Tanto sottili, tanto assassine

Che cosa respiriamo?

Si chiamano micropolveri (Pm10, Pm2,5, Pm1) o nanopolveri (Pm0,1). Hanno dimensioni talmente piccole da risultare di difficile comprensione. Ma ci sono e fanno danni pesanti: sulla salute individuale, su quella collettiva e sul futuro. Nonostante ciò, l’uomo ne produce sempre di più.

Parlare di polvere può sembrare banale: tutti noi sappiamo cos’è. La polvere si annida dappertutto e per rimuoverla occorre una scopa, uno straccio e tanta fatica.
Si può usare anche un aspirapolvere, che la rimuove e la fa finire in un sacchetto di carta con caratteristiche tali da funzionare come un filtro. In questa puntata di Nostra Madre Terra, noi non parleremo di quella polvere, ma di una polvere molto più fine, che riesce a superare anche il filtro dell’aspirapolvere. Qualcuno, cambiando il sacchetto dell’aspirapolvere, avrà notato una polverina molto fine, simile al borotalco, che si annida all’interno dell’apparecchio e che, purtroppo, non viene trattenuta dai filtri e ritorna nell’ambiente.
Da alcuni anni si stanno studiando le interazioni tra queste polveri inorganiche finissime e l’organismo.

Le polveri: dimensioni e provenienza

Le polveri sottili si dividono in nanopolveri e micropolveri.
Le nanopolveri hanno un diametro tra 10-9 e 10-7 metri, cioè tra un miliardesimo di metro e un decimo di milionesimo di metro. Le micropolveri sono più grandi: tra 10-6 e  10-5 metri, che vuol dire che sono comprese tra un milionesimo ed un centomillesimo di metro.
L’unità di misura più comunemente utilizzata per queste misure è il µm (micron), che è il millesimo di millimetro, cioè 10-6 metri.
Tutti noi abbiamo sentito parlare delle PM10, che sono quelle polveri che vengono misurate per valutare il livello di inquinamento nelle città. La sigla PM10 identifica le particelle che hanno un diametro di 10 µm, ovvero 10 millesimi di millimetro.
La legge attualmente in vigore individua due valori limite di PM10:
– il primo è un valore limite di 50 µg/m³ come valore medio misurato nell’arco di 24 ore da non superare più di 35 volte/anno;
– il secondo come valore limite di 40 µg/m³ come media annuale.
Queste particelle si possono trovare in natura e possono coprire grandissime distanze.
Sono prodotte dai vulcani, dagli incendi, dai fulmini e dall’erosione delle rocce (da parte del vento e dell’acqua).
La sabbia del deserto è un esempio evidente: l’abbiamo vista cadere, a volte insieme alla pioggia, e sporcare le automobili e i vetri delle finestre. Si tratta di sabbia che, per effetto dei venti, ha percorso migliaia di chilometri.

Le micropolveri: le difese del corpo umano

Le polveri fini inorganiche prodotte dalla natura non hanno grossi effetti sulla nostra salute, perché sono in quantità molto ridotte e si trovano solo in rare occasioni, ad esempio durante le eruzioni vulcaniche.
Il nostro organismo è molto ben difeso dalle polveri di dimensioni maggiori. Mentre respiriamo, le polveri più grossolane si fermano nel naso e quelle di dimensioni inferiori si fermano nella trachea e nei bronchi, raggiungendo le parti più profonde del polmone in modo inversamente proporzionale alle loro dimensioni.
Le micropolveri PM10 si fermano nel naso e nella gola, le PM2,5 raggiungono i bronchi più piccoli e le PM1 arrivano fino agli alveoli polmonari. All’interno dei bronchi esiste un meccanismo mirabile per ripulirli: si tratta di un sottile strato di muco a cui la polvere si fissa. Questo muco non sta fermo, ma, per effetto del movimento delle microscopiche ciglia delle cellule che rivestono i bronchi, il muco viene sospinto verso le vie aeree superiori fino al retrobocca, dove viene espulso con la tosse o deglutito, insieme con la polvere.
Queste polveri, evidentemente, possono causare irritazione delle vie aeree e qualche fastidioso «mal di gola».

Le nanopolveri: niente riesce a fermarle

Molto diverso è il discorso che riguarda le nanopolveri (inferiori a PM0,1), che dopo essere state inalate, si possono trovare nel sangue già dopo circa un minuto e di seguito possono raggiungere tutti gli organi (fegato, reni, ecc.).
Alcuni studiosi hanno dimostrato che queste particelle nel sangue aumentano la produzione di fibrina, in altre parole favoriscono la coagulazione del sangue all’interno delle arterie e delle vene formando i cosiddetti trombi, che possono essere causa di infarti, di embolie e di ictus.
Queste particelle, che a tutti gli effetti sono corpi estranei, possono essere causa di granulomi all’interno dei tessuti: i granulomi sono una reazione dell’organismo alla presenza di germi o sostanze in grado di fare danni; per effetto dell’infiammazione si forma un tessuto di difesa che, nel tempo, può anche causare il cancro.
È chiaro che soltanto la sabbia del deserto e le eruzioni vulcaniche non sarebbero un grosso problema per la nostra salute, ma, purtroppo l’uomo è diventato un grande produttore di nanopolveri, che si sviluppano soprattutto per effetto delle attività manifatturiere.

Polveri, ma «a norma di legge»

Sono grandi produttori di polveri le fonderie, le acciaierie, le centrali elettriche, gli aerei, le cave e le miniere a cielo aperto, i cementifici, i cantieri e le attività di saldatura dei metalli.
Anche i veicoli sono produttori di nanopolveri, non solo per le emissioni dei motori, ma anche per l’usura dei freni, delle gomme e, naturalmente, dell’asfalto.
Una nota a parte la meritano i grossi veicoli con motore Diesel, ad esempio i SUV, che vediamo sempre più spesso in città (su questa moda devastante e diseducativa si legga alle pagine 66-67). Questi veicoli sono dotati di un filtro che dovrebbe ridurre le emissioni delle PM10, le micropolveri controllate per legge nelle città. In realtà, questi filtri fermano effettivamente le PM10, che, si noti, vengono espulse dopo essere state degradate a dimensioni molto più ridotte e, attenzione, più micidiali, ma «a norma di legge», nel senso che la legge tiene conto solo delle polveri PM10, che si fermano nelle prime vie aeree e vengono espulse con qualche colpo di tosse. Abbiamo visto che assai peggiori sono gli effetti delle polveri con granulometria più fine, delle quali la legge non prevede un controllo.
Purtroppo troviamo nanoparticelle anche negli alimenti (ad esempio, nelle farine, per effetto della macinatura industriale) e nei farmaci, dove vengono aggiunti talco o silicati come eccipienti delle pastiglie.
Altre nanoparticelle si possono trovare negli edifici, per effetto del degrado dell’intonaco dovuto al tempo, ma anche per il rilascio di fibre di amianto da parte di tubi di eternit, di pannelli interni e di linoleum, che, fino ad epoca relativamente recente, sono stati realizzati con questo pericolosissimo minerale (si legga MC, maggio 2007).
Per curiosità, ricordiamo anche certi dentifrici e alcune gomme da masticare, che dovrebbero ripulire i denti per effetto dell’aggiunta di abrasivi, i quali non sono altro che polvere di vetro.

I pericoli (taciuti) dell’incenerimento

Una nota a parte la meritano gli inceneritori di rifiuti ed, ancor più, i cosiddetti «termovalorizzatori» (si legga MC, marzo e giugno 2007), che più sono modei e più emettono nanopolveri. Sembra un paradosso, ma, per evitare, per quanto possibile, l’emissione di diossine, si tende ad aumentare la temperatura del foo, fino a mille gradi e più. Le alte temperature sono responsabili dell’emissione di grandi quantità di nanoparticelle, la cui composizione è la più disparata, potendosi trovare anche metalli pericolosi come il piombo, il mercurio, il cadmio, il cromo, ecc.
Tutte le volte che un manufatto di composizione eterogenea, come lo sono i rifiuti, viene incenerito ad alta temperatura, vengono emessi nell’aria i vari elementi che lo costituivano sotto forma di atomi non legati fra loro; questi ultimi possono di seguito riaggregarsi in modo disordinato sotto forma di leghe, che non troverete mai in un trattato di metallurgia, perché sono il frutto della combinazione casuale degli atomi.
Il fatto che agglomerati «strani» si possano trovare nell’aria e all’interno dell’organismo di persone, che abitano nei paraggi di un inceneritore consente di affermare, con sicurezza quasi assoluta, che tali nanoparticelle provengono dall’inceneritore, perché soltanto le alte temperature possono sintetizzare leghe casuali, che non sono biocompatibili né biodegradabili e non figurano tra gli inquinanti ricercati di norma nelle emissioni dell’inceneritore.
Parlando di nanopolveri prodotte dalle alte temperature, non bisogna dimenticare gli effetti dell’uranio impoverito, usato nelle munizioni delle armi modee e associato con gravi malattie non solo dei soldati, ma anche delle persone che vivono in aree di guerra o vicino ai poligoni militari.
L’uranio impoverito è un’arma formidabile, perché riesce a perforare anche le corazze più robuste per via della grande forza di penetrazione e del fatto che esplode a 3.000 gradi «polverizzando» i bersagli. È verosimile che le gravi malattie riscontrate siano determinate non solo dalle radiazioni dell’uranio, ma anche dalle nanopolveri, che entrano nell’organismo e determinano reazioni non del tutto prevedibili e, in ogni caso, sicuramente non benefiche.
L’uranio impoverito emette una modesta quantità di radiazioni alfa, che sono le più pericolose per l’organismo. Gli esperti dicono che basterebbe un foglio di carta per fermare queste radiazioni e che si potrebbe dormire tranquilli con un proiettile di uranio impoverito nel cassetto del comodino. Il fatto grave, però, è che dopo l’esplosione anche l’uranio si trova disperso nell’aria sotto forma di nanopolveri e può raggiungere il sangue e gli organi interni, dove le radiazioni possono fare danni non trovando nessuna barriera.
Tutta la questione che riguarda l’uranio impoverito è ancora oggetto di studio e le uniche tragiche certezze sono i tumori dei soldati e le malformazioni dei loro figli.
Tutto il discorso sulle nanopolveri dovrebbe indurre ad una attenta riflessione sulle attività dell’uomo, che sta devastando l’ambiente non solo con mezzi di distruzione, ma anche con lo sviluppo di tecnologie che tendono a produrre sempre di più e sempre più velocemente.

I costi della velocità

La velocità è la causa principale dell’inquinamento, sia per la necessità di maggiore energia, che per la notevole produzione di polveri.
E non si parla solo dei veicoli a motore. Una delle attività più antiche (e nobili) dell’uomo è la lavorazione del legno per la realizzazione di suppellettili e altri oggetti di uso comune, a volte di notevole pregio.
Il legno è il prodotto naturale per eccellenza; si potrebbe pensare che il falegname sia un lavoratore che non corre rischi a causa della sua attività. Invece stiamo osservando un numero crescente di tumori delle fosse nasali e dei seni paranasali, dovuti all’inalazione delle polveri di legno, che si sviluppano con l’uso di strumenti modei (e veloci) usati nella lavorazione. In questo caso, il progresso ha determinato un aumento della polvere sviluppata, che essendo sempre più fine ha potuto penetrare all’interno del corpo. I tumori dei falegnami sono molto invasivi e richiedono interventi chirurgici demolitivi e terapie radianti, che spesso interessano anche gli occhi, lasciando esiti molto gravi.
I lavoratori utilizzano molti strumenti, che oltre ad aiutarli nell’attività possono anche essere causa di infortuni, di malattie professionali e di inquinamento dell’ambiente non solo lavorativo.
A titolo di esempio, vogliamo descrivere due macchine che possiamo osservare nelle nostre città e che potrebbero dimostrare quanto possa essere pericoloso il cosiddetto «sviluppo tecnologico».
La prima è una sega circolare che taglia l’asfalto prima di iniziare a scavare nei cantieri. A parte il rumore assordante, lo sviluppo di polvere è impressionante e si tratta di polveri sicuramente pericolose: l’asfalto è fatto di catrame mescolato con pietrisco che, nella migliore delle ipotesi, è composto da silicati, ma potrebbe contenere anche amianto. La macchina dispone a volte di un piccolo getto d’acqua per abbattere le polveri, però l’acqua asciuga presto, la polvere resta nell’ambiente e viene sollevata dal traffico veicolare.
La seconda meriterebbe un premio per la follia: si tratta di un soffiatore portatile, che evita di usare la scopa per rimuovere le foglie cadute dagli alberi. L’addetto, provvisto di cuffie (per il rumore) e di mascherina, utilizza una specie di grande asciugacapelli con motore a scoppio, per spostare le foglie, sollevando nubi di polvere, facendo rumore e inquinando con le emissioni del motore, che, in genere, è un motore a due tempi, che brucia una miscela di benzina e olio ed è, di gran lunga, il motore più inquinante tra quelli a combustione intea.

Napoli e dintorni:  disinformazione e colpe

Mentre scriviamo (gennaio 2008), tutti i media (anche inteazionali) parlano dell’emergenza rifiuti a Napoli… Fare informazione corretta è vitale per stimolare le amministrazioni ma anche i cittadini a fare molto di più contro l’inquinamento. Nella storia del pianeta noi siamo la prima generazione che respira un’aria diversa da quella della generazione precedente.
È fondamentale che l’informazione raggiunga anche i singoli individui e che venga trasmessa da genitori e insegnanti ai giovani, al fine di stimolare comportamenti finalizzati al risparmio energetico (coibentazione delle abitazioni, sostituzione delle vecchie lampadine con quelle fluorescenti, utilizzo ragionato degli elettrodomestici, utilizzo di fonti energetiche rinnovabili).
L’utilizzo dei mezzi di trasporto motorizzati dovrebbe essere limitato alle situazioni di stretta necessità; in molti posti si può andare a piedi o in bicicletta risparmiando soldi e preoccupazioni legate al traffico, alle code e ai parcheggi.
In Italia, la raccolta differenziata dei rifiuti è altamente insoddisfacente (si va dal 30 all’8 per cento!), forse perché richiede una grande collaborazione da parte di noi tutti. È possibile raggiungere percentuali molto elevate di materiale riutilizzabile separando in contenitori diversi i rifiuti organici, il vetro, la carta, la plastica, i metalli. Con un minimo di volontà ed attenzione è possibile raggiungere percentuali di raccolta differenziata che superano il 70%.
Se pensiamo che un inceneritore di rifiuti produce circa 350 chilogrammi di ceneri per ogni tonnellata di rifiuti prodotta, possiamo renderci conto che la raccolta differenziata può sostituire vantaggiosamente l’incenerimento con incomparabili vantaggi per la nostra salute.
Un inceneritore di media taglia, capace di trattare un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette quotidianamente oltre 5 milioni di metri cubi di fumi.

