrava la liturgia di lode in rappresentanza e in comunione con il creato: umani, animali e cose. Il «principio» o fondamento della creazione era l’armonia del creato, come contesto dell’armonia del regno vegetale, animale e umano e segno dell’armonia pacificata dell’animo umano. Ad Adam non basta.
Egli vuole essere Dio, non solo la sua immagine; non accetta di essere quello che è, ma vuole diventare chi non è, introducendo nel suo cuore, nella relazione con la donna e nel mondo intero il germe del disordine e divisione. Per responsabilità dell’uomo il virus della disgregazione è inoculato nel creato, nel mondo animale, vegetale e inanimato.
Quando la persona perde di vista il confine della propria consistenza e identità interiore e vuole essere altro da ciò che realmente è, pone in atto un processo dissolutivo di sé e travolge tutto ciò che incontra. Egli separa così l’esperienza dalla coscienza, il proprio vissuto storico (del momento) dal proprio progetto complessivo (il dovere essere del proprio io profondo), frantuma ogni principio di coerenza nella verità, la quale non è più un obiettivo da cercare, ma una parzialità imposta come verità assoluta.
La persona che perde di vista il punto di partenza, le sue radici (l’Eden che ne determina l’individualità limitata) e il suo fine (l’immagine che ne esprime la capacità indefinita di relazione creativa), smarrisce se stessa, si attorciglia come un serpente in meccanismi opachi di distruzione, che deprimono la coscienza e ne fanno un soggetto gracile di feroci distruzioni contro se stesso e l’ambiente circostante. Senza più Dio come Signore e principio della creazione, le conseguenze rotolano come su un piano inclinato.
La donna non è più compagna di vita e viaggio alla pari, ma strumento nelle mani del potere maschile, che trasforma anche la relazione d’amore in possesso violento e di dominio: «Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli dominerà su di te» (Gen 3,16). La relazione sessuale, che doveva essere il sigillo dell’armonia perfetta, il sacramento visibile del volto di Dio in quanto «immagine e somiglianza», diventa invece campo di violenza e sopraffazione.
Senza il riconoscimento di Dio come Padre, Abele non è più riconosciuto come fratello, ma diventa ostacolo al successo di Caino, che per questo lo vuole uccidere (Gen 4): nasce l’omicidio/fratricidio. I fratelli diventano «extracomunitari» l’uno all’altro, ieri e oggi.
All’Adam che rinnega Dio creatore, la natura stessa si ribella e non ne riconosce più la signoria: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con travaglio ne trarrai nutrimento… spine e cardi farà spuntare per te» (Gen 3,17-18).
All’uomo che si rivolta contro Dio, l’intero creato si rivolta con violenza sovrumana: il diluvio sommerge la terra intera e solo otto persone si salvano (Gen 6). L’uomo che disattende la Torà/Legge di Dio creatore è incapace di riconoscere qualsiasi legge morale come equilibrio di convivenza: nascono poligamia e vendetta smisurata nella proporzione di uno a sette (Gen 4,19.24).
 
Dio non aveva posto Adam nel giardino di Eden perché ne spadroneggiasse secondo il suo capriccio, ma con un progetto di armonia e sviluppo ben preciso. I due verbi usati in Gen 2,15 sono fondamentali nella teologia biblica ed esprimono la dimensione interiore che si rapporta sempre con la natura di Dio. In ebraico l’espressione suona così: le’abedàch uleshamaràch: per servirlo e per custodirlo; mentre il greco della lxx dice: ergàzesthai autòn kai fylàssein, per lavorarlo e custodirlo.
Servire deriva da ’abàd (290 volte nell’AT) e contiene l’idea di fare e in arabo di onorare/obbedire. Servire vuol dire ascoltare e rispondere ai bisogni di colui che si serve. Dalla stessa radice ’.b.d. deriva ’ebed, servo, che nella bibbia ha anche valore onorifico: è servo il diplomatico che rappresenta il re. Il Servo di Yhwh di cui parla Isaia (52,13-53,12) è il misterioso personaggio eletto perché offra la sua vita in espiazione e col quale s’identificherà Gesù nella sua passione e morte.
Custodire da shamar (420x nell’AT) contiene l’idea di avere a cuore, prestare attenzione e nella scrittura è spesso riservato alla Torà/Legge: osservare/custodire la Torà è vivere; disattendere i precetti del Signore è avviarsi alla morte.
In questo senso i due verbi servire e custodire sono sinonimi, perché pongono il rapporto dell’uomo con il creato nella dimensione del servizio e questo servizio ha la stessa dimensione della Parola di Dio che deve essere ascoltata e custodita. Ascoltare/custodire/osservare (le parole del)la Torà è quasi un ritornello che popola l’intera scrittura ebraico-cristiana: Dt 17,19; 28,58; 30,10; 31,12; 32,46; 1Cr 22,12; Sal 98,7; 118,34.44.55; Mt 19,17; Lc 1,6; 18,20, Gv 14,15.21; 15,10 ecc.

Qui sta il fondamento teologico della creazione: la natura non deve solo essere rispettata per utilità, ma deve essere riconosciuta come soggetto di salvezza e redenzione. Le conseguenze, infatti, della disobbedienza dell’uomo si sono riversate sul creato, che così è associato e coinvolto nella storia distruttiva dell’uomo.
Lo esprime drammaticamente san Paolo nella lettera ai Romani (8,19-22), dove paragona il creato a una partoriente in preda alle doglie: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto».
L’uomo capace di trasformare un giardino di armonia in un deserto di sofferenze è capace di tutto; infatti lo vediamo all’opera instancabilmente: guerra, violenza, corruzione, potere come dominio, egoismo come sopruso, arrivismo, liberismo senza legge e morale, ricerca della propria realizzazione «qui e subito» a scapito degli altri sono le cause «originali» della depravazione dell’ambiente, che da giardino di vita si trasforma in inferno di morte.
L’inquinamento della coscienza e l’oscuramento dell’immagine di Dio nell’uomo-donna sono madre e padre dell’inquinamento della natura che ci sovrasta e ci seppellirà, se non saremo capaci di guardare il «principio» di dignità e libertà che è dentro ciascuno di noi e che si chiama responsabilità. Sì, coscienza della responsabilità non solo di se stessi, ma anche del mondo che ci circonda, degli animali, piante e cose inanimate che fanno parte del mondo che ci è stato consegnato per servirlo e custodirlo e consegnarlo alle generazioni future con lo stesso atteggiamento con cui consegniamo la Parola.
Davanti al tribunale dei nostri figli futuri e al tribunale di Dio, dobbiamo rispondere non solo della gestione della nostra «immagine e somiglianza» di lui, ma anche dell’etica delle nostre relazioni e dell’ambiente dove siamo vissuti che, in quell’ora suprema, si ergerà contro di noi per accusarci di essere colpevoli di assassinio cosmico o per testimoniare a favore di noi per essere stati fedeli servitori e custodi del giardino con la signorilità di chi restituisce qualcosa che ha ricevuto in affidamento.

Paolo Farinella




Una sola madre terra I disastri dell’homo turisticus

Il turismo è la prima attività economica a livello mondiale. Sembrerebbe una buona cosa, ma la realtà è diversa e quasi sempre misconosciuta, specie nei paesi del Sud. Escludendo le forme più infami, il turismo, come oggi è concepito, produce disastri rilevanti. Sull’ambiente e popolazioni locali. Leggere per credere…
(Prima parte)

Paradisi tropicali, natura selvaggia, spiagge incontaminate, avventura, popoli gentili e ospitali, con il ritmo nel sangue, il sorriso sul volto, voglia di vivere e dignità della propria condizione. Come resistere ad una vacanza che promette questo ed altro?
Per molte persone il costo economico di un viaggio in qualche paese esotico è sempre più alla portata del proprio portafoglio. Ma ci sono altri «costi», dei quali nessuna agenzia, nessuna pubblicità o rivista specializzata ci avvisa al momento della partenza.

HOMO TURISTICUS

Nomadi, marinai, mercanti, pellegrini… L’uomo ha viaggiato da sempre, motivato innanzitutto dalla necessità. Solo in tempi recenti si comincia a viaggiare «per piacere», grazie alla disponibilità di mezzi, per curiosità culturale, ma anche per una sorta di «dovere» che ci obbliga, periodicamente, a lasciare il lavoro e la casa per «andare in vacanza». Il turismo diventa un fenomeno di massa e, come dice Duccio Canestrini, nasce l’«homo turisticus», che con relativa disponibilità di denaro parte verso luoghi lontani da casa per tornare presto alla routine quotidiana. Proprio perché la visita fa parte delle sue vacanze e non della sua vita professionale, il turista «è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani», sostiene Tzvetan Todorov. La conoscenza dei costumi umani, infatti, richiede tempo, e l’incontro con «l’altro» rischia di mettere in gioco la nostra vita quotidiana, di mettere in discussione le nostre motivazioni e la nostra stessa identità. Senza contare che, anche se l’atto stesso di viaggiare provoca un senso di benessere fisico e mentale, nello spostamento è insita una sensazione di spaesamento e distacco.
Di tutto ciò l’industria turistica è ben consapevole e non esita a ricreare un modello di vita del tutto simile a quello appena lasciato. Stesso cibo, stesso ambiente, stessi ritmi di vita, stessa lingua e stessi compagni. Con la conseguenza di svuotare il viaggio dalla componente esperienziale che ha sempre avuto: conoscere meglio gli altri e se stessi. Il risultato è che viaggiamo sempre di più, ma di nuovo vediamo ben poco. «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» recita un proverbio africano. E sembrano lontane anche le parole di Marcel Proust: «Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
In effetti il termine turismo deriva dal francese «tour», cioè giro, percorso, viaggio, ma può essere fatto risalire a una parola ebraica, tora, che significa studio, conoscenza, ricerca.

UN’ESPANSIONE
PER POCHI PRIVILEGIATI

Lo sviluppo del turismo ha rappresentato uno dei grandi fenomeni economici e culturali degli ultimi venti anni, un vero indice della globalizzazione. Attualmente il turismo è considerato la principale attività economica a livello mondiale. Alle soglie del 2000 ha prodotto 455 miliardi di dollari di fatturato, e impiegato il 7% dei lavoratori mondiali. Gli arrivi inteazionali, ossia il numero di arrivi di persone residenti in un altro paese, sono passati dai 69 milioni del 1960 ai 700 milioni del 2000, con stime che si avvicinano ad 1,6 miliardi per il 2020.
Oggi il turismo può essere considerato come una vera e propria serie di industrie collegate: compagnie aeree, catene alberghiere, ristorazione, tour operator, agenzie di viaggio, guide, trasporti, assicurazioni, artigianato, gestione dei beni culturali e ambientali, ecc. Come altri settori produttivi del mercato globale, anche il turismo sta diventando sempre più concentrato. Nel 1998, le prime 10 compagnie aeree mondiali incameravano ben due terzi dei profitti prodotti da tutte le aziende associate all’Air Transport Association. Nel 1999, le prime cinque catene alberghiere gestivano circa il 14% delle camere d’albergo del mondo, e nel 2000 quattro tour operator europei monopolizzavano quasi 50 milioni di turisti.
Se nel 2003 il turismo internazionale ha attraversato un anno particolarmente difficile, segnato dall’inizio della guerra in Iraq, dalla Sars e da un’economia nel complesso debole, nel 2004 l’andamento è stato invece molto positivo, con una conclusione però tragica dovuta allo tsunami asiatico. Complessivamente si è raggiunto un record assoluto: 760 milioni di arrivi, con una crescita particolarmente forte in Asia, nel Pacifico e in Medio Oriente.
Nonostante questi numeri, il fenomeno turistico riguarda una piccola fetta privilegiata della popolazione mondiale. Quasi l’80% dei turisti inteazionali proviene infatti dall’Europa e dalle Americhe, mentre solo il 15% giunge dall’Asia orientale e dal Pacifico e il 5% da Africa, Medio Oriente e Asia meridionale. In totale, gli arrivi di turisti inteazionali rappresentano solo il 3,5% della popolazione mondiale.