Purtroppo, nel caso dei rifiuti, la tutela della salute delle persone non va d’accordo con gli interessi di alcuni gruppi industriali e dei politici che li assecondano, confidando sulla scarsa informazione sui rischi o peggio sulla disinformazione da parte della televisione e dei giornali.  Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Una moda devastante e diseducativa

L’invasione dei «SUV»

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

Di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (16) L’amore precede sempre il pentimento

«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35)
«Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39)

Immobile, in corsa
Il ritorno del giovane figlio non è esaltante: in cuor suo non è sicuro dell’accoglienza del padre. Per non sbagliare, infatti, lungo il viaggio si prepara e impara a memoria il discorsetto con cui commuovere il «vecchio». Da questo suo modo di ragionare, implicito nel testo, si evince che il figlio non conosce il cuore del padre che considera come un padrone. Cominciamo a capire perché è scappato «dal padre»: non ne aveva mai conosciuto la personalità e il cuore. Egli ritorna lento nel passo e pesante nel cuore, consapevole di avere perduto ogni diritto legale. Il padre al contrario corre e si precipita «addosso» al figlio, consapevole di una cosa soltanto: il figlio gli ritorna vivo. Al figlio in partenza interessava «il patrimonio», al padre che resta interessa «la persona» del figlio.
Da un punto di vista etico, è il padre che prende l’iniziativa, rimettendo in moto il processo generativo per giungere a un nuovo parto. Non a caso, come abbiamo visto, Luca ricorre al vocabolario della gestazione e parto per descrivere gli atteggiamenti matei del padre che accoglie il figlio. L’incontro è drammatico; in pochi versetti l’autore costruisce una scena forte espressiva di contrasti, come in una scena drammaturgica: alla lentezza del figlio che torna si contrappone la frenesia del padre che corre.
È un comportamento contro natura: per la mentalità orientale correre è comportamento disdicevole. La persona che corre, specie se riveste un’autorità, «perde la faccia» e cioè mette in gioco il suo onore. Un padre o un maestro non corre verso il figlio o il discepolo: sono questi che devono andare e correre verso il maestro o il padre. La logica sottintesa è che la persona matura e saggia non corre, ma «sta» perché il saggio non ha mai fretta.
Per logica, sebbene estrema, semmai avrebbe dovuto essere il figlio in quanto giovane e inesperto a correre verso il padre e questi avrebbe dovuto aspettare ritto e fermo sulla soglia di casa. Non sappiamo quanto tempo è durata la vacanza del figlio giovane, ma nel capovolgimento dei comportamenti, noi scorgiamo la gravità e la pesantezza della realtà. Tutto si capovolge: il padre perde la dignità per affrettare il godimento del figlio.

Pateità preveniente
Da una parte c’è un uomo, partito da figlio per essere libero da ogni regola e costrizione anche affettiva, che ora ritorna solo con la disponibilità a fare il servo. Suo unico bagaglio è la richiesta di diventare un salariato che è meno di un servo. Questi infatti resta nella casa e fa parte del casato; il salariato esiste in funzione del lavoro: quando manca, il salariato viene mandato via. Dall’altra c’è il padre che non ha mai cessato di essere tale anche quando il figlio in un paese lontano sperperava la «sua vita». La pateità non si esaurisce mai: più i figli la sperperano più essa si rafforza e ingigantisce. È il segreto dell’essere di Dio e del conseguente suo agire: la pateità di Dio è preveniente perché anticipa sempre la debolezza dei figli e se ne fa carico. Il bacio del padre al figlio è il segno eloquente del ripristino dell’intimità senza riserve.
La conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo a Dio come pegno per ricevere il suo perdono; al contrario, essa è la conseguenza dell’amore di Dio che  perdonando prima ancora di essee richiesto, pone le condizioni e suscita la conversione del cuore che è sempre un dono e frutto della grazia. Nessuno di noi è capace di conversione, solo il Signore può convertire: «Facci ritornare e noi ritoeremo» (Lam 5,1). Non è il figlio che ritorna di sua spontanea volontà o iniziativa, ma è il padre che lo attrae e lo attira a sé, mettendo in movimento tutte le possibilità che condurranno alla salvezza definitiva.
Il Dio di Gesù non pratica la religione del «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te»; questa dinamica conduce soltanto alla logica della prostituzione, mentre quella di Dio è la salvezza della persona in vista della quale Dio previene anche il desiderio, come insegna pure Dante a proposito della intercessione di Maria: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso, xxxiii,16-18).

Quale peccato?
I versetti 21 e 22 sono tormentati: l’edizione critica riporta un’infinità di varianti di molti codici che a tutti i costi vogliono armonizzarli con il v.18, facendo ripetere al figlio l’intero discorso che si è preparato e rallentando così l’irruenza del padre «precipitoso». Questo tentativo di restaurazione è in funzione chiaramente ecclesiale: si vuole mettere in evidenza l’atteggiamento umile e penitenziale del figlio che chiede perdono e lo chiede in forma completa o come si direbbe in morale in «forma integra». In questo modo il perdono del padre viene dopo la richiesta di perdono del figlio: ciò rispecchia la prassi della confessione sacramentale o monastica che vede il perdono subordinato alla contrizione. Un caso evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chiarezza del testo lucano che antepone il perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio.
L’evangelista sottolinea che il figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli apparteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi…» (v.12), ora invece sottolinea che non è il «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato…» (v. 21). La stessa invocazione ha un suono diverso, perché pronunciata in circostanze diverse con atteggiamenti diversi e cuore diverso. Là il padre era un ostacolo da fare fuori, qui è il padre come rifugio e misura della colpa. Il figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua colpa non è morale, ma relazionale. Non ha peccato perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divertito – queste restano azioni ignobili e moralmente condannabili -, ma qui il suo peccato consiste nel non avere conosciuto il padre e nell’avere interrotto la relazione padre-figlio e figlio-padre.

Oltre l’integrità, la totalità
Del «peccato» abbiamo spesso una concezione materialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccupazione maggiore di un confessore era (o forse lo è ancora oggi?) salvaguardare l’integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l’entità dei peccati, lasciando spesso nel penitente il dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccato non è «una cosa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratelli. Non a caso Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comandamento con un duplice esito: l’amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell’amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,40 e 18,22). Peccare non è cosa facile e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, morire diventano il nostro stile di vita ed è la fede. Il contrario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha messo «un paese lontano» (v.13), cioè un abisso invalicabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre.
Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avrebbe potuto attendere sulla soglia di casa, mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. Il figlio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendolo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di figlio al ruolo di servo. «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «padre» senza alcuna connotazione ed è il segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l’altro termine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d’essere figlio».

«21Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di es-ser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto…».

Peccatori presuntuosi
Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccato contro il padre è anche un’invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienza che il suo peccato non è solo contro il padre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione totale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l’idolatria del vitello d’oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me» (Es 32,33). Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» il padre (Es 21,15.17) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora il padre (Dt 27,16; cf Pr 20,20) perché «chi deruba il padre è compagno dell’assassino» (Pr 28,24). È questo il contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all’interno di questo quadro di riferimento che risplende ancora più potente la figura del padre sia sotto il profilo legale che religioso.
Quando ancora era in «un paese lontano», solo e impuro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discorso da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi dipendenti» (Lc 15,18). Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il discorso che già è stato reintegrato prima ancora che chiedesse perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di essere ancora figlio che il padre gli tappa la bocca e il figlio non riesce a dire che accetta di essere trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere essere perdonati può costituire un grave peccato perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stessa richiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di averglielo chiesto.

Amare con le due tendenze
Spesso i nostri rapporti con Dio sono improntati a legalismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che patea. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto il perdono e spesso, come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficile da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giusto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che senso ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centimetro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? Agendo così noi proiettiamo in Dio il nostro modo di essere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi attribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimentichiamo che Dio è sempre più grande del nostro peccato, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro limite (cf 1Gv 3,20). Per questo i rabbini spiegano il motivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi sono due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, una verso il bene e una verso il male. Il vero credente è colui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quando abbiamo coscienza di fare il male, noi non possiamo cessare di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anche quando noi siamo infedeli perché il Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9).
Davanti al figlio che rinuncia al suo essere figlio, negando così al padre la possibilità della pateità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di significato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero.    (continua – 16)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliorl prodigo» (15) La corsa dell’amore senza decoro

«(Gesù) cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatornio» (Gv 13, 5)

Abbiamo lasciato il figlio giovane nella decisione di partire verso casa. Siamo giunti a una svolta che crea una condizione nuova: ogni decisione di vita, anche se motivata insufficientemente, genera sempre un cambiamento che coinvolge chi la compie e quanti ne sono interessati. In tutta la prima parte della parabola il «padre» è nominato solo tre volte (v. 12), mentre nel resoconto del viaggio del figlio «senza salvezza» (v. 13) non è più nominato, anche se noi sappiamo che la sua presenza costante e fedele segue il figlio fino al punto da costringerlo a tornare a casa. Chiedendo la porzione di vita del padre (v. 12), il figlio non si accorge che volendo abbandonare tutto si porta dietro la vita del padre che non lo abbandona mai.

L’amore sa vedere da lontano

La partenza, anzi il ritorno al padre, coincide con la «risurrezione» del figlio e la ripresa della vita. Al v. 20a, infatti, dice il testo greco alla lettera: «Dopo essere risorto, partì». Non è una partenza qualsiasi, ma un andare verso quel padre da cui non vedeva l’ora di allontanarsi. L’aspirazione più grande del figlio era di allontanarsi dal padre, mentre ora la necessità di vivere impone di tornare al padre come condizione minima e vitale di sopravvivenza: anche se per vivere bisogna fare il servo. La forza che attrae il figlio che è più forte della morte, è la presenza del padre che anima e sostiene le deboli decisioni del figlio.
Non è ancora partito, non è giunto ancora all’orizzonte che il padre «sa già» che suo figlio sta arrivando. Nel v. 20b si esprimono in una intensità drammatica cinque azioni del padre, il solo che «ancora lontano» sa rinascere il figlio senza vederlo: vide, fu commosso nelle viscere, corse, si gettò sul collo e lo baciò. «Tutto» il padre è coinvolto in questo processo di ritorno: occhi, cuore, gambe, braccia e mani, bocca. È la descrizione dell’amore senza tornaconto e senza misura, che quando si realizza coinvolge anima e corpo, cuore e sentimenti.
L’amore sa vedere da lontano e anche per sperimentare la misericordia bisogna «vedere». La visione di Dio è l’aspirazione di ogni religione e fede. «Vogliamo vedere Gesù» dicono i greci a Filippo e Andrea (Gv 12,21); «Venite e vedete» risponde Gesù ai discepoli di Giovanni il Battezzante, i quali «andarono e videro» (Gv 1,39). Mosè arde dal desiderio di contemplare il volto di Dio: «Fammi vedere la tua Gloria» (Es 33,18) allo stesso modo del giovane innamorato che brama l’innamorata: «Fammi vedere il tuo viso» (Ct 2,14).

L’amore vede lontano

«Il padre lo vide». In questa espressione non c’è solo la vista di uno che arriva e appare subito familiare. No! C’è la dimensione interiore del padre, che aspettava da sempre il figlio: prima di vederlo con gli occhi, lo vide con il cuore; anzi, prima ancora che comparisse all’orizzonte, sentì nell’anima che quel figlio non era perduto, ma stava tornando. L’amore non ha distanze e non teme ostacoli.
Quando diciamo di amare Dio, ci accontentiamo di uno sguardo distratto, di un rapporto razionale, ma forse non sappiamo andare oltre le regole del buon senso. L’avverbio greco «makràn» (lontano, distante) misura l’abisso dell’amore del padre che è inversamente proporzionale alla distanza del figlio: più il figlio è distante, più invade l’animo del padre. Il padre è una potente calamita che attira il figlio anche da lontano e lo attrae al suo cuore. Il figlio non sa, non conosce la forza che lo spinge, ma ne è coinvolto e quando è all’orizzonte, prima ancora di vederlo, il padre ne percepisce la presenza e corre, corre, corre precipitandosi verso di lui perché il suo cuore «sa già» che è lui.
Nell’impatto dell’incontro nessuna parola, solo una convulsa gestualità di affetto. Padre e figlio comunicano con la fisicità dei loro corpi, perché quando l’amore esplode, nessuna parola del vocabolario è sufficiente a esprimee la pienezza e totalità. Resta solo il silenzio d’amore che parla attraverso i gesti del corpo. In questo senso la corporeità acquista una valenza fortemente spirituale, perché diventa l’anima visibile e palpabile.
Bisogna vedere non solo da lontano, ma bisogna anche sapere vedere lontano per cogliere i segni di una presenza che solo nella profondità e lungimiranza si può scrutare. Che fare con quel figlio dato per morto? Agli occhi del padre deve essere apparso come uno spettacolo miserevole, un uomo ridotto in schiavitù, un figlio mezzo morto e perduto, eppure quegli occhi sanno vedere oltre, contemplano la visione del figlio in quanto tale, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Un padre comune, potremmo dire un padre «ovvio», a questo punto per prima cosa avrebbe fatto una predica al figlio e lo avrebbe inchiodato in un senso di colpa da cui difficilmente si sarebbe salvato. Il padre della parabola al percepire il figlio ancora prima di vederlo, mentre era lontano, ritrova la vita. Certo, il figlio ha sperperato la sua vita in un paese lontano, ma ora torna e riporta solo le briciole di quella vita che ha disperso senza senso e senza salvezza. Il padre sa che deve ripartorire quel figlio, se vuole che rinasca di nuovo. Anche il figlio, ora, lo sa.