IL PACCHETTO E’ TUTTO INCLUSO

A prima vista, per i paesi in via di sviluppo il turismo sembra presentare ovvi benefici: ingresso di valuta pregiata, incremento del gettito fiscale, creazione di posti di lavoro, opportunità di una formazione professionale, costruzione di infrastrutture utili anche in altri settori (strade, acquedotti, aeroporti), ecc.
La situazione non è in realtà così rosea. Le imprese turistiche che conseguono profitti positivi sono generalmente quelle capaci di affrontare bassi costi in tutte le fasi della vacanza, dal viaggio aereo, all’alloggio, ristorazione, trasporti, servizi in loco, che costituiscono il cosiddetto pacchetto «tutto incluso».
Ecco anche perché, come si accennava in precedenza, il mercato turistico è nel complesso caratterizzato da forti concentrazioni. La conseguenza è che la percentuale di spesa del turista a vantaggio di operatori nel paese di destinazione è molto bassa (per esempio, circa il 20% in Gambia, contro il 60% in Spagna), e riguarda soprattutto beni «superflui» e di basso costo, come artigianato locale e taxi. Non è un caso che in Africa, Asia del Sud e Medio Oriente la maggior parte degli alberghi sia di proprietà estera, e che solo una minima parte degli arrivi nei paesi in via di sviluppo avvenga tramite compagnie dei paesi stessi: nel caso del Kenya, ritenuto particolarmente positivo, soltanto l’11% degli arrivi avviene con la Kenyan Airways.
Inoltre, per incrementare uno sviluppo turistico che verrà poi gestito principalmente da multinazionali estere, spesso i governi utilizzano denaro pubblico per finanziare la costruzione di infrastrutture, provocando tagli a sanità, scuola, agricoltura.

PIÙ POSTI DI LAVORO?

Anche la creazione di posti di lavoro non sempre raggiunge le speranze attese. Mentre i ruoli di direzione sono tutti ricoperti da stranieri, la manodopera locale rimane generalmente priva di formazione, è relegata ai ruoli più bassi ed è spesso sottopagata e sfruttata. Baristi, camerieri, portieri, portabagagli di un hotel a 4 o 5 stelle possono avere un salario mensile inferiore al costo di una camera per una notte. Ma il settore turistico esercita un grande fascino sui giovani del luogo, che abbandonano le campagne, si spostano nelle zone turistiche, riempiono quartieri poveri e degradati che circondano alberghi lussuosi e attendono di essere chiamati per un lavoro stagionale e vulnerabile.
C’è chi sostiene che per un popolo povero un salario basso e precario sia meglio di niente. Dipende però dalle alternative possibili. Spesso il governo, per incrementare il turismo, priva la popolazione locale della terra o la distrugge per costruire villaggi turistici e complessi alberghieri, centri commerciali o campi da golf. Contadini, allevatori e pescatori vengono quindi letteralmente sfrattati e trasformati in disoccupati. Ecco perché, secondo molti studiosi, il turismo distrugge posti di lavoro. A questo si aggiunge anche la tendenza delle strutture alberghiere a privilegiare beni esteri anziché locali. Spesso il cibo è infatti importato, anche a causa di una distorta informazione e sensibilità del turista, che ritiene scadenti gli alimenti locali.
Quando poi il turismo rappresenta l’unica risorsa di un paese, per di più dipendente da clienti di paesi del Nord, basta poco per mandare a picco il fatturato dell’industria turistica per una o più stagioni. Periodi di recessione nei paesi di provenienza dei turisti, periodi di instabilità politica e crisi inteazionali, problemi sanitari locali, guerriglia, campagne di stampa che deviano i flussi turistici verso altre destinazioni. Il paradosso è che le mete più ambite dagli operatori turistici sono quelle politicamente più stabili, stabilità che nei paesi in via di sviluppo è spesso ottenuta a spese della democrazia, tramite dittature e regimi militari. Il che ci pone di fronte ad una domanda: è giusto fare turismo in paesi nei quali i diritti umani non sono rispettati?

PISCINE O FORESTE DI MANGROVIE?

Il turismo è generalmente concepito come alternativa soft allo sviluppo industriale. Interessato alla conservazione e valorizzazione di ambienti, culture, monumenti, siti archeologici, giardini e parchi naturali, di fatto in diversi casi ha spinto alcuni governi ad attuare politiche di protezione di habitat e di specie a rischio di estinzione, utilizzando anche finanziamenti inteazionali. In molti altri casi, invece, il desiderio di profitti sempre maggiori ha portato a consumare, logorare e distruggere proprio quelle risorse da cui lo stesso turismo dipende. Anche se basato spesso sulle risorse ambientali e le bellezze naturali, quando diventa di massa il turismo inquina e danneggia proprio l’ambiente che lo sostiene.
Strutture e infrastrutture per alberghi, alloggi e servizi, che deturpano il paesaggio, occupano suolo e distruggono habitat naturali; distruzione delle mangrovie, tipica vegetazione della costa tropicale, e dei banchi di corallo; deforestazione, con la conseguente scomparsa o il drastico ridimensionamento di fauna e flora locale; desertificazione; essiccamento dei fiumi per il prelievo di acqua; inquinamento delle acque dovuto ad acque reflue non o mal depurate, ma anche a perdite di petrolio e sottoprodotti della benzina scaricati dalle barche. È il risultato di un turismo di massa incontrollato, il cui impatto è ancora più distruttivo nelle terre vergini, il cui ecosistema viene sconvolto irreparabilmente.
In generale i turisti possono essere considerati come abitanti che si vanno ad aggiungere alla popolazione residente. Questo implica che lo stesso territorio deve supportare un maggiore livello di consumi (acqua, energia, cibo, ecc.) e smaltire più emissioni e rifiuti. A tutto ciò si sommano però le abitudini che molti turisti pretendono di conservare anche a migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese: riscaldamento, condizionatori, piscine sfruttano risorse naturali e inquinano. Le stesse attività dei turisti sul suolo e sulla vegetazione, sull’ecosistema marino e costiero, su foreste, parchi e dune comportano gravi danni: gli sport nautici, ad esempio, provocano danni irreversibili nei laghi; alle Isole Mauritius le barriere di corallo, indispensabili per l’equilibrio ecologico marino, sono già state erose per l’80%.
Quella del turismo rischia quindi di diventare, a suo modo, un’industria che sfrutta il territorio quanto quella mineraria o quella manifatturiera. E il rischio non sta solo nella scomparsa di risorse naturali, ma anche nella difficoltà di riconvertire intere aree ad altri usi (es. agricoli) nel caso di una recessione del settore turistico.
C’è infine un ulteriore elemento che generalmente non consideriamo ma che rappresenta il responsabile della maggior parte degli impatti ambientali associati al turismo a lunga distanza: il trasporto, che è la fonte di emissione di gas serra in maggior aumento nel mondo. Ogni volta che ci spostiamo, in automobile, in pullman o in aereo, consumiamo litri di benzina e liberiamo in atmosfera diversi metri cubi di anidride carbonica, la principale causa del cambiamento del clima e dei conseguenti fenomeni estremi come alluvioni, siccità, desertificazione, aumento del livello dei mari. Se siamo noi del nord del mondo a girare «in lungo e in largo» per piacere, saranno proprio le popolazioni del sud ad essere le più colpite dai cambiamenti climatici. In particolare, più del 90% dell’anidride carbonica emessa in un tipico viaggio turistico è dovuta al solo trasporto aereo.

UN NUOVO COLONIALISMO:
VILLAGGI TURISTICI E SESSO

Occidentali serviti e adagiati nel lusso, popolazione locale che spesso subisce un peggioramento delle proprie condizioni di vita per la presenza dei turisti. Un esempio fra tanti: l’enorme consumo di acqua negli alberghi, per docce, piscine, giardini e campi da golf provoca sia una fortissima riduzione delle scorte a disposizione sia il razionamento dell’acqua potabile per la popolazione locale. In molti casi non è più possibile coltivare e la popolazione rurale è costretta ad abbandonare la campagna. Il rischio, e in molti casi la realtà, di una relazione superficiale, distaccata e frettolosa tra il turista e la gente del luogo, è che si riproponga un modello di rapporti tipico del colonialismo. Il mancato incontro tra culture trova il suo apice e simbolo nei villaggi turistici, i resort. Di origine militare, il villaggio turistico riproduce il comfort, la sicurezza, gli stili e ritmi di vita occidentali in ambienti diversi e ostili: una sorta di prigione, uguale in tutto il mondo, dalla quale il turista non può uscire se non accompagnato, e nella quale la gente locale non può entrare, se non per lavorarci. Persino papa Giovanni Paolo ii, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo (9 giugno 2001), espresse forti critiche in merito.
Spesso la sola presenza di turisti rappresenta un’inevitabile fonte di frustrazione: i giovani locali soprattutto, di fronte ad un’evidente diversità nel tenore di vita e nei comportamenti, sono tentati da atteggiamenti di imitazione e avvertono maggiormente non solo la propria condizione, ma anche le limitazioni e le esclusioni imposte dalla presenza dei turisti, come ad esempio il non poter accedere a spiagge divenute di proprietà privata degli alberghi. La conseguenza è il trasferimento di valori, di modelli di consumo e comportamenti occidentali, che possono modificare la struttura sociale della popolazione, trasformandola da rurale a urbana, alterando i ruoli all’interno della comunità, dei rapporti familiari e tra i due sessi, provocando la crisi e spesso l’abbandono dei valori tradizionali e spingendo i più emarginati verso i limiti della legalità.
Tutto ciò è aggravato da comportamenti irrispettosi, impensabili in patria, che spesso i turisti in vacanza hanno nei confronti delle popolazioni locali e dettati dal meccanismo del «tanto qui chi mi conosce?».
I casi più gravi sfociano nel turismo sessuale. Secondo i dati, il turismo internazionale è considerato il massimo responsabile degli oltre due milioni di bambini costretti a prostituirsi: di questi 500.000 vivono in Brasile e il resto soprattutto nell’Asia meridionale e orientale (Thailandia, Filippine), dove migliaia di famiglie, spinte dalla miseria e spesso tratte in inganno, cedono i propri figli a un giro d’affari che si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari, e i cui «clienti» provengono dai paesi più ricchi della Terra, come Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia, Regno Unito.

CHE ATTORI
QUEI… «SELVAGGI»

Molto spesso l’incontro tra il turista e la gente del luogo si riduce a fenomeni di folklore. Ne sono un esempio i trekking tribali nella foresta o nel deserto, che possono durare da un pomeriggio a più giorni, organizzati da agenzie turistiche che pubblicizzano il «buon selvaggio» e la «natura incontaminata». Generalmente le visite sono così frettolose che è impossibile qualsiasi forma di scambio con i locali. Secondo Cohen, i gruppi tribali hanno ormai imparato a recitare la loro parte, e sanno quando rimanere immobili di fronte ai flash. Poiché gran parte dei guadagni di un pacchetto di trekking va alla guida e all’agenzia, nascono attività «complementari» come la vendita di manufatti artigianali, l’elemosina, o il farsi pagare per essere fotografati. Quando i villaggi tribali non si adeguano all’invasione del turismo, e coraggiosamente resistono rifiutando di vendere la loro cultura, capita che le agenzie ricorrano a veri e propri attori: raramente il turista si accorge della differenza o «fa finta di non accorgersene».
Quando popolazioni che hanno un forte radicamento dei valori tradizionali nella comunità locale riescono a sviluppare un rapporto equilibrato con il turismo, questo può invece rappresentare un’occasione di valorizzazione delle culture locali. Basti pensare ai kuna di Panama, una piccola popolazione indigena che è riuscita a mantenere il controllo della produzione e della commercializzazione di un prodotto artistico-artigianale come le molas, stoffe colorate sovrapposte lavorate dalle donne della comunità, delle quali sono riusciti a conservare anche i significati spirituali più profondi.

ANDANDO…
«A QUEL PAESE»


Da più di venti anni le agenzie di viaggio «classiche» sono state affiancate da altre che propongono un modo di viaggiare diverso. Non più hotel a 4 o 5 stelle, villaggi e club riservati, ma un viaggio in mezzo alla gente del luogo, sfruttando le loro stesse strutture o quasi. Viaggi che all’avventura (che spesso significa semplicemente fare ciò che i locali fanno quotidianamente per vivere) uniscono un rapporto nuovo tra viaggiatore e popolazione locale. Insomma, viaggi che si pongono il problema di «come andarci a quel paese»! Cosa significa fare turismo «alternativo»? Come fare un turismo che porti vero sviluppo nei paesi del Sud del mondo?
(Fine prima parte – continua)

BOX 1

La psicologia del turista

Una recente ricerca realizzata in Inghilterra ha individuato 4 tipi di turisti: i turisti di massa organizzati (coloro che comprano solo viaggi «tutto organizzato»); il turista di massa individuale (è più libero e autonomo dal gruppo, ma stabilisce rigorosamente prima della partenza l’intero svolgimento del viaggio); l’esploratore (cerca accuratamente itinerari poco frequentati o insoliti da fare da solo o in piccoli gruppi, per questo spende molto di più dei precedenti); infine il cosiddetto vagabondo (evita qualsiasi organizzazione turistica e cerca contatti diretti con la realtà locale, decide alla giornata dove recarsi durante il viaggio).
Ma la molla che porta a decidere la destinazione e il tipo di viaggio rimane sempre quello che i sociologi chiamano la «giustificazione» sociale, cioè l’accettazione nel proprio contesto sociale dell’azione che sta per compiere. Un operaio, che fino a qualche anno fa, se fosse andato a fare le vacanze alle Seychelles sarebbe stato guardato con sospetto o diffidenza, oggi non può fare a meno, «socialmente» parlando, di recarsi appunto nell’Oceano Indiano per trascorrere la luna di miele. (…)
Il turismo internazionale è sempre di più la valvola di sfogo per milioni di persone che si sentono «strette» nelle società di cui fanno parte, dove tutto è organizzato e tenuto sotto controllo, dove l’emozione è programmata e arginata. Per contro, l’immagine che le popolazioni dei paesi scelti dai turisti si fanno, è che tutti gli occidentali sono ricchi sfondati, non lavorano molto, amano dissipare i soldi, si vestono in modo indescrivibile e non conoscono alcun tipo di codice morale di comportamento.
Da: «Viaggiare ad occhi aperti», Icei

Box 2

Quando si scatta una foto…

Una delle principali attività che caratterizzano il turista è quella del fotografare. Le proiezioni di diapositive al ritorno dai viaggi sono ormai diventate un rito a cui i viaggiatori e gli amici dei viaggiatori si sottopongono inevitabilmente.
Quante volte abbiamo parlato, dialogato, con quelli che contraddittoriamente vengono chiamati «soggetti» delle fotografie, mentre invece ne sono gli oggetti. Forse, e mi metto tra coloro che hanno scattato molte foto nei loro viaggi, ci accorgeremmo che in molti casi quelle persone non le abbiamo neppure salutate, non ne conosciamo il nome, figuriamoci la storia.
Ci si presenta in un villaggio, in un’abitazione, a una cerimonia nascosti dietro le nostre macchine fotografiche e si scatta. E ciò che vediamo lo pensiamo già in funzione dell’immagine che vorremmo trae. Per questo scegliamo l’obbiettivo adatto e l’angolatura migliore. Là dietro, in fondo alla figura nel mirino, l’individuo inquadrato diventa un’immagine dell’individuo. Perde la sua personalità per acquistare quella che il fotografo intende assegnargli: mistico, esotico, pittoresco, selvaggio.
Questo approccio fotografico finisce per spersonalizzare inevitabilmente il rapporto tra fotografo e fotografato, innescando spesso dinamiche di tipo commerciale (i nativi che chiedono soldi per essere fotografati) che suscitano talvolta sentimenti di indignazione nei turisti.
Fotografare qualcuno o qualcosa significa reputarlo interessante, magari bello, non «normale». Ecco il problema di fondo: scegliendo un individuo come soggetto della nostra fotografia lo allontaniamo inevitabilmente da noi e lo trasformiamo in simbolo. Ne esaltiamo le differenze, stendendo un velo sulle similitudini. Più è diverso, più ci sembra interessante…
La lentezza, abolita dalla maggior parte dei programmi di viaggio, potrebbe divenire un valore se vissuta come mezzo per approfondire l’incontro, per diluire almeno un po’ la distanza esistente tra turista e nativo. Ad essere vissuta come valore del turista è invece la corsa a vedere quanto più possibile, a fare un elenco di luoghi più che a gustarli e a conoscerli. Basta passarci poche ore per dire di «esserci stati».
In ogni caso la fotografia diventa una compensazione alla brevità del viaggio: fisso un’immagine e poi me la rivivo a casa. Dall’altro si trasforma in un inevitabile strumento creatore di barriere.
Visto che le sensazioni prodotte dalla visione di una diapositiva non possono essere paragonate a quelle vissute nella realtà visitata, la mia modesta proposta a chi davvero vuole diventare «turista responsabile» (e anche a chi propone viaggi di questo tipo) è di provare a lasciare a casa la macchina fotografica e a rallentare il proprio viaggio. Non credo che questo basti a risolvere il dilemma etico del turista, ma forse qualcosa può cambiare. La realtà va osservata per ore, giorni, settimane, non a 1/125 di secondo e allora le persone possono vivere come tali e non come soggetti da inquadrare.
Da: Marco Aime, in «Solidarietà in viaggio»

BOX 3

Sarebbe bene sapere che…

Vacanze last minute, corse su internet alla ricerca delle tariffe aeree d’occasione. Ma cliccando su www.chooseclimate.org, con due click sulla mappa si può scoprire il vero costo di qualunque volo. «Se state cercando lidi caldi, sappiate che volare è uno dei modi più rapidi ed economici per cuocere il pianeta». Le emissioni di anidride carbonica, ossidi di azoto e vapor d’acqua degli aerei contribuiscono infatti in modo sostanziale all’aumento dell’effetto serra e quindi ai cambiamenti climatici. Per andare e tornare da Londra a New York ogni passeggero consuma circa 700 kg di carburante, 10 volte circa il proprio peso.
Fonte: Manuale delle Impronte Ecologiche, Edizioni Ambiente, 2002

«Noi Karen abbiamo protetto la nostra terra ricca di foreste per rispetto dei nostri antenati e dei nostri figli. Forse, se avessimo abbattuto le foreste, rovinato la terra e costruito una grande città come Bangkok, ora non correremo il rischio di essere sfrattati».
Fonte: Pwo Karen, Thailandia, citato in «L’arte del viaggio» di Michela Bianchi

I «consumatori» del turismo spesso portano con sé le proprie abitudini di vita e le proprie aspettative, che si tratti di docce calde o sciacquoni o di campi da golf ben innaffiati. Sull’Himalaya, permettere ai turisti di fare la doccia spesso significa utilizzare la legna e quindi accelerare la deforestazione. Alle Hawaii e alle Barbados è stato scoperto che ogni turista usa dalle 6 alle 10 volte la quantità d’acqua e di elettricità utilizzata dagli abitanti locali. A Goa gli abitanti dei villaggi costretti a recarsi a piedi ai pozzi sono dovuti restare a guardare mentre venivano costruite attraverso la loro terra le tubature che avrebbero portato l’acqua a un nuovo hotel di lusso. Negli ultimi dieci anni, il golf, a causa della sua fame di terreni, acqua e diserbanti, si è rivelato una delle attività più distruttive, tanto che in alcune zone del Sudest asiatico sono scoppiate delle vere e proprie «guerre del golf» (…) Per tenere in funzione un campo da golf occorre la stessa quantità d’acqua necessaria ai bisogni di un intero villaggio di alcune migliaia di persone. Si calcola che il consumo medio pro-capite d’acqua di un indigeno in Africa è di 10-15 litri al giorno; il turista ne consuma 300.
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti ambientali»

In un articolo uscito qualche anno fa sul South China Moing di Hong Kong, così veniva descritta la situazione di uno dei «paradisi» delle vacanze più gettonato, l’isola di Bali in Indonesia: «Gli abitanti si lamentano per la discriminazione che l’industria turistica esercita nei loro confronti, non possono sedersi sulla spiaggia di un grande albergo (buona parte del litorale), che subito arriva qualcuno che minaccia di chiamare la polizia. Alla gente del posto, poi, si proibisce di pescare, di organizzare giochi o cerimonie religiose perché, dicono i proprietari degli alberghi, potrebbero disturbare i turisti». A proposito di alberghi: «Sono numerosissimi – scrive il Moing – e la rete fognaria è assolutamente inadeguata, con effetti disastrosi sull’ecosistema della barriera corallina. Campi da golf e piscine consumano enormi quantità di acqua (500 litri al giorno per ogni stanza di albergo), mettendo in crisi il sistema di coltivazione del riso».
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti sociali»

Bibliografia essenziale:

• Solidarietà in viaggio. Alla scoperta della «Carta d’identità» per Viaggi Sostenibili, Roberto Varone, Cisv, Aitr, Cmsr, Icei e Mlal
• State of the World ’02. Stato del pianeta e sostenibilità, a cura di Gianfranco Bologna, Ed. Ambiente, 2002
• Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Duccio Canestrini, Feltrinelli, 2003
• Trekking tribale, di Marco Cordero, in Volontari per lo Sviluppo, agosto/settembre 2001
• Tourism Highlights, Edition 2004, Wto, World Tourism Barometer, Wto, Vol.3, No.1, January 2005

Siti internet:
www.world-tourism.org
www.tourismconce.org.uk
www.homoturisticus.com (a cura di Duccio Canestrini)

Silvia Battaglia




006-Così sta scritto – Così parla l’Amên Il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio

Parte seconda: il significato dell’Amen

La parola ’Amên spesso viene tradotta con «Così sia!», quasi un augurio, un buon auspicio. In aramaico e in ebraico deriva dalla radice ’amàn, che esprime l’idea di stabilità, solidità, fermezza. Il suo significato fondamentale è «essere fermo/stabile» e l’immagine è quella di una colonna che è ferma e sicura, al contrario della canna che è fragile e pieghevole a ogni soffio di vento (Lc 7,24).
In aramaico come in ebraico esiste una forma particolare di verbo che si chiama «causativa» (qualcuno causa/produce, fa fare qualche cosa). La forma causativa del verbo ’amàn è «rendere fermo/sicuro, fare stabile», da cui nasce il senso finale di «prestare fede, cioè credere». In questo senso, la fede è un’iniziativa di Dio, perché è lui la sorgente «causativa» che la fa essere e «rende stabile/fermo/sicuro» colui che crede. Di conseguenza chi è stabile/fermo /sicuro «gli presta fede», cioè «crede in lui» e si abbandona totalmente sulla colonna/roccia della sua Parola (Mt 7,24).
’Amên è una parola tardiva, passata dall’aramaico all’ebraico e successivamente anche nel greco della lxx (la bibbia greca usata dai giudei di Alessandria d’Egitto che non parlavano più l’ebraico). Non si trova mai nel Pentateuco, che raccoglie le tradizioni fondamentali della storia d’Israele, tranne il Deuteronomio, che è un libro recente (vii-v sec. a.C.) e fu protagonista sia della grande riforma liturgico-politico-religiosa del 621 a.C., promossa dal re Giosia, che della ricostruzione di Gerusalemme, autorizzata dal re babilonese Ciro, dopo l’esilio di Babilonia del 587 a.C.
Al tempo di Gesù, l’uso di ’Amên nelle sinagoghe di Palestina e della diaspora è comune. Ancora oggi ebrei e musulmani concludono benedizioni e preghiere con questa parola. Ogni volta che pronunciamo ’Amên, preghiamo con una parola che hanno pregato Gesù, sua madre e gli apostoli e gettiamo un ponte di preghiera tra tutti i figli di Abramo: cristiani, ebrei e musulmani.

Nella bibbia ebraica, la parola ’Amên ricorre complessivamente 34x (d’ora in poi: x = volte) di cui 26x come risposta di adesione/accettazione o come sigillo conclusivo di preghiera. Di queste 26x, se ne trovano 12x in Deuteronomio cap. 27, che tratta del culto e sempre nell’espressione: «Tutto il popolo dirà/dice: ’Amên!», come risposta alle maledizioni contro chi non osserva la Torah/Legge. Con questo significato di ratifica e di consenso ’Amên immedesima, fonde e unifica.
Nella bibbia greca (la lxx) si trova 12x; le altre 22x ’Amên è tradotto con l’espressione gènoito, che significa «voglia il cielo che così avvenga!».
Nel NT ’Amên ricorre 128x: 50x nei vangeli sinottici (Mt, Mc e Lc) sempre nell’espressione «’Amên/in verità io vi dico…»; 50x nel vangelo di Giovanni, sempre nella doppia espressione: «’Amên – ’Amên/in verità – in verità io vi dico…»; 28x come formula conclusiva di preghiera o di benedizione negli altri scritti, specialmente san Paolo, lettere di Giovanni, Ebrei, Pietro, Giuda e Apocalisse. Non ricorre mai negli Atti.