L’amore rimette in moto la vita

Dopo la «visione» il padre «fu commosso nelle viscere». Luca usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthē» che traduce l’ebraico rahàm (da cui rèchem, utero, e il suo plurale rachamìm, uteri, viscere interiori). Da questo termine deriva anche ciò che noi esprimiamo con la parola misericordia. L’ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3): il soccorso dato a qualcuno, l’aiuto donato è sempre un gesto generante.
La traduzione della Bibbia Cei, che rende con «commosso», non fa giustizia al testo che invece intende e descrive un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore a perdere, che solo una madre e un padre sanno sperimentare: il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio, qui rappresentato dal «padre», non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Ecco lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona perché vuole fare rinascere a vita nuova.
Il sapiente Siracide aveva criticato il padre le cui viscere si sconvolgono a ogni grido del figlio (cf Sir 30,7), mentre l’innamorata del Cantico si sente sconvolta nelle viscere, quando l’amante cerca di forzare la porta per entrare da lei (Ct 5,4) e infine il profeta Isaia afferma l’impossibilità per una madre di abbandonare il figlio a se stesso: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15). Geremia invece ci ricorda che Dio, nonostante l’infedeltà di Efraim, prova per lui un amore di tenerezza: «Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza» (Ger 31,20).
In tutti questi testi in ebraico si usa il verbo o il sostantivo «rachàm, rèchem» e il Siracide che è scritto solo in greco usa il sostantivo corrispondente «splànchina», restando quindi tutti nel contesto del significato fondamentale: un amore generativo senza calcolo e senza aspettative che Davide invoca dopo il duplice peccato di omicidio e di adulterio: «Sii grazioso, o Dio nella tua tenerezza, nell’abbondanza delle tue rachamìm (viscere matee) puliscimi dalle mie ribellioni» (Sal 51/50,3).

Un Dio recidivo

È interessante notare come lo stesso verbo nella stessa costruzione sintattica è usato da Luca altre due volte sole. Nella parabola del Samaritano (Lc 10,25-37) che mentre si trova in viaggio passa accanto a un suo acerrimo nemico, «lo vide e n’ebbe compassione». Il secondo verbo in greco è reso da «esplanchnìsthē» (Lc 10,33). Un nemico che sperimenta un amore viscerale, generativo è un atto rivoluzionario che incrina la logica dell’odio e vendetta.
Nel racconto della vedova di Naim, Gesù «è scosso nelle viscere» (Lc 7,13) di fronte a una donna senza marito che perde anche il figlio. Qui lo scuotimento interiore previene una catastrofe: una donna in quelle condizioni poteva diventare schiava, perché senza protezione, senza uomo. In tutti e tre i casi Lc descrive un ritorno alla vita, una rigenerazione delle persone coinvolte.
Il padre, secondo l’usanza del tempo, avrebbe dovuto attendere il figlio fermo, in piedi sulla soglia di casa, invece troviamo un uomo che corre disordinatamente, perdendo la sua dignità: «Correndo cadde sopra il collo di lui e lo baciò (teneramente)» (v. 20). Con nove parole (in greco) l’evangelista riesce a dipingere una scena drammatica e straordinaria: il padre che corre, inciampa nel figlio nella foga di toccarlo, lo investe quasi a volerlo riportare dentro le sue viscere patee, lo bacia senza ritegno e senza fine. È un modo simbolico per esprimere il desiderio di «mangiarselo» per riportarlo dentro il suo cuore reintegrando la sua condizione di figlio rigenerato.
L’irruenza del padre che irrompe nella vita del figlio della parabola lucana, è espresso dall’autore con una co-struzione orecchiabile (tecnicamente si dice «onomatopèica, fare lo stesso nome-suono»): epèpesen epì tòn tràchēlon. Il verbo epèpesen (cadde) è costruito ripetendo due volte la preposizione «epì-», che in italiano significa «sopra» e non è assolutamente possibile rendere con tutta l’intensità del greco: «Cadde sopra, (proprio) sopra il collo di lui».

Perdere la dignità per restituire l’onore

L’accenno esplicito alla «corsa del padre» è significativa: secondo il costume del tempo (sia in Oriente che in Grecia, a Roma), l’uomo che «corre» compie un gesto ignobile, contrario alla sua dignità di uomo e di «capo» con una autorità legale e sociale. Avere fretta significa non rispettare il tempo necessario a ogni cosa e l’uomo che corre ha fretta e con ciò dimostra di essere ineducato e inferiore. L’uomo maturo, nobile non ha mai fretta perché tutto deve compiersi con onore e dignità. È terribilmente disdicevole che un padre corra verso suo figlio. Il padre sa tutto questo e, nonostante tutto, «corre»: preoccupato di restituire la dignità al figlio, non esita a perdere la sua. Il padre non tiene in alcun conto la sua dignità e decoro. È un elemento ulteriore della natura del padre come immagine del «Padre» dei cieli: davanti al recupero, nessun galateo o convenzione può bloccare la gioia incontenibile, che suscita atteggiamenti e comportamenti che all’esterno possono apparire anche come disdicevoli e non consoni alla dignità di chi li compie.
Un parallelo al femminile di questo comportamento si trova nel libro di Tobia dove l’autore usa le stesse parole. Tobia è di ritorno con l’angelo, portando il fiele di pesce per curare la cecità del padre. Egli è un figlio che lascia il padre per andare a cercare lontano una cura che lo guarisca. La madre di Tobia, Anna, sta seduta sulla soglia di casa a scrutare la strada da cui era partito il figlio. Ella ha la percezione di vedere il figlio e dopo averlo detto al padre Tobi, così continua il testo greco: «Anna corse avanti e si gettò sul collo del figlio» (Tb 11,5-13, qui v. 9). In greco vi è una corrispondenza straordinaria: sia il padre del figlio della parabola che la madre di Tobia non temono di perdere la faccia pur di andare incontro ai rispettivi figli che tornano salvi: il primo dopo avere ucciso il padre torna con un residuo di vita che vuole consumare nella servitù; il secondo per amore del padre che vuole guarire dalla sua cecità con l’aiuto di Dio.

Il bacio: sacramento del perdono

«Lo baciò». Baciare qualcuno non significa solo vicinanza e affinità, ma anche perdono. Il bacio è il segno del perdono totale, perché è un gesto d’amore totale. Insegna la psicologia che il bacio per sua natura tende al morso, perché esprime il desiderio di comunione assoluta: mangiare l’altro per fae la parte interiore più profonda di sé. È l’atteggiamento della mamma che colmando di baci il proprio bambino dice «ti mangio, ti mangio». Chi bacia esprime, chiede e offre intimità, comunione, condivisione, totalità.
Nella bibbia si hanno alcuni esempi di questa dinamica affettiva: «Cadere sul collo e baciare». Nel racconto dell’incontro tra Giacobbe ed Esaù, questi ha tutte le ragioni ambientali per odiare suo fratello che lo aveva scippato della primogenitura; invece «gli corse incontro, lo abbracciò, cadde sul collo di lui, lo baciò e piansero» (Gen 33,4). Anche Giuseppe, quando incontra il vecchio padre Giacobbe, «si gettò sulla faccia di suo padre, pianse su di lui e lo baciò» (Gen 50,1).
Anche Giuda «baciò» il suo maestro, ma solo per indicarlo come bersaglio dell’aggressione umana e ferocia assetata di morte (Mc 14,45). Lo stesso gesto può essere simbolo e sigillo di amore totale, ma anche di tradimento senza scampo. Il bacio del padre però non è disgiunto dal fatto che «cadde sul collo di lui», quasi a dire che intende raccoglierlo nel suo grembo e goderselo come figlio partorito per la seconda volta. L’azione del cadere indica che il padre lo copre con tutta la sua persona, facendo da scudo alla fragilità del figlio e rincuorandolo con i baci del cuore espressi dai baci della bocca.
Il figlio non fa in tempo a dire il suo pentimento che già si trova «baciato» dal padre, cioè perdonato: egli è perdonato prima ancora di chiedere perdono. Sta qui l’annuncio della parabola lucana, che ancora oggi facciamo fatica a capire, per cui non riusciamo nemmeno a incontrare Dio, perché ci incaponiamo di volergli attribuire modi umani di comportamento: il perdono del figlio, dato prima ancora che lo chieda, è la logica di Dio, è la rivoluzione delle religioni di ogni tempo, che si basano su una certa reciprocità. Qui non c’è alcuna reciprocità, perché chi ama non aspetta di ricevere in cambio qualcosa, non mercanteggia e non ha dignità da salvaguardare. Chi ama perde se stesso, perché vive per l’altro senza calcoli e interesse, ma con il solo obiettivo di essere strumento di nascita per la persona amata.

Di Paolo Farinella
(continua – 15)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (14) Le porte del perdono sono sempre aperte

«Dio è più grande del nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri»

Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20aPartì e si incamminò verso suo padre» (Lc 15,18-20).

Nulla può andare perduto
Nella puntata precedente (MC 9/2007, pp. 57-59) abbiamo lasciato il figlio giovane in preda di una solitudine esistenziale che aveva visto naufragare tutti i suoi sogni di autonomia. Solo, in terra straniera, sprofondato nella più abissale impurità (i porci con i quali avrebbe condiviso le carrube, «ma nessuno gliene dava»: v. 16). Abbiamo anche messo in evidenza che la motivazione del ritorno del figlio non può essere chiamata «conversione», perché le ragioni che lo inducono a ritornare non sono né il pentimento né l’amore per il padre, ma il suo tornaconto. Egli non soffre per il male fatto o perché il padre soffre, ma è terrorizzato di morire di fame. Il figlio giovane della parabola è un egoista cronico. È tutto centrato su se stesso e sui suoi bisogni immediati, per cui non può essere proposto come modello di conversione.
Eppure dentro di lui «accade» qualcosa di cui egli stesso è ignaro in un primo momento. Il testo greco dice che «dopo essere tornato in/dentro di sé, disse». Allontanatosi dal padre, non era finito solo «in un paese lontano» (v. 13), ma si era allontanato anche da se stesso: si era perduto geograficamente e spiritualmente. Aveva smarrito la dimensione di sé perché aveva perduto la sua identità di figlio. «Rientrare in se stesso», se in un primo momento non è sinonimo di «conversione» sincera, è l’inizio della consapevolezza del fallimento del suo progetto di vita autonoma.

Padre e figlio per sempre
Nessuno può abdicare dal proprio essere figlio e dall’essere padre/madre. Si è figli per sempre; si è padri/madri per tutta l’eternità. Nessuno è figlio del «nulla»; nessuno si fa da sé, ma ognuno di noi è sempre figlio di qualcuno e a sua volta è «genitore» di qualcun altro.
È la relazione che stabilisce l’identità personale: è quello che avviene all’interno della Trinità santa e accade dentro il mistero di vita di ciascuno di noi. Nemmeno il «figlio prodigo» può sfuggire a questa legge. Ciò significa una cosa sola: anche se la motivazione iniziale è imperfetta, può però costituire il primo passo verso un cambiamento che via via diventa consapevolezza, coscienza di vita. La motivazione egoista iniziale muterà in un processo evolutivo che si perfezionerà solo alla conclusione del cammino, cioè al punto di approdo.
In questo contesto si modifica la nozione stessa di «conversione» che di norma è intesa come un «atto unico» e irrepetibile, travolgente e traumatico, che cambia la vita, mentre alla luce della parabola lucana, essa è «un’attitudine al cambiamento», cioè un processo che inizia anche in modo imperfetto e s’illumina e si definisce lungo il processo di formazione. Abituarsi al cambiamento, ecco il vero senso della conversione, che in ebraico si chiama «teshuvàh». Il termine deriva dal verbo «shub» che ha in sé l’idea del ritorno sui propri passi e si riferisce al ritorno a Dio da cui si era allontanati (cf Dt 4,30).

Pentimento imperfetto
La tradizione giudaica insegna che la «penitenza/teshuvàh» fu creata da Dio prima ancora della creazione del mondo (Talmud, Pesachim-Pasque 54a) per concedere a Israele una possibilità supplementare di salvezza. Per questo la «penitenza/teshuvàh» s’innalza fino al trono di Dio, allunga la vita dell’uomo e guida alla redenzione del Messia (Talmud, Yoma-Gioo 86a-86b).
Il Midrash Deuteronomio Rabbàh-Grande (2,24) insegna che Dio impone a Israele il pentimento, ma non l’umiliazione, perché un figlio non può vergognarsi di ritornare a suo padre. Nel racconto di Luca, infatti, è il padre che è presente nella dissoluzione del figlio e lo spinge a compiere la sua «teshuvàh/ritorno» e come vedremo, lo accoglierà, ma non lo umilierà.

Motivazione nascosta del figlio
La «ragione/motivazione nascosta» che spinge il figlio al passo più difficile della sua vita, quella cioè di ritornare da suo padre, ma rinunciando alla sua condizione di figlio, rivela ancora una volta la superficialità di questo figlio che, nonostante tutto quello che ha passato, si ostina ad avere paura del padre: egli è terrorizzato di perdere la faccia, la dignità, l’onore.
Qui sta la prova finale che egli non ha mai conosciuto suo padre: nel momento in cui egli rinuncia a essere figlio, impone al padre di rinunciare alla sua pateità. Ciò sarebbe l’equivalente di un’altra morte. Ha preteso la morte del padre per affrancarsi da lui e ora si accontenterebbe di essere suo servo, credendo che il padre potrebbe fare finta di non essere suo padre. Ogni scelta, per quanto personale, implica sempre le scelte di qualcun altro.
Nel suo ragionamento assurdo, egli addirittura si paragona ai servi della casa di suo padre che stanno meglio di lui. Colui che voleva la libertà e la totale indipendenza, si considera inferiore ai servi di suo padre. In questo modo afferma indirettamente che il padre è la «garanzia» del benessere dei servi e quindi anche del figlio che vuole diventare servo. Questa considerazione è la presa d’atto di un totale fallimento, ma anche la certezza: quel «padre» che egli aveva voluto morto per avere preteso la vita in eredità, è ancora il peo della sua esistenza. Muore di fame e sogna suo padre come sua àncora di sopravvivenza. Il figlio non sa che il padre, portato via come «patrimonio», è stato il suo scudo e la sua difesa.