Il Talmud babilonese, nel trattato Shabàt 119b, insegna che i maestri d’Israele con le lettere di ’Amên facevano un acrostico: da ognuna delle tre consonanti di ’Amên (l’ebraico si legge da destra a sinistra: /’-M-N) facevano derivare una nuova parola, formando così la frase nuova: ’Elhoim Melek Ne’eman che significa «Dio (è) Re Fedele» (il segno «’» di ’Elhoim in ebraico è la stessa consonante iniziale di ’Amên). Ecco di seguito lo schema completo:

Dire ’Amên, quindi, non significa recitare una formula rituale, ma pronunciare una completa professione di fede in «Dio, mio Re Fedele», riconoscendo cioè la regalità di Dio e sottomettendoci alla sua maestà di Creatore e Padre. ’Amên è nel contempo atto di fede e atto di obbedienza filiale.
Gli stessi maestri rabbini insegnano che dire ’Amên una sola volta può essere sufficiente, sia al giudeo peccatore che al giusto non giudeo, per sfuggire alla dannazione eterna, perché chi dice ’Amên ha adempiuto la Legge.
Quando non si ha tempo per pregare, a causa di un imprevisto, si ha sempre tempo per dire ’Amên, che è il credo in un soffio, poiché in questa piccola parola c’è tutto il cuore dell’alleanza tra il Re, il Santo, e il suo popolo Israele che egli rende stabile e fermo sulla fede del Patto e dei patriarchi: «Dio [tu sei] mia roccia, mia fortezza e mio liberatore» (Sal 18/17,3; Es 32,4.15.18.30.31; 2Sam 22,2; Sal 42/41,10; cf Mt 7,25; Lc 6,48).
Dire ’Amên dunque significa proclamare che Tu, o Signore, sei il mio Re Fedele e su questa roccia io resto stabile e fermo in eterno. Possiamo professare questa fede ovunque e in ogni tempo: in viaggio, in autobus, in casa, in ufficio, prima di un impegno o un incontro, tra i fornelli o in mezzo alle pulizie, nel silenzio o in mezzo alla folla. Mentre aspettiamo che tornino i figli o le persone amate, il nostro ’Amên li accompagna sotto la custodia della fedeltà di Dio: Tu, o Signore sei loro Re Fedele, custodiscili nel tuo Nome. La maestà della Regalità di Dio sta al di sopra di tutto ciò che siamo, facciamo, amiamo e temiamo, e nello stesso tempo diventa fondamento/colonna della nostra stabilità di vita.
’Amên è uno scudo di benedizione di due sillabe con cui proteggiamo noi e coloro che incontriamo, amiamo o per i quali soffriamo: in due sillabe tutta l’eternità!

A pprofondiamo ancora. I numeri sono stati diffusi tra i secoli vii-xii d.C. dagli arabi, che sostituirono il sistema precedente, basato sulle lettere dell’alfabeto che erano usate come «numeri»: a ogni lettera corrisponde un valore numerico. Ciò avveniva nella cultura egiziana, fenicia, ugaritica, babilonese, ebraica, greca e latina. Questo rapporto tra lettera e numero è studiato da una speciale scienza che si chiama ghematrìa (cioè scienza dei numeri).
Se scomponiamo le consonanti aramaiche/ebraiche di ’Amên in numeri, scopriamo che il suo valore numerico è 91 (vedi riquadro).
Quando Dio si rivela a Mosè sul Sinai si presenta con il Nome di YHWH (Es 3,14-15). Ma questo Nome è tre volte santo e non può essere pronunciato, per cui gli ebrei, quando leggono la scrittura, incontrando il santo Nome Yhwh, con gli occhi leggono Yhwh, ma con le labbra pronunciano ’Adonài, che significa «Signore» in senso generico. Il valore numerico di Yhwh è 26, mentre quello di ’Adonài è 65 (vedi riquadro). Se sommiamo i valori numerici dei due nomi più importanti di Dio nella scrittura ebraica, cioè Yhwh + ’Adonai / 65 + 26, la somma fa 91, cioè lo stesso valore numerico di ’Amên, che è quindi la sintesi dei nomi di Dio.
I n conclusione, dire ’Amên significa entrare nel mistero stesso di Dio, nel suo nome impronunciabile che custodisce il segreto della sua vita (Yhwh) e in quello proclamato (’Adonai), che sulle labbra del credente fiorisce come un piccolo, immenso ’Amên.
Da tutto ciò si capisce perché i rabbini al tempo di Gesù proibivano di rispondere ’Amên a una benedizione affrettata o non pronunciata distintamente, perché si tocca l’onorabilità e credibilità stessa di Dio. Dice il Talmud babilonese, nel trattato Berakôt (benedizioni) 47a: «Insegnarono i nostri maestri: non si risponda né un ’Amên affrettato, né un ’Amên strappato, reso orfano (cioè senza avere capito la benedizione), né si faccia prorompere la benedizione dalla bocca (cioè in modo affrettato quasi a dare l’impressione che si abbia fretta di sbarazzarsi dell’obbligo di onorare il Santo: cf 1Cor 14,16)… Chi prolunga (= chi canta) ’Amên, gli saranno prolungati i giorni e gli anni…».
Non possiamo più stupirci, a questo punto, se nel NT ’Amên è il Nome nuovo del Cristo, figlio fedele ed esegeta del Padre (Gv 1,18): «All’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Tutto ciò dice l’’Amên, il Testimone fedele e veritiero, il Principio della creazione di Dio» (Ap 3,14).
La piccola parola ’Amên c’insegna che nella scrittura, come nella vita, nulla è casuale o banale o superfluo, ma tutto ha un senso, evidente o velato, che occorre svelare, perdendovi tempo, studio e meditazione. Anche le cose che apparentemente sembrano ovvie, se scrutate con gli occhi del cuore (Pv 23,26; Lc 24,31-32), rivelano profondità inaspettate e inesauribili: «Non passerà neppure un iota (’=y, la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico) o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,18).
Inesauribile è la parola di Dio, che supera tutte le generazioni; ma in ogni tempo può (e deve) essere mangiata (Ez 3,1-3) e ruminata per gustarne anche le sfumature, apparentemente insignificanti, perché nulla si perda: nemmeno le briciole (Mc 7,28; Mt 15,27).
Nel segno di un piccolo ’Amên, anche noi possiamo attendere con il desiderio e la certezza che nella vita eterna saremo introdotti da un ’Amên: «Colui che testimonia queste cose dice: Sì, vengo presto. ’Amên! Sì, vieni Signore Gesù!» (Ap 22,20).
Alle nostre lettrici e ai nostri lettori in qualsiasi parte del mondo, possiamo assicurare che ogni giorno il nostro ’Amên! si depone come una carezza e una benedizione su di loro e le loro famiglie, sulle loro giornie e sui loro dolori, specialmente sui malati nel corpo e nella speranza. ’Amên! ’Amên!. •

Paolo Farinella




005-Così sta scritto – Amen! Amen! (5)

Esdra benedisse il Signore, Dio grande,
e tutto il popolo rispose:

’Amên! ’Amên!
(Ne 8,6)

In questo e nel prossimo numero esaminiamo una breve parola che incontriamo spesso nel Nuovo Testamento (NT), passata in seguito nella liturgia e a cui non prestiamo la dovuta attenzione: è la parola aramaica ’amên: appena due sillabe, un soffio che si dissolve prima ancora di pronunciarlo, ma carica di significato e di memoria storica e affettiva.
È una parola che ha pregato anche Gesù, per cui ogni volta che la pronunciamo, dovremmo «dirla» con labbra e cuore circoncisi, perché preghiamo in aramaico come Gesù, come sua Madre, come gli apostoli e con loro stabiliamo un rapporto spirituale ed emotivo, che raggiunge le profondità stesse della fede. Chi dice ’amên è una cosa sola con il Signore Gesù.
In un certo senso è come visitare i Luoghi della memoria, andando in Palestina e respirando l’aria che lui respirava, vedendo il cielo che lui guardava, camminando per le strade che lui percorreva, sperimentando il deserto che lui ha sperimentato, attraversando il lago di Tiberiade come lui lo ha attraversato tante volte. Come magica è la Palestina, perché ci parla di lui, se la visitiamo con cuore puro, così le lingue che Gesù parlava (aramaico ed ebraico certamente, greco probabilmente, latino forse qualcosa) ci introducono nel suo mondo interiore, nella sua cultura, nell’anima del suo pensiero: c’immergono nella sua personalità.
La piccola parola ’amên è una chiave per accedere al suo cuore del Verbo incarnato e all’anima della sua divina umanità, perché Gesù la pronunciava nella preghiera, cioè in quel rapporto così particolare che solo lui poteva instaurare con il Padre suo. Il nostro cuore dovrebbe scoppiare di commozione emozionata e il nostro ’amên dovrebbe esprimere tutta la nostra intima gioia.
San Girolamo (347-420) testimonia che, nel suo tempo (iv-v sec. d.C.), nelle basiliche romane la parola ’amên «rimbombava come un tuono», fino a fae tremare le colonne.
Oggi invece assistiamo a liturgie tisicucce e malferme di salute, dove ’amên è buttato all’aria o biascicato senza voce, quasi di nascosto, come se fosse un affare privato e non un solenne e austero atto pubblico di fede. Quest’uso superficiale è il segno che la vita di fede, di cui la liturgia è specchio, può scadere in ritualità vuota, in formule vocali distratte senza passione e vitalità.

Uno dei problemi che si poneva la scienza biblica fino al secolo scorso riguardava la ricerca delle parole precise pronunciate da Gesù: era la questione delle ipsissima verba (le stesse/precise parole) dette da Gesù.
Sappiamo che i vangeli non sono un diario né la cronistoria della vita di Gesù: essi sono scritti occasionali, motivati dalle necessità delle comunità cristiane dove sono nati con lo scopo di introdurre alla fede in Gesù, creduto messia e Dio, oppure di rafforzarla in coloro che già credevano in lui.
Potremmo dire con una frase sintetica che i vangeli sono catechismi scritti da credenti per altri credenti. Essi riflettono la fede e la teologia delle comunità di riferimento degli autori. Non sono stati scritti a tavolino, ma hanno avuto un processo di elaborazione lento e complesso, intanto che nella chiesa del 1° secolo si diffondevano le lettere di Paolo e si diversificavano le comunità ecclesiali sia in Palestina che nel mondo greco.
Cercare nei vangeli le precise/identiche parole che Gesù avrebbe detto potrebbe essere una perdita di tempo, perché nessuno andava dietro a Gesù col registratore. Nella forma definitiva come li possediamo oggi, i vangeli furono messi per iscritto a cavallo tra il 65 e il 100 d.C., cioè dopo circa 35-65 anni dalla morte di Gesù.
Due evangelisti, Marco e Luca, non erano nemmeno apostoli (Luca nemmeno ebreo); mentre agli apostoli Matteo e Giovanni fa capo la riflessione della scuola di pensiero che da essi prende origine e che si sviluppa a partire dalla loro predicazione. I vangeli sono storici, ma non al modo nostro. Essi lo sono al modo degli antichi e quindi dobbiamo essere noi a indagare i testi per scoprie il senso.
Non sappiamo con esattezza matematica che cosa Gesù abbia detto, quali discorsi abbia fatto e quali parole abbia pronunciato in questa o quella occasione. Sappiamo che gli apostoli e altri predicatori, singoli o in gruppo, uomini e donne, hanno diffuso il suo insegnamento oralmente.
Successivamente, nelle varie comunità circolavano elenchi di «detti» o «fatti» (parabole e discorsi, miracoli o azioni) a uso dei predicatori o della liturgia che si svolgeva nelle case. Nella seconda metà del 1° secolo, quattro amici di Gesù mettono in ordine (Lc 1,3) quello che hanno sentito di lui e quello che hanno trovato già scritto su di lui, per aiutare le rispettive comunità a «fare memoria» del Signore Gesù, specialmente durante la liturgia, quando accanto alle letture giudaiche dell’AT si sentì l’esigenza di aggiungere anche la proclamazione di ciò che Gesù ha insegnato e operato durante la sua vita terrena (At 1,1), come compimento delle profezie. Sono i quattro vangeli e più in generale, tutto il NT. Ora le scritture si leggono a partire da lui: ai discepoli di Emmaus, infatti, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro le scritture» (Lc 24,27).
In questo lungo processo formativo delle scritture, che esprimono la fede della chiesa primitiva e danno fondamento «apostolico» al nostro credere, scoprire che Gesù nella sua breve vita (trentasei anni circa) certamente pronunciò innumerevoli volte la piccola parola aramaica ’amên come sigillo di tutti i suoi momenti di preghiera personale o pubblica quando frequentava in giorno di sabato la sinagoga di Nazaret o di Cafaao o il tempio a Gerusalemme «secondo il suo solito» (Lc 4,16), dovrebbe essere per noi ancora oggi, specialmente oggi, a distanza di 20 secoli, motivo di grande emozione.