Motivazione nascosta anche al figlio
La ragione/motivazione che guida il figlio a ritornare, è il «padre» che come «patrimonio» ha seguito il figlio sulla via della dissoluzione e della perdizione. Sostenuto dalla presenza invisibile del padre che anima tutte le decisioni di vita, il figlio giovane si determina a intraprendere il suo cammino di ritorno. La vera ragione del ritorno del figlio affonda le sue radici nell’amore del padre che non è mai venuto meno.
In termini spirituali si può dire che ogni ritorno, inteso anche come conversione, non è mai frutto della volontà dell’interessato, ma azione di grazia che lo Spirito compie per realizzare la volontà salvifica universale di Dio. Nessuno è capace di conversione perché possiamo solo lasciarci convertire dallo Spirito di Dio. Veramente credere nel Dio di Gesù Cristo è il compito più facile che esista: basta abituarsi a sapere ricevere: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Il «richiamo» del padre è più forte della morte. Si capisce perché il padre si sia lasciato spogliare, derubare e «uccidere»: era l’unico modo per andare «con» il figlio e salvarlo da se stesso. Al padre non è mai interessato il patrimonio o «la proprietà». A lui interessa soltanto quel figlio che voleva perdersi a ogni costo e che bisognava salvare a tutti i costi, anche a costo della propria vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Il padre è l’immagine nuda e austera del Padre dei cieli, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Al fondo della sua abiezione e come risultato del suo fallimento, il figlio giovane può ancora una volta aggrapparsi al padre, la sua unica salvezza. Dice un detto della tradizione giudaica: «Le porte della preghiera possono essere chiuse (= Dio può anche non ascoltare), ma quelle del ritorno (pentimento) sono sempre aperte» (Talmud Jerushalmì, Makkot-Fruste, 2,7,31d).

L’Assente-Presente
I vv. 18-21 formano nell’economia del capitolo due sotto-unità, in cui si descrivono gli stessi movimenti: nella 1a unità (vv. 18-19), di cui ci occupiamo in questa puntata, il figlio parla con se stesso, immaginando di essere davanti al padre che materialmente è assente; nella 2a invece (vv. 20-21), che esamineremo la prossima puntata, si trova realmente davanti al padre al quale ripete le parole che aveva preparato. Le due unità sono strettamente connesse intorno alla figura del padre «assente-presente».
Questi versetti rivelano il mistero proprio di Dio, di cui facciamo fatica a capie la natura. Quando ci allontaniamo da lui, non acquistiamo autonomia e libertà, ma diventiamo schiavi di qualcuno o di qualcosa: è l’esperienza che facciamo ogni giorno. Il padre della parabola è l’immagine esemplare di Dio che è presente anche quando sembra assente e tutto appare perduto. Un’immagine plastica di questo dramma, si trova nel racconto della tempesta sedata di Mc. Tutto attorno crolla, la tempesta sopravanza e Gesù «se ne stava a poppa e dormiva», mentre i discepoli terrorizzati lo accusano di diserzione: «Maestro non ti importa che stiamo morendo?» (Mc 4,35-39, qui v. 38). C’è la tempesta e lui «dorme»; c’è la tempesta e lui c’è.

Un verbo per lasciare e due verbi per tornare
Il figlio che ha perduto ogni velleità, esausto nella sua fatica di vivere, riallaccia i contatti col padre, in modo flebile, interessato, ma reale: egli sogna la casa di suo padre come sicurezza, rifugio e protezione. Nonostante la motivazione insufficiente, bisogna cogliere l’evento di qualcosa di grandioso che accade. Quando abbandonò la casa, suo padre e Dio, dice l’evangelista: «Partì per un paese lontano» (v. 13); ora che ritorna, il testo greco dice: «E dopo essere risorto venne verso suo padre» (v. 20).
Per l’abbandono basta solo il verbo «partire», che in greco (apedêmēsen) indica l’allontanamento dalla società, dal popolo: è l’auto-ostracismo dalla condizione umana. Per il ritorno invece è necessario una decisione, un colpo di reni, che bisogna attuare con un gesto concreto.
La Bibbia della Cei (ed. 1997) rende abbastanza bene: «Si mise in cammino e ritoò da suo padre». Due sono le idee sottostanti: quella di risurrezione e quella del ritorno attuato: per ritornare bisogna cominciare a risorgere, anche se ancora le ragioni non sono del tutto sufficienti. Il cammino di conversione serve proprio a questo: fare prendere coscienza dell’evoluzione e dello sviluppo che la Grazia compie in chi si mette in cammino.
Si parte all’inizio con un atteggiamento e si arriva alla mèta totalmente cambiati, perché il cammino si apre camminando e il bisogno di cambiamento aumenta mano a mano che si cambia. Convertirsi è veramente abituarsi a lasciarsi cambiare.           (continua – 14)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Vince il profitto, perde la salute

Che cosa mangiamo? (2a puntata)

Il defoliante alla diossina usato durante la guerra del Vietnam; le banane trattate con un prodotto altamente cancerogeno; le vittime della Union Carbide che ancora attendono un risarcimento; le acque infestate da centinaia di sostanze nocive; le api impazzite. I disastri sono ovunque, perché i pesticidi usati dall’agricoltura industriale hanno ridotto la biodiversità e compromesso la catena alimentare. I danni prodotti pesano su tutta la collettività e sul nostro futuro.

Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.
L’inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d’inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell’ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell’ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l’eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l’uomo. L’uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un’agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell’agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell’iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch’essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici» , cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall’India e da alcuni paesi dell’America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.

L’avvelenamento del Sud del mondo

In linea di massima, l’80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l’agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l’80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l’uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l’analfabetismo, la mancanza totale d’informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.
Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l’uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall’Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smistamento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l’Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l’84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l’88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell’ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al milione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.

Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon

Emblematico è il caso dell’intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l’esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (Califoia) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l’immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in Califoia e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell’ambiente e capace di provocare inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l’uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all’Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni ‘70 e ‘80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell’Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). In un’intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni ‘60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni ‘70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d’irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell’impacchettamento delle banane. Inoltre venne contaminata l’acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l’acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d’intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa  produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente.

La strage di Bophal
(ma non furono i terroristi)

Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l’isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell’aria, a seguito di un’esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l’incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l’esplosione l’ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che foiscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pag. 25).
C’è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest’ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d’invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all’inquinamento di aria, acqua e suolo.

Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi

E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all’anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l’area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell’atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un’intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell’Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.

Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali

Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli Ogm, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l’uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all’erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell’erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell’agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.  
L’eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. Infatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l’agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all’impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetali coltivabili a qualche centinaio.

La biodiversità uccisa dall’agricoltura industriale

Purtroppo, l’agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l’agricoltura industriale porta all’estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell’industria chimica, anziché a quelle dell’ecosistema. Inoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell’insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l’intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l’utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l’infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?

Più pesticidi, più resistenza, più danni

La risposta sta nel fatto che l’insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d’individui, ma si tratta purtroppo d’individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d’insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l’agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d’insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.
Consideriamo poi che l’adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. Inoltre i predatori, divorando grandi quantità d’insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, man mano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un cloroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l’uomo è al vertice della catena alimentare.

La sperimentazione e la «dose letale 50»

Oltre a tutto ciò, l’agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d’acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L’impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l’acqua del suolo. L’irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un’agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo. 
C’è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L’EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull’uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l’ora. I partecipanti all’esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l’esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall’amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005, denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso. Tra le aziende, che commissionarono questi studi c’è la Bayer. In Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org), che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.
Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.

Senza pesticidi si può: la lotta biologica

Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l’uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all’uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitornidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitornidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell’artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l’ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all’allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B. impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T. harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.

Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio

E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un’indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L’impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d’intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all’effetto dei pesticidi si assomma quello dell’inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.                           •

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (13) Nel pozzo profondo delle ragioni del cuore

«Cambiate mentalità/ pensiero e credete al vangelo, cioè a Gesù Cristo, il Figlio di Dio»

16 Avrebbe voluto riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno ne dava a lui. 17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».

Mangiare è comunicare l’anima
Per la cultura semitica «mangiare con qualcuno» significa condividee la vita in uno stato di uguaglianza. Gesù subito dopo l’ultima cena, dichiara espressamente questa condizione: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). La ragione di tale dichiarazione sta nel fatto che hanno mangiato insieme quel pasto «singolare», espressione unica dell’alleanza con Dio: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» (Lc 22,19-20).
Mangiare è diventare una cosa sola con chi si mangia. Il giovane figlio arriva fino al punto di «desiderare» di essere con i porci, come i porci, uno di loro pur di acquietare i morsi della fame: «Voleva riempire lo stomaco/saziarsi delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno ne dava a lui» (v. 16). Il livello della bassezza morale non può essere più profondo perché il giovane giudeo non solo dimentica la prescrizione della Toràh, che dichiara impuro il porco (Lv 11,7; Dt 14,8) e chiunque ne entra in contatto, ma fa addirittura «comunione» con l’impurità, volendo mangiare le stesse carrube che mangiano i porci.  

Simbologia del porco
La Mishnàh (VII,7) è tassativa nella proibizione di allevare porci: «In nessun luogo si possono allevare porci»; il Talmud babilonese (Baba Qama – Prima Porta 82b e Sotah – Adultera 49b) dichiara: «Maledetto chi alleva porci».
Al tempo di Gesù, il porco era anche simbolo dell’oppressore romano sia perché la X legione «fretense» aveva come mascotte un cinghiale, sia perché i soldati romani, quando potevano, mangiavano spudoratamente i maiali rastrellati nei villaggi greci. Mangiare porco significava quindi simbolicamente assoggettarsi all’invasore che derideva la sacralità dell’insegnamento della tradizione. Per un giudeo quindi finire tra i porci era peggio della morte.
Lontano dal Dio di suo padre, impuro fino al midollo dell’anima, senza più dignità umana, sprofondato nel peccato più radicale rappresentato dall’intimità che cerca con i porci, il figlio giovane ha raggiunto il fondo di se stesso. La libertà che cercava e per la quale aveva ucciso il padre, abbandonato Dio, lasciato il suo paese e la sua storia, ora diventa il suo abisso di desolazione e la sua condanna. Una condanna a morte, se perfino i porci sono nutriti meglio di lui.
Il suo «dio» è il ventre
Nel versetto si trovano tre verbi, tutti all’imperfetto indicativo attivo che indica un’azione continuativa, abituale o tentata nel passato. Non è il desiderio di una volta, ma il desiderio costante e sistematicamente espresso, divenuto ormai un’esigenza di sopravvivenza. È l’ostinazione di chi non vuole rassegnarsi a morire di fame. C’è tutta la disperazione di chi si trova nella disperazione, solitario e isolato nel mondo che bramava e non trova altro rimedio che sprofondare ancora più in basso.
Il primo imperfetto «desiderava» è certamente un imperfetto di conato, cioè un’azione sistematicamente ripetuta, ma sempre frustrata. Ci troviamo davanti a un uomo che tenta e riprova pur di raggiungere il suo scopo: calmare la fame. Il desiderio di «riempire lo stomaco» è permanente come durevole è la carestia e la fame.

Sfamarsi o riempire la pancia?
Alcuni codici antichi del sec. IV-V hanno una variante del v. 16: «Desiderava riempire il suo stomaco/la pancia», che pare sia la forma più originale, a differenza di altri codici di primissimo piano che invece cercano di addolcie la crudezza, modificando il testo in «desiderava saziarsi/sfamarsi». Quest’ultima espressione, da un punto di vista della sintassi, è più perfetta: l’imperfetto seguito dall’infinito [desiderava (di) sfamarsi] è una costruzione propria di Lc (cf 16,21; 17,22; 22,15; cf anche Mt 13,17).
Il biblista francese Jacques Dupont osserva che l’espressione riempire lo stomaco è così volgare che forse i copisti e i traduttori hanno cercato di sminuie la crudezza cambiandola con saziarsi, sminuendo anche il contesto di abiezione nel quale il giovane è piombato (Il padre del figliol prodigo in PSpV, n.10 pp.120-134).

La frustrazione dell’isolamento
Crollano tutti i sogni e progetti di indipendenza, sepolti nel porcile del proprio isolamento che nemmeno i porci vogliono condividere! «Riempire lo stomaco/la pancia» è l’ultima prospettiva che è rimasta al giovane figlio, ormai in balìa della fame più radicale, diventata ossessione del presente con la paura di non arrivare a domani. Il figlio che non ha esitato a uccidere il padre prima del tempo, per vivere alla grande, vede la vita sfuggirgli e si sperimenta impotente a trovare una soluzione.
«Nessuno ne dava a lui». In un paese lontano, scenario di futuro scintillante, sognato e solo assaporato, egli è nessuno. Non ha passato, non ha futuro e il suo presente è assenza d’identità. «Il ventre è il suo dio» (cf Fil 3,19) e tutto ruota attorno ai suoi bisogni che non è in grado nemmeno di cornordinare. A nulla è valsa la distruzione del padre, ora è il figlio a fare i conti con la morte e la morte di fame. Il suo viaggio finisce qui: da figlio a servo, da libero a mendicante, da spensierato ad affamato.