Abbiamo talmente occidentalizzato l’uomo Gesù e anche la sua personalità divina, che abbiamo dimenticato che era ebreo, orientale e non aveva la pelle bianca. Egli era un figlio del sole e del vento, un figlio del deserto con la pelle olivastra e il portamento di un palestinese del sec. i d.C., con la gente parlava aramaico, mentre nel Tempio e in sinagoga pregava e leggeva in ebraico (Lc 4,16-17).
Gesù era un giudeo osservante. Sicuramente, entrando e uscendo dalla sua casa di Nazaret o da quella di Pietro a Cafaao, toccava e baciava sulla porta d’ingresso la mezuzah (stipite), piccolo astuccio contenente alcuni versetti di Esodo e Deuteronomio, in base a Dt 6,7: «Ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai».
Gesù portava i capelli lunghi, arricciati alle tempia, per ricordarsi sempre che Dio è il Signore e creatore fino agli estremi confini della terra. Durante la preghiera in sinagoga o nel tempio di Gerusalemme, metteva sul capo il tallìt gadòl (grande mantello), dai quattro angoli del quale pendevano gli tzitziòt (al sing. tzitzìt), cioè le frange fatte con un filo azzurro di lana o di lino con alcuni nodi, che avevano lo scopo di ricordare tutti i comandamenti, secondo le prescrizioni di Nm 15,37-41: «Li guarderete, vi ricorderete dei comandamenti del Signore, li metterete in pratica e non devierete dietro il vostro cuore o i vostri occhi» (cf Dt 22,12; cf Lc 8,44). Quattro verbi che racchiudono tutta la vita del credente: guardare, ricordare, praticare, non deviare.
Sempre, durante la preghiera, indossava anche i filattèri o tefillìn (da tefillàh = preghiera), scatolette di legno contenenti versetti biblici e che si legavano in fronte («in mezzo agli occhi»), sul braccio sinistro («sul tuo cuore») e sulla mano, secondo la prescrizione di Dt 6,4-9 (cf Mt 23,5).
I vangeli ci dicono inoltre che Gesù pregava spesso e, quando non poteva pregare di giorno, perché assediato dalla folla, pregava di notte o al mattino presto. La preghiera era il suo respiro.
Se leggendo il vangelo di Luca, si segnassero tutti i passi dove Gesù prega o è in atteggiamento di preghiera, si scoprirebbe che Lc scrive un vero e proprio «vangelo della preghiera». Vi troviamo, infatti, almeno nove testi diretti, in cui si afferma che Gesù prega personalmente (Lc 5,16; 6,12; 9,18.28.29;11,1; 22,32.41.44), altri in cui invita a pregare e altri in cui qualcuno prega per lui.
Alla luce di questo breve, ma esauriente e necessario contesto, nella rubrica del prossimo numero, ci sarà più facile comprendere il significato di ’amên, questa piccola-grande parola, sintesi sublime di preghiera, senza morire di stupore.

Paolo Farinella




004-Così sta scritto – Dio li benedisse e disse loro

Il verbo «benedire» e il sostantivo «benedizione», in secoli di pratica cultuale, hanno perso il loro significato originario. Vogliamo tentare di recuperare «una» dimensione biblica, senza pretendere di esaurire tutta la complessità di significato che questi termini hanno.
a) In accadico, kara¯ bu significa pregare, consacrare, benedire, salutare. In arabo, baraka esprime beneficio, flusso benefico che viene da Dio, dai santi, dalle piante, da cui benessere, salute o felicità. In ebraico, la radice brk da cui il verbo ba¯ rak, dotare di forza vitale, e il sostantivo bera¯ ka¯, forza salutare o vitale, ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio.
In Oriente, il termine ginocchio è un eufemismo, cioè un modo attenuato e indiretto per indicare gli organi sessuali maschili; in questo senso vi sarebbe una parentela con l’accadico birku, ginocchio e grembo.
b) Questi cenni etimologici dicono un nesso tra benedire/inginocchiarsi e benedizione/ginocchio, stabilendo un collegamento tra benedire/benedizione e gli organi sessuali maschili. Se qualche lettore si stupisce ora, lo invitiamo a proseguire nella lettura fino in fondo, garantendo che non siamo maniaci.
In base alle loro conoscenze «scientifiche», per gli antichi è l’uomo che trasmette la vita, mentre la donna è solo una incubatrice di seme. Discendenza, infatti, in ebraico si dice «zera’» che il greco biblico traduce con sperma (Gen 12,7; Gal 3,16). Ecco il senso: benedire significa trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo. Questa benedizione è unica: una volta data non può più essere tolta.

Quando si benedice Dio, si usa sempre il participio passato passivo ba¯ rûk, benedetto, perché in Dio la benedizione è uno «stato» permanente della sua persona, mai un augurio: «Sia benedetto!», che indica un compiersi nel tempo. Dio «è» Benedetto. Sempre. È la benedizione stessa.
Quando Dio benedice trasmette la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per rendere partecipi della sua pateità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”» (Gen 1,28), dove il nesso tra «benedire» ed «essere fecondi», cioè generare, è evidente.
Quando l’uomo benedice, trasmette tutta la sua energia di vita a colui che è benedetto. Ora si capiscono meglio le parole di Dio a Caino dopo il fratricidio (Gen 4,10). Dice il testo ebraico: «La voce dei sangui (demê, sic! plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui, cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio, perché futuro e presente sono legati in vita e in morte.
In Genesi 27 si narra la storia di Giacobbe che carpisce con inganno la benedizione al fratello Esaù, il quale implora per sé la benedizione; ma il padre Isacco non può riprendersi tutta la sua capacità generativa che ha trasmesso al fratello, il quale resterà benedetto per sempre (v. 33).
Esaù supplica il padre piangendo: «Non hai conservato per me una benedizione?» (v. 36); «hai dunque una sola benedizione?» (v. 38). Isacco non può più benedire Esaù, perché ha trasmesso tutto il suo seme promessa/premessa del futuro che cova nella sua potenza generativa a Giacobbe.
La benedizione/fecondità patriarcale conduce la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello; il padre lo accompagna con queste parole: «Ti benedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (28,3), che sono l’eco di Dio creatore in Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”».
c) La benedizione, come atto che trasmette la vita e la capacità di generarla in ogni relazione umana, comprende un gesto, l’imposizione della mano o delle mani, e una parola, che accompagna e spiega il testo. Il gesto senza la parola è solo mimica; la parola senza il gesto è solo suono evanescente. È la stessa dinamica della creazione: «Dio disse… e così fu».
Parola e fatto. Dabar/Lògos. La Parola è il senso dell’avvenimento, che è incarnazione della Parola. Non a caso gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità, di popolo, di popoli sono «le parole» con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che Dio parla agendo e agisce parlando: parola/fatto, cioè dabar.
In sintesi, benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione; in senso spirituale significa generare colui/coloro che si benedice. Altrimenti: chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice.

I l nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e, spesso, le parole si rincorrono a vuoto, approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra «parola» ed «evento» della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri.
La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, presidenti del consiglio, deputati, superiori, parroci, vescovi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza ai loro governati: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio.
Lo stesso vale per la vita di fede: rito e vita stanno insieme, altrimenti i sacramenti sono solo «rituali» amorfi e senza sapore. Inutili. Vuoti. Nel marasma politico che attanaglia il mondo intero e il nostro popolo, in questo momento grave della nostra Repubblica assistiamo a un genocidio delle parole, utilizzate come corpi morti, senza anima e senza vita, perché usate come strumenti per ingannare e camuffare la realtà, piegandola ai propri piccoli e meschini interessi. Oggi in Italia domina la logica dell’utile, non la dinamica feconda della benedizione generante.
Incaati nella storia, i cristiani hanno il dovere e l’onore di rendere testimonianza alla Parola con le loro parole accompagnate da gesti di verità e coerenza, affinché la loro vita e presenza nella storia siano una «benedizione di fecondità», capace di generare quanti incontrano sul loro sentirnero di carne, per ritrovare in ciascuno e in tutti il volto velato di Dio, il quale, benedicendo, ci rende fecondi di vita e artefici di Storia: profeti dell’amore, per amore e con amore.
È la benedizione della tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, che scende feconda e ri-generante su tutti i nostri lettori e le loro famiglie. Amen!

Paolo Farinella




A proposito di Così sta scritto – Dalla bibbia le parole della vita (4)

«Si paralizzi la mia destra mi si attacchi la lingua al palato»
(Sal 137/136,5-6)


La rubrica di questo mese è dedicata a una nostra lettrice, Maria Matilde, che ci scrive: «… da quando ero bambina leggo la vostra rivista, che allora aveva quattro paginette in bianco e nero… Volevo rivolgermi a Paolo Farinella che invita a farlo… sono stata allevata da un nonno che conosceva bene la bibbia… Quando voleva insegnarmi l’orrore delle bestemmie mi leggeva un brano che diceva: “Che si secchi la mia lingua, che si paralizzi la mia mano destra, se io offenderò Dio con la parola”… Non avevo mai più pensato a questo, fino a quando mio marito non è stato colpito da un ictus devastante, che lo ha lasciato senza parola e paralizzato nella parte destra. Poiché siamo sposati da 50 anni, posso garantire che non ha mai nominato il nome di Dio invano e che la maledizione biblica non lo riguarda. Vorrei che qualcuno mi spiegasse questo svarione biblico… mio nonno era convinto che anche le virgole della bibbia fossero verità assoluta. I miei saluti più cari… a tutta la redazione, con i complimenti per la rivista che è sempre molto interessante». Firmato: Maria Matilde.

La Parola e le parole
Alla nostra lettrice, cresciuta insieme a Missioni Consolata, abbiamo risposto privatamente, ma riteniamo giusto riproporre pubblicamente la sua domanda che può essere di qualche interesse per altri lettori, dal momento che tocca un testo «delicato» che si presta a interpretazioni equivoche, se non si posseggono gli strumenti adeguati del contesto storico.
Lo scrittore francese, il cattolico Maurice Blondel, soleva dire che i «cattolici hanno tanto rispetto per la bibbia… da non prenderla mai in mano», per sottolineare la grave distanza che separa la formazione dei credenti dal Libro che dovrebbe essere il «codice» della loro vita.
I padri della chiesa descrivevano la bibbia come una «lettera» d’amore spedita da Dio all’umanità (immagine usata anche da Paolo vi, quando, nel 1964, parlò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite).
La bibbia-lettera esprime il pensiero di Dio, ma con parole umane e descrive il suo progetto di mondo e di umanità, ma realizzato attraverso l’uomo, le sue riuscite e i suoi fallimenti. In altre parole, bisogna stare attenti a leggere la bibbia in modo «fondamentalista», cioè alla lettera, perché veramente ne verrebbero fuori molti «svarioni».
È necessario conoscere l’ambiente in cui i singoli testi furono scritti, gli autori, la cultura, le conoscenze, gli usi e i costumi del tempo. Sarebbe assai grave attribuire agli antichi sentimenti e convinzioni di oggi.
La bibbia è prima di tutto, come direbbe san Paolo (Gal 3, 24-25), un «pedagogo», cioè un maestro che accompagna la crescita degli alunni (noi), per cui il suo insegnamento è scritto in primo luogo per i contemporanei, cioè per coloro che immediatamente ascoltano e, in secondo luogo, per tutti i discendenti, quelli che vengono dopo. Sono questi, quelli che vengono dopo, cioè noi, che devono fare la fatica e avere la gioia di capire quello che è accaduto prima e cercare di conoscee le ragioni e dae anche le spiegazioni.
È ciò che stiamo facendo con questa rubrica, dove le conoscenze di uno, che ha studiato e studia più degli altri, vengono messe a disposizione di chi non ha avuto questa possibilità.
Tutto ciò premesso, si tranquillizzi la nostra amica: la malattia di suo marito non ha nulla a che vedere con la bestemmia e la secchezza della lingua e della mano. Anche il papa è stato colpito nella parola e non credo che abbia mai bestemmiato.
La malattia è parte della vita e si evolve secondo leggi naturali che fanno parte della realtà «creata», cioè finita e limitata. Non siamo Dio.
In tutto questo Dio non c’entra nulla, perché nessun padre ama la sofferenza dei figli; ma non c’è padre (e vale anche per Dio) che non sia coinvolto nel dolore dei suoi figlioli, fino a farsene carico, fino a diventare cireneo. Quando la malattia, il dolore, la morte accadono, Dio è «già» lì accanto, presente nell’ictus, nella paralisi, nel limite, nella sua impotenza, per dare la forza di sostenere la croce che la vita comporta giorno dopo giorno (Mt 6,34).
Dio è lì e noi siamo dentro di lui: ci contiene e ci sostiene. Anche quando la tempesta infuria e il mare agitato sembra avere il sopravvento e il Signore pare che dorma, incurante… lui è lì, Presente-assente, che domina ogni evento e guida la nostra piccola barca all’altra riva, verso un compimento di salvezza (Mc 4,37-41).

Il Salmo nel suo contesto
L’espressione «si paralizzi la mia destra, mi si attacchi la lingua al palato» è la citazione dei vv. 5-6 del Salmo 137 secondo la bibbia ebraica e 136 secondo la bibbia greca, detta dei lxx (settanta).
Il Salmo 137/136 è un lamento collettivo, composto durante l’esilio a Babilonia (attuale Iraq) nel secolo vi a.C., dove i dominatori si divertivano a torturare gli schiavi («nulla di nuovo sotto il sole» direbbe Qoelet 1,9), chiedendo loro di divertirli suonando e cantando per loro i canti che gli ebrei cantavano nel tempio di Gerusalem-me. Era come chiedere di profanare le cose sante per divertire soldati ubriachi. È come chiedere a uno di cantare i canti della messa in una bettola per un gruppo di ubriachi o a un musulmano di leggere il Corano in un postribolo per fare ridere gli avventori.
Cantare i «canti di Sion» (v. 3) in terra straniera per divertire gli aguzzini era equivalente a dimenticare la città santa, sede del tempio del Signore, e la sua distruzione; nello stesso tempo era una forma di «apostasia» dalla fede. I canti venivano accompagnati dalla lira suonata con la mano destra.
Dimenticare tutto questo per avere anche salva la vita non valeva la pena: era meglio che si seccasse la lingua e la destra per impedire lo scempio della memoria di Dio e del suo tempio. Ancora oggi, gli ebrei recitano questo salmo prima del pasto, per fare memoria del dolore della distruzione del tempio, anche quando si è sazi e soddisfatti; e le donne, nel fare la loro «tornilette» personale, lasciano sempre qualcosa fuori posto (ad es. una ciocca di capelli non pettinata, ecc.), in segno di lutto per la distruzione del tempio di Gerusalemme.
Quando un popolo vinceva in guerra contro un altro popolo, osservava rigide leggi allora universalmente condivise: gli uomini validi e le donne giovani venivano deportati in esilio come schiavi (Am 4,2-3); gli uomini deboli e le vecchie venivano lasciati a coltivare i campi; i bambini venivano uccisi, per impedire il futuro di quel popolo.
Poiché in quei tempi nulla si concepiva fuori di un ordinamento religioso, il vincitore consacrava anche la guerra al proprio dio: cose e persone venivano consacrate alla divinità e quindi erano «votate allo sterminio» (Gs 6,17; 7,1; 11,20): il bottino al tesoro del dio vincitore e le persone, dalle donne ai bambini, trucidati in sacrificio di vittoria. Questo è il senso degli ultimi tre versetti del salmo: «Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: “Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta”. Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra» (vv. 7-9). La legge dominante è la legge del taglione: occhio per occhio, morte per morte. La giustizia si placa solo nell’equilibrio della vendetta.
Con Gesù questa legge è capovolta in quella nuova del perdono fino a superare ogni aspettativa: non fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7. Cioè sempre.

Il nonno di Maria applicava le parole del salmista alla bestemmia, cioè leggeva la bibbia nel suo tempo, secondo le esigenze dei suoi giorni, perché la parola di Dio è sempre attuale.
È sempre «oggi».

Salmo 137 (136)

Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
2Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
3Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
«Cantateci i canti di Sion!».

4Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
5Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

7Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: «Distruggete, distruggete
anche le sue fondamenta».

8Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
9Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra



Paolo Farinella




003-Così sta scritto – Dalla bibbia le parole della vita (3)

«Adam, dove sei?»
(Gen 3,9)

«Chi sei, Signore?»
(At 9,5)

Porre domande e interrogarsi sul senso e la direzione della realtà è nella natura umana. L’uomo stesso è una domanda, un perché perenne. Non appena acquista l’uso della parola, il bambino popola la sua esistenza e la pazienza degli adulti con una teoria infinita di «perché?», che a loro volta sono premessa di altri interrogativi che disarmano gli adulti prosciugandoli nella loro capacità di risposta. L’uomo è assetato di conoscenza e la curiosità indagatrice lo porta sempre più oltre… a scoprire novità e orizzonti sempre più ampi.
Lo smarrimento, però, è sempre in agguato. L’uomo, come l’Adam dell’Eden, è insofferente del suo limite e cerca di superarsi, eliminando Dio dal suo orizzonte. Inutilmente, perché Dio resta il fine e il limite dell’uomo, in una parola, Dio è «il luogo» in cui convergono e si fondono la temporalità e l’eternità. Questa è la singolarità della persona umana: finitezza ed eternità, due cornordinate sempre in tensione tra loro. Il sopravvento dell’una o dell’altra a scapito del loro equilibrio, comporta conseguenze tragiche per l’uomo, per le sue relazioni con gli altri e per l’ambiente in cui vive.
La sovrumana potenza scatenata dallo tsunami che ha piegato e piagato il Sud-Est asiatico ha imposto agli uomini una visione fisica della impotenza dell’uomo e ha inferto (almeno lo si spera) una frustata terribile alla saccente onnipotenza dall’alto, della quale spesso l’uomo assalta, manomette e violenta la natura. Ecco la ragione della domanda sul «dove» dell’uomo di tutti i tempi che ci poniamo in questa rubrica.

Dopo le dieci parole/debarim con cui Dio crea l’universo e l’umanità, la prima parola/dabar che Dio rivolge all’uomo è un interrogativo che lo accompagnerà per sempre: «Dove sei?» (Gen 3,9). L’avverbio «dove» è più che un’indicazione locativa: esso indica una prospettiva e coinvolge la natura della persona umana di tutti i tempi. La parola di Dio non ha tempo, perché si pone «oggi» per interrogare l’attualità di ogni persona di ogni tempo.
Nessuno può oltrepassare il suo «oggi» e sfuggire al suo «dove sei?». Adam/persona, di fronte alle sue responsabilità e conseguenze delle sue scelte (non accettazione del limite, volontà di superare il confine umano, velleità di onnipotenza per sostituirsi a Dio, spodestandolo della signoria sul bene e sul male) si nasconde dalla familiarità con Dio, di cui ora ha paura (Gen 3,8.10). Ciò che prima era consuetudine d’intimità dialogica, diventa paura «preventiva»: prima ancora che Dio intervenga e ponga la domanda, Adam ha paura perché «sono nudo – ‘e¯rom» (Gen 3,10).
È la conseguenza di cedere al serpente, il più «scaltro/furbo – ‘a¯rûm» tra tutte le fiere della steppa. È evidente che l’autore della Genesi gioca al modo orientale, sull’assonanza ‘e¯rom/‘a¯rûm, nudo/scaltro, per mettere in evidenza che spesso scaltrezza e furbizia non sono altro che un nome diverso per indicare la nudità, cioè la inconsistenza e la vacuità.
Adam è nudo perché sfugge al suo «dove sei?» di cui non ha consapevolezza: questo stato d’inconsistenza lo porterà per sempre fuori del suo ambiente vitale, fuori dal giardino di Eden che era stato creato su misura per lui. Esule nella sua stessa umanità, profugo nella sua stessa carne, fuggiasco senza potere mai nascondersi da se stesso, l’uomo è rimasto senza un «dove», senza una prospettiva d’orizzonte.

Nella bibbia la nudità è segno di spersonalizzazione, come il vestito è segno di personalità. Conoscere il proprio «dove» significa sapere sempre a che punto si è della propria storia, della memoria che la lega e della maturazione che la marca. Il «dove sei?» è l’angolo di visuale da cui affrontare la vita, il futuro, i problemi che sorgono e da dove individuae la soluzione.
«Adam, dove sei?» significa: Adam, qual è la tua consistenza di individuo e membro di un gruppo sociale, famiglia, comunità? Quando ti rapporti con te stesso, con la donna, con gli altri, con la terra… come ti poni? Quale orizzonte hai di fronte alle tue responsabilità nei confronti della storia di cui sei artefice e conseguenza? Di fronte alla miseria che priva i due terzi dell’umanità di quella porzione di Eden cui hanno diritto, qual è il tuo «dove»?
Nel contesto di una politica ed economia mondiali che prosperano sulla guerra, immaginata addirittura «preventiva», che produce centinaia di migliaia di morti anonimi, carne da macello d’innocenti colpevoli solo di esserci in mezzo, qual è il tuo «dove»?
Di fronte alla ingiustizia di un sistema economico mondiale che produce sperequazioni e devasta l’umanità in modo permanente più di qualsiasi tsunami, «dove» si colloca la coscienza civile, occidentale e cristiana?
Di fronte alla deriva istituzionale della nazione, in balìa di un potere personalistico che spazzola il diritto ad libitum e accorcia la dimensione democratica della convivenza civile, eliminando la nozione stessa del «bene comune», patrimonio irrinunciabile per il credente, è essenziale stabilire il proprio «dove sei?» e rivelare il proprio angolo di visuale, libero da ogni ideologismo di maniera e di cultura.

Non si può essere credenti e/o cittadini per tutte le stagioni. Di fronte ai tour operator, che pretendono di applicare la penale del 60% sui viaggi del Sud-Est asiatico, disdetti dopo l’apocalisse, di fronte a quella manciata di turisti che non vogliono rinunciare alle tanto sognate vacanze negli atolli asiatici e chiedono la garanzia di non volere vedere nulla di «sconveniente», mentre nell’atollo accanto, visibile ad occhio nudo, tutto è fango, epidemie e tratta di bambini, bisogna stabilire e identificare il proprio «dove sei?» come esigenza di sopravvivenza civile, prima che spirituale. Non c’è limite all’indecenza umana!
No! Adam, non puoi ritirarti tra gli alberi del tuo privato, alla ricerca di un rifugio in cui rinchiuderti per non vedere le conseguenze dell’apocalisse tsunami. Anche se ti nascondi su una spiaggia dietro l’angolo, anche se ti difendi col paravento, il tuo «dove sei?» è più forte della indegnità e prima o poi esigerà una risposta e una spiegazione.
Il tuo «dove sei?» non è privato, esso è il «luogo» dove puoi riconoscere i tuoi simili come parte di te e da dove puoi spiccare il salto per andare oltre te stesso e aprirti alla condivisione con ogni uomo e donna di buona volontà per essere insieme, per affrontare insieme, per stare insieme presenti nella storia, che è dell’uomo e di Dio, nel tempo e nell’eternità. Contemporaneamente.
Insieme ci si può salvare, da soli possiamo solo morire, credendo di divertirci: così insegnava la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, i cui piccoli montanari avevano saputo cogliere e individuare il loro «dove» da cui guardare alla loro città, alla loro nazione, al mondo, di cui si sentivano cittadini a pieno titolo.

La domanda di Dio ad Adam sul «dove sei?», trova la risposta compiuta in un’altra domanda, posta da Saulo di Tarso, quando, disarcionato da cavallo sulla via di Damasco, si trova faccia a faccia con Colui che s’identifica con i perseguitati, vittime innocenti della ferocia persecutoria del fariseo zelante e fondamentalista, Saulo. «Egli (Saulo, caduto in terra) rispose: “Chi sei, Signore?”» (At 9,5).
Ora il «dove sei?» dell’uomo è stato illuminato dalla venuta del Logos/Verbo, la cui tenda è piantata nel cuore dell’umanità; e anche se le tenebre non lo accolgono, Egli resta la luce, quella che illumina ogni uomo in ogni «dove».
Dopo l’ingresso di Dio nella storia, «nato da donna, nato sotto la Torah» (Gal 4,4), tutto è illuminato, anche se in apparenza sembra buio senza confine; per questo la risposta dell’uomo non può essere che un’altra domanda, ma questa volta, centrata sulla stessa personalità di Dio: «Chi sei, Signore?».
Dal «dove sei?» della prima pagina della Genesi si passa al «chi sei?» della prima comunità cristiana. Non è più tempo di smarrire la prospettiva della vita, perché ora quella prospettiva ha i confini della risurrezione e dell’eternità. Resta solo il bisogno di ripristinare e rimettere in circolo quella familiarità con Dio che Adam aveva infranto con la sua paura «preventiva».
La risposta di Paolo è ancora più forte della domanda di Dio: «Chi sei, Signore?» significa: Signore, dammi la coerenza perché dal mio «dove» possa sempre riconoscere «Chi» sei negli eventi che scorrono la mia vita, nelle persone che incontro lungo la mia strada, nelle scelte che sono chiamato a fare, in quanto testimone della tua presenza.