Non più figlio, ma schiavo disprezzato
Sperperato il patrimonio, ha consumato anche la sua dignità, libertà e la stessa identità: desidera diventare come i porci, pur di lenire la fame, ma senza risultato perché «nessuno ne dava a lui». Semplicemente non esiste.
Chi si allontana da Dio e dal padre, è isolato in mezzo all’umanità, perché il rifiuto della pateità è la premessa logica per non riconoscere la frateità. Colui che non si è riconosciuto come figlio è sconosciuto anche per gli altri, diseredato dall’esistenza stessa. Di fronte al peccatore anche il pagano in una terra lontana non è «prossimo»; anzi, può diventare lo strumento della giustizia. Il pagano, infatti, disprezza talmente il giovane da abbandonarlo alla mercé dei porci, cioè alla impurità radicale, inchiodandolo nel suo stato di indegnità esistenziale e morale. Semplicemente non esiste più!
Non esiste per il padrone che vede in lui solo l’occasione di uno sfruttamento senza spesa; non esiste per i porci, che non lo vogliono «dei loro» perché la sua impurità è maggiore e contagiosa; non esiste per se stesso perché non sa più chi sia, senza dignità né speranza. Davanti a lui c’è solo il terrore della morte e della morte per fame. Per uno che aveva «posseduto tutto» è un bel progresso.

Il giovane e Lazzaro povero
In Lc un altro personaggio si trova in una situazione alquanto simile: il povero Lazzaro, «desideroso di saziarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,21). Alcuni codici non importanti aggiungono la frase: «Ma nessuno ne dava a lui», che è certamente un tentativo di uniformare i due racconti dal punto di vista letterario.
La differenza tra il giovane della parabola e Lazzaro non sta tanto nella fame o povertà, ma nell’atteggiamento degli animali. Il primo è ripudiato dai porci, il povero Lazzaro è assistito dai cani; i porci non danno neanche le carrube al giovane affamato, i cani alleviano il dolore leccando le ferite di Lazzaro. Il figlio della parabola è disperato, Lazzaro è fiducioso; il primo è nel porcile, l’altro è in mezzo agli uomini; il giovane è isolato nel suo egoismo, Lazzaro è l’anello debole di una società opulenta e ingiusta.
I due racconti sono collegati insieme perché lo stesso Lc li colloca uno dopo l’altro, dandoci così una prospettiva unitaria e un insegnamento comune: non sono le cose «possedute» che rendono liberi, né la realizzazione passa attraverso le ricchezze che spesso sono la causa prima dell’abbrutimento del cuore.

Peccare è sradicarsi dalla vita
Il padrone dei porci, pur essendo un estraneo, tratta il giovane come un depravato, cioè un peccatore abbandonato da Dio. Nella mentalità ebraica, il peccatore è abbandonato a se stesso; nessuno è tenuto a soccorrerlo. Il libro del Siracide al riguardo è esplicito e tassativo:

«Se fai il bene, sappi a chi lo fai; così avrai una ricompensa per i tuoi benefici. Fa’ il bene al pio e ne avrai il contraccambio, se non da lui, certo dall’Altissimo. Nessun beneficio a chi si ostina nel male né a chi rifiuta di fare l’elemosina. Da’ al pio e non aiutare il peccatore. Benefica il misero e non dare all’empio, impedisci che gli diano il pane e tu non dargliene, perché egli non ne usi per dominarti; difatti tu riceverai il male in doppia misura per tutti i benefici che gli avrai fatto. Poiché anche l’Altissimo odia i peccatori e farà giustizia degli empi. Da’ al buono e non aiutare il peccatore» (Sir 12,1-7).
Nell’AT il senso del peccato ha anche una valenza sociale: il bene comune precede sempre il bene individuale, che spesso può e deve essere sacrificato a vantaggio della collettività. Ciò è incomprensibile per noi che abbiamo acquisito il concetto di «persona», su cui si basa la carta dei diritti e il valore della democrazia. Non così per gli antichi popoli nomadi e seminomadi: per essi il gruppo, clan o tribù è garanzia di sopravvivenza al di sopra e oltre ogni singolo individuo. E fuori del suo contesto sociale tribale, l’individuo è nessuno, perché ognuno vive in quanto parte di una «personalità collettiva».

Ritoo senza conversione
17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b«Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».
Bisogna subito sfatare una mitologia che vede in questo «ritorno/rientro in sé» il principio di una conversione, al punto da presentare il «figliol prodigo» come modello del convertito. Non è così! Questa è una prova che spesso la scrittura è interpretata in base al significato delle traduzioni e non a partire dal testo originario, come dovrebbe fare un lettore attento, per non rischiare di alterare il senso stesso della parola di Dio. Esaminiamo le ragioni del «ritorno in sé» del giovane figlio.
Il figlio fa il confronto tra sé e i salariati di suo padre. Abbiamo due idee sottintese: da una parte il figlio ammette che suo padre non è un padrone despota, come ha voluto farci credere all’inizio, quando non vedeva l’ora di andarsene; ma è un «padre» attento alle necessità anche dei suoi dipendenti, visto che «abbondano di pani» (si usa il plurale apposta). Se anche il salariato sta bene in casa di suo padre, vuol dire che quest’uomo non è così malvagio da volee la morte. Il motivo della fuga quindi non sta nel padre e nel suo autoritarismo, ma il problema è tutto nel figlio che ha una grande confusione in testa e nel cuore.
Dall’altra parte, il figlio non pensa al padre e al suo dolore; non è pentito di ciò che ha scelto e fatto, delle conseguenze che ha provocato; ma di fronte a tutte le porte chiuse, non gli resta che la possibilità di usare e sfruttare ancora il padre. Egli ha preso coscienza di non avere altro futuro che la morte: «Io me ne sto qui a morire per carestia», mentre i dipendenti di mio padre… È l’invidia, il confronto, la rabbia contro il mondo cinico e baro, perché questo giovane sicuramente pensa di essere stato sfortunato e quindi di non avere alcuna colpa, ma solo circostanze avverse. Nessun ragionamento potrebbe essere più egoista di quello del figlio giovane.
Il testo deformato
Ciò che inganna è l’espressione «ritoò in se stesso», che noi leggiamo alla luce della nostra esperienza razionale e forse mistica. È un tipico caso di «eis-egèsi», cioè di «immissione dentro» il testo di un senso e acquisizioni posteriori che il testo non ha. Il momento della conversione è ancora lontano; avverrà solo quando la gratuità di cui si era preso gioco lo avvolgerà e lo rigenera del tutto nuovo: allora non avrà nemmeno bisogno di chiedere perdono, perché il perdono lo aspettava già, prima che lui partisse.  
L’espressione «eis heautòn elthôn (da èrchomai) – verso se stesso venendo/tornando» (v. 17a) nella letteratura della fine del sec. I d.C. ha il senso di «valutare/ponderare/lamentarsi». In ebraico potrebbe significare «convertirsi», ma l’unico testo di riferimento è At 12,11, dove anche «Pietro rientrato in se stesso, disse…», ma il verbo è diverso, «ghìnomai – divento/faccio».
Abbiamo però una spia in un testo che appartiene alla duplice tradizione giudaico-cristiana, Testamento dei Dodici Patriarchi, apocrifo ebraico del sec. II a.C., rielaborato in epoca cristiana con contenuti cristiani, in cui si trova l’espressione «ritornare/rientrare in se stesso» nello stesso senso della parabola lucana.

Un parallelo apocrifo
In Gen 39,7-20 si narra del tentato adulterio della moglie di Potifar, «consigliere del faraone e comandante delle guardie» (Gen 39,1), che aveva messo gli occhi sullo schiavo giudeo Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, «bello di forma e avvenente d’aspetto» (Gen 39,6). Egli era stato venduto dai fratelli, condotto in Egitto e acquistato da Potifar. Nel Testamento di Giuseppe, la donna anonima nel racconto biblico ha un nome: l’egiziana Menfia, di cui il patriarca narra le insidie ostinate per indurlo all’adulterio. Giuseppe, che teme Dio, prega e digiuna per avere da Dio la forza di essere fedele agli insegnamenti di suo padre. Poi prosegue testualmente: «Ma io ripensavo alle parole di mio padre e, entrato in camera mia, pregavo il Signore… Capii e mi addolorai fino alla morte. Quando se ne fu andata, ritornai in me stesso e soffrii per lei per molti giorni» (III,3.9).
Sia il giovane figlio che il suo antenato, il patriarca Giuseppe, ritornano in se stessi, ma con intenti e progetti diversi, ciò che più conta, con atteggiamenti opposti. Il patriarca «si addolora fino alla morte» perché l’egiziana vuole commettere peccato e soffre «per lei». Il figlio giovane invece, è scocciato della piega che ha presa la «sua» vita: «Me ne sto qui a morire per carestia». Il giusto patriarca non gode della sventura che può capitare al suo nemico, ma si preoccupa della salvezza della donna; il giovane della parabola si preoccupa solo di sé e non ha il minimo slancio di altruismo. Confrontiamo più profondamente le ragioni intime di Giuseppe e del giovane.
Il giusto e l’egoista
Il patriarca entra in camera sua e prega (cf Mt 6,6), il figlio dissoluto «valuta, ragiona, pondera» la sua situazione e cerca una soluzione vantaggiosa. Il patriarca prega Dio, il giovane si è allontanato da Dio; il patriarca trova forza nel ricordo delle parole del padre, il giovane pensa come sfruttare ancora la generosità e la bontà del padre. Il patriarca digiuna a lungo, perché il dolore della fame non gli faccia perdere il senso morale della sua responsabilità, il giovane, così terrorizzato dalla fame da indursi a mescolarsi con i porci, non ha più un padre da ricordare, ma solo un padrone da sfruttare.
Il ragionamento del figlio giovane è spudoratamente egoista, frutto di calcolo di convenienza. «Verso se stesso ritornando» significa: preso atto della situazione disperata, pensò… non di ritornare dal padre, ma di trovare il modo di rimediare un «posto» tra i dipendenti di suo padre che hanno un trattamento di giustizia e vivono senza preoccupazioni. Il figlio è prigioniero ancora della sua superficialità e immaturità.
Il pensiero della casa del padre è tutto rivolto al benessere materiale: «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia». Il verbo «morire» nella parabola ricorre tre volte, qui in bocca al figlio e nei vv. 24 e 32 in bocca al padre, che ha un motivo in più per giornire: gli è stato restituito il figlio «morto», ma egli lo ha rigenerato e ridato alla vita.

Se la motivazione non è sufficiente
Un’ultima osservazione, a conclusione di questa riflessione che ci ha restituito il sapore del testo nella sua crudezza. Abbiamo detto che il figlio non ha un moto di conversione, ma una motivazione ancora egoista perché ossessionato dalla povertà e dalla fame. Ciononostante «inizia» a pensare al padre, anche se come padrone. La motivazione non è genuina né entusiasmante; è decisamente insufficiente, ma mette in moto un processo irreversibile.
Non sempre i grandi cammini o le grandi svolte nella vita accadono perché le motivazioni sono chiare, le idee limpide e gli interessi di tornaconto assenti. No! Siamo umani, fino al midollo delle ossa, impastati di contraddizioni, dubbi, paure, egoismi. Per questo una motivazione insufficiente o del tutto inadeguata all’inizio può essere lo stesso il motore di avviamento della vettura della vita. Basta saperla cogliere, lasciarsi stupire dalle novità che quasi sempre accadono gratuitamente. La domanda a cui dobbiamo rispondere è: chi e cosa mette in movimento il figlio verso il padre? Se le sue ragioni sono meschine ed egoiste, chi muove il figlio a riprendere il cammino a ritroso verso la casa del padre suo, anche se visto solo come padrone? Dove sta la vera ragione del ritorno del figlio? Lo scopriremo nel commento ai versetti seguenti.
(continua – 13)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«Fanno 6 euro, pesticidi compresi»

Cosa mangiamo? (1a puntata)

È triste dirlo, ma circa la metà della frutta e un quarto della verdura in commercio sono contaminati. I pesticidi contenuti nei prodotti che consumiamo producono danni, anche molto gravi, alla nostra salute. Che fare? In primis, essere informati. E poi agire di conseguenza. Nella speranza che il futuro ci porti un’agricoltura più biologica e meno dominata dalle regole del mercato.

Stiamo facendo la spesa nel reparto ortofrutta di un grande ipermercato di Torino e, come tutti, facciamo il confronto tra i diversi prezzi. All’improvviso, la nostra attenzione viene attirata dai cartelli di certe varietà di frutta, tra cui due diversi tipi di banane, pompelmi, arance di Valencia, fichi, limoni. Nei cartelli in questione, oltre il prezzo, alla provenienza, al nome della varietà del frutto e al numero per la pesata leggiamo la frase: «Trattato con…», seguita da sigle come TBZ, E232, E904, oppure da nomi come  tiabendazolo, imazalil, ortofenilfenolo. Molto interessante… o inquietante, dipende dal punto di vista. Già perché queste sigle e questi nomi appartengono ad alcuni fra gli antiparassitari (in questo caso, fungicidi) comunemente usati in agricoltura. Diamo un’occhiata ai cartelli delle altre varietà di frutta e verdure, ma non troviamo altre indicazioni di questo tipo, tranne quelle ordinarie. In particolare non ci sono indicazioni sull’uso di antiparassitari per alcun prodotto di provenienza italiana, se non per i limoni. La domanda che ci sorge spontanea è: «Ma questi prodotti non sono trattati, o il trattamento non è dichiarato?».