Paolo Farinella




Dalla parte degli esclusi

A mezzogiorno le strade di Camaçari sono ancora deserte. La gente sta sbadigliando tra le lenzuola, mentre qualche netturbino toglie dal marciapiede i resti dei fuochi accesi davanti alle abitazioni durante la notte di follie. È la festa di São João. A fine giugno tutto il popolo di Bahia perde la testa.
Importata dai portoghesi, originariamente mescolava il culto dei santi cattolici con quello della dea delle coltivazioni Feronia, cara ai Romani. Ma adesso è completamente diventata bahiana: un’occasione per scatenarsi con il ballo del forró e sparare tutta la notte mortaretti e fuochi d’artificio.
Un uomo apre lentamente il suo chiosco di dolciumi, ha ancora la testa stordita da tutta la birra bevuta. Dal negozio di pompe funebri, con le porte spalancate sulla via, esce il canto di una radiolina. Una fuoriserie fiammeggiante supera svogliata un uomo a cavallo e nell’aria, all’ora di pranzo, l’unica cosa che vibra è la voce roboante del predicatore della «chiesa universale», una delle tante congregazioni d’affari spirituali, sorte negli ultimi decenni ad opera di sedicenti vescovi ricchi e potenti, con l’appoggio, si dice, degli americani, per contrastare la forza sociale della chiesa cattolica brasiliana.
Il predicatore per tutta la notte si è sgolato contro il diabolico forró, che trascina i giovani sulla cattiva strada dei mille peccati, consumati nel grande spettacolo musicale, offerto dal sindaco che, per farsi rieleggere, «ha stipulato un patto con il popolo e con la verità», come si legge sul cartellone pubblicitario.

M a la città non è solo festa. Qui funziona un grande polo petrolchimico e la Ford ci ha costruito uno stabilimento. Tra le ciminiere fumanti svetta anche l’insegna della Monsanto, l’azienda americana di prodotti per l’agricoltura, redarguita dal governo italiano per aver importato illegalmente partite di semi di soia geneticamente modificati.
A prima vista, Camaçari si direbbe una cittadina sviluppata, per via delle industrie; invece solo pochi raggiungono un salario minimo e sono i tecnici altamente specializzati; per tutti gli altri, la manovalanza, lo stipendio è misero a fronte, per di più, di un lavoro pericoloso, logorante e non protetto dai sindacati.
Si viene a creare dunque una situazione di estrema disuguaglianza. Le imprese moltiplicano i loro guadagni mentre un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, minacciata dalla disoccupazione, e il rischio della perdita di dignità, come persone e come cittadini, perpetua lo sfruttamento che fa del Nord-Est una delle regioni più arretrate del paese.
In questa difficile situazione socio-economica, i più colpiti sono i bambini. Non solo perché più esposti alle malattie respiratorie, provocate dall’inquinamento delle industrie chimiche, ma soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, vivono soli accanto alla madre, talvolta con un padre adottivo, che declina le proprie responsabilità di educatore.
Tale stato permanente di instabilità mina gli stessi rapporti umani, a volte inquinati da violenza e alcol, e spinge sempre più persone verso gli strati più bassi della società.
Q uando don Paolo arrivò a Camaçari si mise subito a lavorare con gli esclusi, come aveva fatto a Saõ Salvador, dove aveva difeso dalla prepotenza di politici e poliziotti il diritto alla casa di tante famiglie costrette a invadere terreni su cui costruire abitazioni fatiscenti.
Nei suoi 30 anni brasiliani, la pastorale di don Paolo è stata sempre rivolta a quelli che non hanno voce, quelli che si devono accontentare delle briciole, che tuttavia incarnano una protesta non-violenta, una innata rivendicazione affinché la storia umana possa voltare pagina.
Oggi il «fischietto», ossia Apito, l’associazione a lui dedicata, è una colorata scuola matea, un ambiente pedagogico creativo e mirato alla formazione dei bambini in sintonia con i loro genitori, ed è inoltre un progetto di accompagnamento di famiglie bisognose, non solo di beni materiali, ma anche di una nuova coscienza.
Le 50 donne volontarie che fanno parte del progetto si riuniscono frequentemente per organizzare visite a domicilio, monitorare i casi d’indigenza e realizzare attività manuali e artistiche che coinvolgono le famiglie nella ricerca di una più forte autostima e di una piena consapevolezza dei propri diritti politici e umani.
Applicarsi nella produzione di medicine alternative o di cibi naturali sfruttando la saggezza popolare diventa un mezzo efficace per far emergere capacità che la miseria e l’ignoranza tendono a oscurare.
La fantasia e la calda solidarietà di queste volontarie sono i veri strumenti civili per far alzare la testa a chi l’ha sempre tenuta tra le ginocchia. Tra di loro si avverte sempre un clima giornioso, perché nessuno giudica l’altro, perché si è allegri con semplicità, si va dritti al centro delle emozioni accettando quello che viene oggi.

Intanto il giorno si è fatto caldo. Mezzogiorno è passato e il fumo dei fuochi ormai si è del tutto diradato, sebbene in lontananza si senta qualche piccola esplosione.
In mezzo al traffico un ragazzo spinge un carretto pieno di cappelli di paglia che nasconde uno stereo e scuote la testa al ritmo della musica distorta che buca le casse.
Sembra che all’improvviso debba accadere qualcosa di sconvolgente. Alcuni dicono che non succederà mai nulla. Altri hanno speranza.

BOX 1

Trenta anni nella Bahia

Paolo Maria Tonucci nacque a Fano il 4 maggio 1939. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1962. Ottenuto il permesso di partire come missionario, arrivò in Brasile alla fine del 1965 e fu destinato alla parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella città di São Salvador de Bahia. Vi lavorò per 15 anni insieme ad altri sacerdoti, per lo più provenienti dalla diocesi di Firenze.
Nella distribuzione delle responsabilità, don Paolo si dedicò soprattutto al quartiere di Fazenda Grande, dove stabilì la propria residenza, in una stanza dietro la cappella. Qui istituì la scuola professionale Primero de mayo, per la formazione di giovani tecnici e l’alfabetizzazione degli adulti. Fu tra i fondatori e poi il responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace, per lo studio delle situazioni di ingiustizia e la difesa dei diritti umani.

Nel 1981, don Paolo lasciò la città di Salvador e si trasferì a 40 chilometri di distanza, nella cittadina di Camaçari, divenendone parroco. Con lo scopo di essere più vicino al popolo, per due volte don Paolo chiese la cittadinanza brasiliana, prima durante la dittatura militare (1964-1985), poi in tempo di democrazia. Gli fu sempre negata «per indegnità», in quanto negli archivi della polizia erano segnalati i suoi interventi in difesa dei senzatetto, proditoriamente sloggiati dalle loro baracche proprio dalle forze dell’ordine.
Il 19 ottobre 1992 il comune di Fano gli assegnò il premio «Fortuna d’oro», con la seguente motivazione: «Al missionario Paolo Maria Tonucci, per la sua attività umanitaria e spirituale a favore delle popolazioni povere del lontano Brasile e per aver saputo coraggiosamente lottare contro gli ostacoli e le incomprensioni di una dittatura militare».
Nell’agosto 1993 gli fu diagnosticato un tumore al cervello. A nulla valsero gli immediati ricoveri in Italia. Morì il 9 ottobre 1994 e fu sepolto a Fano.

Esattamente 10 anni dopo, contemporaneamente a Camaçari e a Fano, si sono svolte manifestazioni e incontri per commemorare il suo impegno di testimone del vangelo nel rispetto pieno della dignità umana.
Per l’ardore con cui lottò fino agli ultimi giorni a fianco dei diseredati, don Paolo è rimasto per sempre nei cuori dei brasiliani e di quanti, in Italia, lo hanno conosciuto. Coloro che hanno collaborato e vissuto con lui hanno dato continuità alla sua opera, costituendo due associazioni a lui intitolate in patria e in Brasile.
In Italia, il 5 dicembre 1996, fu costituita l’Associazione «Centro scuola don Paolo Tonucci» Onlus, con lo scopo di sostenere iniziative di promozione cristiana, umana e sociale delle persone più svantaggiate di Camaçari.
A Camaçari è nata l’Associazione Paolo Tonucci «Apito» (in brasiliano significa fischietto), che ha attivato diversi programmi sociali:
Fami-Apito si occupa delle circa 260 famiglie bisognose.
Centro-Apito attua programmi di educazione per l’infanzia, di cui usufruiscono 140 bambini dai 3 ai 6 anni.
Eco-Apito ha programmi di complemento scolastico per 120 ragazzi da 7 a 12 anni.
Arte-Apito è un biennio professionale per circa 80 giovani sopra i 14 anni.


Paolo Brunacci




002-Così sta scritto – Dalla Bibbia le parole della vita (2a. puntata)

DIO LI BENEDISSE E DISSE LORO:
«Siate fecondi…» (Gen 1,28)

Il verbo «benedire» e il sostantivo «benedizione», in secoli di pratica cultuale, hanno perso il loro significato originario. Vogliamo tentare di recuperare «una» dimensione biblica, senza pretendere di esaurire tutta la complessità di significato che questi termini hanno.

a) In accadico, kara¯ bu significa pregare, consacrare, benedire, salutare. In arabo, baraka esprime beneficio, flusso benefico che viene da Dio, dai santi, dalle piante, da cui benessere, salute o felicità. In ebraico, la radice brk da cui il verbo ba¯ rak, dotare di forza vitale, e il sostantivo bera¯ ka¯, forza salutare o vitale, ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio.

In Oriente, il termine ginocchio è un eufemismo, cioè un modo attenuato e indiretto per indicare gli organi sessuali maschili; in questo senso vi sarebbe una parentela con l’accadico birku, ginocchio e grembo.

b) Questi cenni etimologici dicono un nesso tra benedire/inginocchiarsi e benedizione/ginocchio, stabilendo un collegamento tra benedire/benedizione e gli organi sessuali maschili. Se qualche lettore si stupisce ora, lo invitiamo a proseguire nella lettura fino in fondo, garantendo che non siamo maniaci.

In base alle loro conoscenze «scientifiche», per gli antichi è l’uomo che trasmette la vita, mentre la donna è solo una incubatrice di seme. Discendenza, infatti, in ebraico si dice «zera’» che il greco biblico traduce con sperma (Gen 12,7; Gal 3,16). Ecco il senso: benedire significa trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo. Questa benedizione è unica: una volta data non può più essere tolta.

 

Quando si benedice Dio, si usa sempre il participio passato passivo ba¯ rûk, benedetto, perché in Dio la benedizione è uno «stato» permanente della sua persona, mai un augurio: «Sia benedetto!», che indica un compiersi nel tempo. Dio «è» Benedetto. Sempre. È la benedizione stessa.

Quando Dio benedice trasmette la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per rendere partecipi della sua pateità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”» (Gen 1,28), dove il nesso tra «benedire» ed «essere fecondi», cioè generare, è evidente.

Quando l’uomo benedice, trasmette tutta la sua energia di vita a colui che è benedetto. Ora si capiscono meglio le parole di Dio a Caino dopo il fratricidio (Gen 4,10). Dice il testo ebraico: «La voce dei sangui (demê, sic! plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui, cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio, perché futuro e presente sono legati in vita e in morte.

In Genesi 27 si narra la storia di Giacobbe che carpisce con inganno la benedizione al fratello Esaù, il quale implora per sé la benedizione; ma il padre Isacco non può riprendersi tutta la sua capacità generativa che ha trasmesso al fratello, il quale resterà benedetto per sempre (v. 33).

Esaù supplica il padre piangendo: «Non hai conservato per me una benedizione?» (v. 36); «hai dunque una sola benedizione?» (v. 38). Isacco non può più benedire Esaù, perché ha trasmesso tutto il suo seme promessa/premessa del futuro che cova nella sua potenza generativa a Giacobbe.

La benedizione/fecondità patriarcale conduce la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello; il padre lo accompagna con queste parole: «Ti benedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (28,3), che sono l’eco di Dio creatore in Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”».

c) La benedizione, come atto che trasmette la vita e la capacità di generarla in ogni relazione umana, comprende un gesto, l’imposizione della mano o delle mani, e una parola, che accompagna e spiega il testo. Il gesto senza la parola è solo mimica; la parola senza il gesto è solo suono evanescente. È la stessa dinamica della creazione: «Dio disse… e così fu».

Parola e fatto. Dabar/Lògos. La Parola è il senso dell’avvenimento, che è incarnazione della Parola. Non a caso gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità, di popolo, di popoli sono «le parole» con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che Dio parla agendo e agisce parlando: parola/fatto, cioè dabar.

In sintesi, benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione; in senso spirituale significa generare colui/coloro che si benedice. Altrimenti: chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice. 

 

Il nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e, spesso, le parole si rincorrono a vuoto, approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra «parola» ed «evento» della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri.

La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, presidenti del consiglio, deputati, superiori, parroci, vescovi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza ai loro governati: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio.

Lo stesso vale per la vita di fede: rito e vita stanno insieme, altrimenti i sacramenti sono solo «rituali» amorfi e senza sapore. Inutili. Vuoti. Nel marasma politico che attanaglia il mondo intero e il nostro popolo, in questo momento grave della nostra Repubblica assistiamo a un genocidio delle parole, utilizzate come corpi morti, senza anima e senza vita, perché usate come strumenti per ingannare e camuffare la realtà, piegandola ai propri piccoli e meschini interessi. Oggi in Italia domina la logica dell’utile, non la dinamica feconda della benedizione generante.

Incaati nella storia, i cristiani hanno il dovere e l’onore di rendere testimonianza alla Parola con le loro parole accompagnate da gesti di verità e coerenza, affinché la loro vita e presenza nella storia siano una «benedizione di fecondità», capace di generare quanti incontrano sul loro sentirnero di carne, per ritrovare in ciascuno e in tutti il volto velato di Dio, il quale, benedicendo, ci rende fecondi di vita e artefici di Storia: profeti dell’amore, per amore e con amore.

È la benedizione della tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, che scende feconda e ri-generante su tutti i nostri lettori e le loro famiglie. Amen!

Paolo Farinella

Paolo Farinella




001-Così sta scritto – Dalla Bibbia le parole della vita (introduzione e 1a. puntata)

INTRODUZIONE a «Così sta scritto» (Lc 24,46)

Auguriamo un buon anno ai nostri lettori, aprendo una nuova rubrica. Essa avrà una caratteristica particolare: sarà ancorata alla Scrittura e non deborderà fuori di essa. Forse qualcuno penserà che moltiplicare parole e scritti aumenta la confusione. Forse è così, ma noi pensiamo e crediamo di non cadere in questo tranello di vacue parole. Abbiamo rispetto di ogni singola «parola», perché riteniamo che abbia un’anima e un corpo, come le persone, ed è per questo che la nostra rivista non vuole essere una testata d’opinioni o di cultura fine a se stessa.

Ogni mese proponiamo un viaggio, un cammino, oseremmo dire, un «esodo» per le vie del mondo per cogliere, senza fingimenti e senza secondi fini, gli sprazzi di quella Parola che è disseminata nella storia e nella geografia dei popoli della terra. Ogni mese visitiamo il mondo per rendere testimonianza a Dio che il mondo è oggetto del suo regno e al mondo che Dio è possibile, attraverso la nostra credibilità, che rende accessibile e vicina la credibilità di Dio.

Siamo operatori missionari e non intendiamo smarrire il carisma del nostro Fondatore che, aprendoci al mondo, ci sprona a seguire le orme originarie e originali dei padri della chiesa, Giustino, Clemente di Alessandria, Origene, i quali osavano parlare di semina verbi (lógoi spermatikói). Guardiamo ai popoli e alle condizioni dei loro figli con fede, ma anche con verità, senza coltivare interessi di alcun genere, che non siano quelli della fedeltà alla nostra coscienza e al vangelo. Nel linguaggio biblico, «coscienza» è equivalente di «cuore»; «vangelo» è la parola che si fa annuncio di una Persona, che a sua volta si comunica a noi con una Parola di senso e di plenitudine.

La nostra rivista è fatta di «parole» che commentano la «Parola» che si è fatta cioè carne vivente e vita palpitante nella carne e nella vita delle singole persone, dei singoli popoli, nell’insieme delle nazioni, nell’umanità. Specialmente l’umanità che geme e soffre le doglie dell’abbandono e povertà, sfruttamento e guerre sempre ingiuste e tracotanza dei popoli sazi e gaudenti in mezzo a un oceano di miseria; umanità che grida al cielo la realizzazione del «beati i poveri…» e il dono necessario del «pane di ogni giorno».

Con questo nuovo appuntamento, di mese in mese, in qualsiasi parte del mondo faremo il nostro «esodo/viaggio», sosteremo un poco all’ombra della Scrittura e mediteremo una parola, una frase o un detto, come se centellinassimo un bicchiere d’acqua fresca nella calura di un giorno afoso.

Questa rubrica è aperta e interattiva: i nostri lettori possono suggerire loro stessi eventuali piste di riflessione, purché siano di natura biblica, perché vogliamo rispettare l’impegno assunto nel titolo stesso: «Così sta scritto…», (in greco Lc 24,46: hoútõs gégraptai), che nella bibbia ricorre 94 volte circa e sempre riferito alla legge/parola di Dio.

Ecco il nostro obiettivo: essere in ascolto di Dio per essere in ascolto degli uomini e donne del nostro tempo. Credenti strabici, con un occhio al cielo e un occhio alla terra: la messa a fuoco di questi due estremi è l’armonia perfetta, il natale cristiano che celebra il Bambino, Uomo-Dio. Non l’uno senza l’altro. Auguri di buon anno 2005!

 

(*) Nota sull’autore:

Paolo FARINELLA, prete di Genova, biblista ed esperto di Medio Oriente (dove ha lungamente vissuto), da un anno combattivo collaboratore della nostra rivista, inizia con questo numero una nuova rubrica che cercherà di collegare le parole della Bibbia con i fatti della vita quotidiana.

«Così sta scritto…» verrà pubblicata con cadenza mensile o bimensile. L’autore è disponibile anche ad un dialogo con i nostri lettori. Buona lettura, dunque.

Paolo Farinella

 

 

«In principio era il Lògos»

«In principio… Dio disse…  

In principio era il Lògos/Verbo/Discorso-Parola»

 

L a bibbia ebraico-cristiana si apre con queste parole: «Nel principio… Dio disse… – Bereshìt… wayyiòmer Elohim (ebraico) – En archê… eîpen ho theòs (greco). Nella prima pagina della Genesi, nel racconto della creazione, scritto dopo l’esilio di Babilonia (v-iv sec a.C.), per ben 10 volte ricorre l’espressione «E Dio disse»; tale ripetizione corrisponde alle 10 generazioni patriarcali annotate nello stesso libro della Genesi, alle 10 piaghe inflitte al faraone, emblema del potere schiavista di tutti i tempi, e infine alle 10 parole di libertà, i comandamenti, che Dio offre a Israele ai piedi del Sinai.

Alle 10 parole della creazione corrispondono 10 risultati, perché il testo biblico conclude sempre con: «E così fu». Il «principio», il fondamento di ciò che esiste è una parola che comunica ciò che esprime, fino al punto di suscitarlo come realtà vivente (il sole, la luna, le stelle, gli alberi, i pesci, gli animali, l’uomo e la donna). La Parola non è vuota, ma creativa, genera relazioni viventi e proficue, perché ogni realtà che nasce dalla parola di verità produce frutto «secondo la propria specie».

 

A lla prima pagina della Genesi, risponde come una eco la prima pagina del vangelo di Giovanni: «In principio era il Lògos», parola ebraica e greca insieme, che non si può pienamente tradurre in italiano senza perdee un pezzo per strada. Questo Lògos che è «in principio», al v. 14 «carne fu fatto». Il cielo e la terra, l’eterno e il temporale, l’immutabile e il mortale: «Lògos-sarx», cioè Parola-carne. Consistenza divina e fragilità coesistono senza annullarsi, ma l’uno alimenta e illumina l’altra.

Se il «principio/fondamento» della creazione è la parola soltanto pronunciata, che crea in forza della sua potenza, senza bisogno di manipolare materia, nel Nuovo Testamento, il «principio/fondamento» è da ricercare nella fragilità della condizione umana, che svela e identifica la persona stessa di Dio, perché «il Lògos è Dio».

Queste espressioni nella loro sintetica pregnanza ci inducono a riflettere oltre il chiasso delle morte parole che coprono i giorni degli uomini e donne, che spesso con i loro cicalecci si smarriscono dietro un telefonico dell’ultima generazione, uccidendo nella banalità e nel nulla l’anima intima delle parole e quindi della comunicazione.

Oggi tutti parlano, ma pochi comunicano e per strada vedi gente che parla da sola, mentre sta parlando con altri del più e del meno. Le parole si sprecano all’indefinito, ma hanno cessato di danzare la vita che portano dentro di sé. L’inflazione delle parole vacue stanno uccidendo la parola parlante e il silenzio d’ascolto.

A ogni parola di Dio corrisponde un fatto. In ebraico «parola» si dice «dabar» e «fatto/evento» si dice «dabar». Lo stesso termine «dabar» significa contemporaneamente «parola e fatto», due cose che nella nostra cultura occidentale sono considerate opposte. Quando Dio parla, crea; e quando crea, parla. In Lui la parola corrisponde alla sua identità e, quando è pronunciata, manifesta la sua consistenza e la sua identità. La Parola di Dio è un macigno di verità e coerenza.

Non è un caso che il massimo della rivelazione, operata dalla Parola, si realizza nell’incarnazione della stessa Parola/Lògos nel corpo fisico di una persona, che è Gesù di Nazaret, figlio di Maria e figlio dell’Uomo. In altri termini, la Parola vera non viene mai meno alla sua natura, che è quella di generare una relazione generativa, un rapporto d’amore, una comunicazione di vita.

 

V iviamo in un tempo in cui le parole si sprecano, le promesse si moltiplicano, le menzogne lastricano le vie; e il frutto sono la delusione, la paura del futuro, l’amarezza e la sfiducia negli altri e nelle istituzioni, alimentate scientificamente dalla menzogna istituzionalizzata a strumento di persuasione e di coercizione: è la parola tradita, il vuoto e l’inganno camuffato da parola. È l’omicidio della comunicazione.

Dall’altro lato, in un tempo in cui la parola non ha più la dignità che le compete, «tacere» di fronte all’emergenza della vita e allo sfacelo dei singoli e dei gruppi, è una colpa grave che pesa sulla «coscienza-cuore» di quanti hanno la responsabilità di annunciare, «opportune, importune» (come insegna san Paolo: 2Ti 4,2), non parole di convenienza o di circostanza o, peggio ancora, di opportunismo, ma la «parola» di consolazione e di verità, per sostenere la speranza delusa dei piccoli e dei poveri e il desiderio di quanti fanno fatica a camminare sulla via del bene e della verità. La parola del credente, oggi, deve assumere in sé il peso dello scoraggiamento collettivo, la croce che schiaccia chi non ha voce e diventare «urlo» che sale dal profondo per scalare le vie del cielo: «Dall’abisso grido a te, o Signore» geme il salmista (Sal 130/129,1). Solo così la parola è profezia e la profezia è annuncio che accade «oggi», per leggere alla luce di Dio l’«oggi» dell’uomo. I credenti che rinunciano alla profezia della testimonianza della «Parola divenuta carne» sono un impedimento al cammino della storia e un ostacolo al regno di Dio. 

Toi la parola, maturata nel silenzio e frutto di ascolto, a risuonare sulle vie del nostro mondo, a scuotere le coscienze intorpidite e morfinate da chi impedisce con ogni mezzo che singoli e popolo riprendano possesso del proprio pensiero e capacità di scelta. Toi la parola di chi ha responsabilità di autorità, a indicare la via della Genesi e di Giovanni. Così sta scritto… «In principio Dio disse…», sperando che qualcuno «oggi» risponda come rispose «In principio il Lògos» che «carne fu fatto». Spetta a ciascuno di noi, «oggi», decidere di essere «dabar», parola/fatto che resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità.

Paolo Farinella