Le analisi sui prodotti:
una conferma nero su bianco

Per provare a darci una risposta, abbiamo esaminato l’ultimo rapporto di Legambiente – Pesticidi nel piatto 2007 – relativo alle analisi condotte nelle varie regioni italiane su campioni di frutta e di verdura, da parte dei laboratori di Istituti zooprofilattici, di Arpa, di Direzioni generali Sanità, di presidi di prevenzione delle Asl. Questo rapporto si riferisce ai dati raccolti nel 2006 dalle analisi condotte su 10.493 campioni ortofrutticoli e sui loro derivati quali olio, vino, ecc. È anzitutto opportuno dire che i controlli sono stati eseguiti dalle varie regioni in modo disomogeneo, per quanto riguarda il numero delle analisi svolte, con regioni che ne hanno effettuato un elevato numero, come il Lazio (1256) o la Campania (706), altre con un numero di analisi intermedio come il Piemonte (450), altre ancora con poche analisi effettuate come la Valle d’Aosta (60) o addirittura nessuna, come il Molise. Ciò che risulta subito evidente dai risultati di queste analisi, nonché dal loro confronto con i dati dell’anno precedente, è che nelle regioni con un più elevato numero di controlli è più alto il numero dei campioni irregolari o regolari, ma multiresiduo, rispetto alle altre regioni, ma questo risultato è solo dovuto alla maggiore accuratezza dei controlli e non ad un maggiore uso di pesticidi. In queste analisi sono stati considerati irregolari i campioni con superamento dei limiti di legge per la concentrazione del residuo chimico o con presenza di pesticidi non autorizzati, mentre i campioni regolari multiresiduo sono quelli regolari per le concentrazioni o il tipo di pesticidi, ma con presenza di più residui contemporaneamente.
Dall’analisi dei dati 2007 osserviamo in primo luogo che, rispetto a quelli del 2006, c’è un lieve miglioramento per quanto riguarda il numero totale di analisi compiute e per il ritrovamento di campioni irregolari di verdura e di frutta, nonché di regolari multiresiduo, mentre nelle voci «derivati» e «varie» è aumentato leggermente il numero di campioni regolari con un solo residuo e di quelli multiresiduo. Sostanzialmente da questo insieme di dati emerge che la frutta presenta più residui di pesticidi della verdura; infatti solo la metà dei campioni di frutta è esente da fitofarmaci, mentre l’1,7% è risultata irregolare. Inoltre, se consideriamo in particolare qualche tipo di frutta di larghissimo consumo, come le mele, ci accorgiamo che solo il 39% è esente da pesticidi, il 30% ha più di un residuo e il 3,6% è irregolare. Del resto, anche in assenza di indicazioni sui pesticidi nel cartello, quante volte ci è capitato di vedere sulle mele (specialmente quelle rosse) una patina biancastra, polverosa e leggermente untuosa al tatto? Molto spesso, a conti fatti, tra i campioni regolari di frutta, ma multiresiduo ci sono casi sorprendenti, ad esempio: un campione di pere con 7 residui e di uno di fragole con 8, entrambi trovati in Sicilia. Per le verdure le cose vanno un poco meglio, perché la percentuale di campioni senza residui sale all’84,2%. È da notare che tra i derivati della frutta che risultano contaminati da residui di fitofarmaci, in percentuale del 20%, oltre ad olio e vino troviamo marmellate, miele, succhi di frutta ed omogeneizzati, cioè prodotti largamente consumati dai bambini.
I principi attivi più frequentemente ritrovati nei vari campioni, anche se non tutte le regioni hanno dichiarato i nomi dei fitofarmaci rinvenuti, sono: captano, carbofuran, chlorpirifos, cyprodinil, diclofluamide, dimetornato, ditiocarbammati, endosulfan, fenitrotion, guazatina, imazalil, malathion, metalaxil, procimidone, propargite, tiobendazolo, tolclofos-metile. Queste sostanze, a seconda del tipo, funzionano come anticrittogamici, insetticidi, fungicidi, molluschicidi, rodenticidi, acaricidi ed erbicidi e rientrano in un lunghissimo elenco di circa 70.000 prodotti chimici diversi presenti attualmente sul mercato, secondo i dati della Fao. Inoltre, sempre secondo questi dati, ogni anno sono immessi sul mercato circa 1.500 nuovi prodotti. Per quanto riguarda la classe chimica di appartenenza troviamo composti cloroderivati, organofosfati, carbammati e piretroidi. Le sostanze appena citate sono quelle attualmente e legalmente in uso, i cui limiti massimi di residui (LMR) nei prodotti alimentari sono regolati con una direttiva europea, che si traduce in decreto ministeriale. La normativa è aggiornata periodicamente, in seguito all’introduzione di nuovi principi attivi oppure alla scoperta di effetti dovuti all’utilizzo dei fitofarmaci o alla esposizione ai medesimi. Con periodicità quinquennale anche i prodotti già in commercio vengono rivalutati ed i dati tossicologici aggioati. Le strutture preposte alla registrazione dei fitofarmaci possono richiedere alle industrie produttrici i dati relativi a studi tossicologici, ecotossicologici e di destino ambientale. In Italia i residui dei pesticidi sui prodotti ortofrutticoli sono raffrontati con dei limiti di legge calcolati sulla pericolosità delle sostanze attive.
Donne e bambini
i soggetti più a rischio

Secondo i risultati delle ricerche condotte in numerose Università sui possibili effetti dei pesticidi sui bambini, tali limiti andrebbero però rivisti, poiché attualmente essi si riferiscono all’organismo umano maschio adulto, mentre è sicuramente necessario un adeguamento all’organismo di donne e di bambini. Ad esempio in alcuni studi su bambini sono stati evidenziati rischi di disfunzioni dell’apparato riproduttore come malformazioni del tratto urogenitale maschile, neoplasie del testicolo in età adolescenziale ed una diminuzione della qualità del seme. Queste patologie sembrano correlate all’esposizione a composti in grado di svolgere un’azione di disturbo di tipo ormonale, che può causare problemi di sviluppo. Composti di questo tipo vengono definiti Endocrine Disrupting Chemicals (EDC) e molti di loro sono pesticidi.
La ricerca condotta dalla professoressa Brenda Eskenazi dell’Università di Berkeley (Califoia) ha dimostrato che i neonati possono essere da 65 a 164 volte più sensibili ad alcuni antiparassitari come il Chlorpirifos o il Diazinon, rispetto agli adulti.
Anche i pediatri del Mount Sinai Hospital di New York hanno riscontrato una maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto agli adulti, con conseguenti danni non solo al sistema endocrino, ma anche a quello nervoso ed a quello immunitario. In particolare questi studiosi hanno raccolto prove che l’esposizione del feto agli antiparassitari organofosfati conduce alla nascita di bambini con una minore circonferenza cranica ed un rischio di deficit intellettivo.
Una conferma a questi dati si ha da uno studio condotto da Greenpeace India su 899 bambini delle regioni indiane a maggiore uso di pesticidi, cioè quelle dove sono presenti le piantagioni di cotone. I risultati ottenuti sono stati paragonati con quelli di bambini viventi in regioni non contaminate. I bambini, divisi in due gruppi di 4-5 anni e di 9-13 anni, presentavano tutti analoghe caratteristiche familiari ed ambientali in modo da evitare differenze dovute al trattamento, all’istruzione ed alle condizioni economiche, che avrebbero potuto influenzare il test. Il risultato ha dato un punteggio inferiore del 30% nel gruppo di 4-5 anni e del 21% tra quelli di 9-13 anni, rispettivamente, in un test di memoria nei bambini esposti ai pesticidi, rispetto ai controlli. I pesticidi più usati in queste regioni sono quelli organofoforici (in particolare methil-parathion e monocrotophos, classificati dall’OMS come estremamente dannosi), che agiscono sul sistema nervoso centrale, in quanto bloccano l’attività dell’acetilcolinesterasi, un enzima che inibisce l’attività dell’acetilcolina, uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso. Il blocco di questo enzima è di tale gravità che nei lavoratori, in cui si è verificata un’intossicazione acuta da pesticidi organofosfati, si sono avute convulsioni, problemi respiratori (in qualche caso mortali) oppure invalidità permanente, come nel caso della neuropatia ritardata, caratterizzata da paralisi flaccida della muscolatura degli arti inferiori, che insorge improvvisamente a 2-3 settimane di distanza dell’episodio acuto.
Studi svolti con procedimenti analoghi sia in Italia, in provincia di Siena, sia negli Stati Uniti dall’Università di Seattle, in cui sono stati analizzati campioni di urina di bambini esposti ai pesticidi organoclorurati hanno mostrato nel primo caso che le concentrazioni di metaboliti alchilsolfati era significativamente maggiore nei bambini, rispetto a quanto osservato in un precedente campione di adulti, abitanti nella stessa zona, anche se l’esposizione era da riferire più all’uso domestico di insetticidi che alla dieta; nel caso di Seattle si è scoperto che nei bambini, che consumavano abitualmente frutta e verdure biologiche, la concentrazione degli alchilsolfati era sei volte inferiore, rispetto a quella dei bambini alimentati convenzionalmente.
Dal momento che è ormai appurato che l’assunzione di pesticidi organofosfati per via diretta con l’alimentazione o indiretta, attraverso la placenta, può alterare lo sviluppo del sistema nervoso centrale, l’EPA (Environmental Protection Agency) ha messo in relazione il vertiginoso aumento delle patologie comportamentali, decisamente aumentate negli ultimi anni in USA, anche con l’aumento dell’assunzione di questi composti.
A seguito dei risultati di studi come quelli sopracitati, il National Research Council (NRC) dell’Accademia nazionale delle scienze di Washington suggerisce che le procedure per la valutazione del rischio sulla salute dei fitofarmaci siano condotte, prendendo come modello l’organismo di una bambina (per la maggiore sensibilità agli effetti dei pesticidi sugli organi riproduttivi) nella fascia d’età compresa tra 0 anni e la pubertà, cioè quella più sensibile.
La maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto all’organismo adulto è dovuta all’immaturità dell’azione disintossicante del fegato nella giovane età.

La questione
del «multiresiduo»

Un altro problema che si pone nella definizione dei limiti di legge per i pesticidi residui negli alimenti è quello del multiresiduo. Attualmente i limiti della dose di residuo sono calcolati sull’organismo adulto e per un singolo principio attivo, quindi questo modello non tiene conto dell’eventuale sinergismo di più composti. Tuttavia c’è un regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue, il 396/2005, secondo il quale si dovrebbe finalmente tenere conto del multiresiduo ed inoltre i limiti massimi dovranno essere uniformati in tutta l’Unione europea.
È importantissimo non sottovalutare i rischi associati all’uso di fungicidi, in particolare dei ditiocarbammati, come il mancozeb ed il maneb, considerati a bassa tossicità, perché tali composti vengono rapidamente metabolizzati nell’organismo e nell’ambiente, con la formazione di etilentiourea (ETU), un metabolita molto tossico, che ad alte dosi è teratogeno per il feto dei mammiferi ed inoltre è un potente tireostatico, cioè interferisce con lo sviluppo della tiroide e degli ormoni tiroidei, che sono importantissimi per la maturazione del cervello. Studi sperimentali sui roditori esposti ai ditiocarbammati hanno mostrato danni neurologici simili a quelli presenti nel morbo di Parkinson.
Tra i vari danni portati alla salute umana dai pesticidi ci sono poi quelli dei pesticidi ad azione ormonale, cioè quelli appartenenti alla categoria degli Endocrine Disrupting Chemicals (EDC), ai quali abbiamo già accennato prima, parlando degli studi compiuti sui bambini. Si tratta di composti in grado d’interferire con la normale regolazione ormonale di un organismo, secondo diversi meccanismi: alcuni sono in grado di formare un complesso ormone-recettore; altri interferiscono nei meccanismi di produzione o di eliminazione di un ormone; altri ancora stimolano la formazione di recettori di superficie per determinati ormoni; ci sono infine quelli che reagiscono direttamente o indirettamente con un ormone, alterandone la struttura o la sintesi. Di solito questi composti presentano un’elevata solubilità nei lipidi, quindi tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo degli esseri viventi, il che non comporta problemi fisiologici fino a quando non cominciano dei processi di mobilizzazione dei grassi, come avviene ad esempio nel momento della riproduzione. In questo caso tali sostanze vengono liberate dal tessuto adiposo e metabolizzate, con conseguente formazione di altri composti, che possono avere un’azione ormonale. Un altro aspetto fondamentale è l’accumulo di questi composti nei diversi livelli della catena alimentare (biomagnificazione o concentrazione attraverso la catena alimentare), per cui animali predatori, che si trovano al vertice di questa catena presentano la più alta concentrazione di composti lipofili. Tra questi organismi c’è anche l’uomo. Una delle classi di composti che meglio corrisponde a queste caratteristiche è quella dei pesticidi organoclorurati, cioè contenenti cloro, tra cui abbiamo i dicloro-difeniletani (Ddt, Dde, Ddd, ecc.), i cicloesani ed i ciclodieni. Molti di questi composti sono attualmente vietati o molto limitati nell’uso, ma continuano ad essere presenti nell’ambiente, perché accumulati negli esseri viventi grazie al processo di bioaccumulazione. Questo processo è favorito dalla presenza di atomi di alogeno (come il cloro) nella catena di idrocarburo (carbonio più idrogeno). Gli alogeni introdotti negli idrocarburi ne diminuiscono l’idrosolubilità e ne aumentano la liposolubilità. Ecco il motivo della loro presenza nel tessuto adiposo. Il capostipite di questi composti è l’insetticida Ddt o Dicloro-difenil-tricloroetano, una molecola caratterizzata da due anelli benzenici e da 5 atomi di cloro. A dimostrazione della potenzialità di questi composti si può citare l’incidente avvenuto nel 1980 nel lago Apopka in Florida, dove venne riversata dalla Tower Chemical Company, un’azienda produttrice di clorobenzilati, una miscela di dicolfolo, DDT e DDE. In seguito nella popolazione di alligatori del lago sono state evidenziate anomalie endocrine di vario tipo, tra cui emergevano la demasculinizzazione degli alligatori maschi e la superfemminilizzazione delle femmine, questo per via di una concentrazione di estrogeni doppia del normale in questi organismi. Pesticidi di questo tipo si comportano a tutti gli effetti come estrogeno-mimetici. La presenza di pesticidi organoclorurati è stata inoltre correlata alla diminuzione ed alla scomparsa di alcune specie di rane in parchi e riserve naturali in Canada.
A livello umano, questi pesticidi sono stati associati alla comparsa di patologie come l’endometriosi, che colpisce circa 80 milioni di donne al mondo, senza distinzioni etniche o sociali. Oltre a questo nelle donne causerebbero infertilità, aborti e parti prematuri, nonché malformazioni fetali. Analoghi problemi d’infertilità si sono sviluppati anche nell’uomo.
Uno degli aspetti più temibili di questi composti è la possibile associazione, come suggerito da alcuni recenti studi (anche se non tutti gli studiosi convergono su questo punto), tra i composti organoclorurati e l’insorgenza del cancro della mammella, una delle principali cause di morte per tumore nella donna, essendo le altre il carcinoma del polmone e del collo dell’utero (quest’ultimo ad eziologia virale, da Hpv). Il tumore della mammella esiste infatti in due varietà, estrogeno-dipendente ed estrogeno-indipendente; è chiaro che lo sviluppo del primo tipo è strettamente correlato alla presenza di estrogeni nell’organismo.
   
I pesticidi illegali

Finora ci siamo occupati quasi esclusivamente degli effetti di pesticidi legalmente in uso, ma non dobbiamo dimenticare che nell’ambiente sono ancora presenti (in parte per bioaccumulazione, in parte perché tuttora alcuni vengono adoperati nei paesi in via di sviluppo) dei pesticidi appartenenti ad un gruppo di composti definiti POP (Persistent Organic Pollutants). Tali composti sono stati messi al bando il 17 maggio 2004 dalla Convenzione di Stoccolma e sono: DDT, aldrina e dieldrina, clordano, endrina, toxaphene, eptacloro, PCB, murex, esaclorobenzene, diossine e furani. A parte diossine, furani e PCB, tutti gli altri sono pesticidi. La Convenzione di Stoccolma ne vieta la fabbricazione, l’impiego ed il commercio e prevede anche l’obbligo di allestire un inventario dei depositi di materiali contaminati da POP e di smaltie le scorie in modo ecologico. Nonostante queste restrizioni, il rapporto di Legambiente del 2004 mette in luce la presenza di DDT in Italia, specialmente in Emilia-Romagna, Liguria, Sardegna, Marche e Lazio. Ciò può essere dovuto al fatto che il DDT può viaggiare negli strati caldi dell’atmosfera, per condensare e precipitare a terra quando incontra aria più fredda, quindi non solo ha la capacità di persistere a lungo, ma anche di arrivare molto lontano dal luogo di utilizzo (nel mondo viene ancora adoperato nei paesi dove la malaria è endemica). Inoltre nelle serre e nei sistemi di coltivazione al chiuso si usa spesso terriccio, probabilmente contaminato, proveniente dai paesi dell’Est.

Che fare?

Toando al nostro dubbio iniziale sulla presenza o meno di residui di pesticidi sui prodotti ortofrutticoli, in assenza di indicazioni, è chiaro dai risultati dell’indagine di Legambiente che la metà della frutta ed un quarto della verdura risultano contaminati. Che fare quindi, dal momento che qualcosa bisogna pur mangiare? Senza farsi prendere dal panico, forse è sufficiente fare delle scelte ragionate al momento dell’acquisto, rivolgendosi il più possibile ai prodotti da agricoltura biologica, che sono sottoposti a maggiori controlli. Ormai in parecchi supermercati si trova l’angolo dedicato a questi prodotti. In loro mancanza, vale sempre il buon vecchio metodo del lavaggio molto accurato della verdura e della frutta. Quest’ultima poi andrebbe sempre sbucciata, magari asportando anche un po’ di polpa, dal momento che i pesticidi si concentrano nella buccia e nello strati immediatamente sottostante. Inoltre è sempre meglio leggere attentamente gli ingredienti e le informazioni riportati nell’etichetta dei cibi confezionati. Ove possibile poi, sarebbe opportuno servirsi dei prodotti del commercio equo e solidale, anche se in qualche caso possono essere più cari. Questo commercio può aiutare le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, paesi dove l’uso indiscriminato di pesticidi e lo sfruttamento delle multinazionali stanno causando delle gravi emergenze sociali.
(fine 1.a puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario

Alogeni: sono il fluoro, il cloro, il bromo, lo iodio e l’astato e sono gli elementi del VII gruppo del sistema periodico. Sono non-metalli, energici ossidanti e molto reattivi, che si combinano facilmente con gli elementi del I gruppo del sistema periodico (metalli), dando origine a dei sali.

Anticrittogamici: sostanze chimiche attive contro le crittogame parassite delle piante coltivate. Per crittogame si intendono le piante senza fiore, contrapposte alle piante fanerogame o con fiore. In agricoltura la lotta viene condotta quasi esclusivamente contro un tipo di crittogame, cioè i funghi e, a seconda dell’azione, gli anticrittogamici vengono definiti come fungicidi, quando uccidono i funghi; fungistatici, quando ne ostacolano lo sviluppo; antisporulanti, quando interferiscono con la sua moltiplicazione. Gli anticrittogamici si dividono inoltre in esofarmaci, se esercitano la loro azione sulla superficie dei vegetali ed in endofarmaci, se penetrano nei tessuti interni. Di solito i primi hanno un’azione preventiva e gli altri curativa, nei confronti delle infezioni. Infine gli anticrittogamici possono essere inorganici (a base di rame, di zolfo o di polisolfuri), oppure organici (carbammati, derivati del fenolo, dicarbossimidi, ammine, ammidi, diazine, eterociclici diversi, aloidrocarburi).

Azione detossicante del fegato: tra le sue molteplici attività, il fegato svolge la funzione detossicante, ovvero le sue cellule (epatociti) provvedono ad eliminare dal sangue le sostanze tossiche per l’organismo (tra cui ad es. l’alcornol etilico).

Composti inorganici: composti chimici privi di carbonio nella loro molecola, appartenenti al regno minerale.

Composti organici: composti chimici contenenti carbonio nella loro molecola e caratterizzanti la materia vivente.

Diserbanti o erbicidi: sostanze che distruggono le erbe infestanti o ne impediscono lo sviluppo in modo selettivo o non selettivo. L’azione fitotossica dei diserbanti può riguardare la struttura dei tessuti (causticazione, coagulazione del materiale cellulare, ecc.) o i meccanismi biologici del vegetale (alterazione del metabolismo di alcune sostanze, dei meccanismi ormonali, ecc.). Un erbicida può avere tempi di degradazione molto brevi, o permanere a lungo inalterato nel terreno, a seconda delle sue caratteristiche chimiche, fisiche, biologiche, nonché delle condizioni ambientali e delle caratteristiche del suolo. Ogni specie coltivata tollera la presenza di residui di ciascun diserbante solo se la concentrazione non supera un determinato valore, detto soglia di tollerabilità della specie verso un certo erbicida. I diserbanti sono classificati in: fenossiderivati, derivati degli ossiacidi aromatici o dell’acido ftalico, derivati degli acidi aromatici o dell’acido benzoico, derivati degli acidi grassi, nitroderivati o nitrocomposti, benzonitrili, carbammati, derivati dell’urea, ammidi, triazine o loro derivati, dipiridilici, diazine, piridine, pirimidine, derivati diversi.

Edc (Endocrine disrupting chemicals): composti chimici con azione di disturbo sul sistema endocrino, cioè sull’attività ormonale.

Endometriosi: patologia cronica femminile caratterizzata dall’anomala presenza di endometrio, cioè mucosa uterina, in altre sedi come ovaie, tube, peritoneo o intestino. Conseguenze di questa anomalia sono sanguinamenti interni, infiammazioni croniche, presenza di tessuto cicatriziale, aderenze ed infertilità. L’endometriosi è spesso dolorosa e può diventare invalidante.

Epa (Environmental protection agency): agenzia di protezione ambientale statunitense.

Fitofarmaci: composti chimici naturali o sintetici usati in agricoltura per combattere i parassiti e le malattie delle piante, per proteggere le colture da tutti gli agenti dannosi (non necessariamente parassiti, come erbe infestanti o alghe) e per il miglioramento della produttività. I fitofarmaci vengono distinti in varie classi: fisiofarmaci, usati per il controllo delle alterazioni fisiologiche da cause varie; fitoregolatori, capaci di modificare il normale sviluppo delle piante, in modo da ottenere rendimenti anomali, ma economicamente vantaggiosi, oltre che di controllare le alterazioni fisiologiche; fertilizzanti fogliari, impiegati per curare le malattie da carenze nutrizionali; erbicidi, per eliminare le erbe infestanti (vedi sopra); antiparassitari, per eliminare organismi vegetali o animali dannosi per le colture; anticrittogamici (vedi sopra).

Insetticidi: composti chimici in grado di eliminare gli insetti dannosi alle colture, alle derrate alimentari, agli animali domestici ed all’uomo. La loro tossicità, che può essere acuta o cronica, impone la necessità di stabilire i valori di ADI (acceptable daily intake) cioè le dosi giornaliere accettabili, che influenzano anche i valori limite dei residui di insetticidi ammessi per es. negli alimenti. Gli insetticidi sono classificati in:
• cloroderivati, cioè composti organici di sintesi, contenenti in prevalenza cloro, usati anche come anticrittogamici (cloropicrina). Sono distinti in derivati del difeniletano (DDT, DDD, ecc.), del cicloesano (esaclorocicloesano, lindano, ecc.), e ciclodienici (endosulfan, eptacloro, clordano, aldrin, dieldrin, ecc.);
• composti organofosforici: sono composti organici, contenenti fosforo, agenti in modo polivalente nei confronti degli insetti, degli acari e dei nematodi (vermi). Alcuni di questi sono usati per disinfestare le derrate alimentari o il terreno. Si distinguono in fosfati (dichlorvos), tiofosfati (paratione), ditiofosfati (dimetornato), fosfonati (trichlorphon), ditiofosfonati (fonophos);
• carbammati: composti di tipo alcaloide, distinti in monometilcarbammati (carbaryl, carbofuran) e dimetilcarbammati (isolan), usati come geodisinfestanti, disinfestanti del bestiame e delle abitazioni;
• piretroidi, neonicotinoidi, rotenoidi: insetticidi di origine vegetale, facilmente biodegradabili, ma che spesso presentano problemi di tossicità.

Metaboliti alchilfosfati: prodotti del metabolismo cellulare, costituiti da molecole di idrocarburi (carbonio e idrogeno) a catena aperta, con la presenza di atomi di fosforo.

Pesticidi: è un termine generico, che comprende gli anticrittogamici, i fitofarmaci, gli insetticidi, i diserbanti, ecc., cioè quei composti di origine per lo più sintetica, che vengono applicati sulle colture, sulle derrate alimentari o sul terreno per liberarli da infezioni o da infestazioni di vario genere.

Pop (Persistent organic pollutant): inquinante organico persistente nell’ambiente.
(a cura di R.Novara e R.Topino)

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (12) Un viaggio di schiavitù: dalla casa al porcile

«Per la libertà Cristo ci liberò: non sottomettetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1)

15E dopo essersi messo in viaggio andò a servizio di (lett.: si incollò, attaccò a) uno degli abitanti di quella regione, e (= che) lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno glie(ne) dava.

D ei 16 affreschi elencati nella puntata n. 10 dedicata alla parabola (cf MC maggio 2007) ne abbiamo preso in considerazione 10; ora ci apprestiamo a riflettere sui restanti 6. Li riportiamo di nuovo per facilitare la lettura e la riflessione:
11.    Colui che era figlio ora diventa servo (si mise a servizio).
12.    Il figlio sostituisce il padre con «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione).
13.    Il viaggio intrapreso dal figlio porta ad un abisso di impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci).
14.    Colui che si credeva ricco perché aveva «tutto» non ha neanche gli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube).
15.    Colui che era stato commensale del padre, ora è a mensa con i porci (che mangiavano i porci).
16.    Colui che fu il prediletto del padre è rifiutato anche dai porci (nessuno gliene dava).

Dopo essersi messo in viaggio
Il giovane figlio era partito da casa verso un paese lontano, a lungo sognato come regno della libertà, mèta della sua realizzazione: ora deve ripartire di nuovo. Non è ancora arrivato che deve ripartire: il viaggio fatto è già inutile. Anche se per raggiungere un obiettivo si percorre molta strada non significa che si approda a una mèta, perché questa deve coincidere con l’obiettivo del cuore, del proprio essere intimo. Il viaggio della maturità non è vagare a zonzo. Il giovane figlio è scollato dentro di sé perché non ha più punti di riferimento e la sua vita è stravolta perché sono crollati gli appigli che aveva scambiato per sicurezza: ricchezza, compagni, divertimento.
Immerso nella più totale solitarietà, è incapace di percepire la direzione della sua vita. La tracotanza diventa dispersione e la presunzione disperazione. Il giovane figlio non fa l’esperienza della solitudine che è l’abitudine a stare con la propria intimità, nel silenzio e in compagnia di Dio. L’essere solitario è il vuoto attorno a sé anche in mezzo a una folla: è il terrore.

In cammino o andare a zonzo. Aveva disperso «tutto» con allegria e si ritrova di nuovo sulla strada non più in cammino verso una mèta, ma in viaggio spinto dalla sopravvivenza e dalla fame, unica compagna rimastagli. Camminare è un atto religioso di pellegrinaggio, che conduce a uno scopo già conosciuto perché lo si è visitato nel proprio cuore: si cammina verso il proprio io profondo, verso l’amore, verso un amico, un’amica, verso Dio, anche verso la morte e oltre la morte. Qui, il figlio «senza salvezza», dissoluto, cioè sciolto e smembrato due volte, invece, si mette solo in viaggio perché non sa dove andare e alla fine prenderà quello che capiterà. Non guida più gli eventi, ora sono gli eventi anche occasionali e imprevisti che lo sovrastano.

Nota spirituale. Qui potremmo vedere la descrizione della nostra storia di fede: crediamo di essere in cammino, invece andiamo solo lontano; pensiamo di pregare, invece parliamo solo con noi stessi; c’illudiamo di avere Abramo come padre (Gv 8,39), mentre siamo solo figli senza storia. A volte succede di avere la presunzione di essere nella volontà di Dio solo perché siamo battezzati, consacrati, credenti; invece siamo solo «incollati a… uno qualsiasi» degli idoli che popolano il nostro orizzonte di vita e verso i quali viaggiamo spediti, allontanandoci, anche senza avee coscienza, sempre più dalla sorgente di vita che è pateità.
Il figlio giovane è spesso la fotografia a colori della nostra situazione precaria che si lascia riempire di cose e compagnie occasionali, ma si priva della relazione essenziale dell’amore che è sempre «mettersi in cammino verso…», non un «allontanarsi da…». Possiamo moltiplicare le nostre preghiere, esse spesso sono solo formule che ingannano noi e non commuovono Dio, perché siamo lontani, incollati a una terra dove nemmeno a Dio permettiamo di entrare. Tutto è confinato: noi lontano dalle nostre origini, Dio lontano dal nostro orizzonte, fratelli e sorelle lontani dal nostro amore. Possiamo fare finta, illudere la nostra illusione, non possiamo mai ingannare la nostra coscienza e lo Spirito che, anche se sepolto, è presente in noi e nelle nostre scelte.
A volte pensiamo di dare gloria a Dio, mentre invece celebriamo solo noi stessi. Non basta celebrare liturgie «perfette» e vestire panni liturgici sgargianti, od osservare materialmente regole, prescrizioni e orari; non è sufficiente essere preti, religiosi, osservanti e pii per essere «incollati» al Padre, al Figlio e allo Spirito fin nelle fibre più intime del nostro cuore.
Dentro di noi si agita un figlio che cerca salvezza, ma volendo salvarsi da solo, si ritrova a dissipare il «tutto» che è e che ha come se fosse «senza salvezza, da dissoluto: perduto due volte».

Conoscere ciò che si cerca. È un momento drammatico nella vita del figlio giovane. Egli ancora una volta si allontana dalla mèta che si era prefissato e che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa: egli che già si trova in un «paese lontano», va oltre, ponendo un abisso tra lui e suo padre. Non ha trovato ciò che cercava, perché non sapeva cosa voleva. La persona matura che si mette in cammino sa sempre quello che cerca.
Questo supplemento di viaggio significa un allontanamento ancora più radicale da suo padre e dalla sua casa, la cui distanza aumenta, mentre proporzionalmente diminuiscono le possibilità di un ritorno. Sembrerebbe che l’evangelista volesse dirci che questo figliolo ha oltrepassato il punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della sua consistenza. Cosa c’è più lontano di un «paese lontano»? C’è solo l’abisso dell’inferno, dove sta entrando il «figlio più giovane» che pretese la vita del Padre per dilapidarla in un commercio dissoluto senza salvezza.

Andò a servizio di (lett.: si incollò/attaccò a)
uno degli abitanti di quella regione
Senza padre, senza terra, senza eredità, senza ricchezza, senza prospettiva, senza dignità: egli semplicemente «non è». A lui si attanaglia a pennello la rassegnata dannazione del poeta: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Ossi di Seppia, «Non chiederci la parola»).
Non esiste la formula magica per scoprire mondi nuovi e lontani perché, se chi si mette in cammino non sa dove andare, può solo incontrare «ciò che non è, ciò che non sa» e non gli rimane che l’ultima spiaggia: aggrapparsi a «uno degli abitanti». Egli che voleva avere consapevolezza del proprio destino, dalla vita stessa è scaraventato nell’oblio dell’anonimato che è l’essenza del non-essere e il vertice del non-sapere.
«Uno degli abitanti»: non ha nome, né identità; addirittura non si dice che è «un uomo», ma che era solo «uno tra i tanti abitanti», un numero nella folla. Il testo greco è terribile nella finezza psicologica: usa il verbo kollàō, che significa «m’incollo/congiungo/aderisco/unisco».

Incollarsi alla vita. Il verbo è forte: indica una profonda intimità di condivisione di vita ed esprime anche il rapporto coniugale tra uomo e donna, per definire la fusione sponsale, che elimina la dualità di maschio e di femmina, per fare l’unità del nuovo soggetto coniugale. Il verbo kollàō elimina l’io e il tu per dare vita alla novità del noi: è un verbo che fa nascere una nuova personalità. In questo senso lo usa Matteo per affermare il principio della creazione, nella Genesi, che narra come l’uomo abbandona/si separa da suo padre e madre (cioè dalle relazioni esistenziali ed essenziali alla vita) per «lasciarsi incollare» alla propria donna ed essere così «due in una carne sola» (Mt 19,5; cf Gen 2,24). Qui il verbo esprime il suo significato più profondo, perché l’adesione dell’uomo alla donna produce l’unità più radicale della natura umana.
Luca stesso usa questo verbo per descrivere la polvere «che si è incollata/attaccata» ai piedi degli apostoli, divenendo parte di essi (Lc 10,11). In At 8,29 lo Spirito suggerisce a Filippo di «incollarsi al carro» dell’etiope sovrintendente della regina Candàce, per spiegargli l’identità del Servo. In At 17,34 lo stesso verbo è usato per descrivere l’adesione alla fede predicata da Paolo: «Ma alcuni uomini, essendosi incollati a lui, credettero». In Ap 18,5 invece è usato per indicare i peccati di Babilonia che «si sono incollati al cielo».
Questi pochi esempi sono sufficienti per soffermare la nostra attenzione su questo verbo che ha un senso decisivo e pone in atto un contrasto radicale tra la situazione di prima e quella di dopo. Non si tratta solo di mettersi a servizio per sbarcare il lunario in un tempo di carestia. La posta in gioco è molto più alta.

Conoscenza o anonimato. L’evangelista parla di un rapporto d’intimità che riguarda la vita e il suo destino, anzi le condizioni della vita stessa: colui che era figlio, ora è schiavo; colui che era libero di amare e di essere amato, ora è «incollato» a un anonimo; colui che voleva vivere a modo suo, ora è costretto a vivere a modo di un altro. Si è liberato di un padre, uccidendolo anzitempo per trovare un padrone a cui non esita di affidarsi incondiziona-tamente, incollando la sua vita a quella sua, instaurando, cioè, con lui una conoscenza così profonda da alienarsi per sempre: diventerà anonimo anche lui non solo per gli abitanti di quella regione, ma anche per gli animali, per i porci che non lo riconoscono.
La tragedia di questo figlio è terribile, se rapportata a quella dei suoi antenati, anch’essi in terra lontana (in esilio), che preferiscono morire, piuttosto che deturpare il nome e i canti di Gerusalemme: «Possa incollarmisi (kollàō) al palato la lingua, se non mi ricordassi di te (Gerusalemme)» (Sal 137/136,6). L’esule a Babilonia si strugge per essere stato costretto a separarsi dalla sua casa che è anche l’abitazione di Dio; mentre il giovane figlio ha scelto di separarsi dalla casa del padre per aderire/attaccarsi al vuoto del suo futuro senza salvezza. Egli si strappa dalla consacrazione al Dio di Gerusalemme e s’incolla, cioè si consacra a un padrone di morte. Essere incollato a uno qualsiasi degli abitanti di quella regione ha in questo contesto un valore profondamente religioso perché corrisponde anche a un atto di fede: egli accetta la legge, regole e comandamenti di «uno qualsiasi», compiendo un atto di apostasia dal suo Dio e dalla fede di suo padre. «Incollarsi a qualcuno» è accettae la prospettiva e dimensione di vita, quindi diventare come lui.

Lontano dalla Shekinàh. Non va verso l’anonimo come espediente per sopravvivere, ma è una conversione alla rovescia: abdicare da figlio d’Israele per diventare suddito di «uno degli abitanti di quella regione»; rinunciare alla sua identità di figlio del Dio di Abramo per essere servo di un impuro e sfruttatore; abbandonare le norme religiose del suo popolo per essere immondo e senza salvezza «in quella regione» che è «lontana» dal tempio, da Gerusalemme, dalla Toràh, dalla Shekinàh/Dimora del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Nel giovane figlio Adam ed Eva hanno toccato il fondo del loro costante e sistematico allontanamento dall’Eden.
Abramo credette contro ogni speranza; il giovane figlio rinnega con tracotanza; Isacco si offre in olocausto e si fa legare all’altare del sacrificio pur di restare fedele al padre suo e al Dio di suo padre; il figlio della parabola si scioglie da ogni obbligo e lega il padre all’altare del suo egoismo; Giacobbe si mette al servizio (gr.: doulèuō/io servo: il verbo conserva ancora un senso di dignità) di Labano per avere Lia e Rachele come mogli, restando distinto dal suocero e contestandone l’arroganza perfida (Gen 29,25.30), al contrario del giovane figlio, che invece prende l’iniziativa per vendere se stesso, abdicando alla sua stessa esistenza e alla sua dignità di persona. Lontano dal Dio d’Israele, come può essere vicino al senso della sua identità? Voleva vivere da parassita, ora è a rischio la sua stessa esistenza che non-vita.

E lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci
Da un punto di vista letterario il versetto 15 contiene un «anacoluto», cioè viene cambiato il soggetto logico. Si sta parlando del figlio giovane che s’incolla a un abitante della regione e il versetto continua trasformando quest’ultimo in soggetto, contro ogni logica grammaticale: «Andò (il giovane è il soggetto) a servizio di uno degli abitanti della regione e lo mandò (uno degli abitanti è il nuovo soggetto) nei suoi campi a pascolare i porci».

Figlio di Beelzebùl. Pascolare i porci è proibito a un ebreo dalla Toràh: «Fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti… il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo» (Lv 11,4.7; Dt 14,3-5.7-8).
Tale proibizione, più che a un motivo di igiene (il porco si nutre di ogni immondezza), si deva a una ragione mitologica: nella mitologia antica, il porco è associato al diavolo, è l’incarnazione di Beelzebùl (ancora oggi nella iconografia il diavolo viene raffigurato spesso con il piede di porco), che è la fonte dell’idolatria e impurità, perché egli è l’opposto di Dio, anzi il nemico. Il suo nome in babilonese è «Baal Zebul», cioè «Signore/Padrone della casa», che gli Ebrei storpiarono in «Baal Zebub – Signore delle mosche» (cioè degli escrementi). Un indizio forte di ciò lo troviamo nei vangeli sinottici, quando Gesù libera l’indemoniato addirittura da una «legione» di spiriti maligni, i quali dopo essersi arresi chiedono il permesso, che Gesù concede, di traslocare in un branco di circa duemila porci (Mt 8,28-34; Mc 5,1-14; Lc 8,26-34).

L’impurità sessuale. Pascolare i porci significa quindi mettersi sotto il dominio di Satana e del suo influsso malefico, accettare di passare dalla fede in Dio alla religione del maligno, dal comandamento della Toràh alla legge dell’ateismo. Nel 2° libro dei Maccabei si narra del vecchio scriba Eleazaro, che, viene costretto a mangiare carne di porco per avere salva la vita, preferisce la morte atroce e lasciare un esempio di fedeltà al Dio dei padri che avere salva la vita e condannare le generazioni future con un esempio di morte (2 Mc 6,18-31). Lo stesso avviene per i sette fratelli figli dell’eroica madre che preferisce lei stessa consegnare i figli alla morte pur di non trasgredire la legge di Dio (2 Mc 7,1-41, specialmente i vv. 1-3).
Il giovane della parabola accetta addirittura di «pascolare» i porci, cioè di allevarli per altri, e quindi partecipa alla corruzione del futuro, diventando strumento di morte anche per le generazioni seguenti. Un altro elemento di impurità del porco dipende dalla cultura greca che lo associa alla sfrenatezza sessuale (Aristotele, Historia animalium, V,14,546a,8-28).
Siamo sicuri che sia questo il contesto del vangelo di Luca, perché troviamo anche nella tradizione rabbinica la controprova che al tempo della chiesa nascente, questo era il sentire ebraico. La Mishnàh, infatti, prescrive che «nessuno può allevare porci in qualsiasi posto (beqòl maqòm)» (trattato Baba Kama/Prima Porta 7,7), mentre nel Talmud di Babilonia in modo ancora più esplicito si commina la maledizione a chi alleva porci e diffonde i costumi della cultura greca, mettendo così in stretta correlazione il porco e il pensiero greco, associandolo alla sfrenatezza sessuale: «Maledetto sia l’uomo che alleva porci e chiunque insegna la saggezza greca» (trattato Bekoròt/Primogeniti 82b).

La carruba e la speranza. Il giovane figlio non poteva cadere più in basso di così: dalla casa patea alla porcilaia, dal tempio all’impurità totale, dalla terra promessa benedetta alla maledizione in terra straniera, dall’obbedienza della parola di Dio alla schiavitù di un anonimo qualsiasi, dalla dignità di figlio alla schiavitù in terra lontana, dai sogni di grandezza all’abisso dell’abiezione.
Lui che era pastore di greggi nella casa del padre, ora è schiavo di porci che non gli riconoscono nemmeno la dignità di commensale. Volle affrancarsi dall’obbedienza del padre, per scrollarsi qualsiasi forma di dipendenza, e si trova davanti un padrone che «lo inviò nei suoi campi» e accetta la «missione» di essere impuro, senza protesta, alimentando l’impurità e sprofondando in essa sotto il peso della maledizione del suo popolo.
Lui che aveva aspirato a desideri di libertà, tanto da comprarla con la ricchezza iniqua, ora aspira a un solo desiderio: sfamarsi delle carrube che implora dai porci stessi al cui livello ormai si considera, ma i porci lo escludono dalla loro intimità e non lo vogliono nel loro porcile, perché egli è andato oltre l’abisso e ogni speranza che nessuna carruba potrà mai sfamare. Oltre l’immondezza della porcilaia, c’è appunto il giovane figlio che ha degradato la vita del padre incollandola a quella di un impuro e senza Dio. Non resta che una prospettiva, l’unica soluzione, la sola possibilità: la morte come pietra tombale sul vuoto che soffoca anche il desiderio di essere porco tra i porci. Come è lontano il padre adesso! Come è lontano il figlio da se stesso!  (continua – 12).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Angioletto nero

Ricordando un missionario … e il suo estro artistico

Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.

Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.

Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand  nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.

Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!

Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella