Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




CANA (14) : RILETTURA CRISTIANA DI GENESI

Il racconto delle nozze di Cana (14)

«In principio Dio creò il cielo e la terra … e in principio era il Lògos» (Es 4,20).
Dopo dodici puntate di introduzione, tralasciando tutti gli altri problemi riguardanti la critica testuale, l’analisi letteraria e gli approfondimenti relativi, che ci porterebbero a comporre un trattato solo sul racconto di Cana, crediamo utile passare all’analisi del testo che vorremmo gustare parola per parola. Per il credente, lo studio della Parola è preghiera perché diventa carne e sangue, fondamento e prospettiva di vita.
L’alfabeto della Presenza
La Parola di Dio che attraversa il nostro cuore, purificandolo e convertendolo, ritorna da dove è venuta, come la pioggia che scende dal cielo a bagnare la terra che a sua volta la restituisce al cielo in forma di vapore, di nubi e nuova pioggia. Lo descrive in modo impareggiabile il profeta Isaia:
«10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
A) Studiare è sacrificio gradito
La Parola di Dio è l’alfabeto con cui parlare la lingua nuova della Presenza/Shekinàh di Dio e della fede in lui. Per gli Ebrei lo studio della Toràh dispensava sia dal lavoro che dall’osservanza dei precetti perché lo studio della Scrittura era paragonato ad un giogo impegnativo e pesante come insegna Rabbi Ne’hounia ben Hakàna che diceva: «A colui che accetta il giogo della legge, saranno risparmiati  il giogo del Regno ed il giogo delle preoccupazioni del mondo» (Pirqè Avòt/Massime dei Padri III,5). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo, per scoraggiarlo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh (Talmud Babilonese, Berakòt 30b). Il giogo però indica anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh ed equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud Babilonese, Shabàt 127a). Gesù presenta il suo messaggio come «un giogo buono/facile [da portare] e leggero» (Mt 11,30).  Non solo, ma la tradizione giudaica va ancora oltre: lo studio della Toràh ha un valore espiatorio e sacrificale: «Colui che si dedica allo studio della Toràh è come se avesse offerto lui stesso un olocausto, una offerta o un sacrificio per la remissione della colpa» (Talmud Babilonese Menahòt 110a); oppure:  «Studiare la Toràh è più grande che salvare vite umane» (Talmud Babilonese Megillàh 16b).
B) Fare la corte a Dio
Non è sufficiente leggere la Bibbia, bisogna «re-stare» su di essa per cogliere la verità di noi e la verità di Dio: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Gv 8,31) e «re-stare» vuol dire «stare saldamente ancorati» in virtù del rafforzativo «re-». Dalla lunga introduzione, i nostri lettori avranno compreso che leggere, pregare e accogliere la Parola di Dio è cosa seria ed esige tempo, intimità, fatica, pazienza. Accostarsi alla Bibbia non è leggere un racconto edificante per imparare qualcosa, ma educarsi ad un rapporto d’amore, frequentare una conoscenza d’intimità, imparare ad essere innamorati, apprendere a «fare la corte» a Dio, lasciandosi sedurre dalla Parola che è il Lògos, Gesù di Nàzaret, il Figlio del Padre (cf Ger 20,7).
Pregare stanca anche fisicamente perché lo studio impegna energie, volontà, sentimenti, fantasia, emozioni, anima e corpo. Alla Parola bisogna offrire il tempo più bello della giornata, mai gli scarti, perché è un rapporto di conoscenza e di amore che allarga il cuore ad un amore sempre più senza confini. Lo studio e la preghiera, infatti, non sono incontri fugaci di prostituzione, ma profondi aneliti d’amore vissuti in un dinamico e intimo contesto d’amore. Quando releghiamo Dio e la sua Parola ai margini del nostro tempo «per adempiere al nostro dovere», noi annulliamo il patto nuziale di alleanza, diventiamo mercenari interessati e mercanti di religione.
Il testo e la traduzione letterale
Leggiamo il testo del racconto di Cana nella duplice versione: quella della Cei (edizione 2008) e quella letterale che proponiamo noi:
Questo è il testo che, adesso, dopo la lunga e articolata introduzione, ci appare meno semplice e più armonioso di quanto non immaginassimo. A leggerlo lentamente e assaporandolo si ha la sensazione di entrare nel tessuto di una grande storia che non può essere solo un banale sposalizio anonimo: il cuore ci dice che diventiamo protagonisti di eventi cosmici che ci avvolgono nel passato per proiettarci nel futuro di un processo travolgente, dove Dio e noi camminiamo insieme e insieme viviamo una dimensione nuziale che ci apre alla relazione affettiva, fondamento di ogni relazione spirituale. Cana è il luogo del nostro sposalizio, cioè della nostra vita vissuta in chiave nuziale. Entriamo dunque nel villaggio e, seduti, al banchetto delle nozze, assaporiamo le parole del vangelo.
«E nel terzo giorno» (v. 1)
Sul «terzo giorno» abbiamo anticipato molte informazioni nella sesta puntata (luglio/agosto 2009) e nella settima (settembre 2009), in cui abbiamo cercato di collocare questa espressione nel contesto ampio di tutta la Scrittura e offrendo i motivi biblici e culturali che stanno dietro alla mentalità dell’autore. Abbiamo detto che nel «terzo giorno» della creazione vi sono due benedizioni di Dio che descrivono una doppia fecondità e quindi giorno ideale per celebrare le nozze secondo la tradizione giudaica. Le nozze di Dio con Israele avvengono ai piedi del Sinai «nel terzo giorno» che diventa così il giorno della Toràh, la dote che Dio porta alla sposa nel momento in cui «l’acquista» come sua corona e gloria. Al tempo di Gesù nel quarto giorno si riuniva il tribunale a cui si poteva fare immediato ricorso per il ripudio della sposa non trovata vergine e sposata il giorno prima, cioè «il terzo giorno».
A) Una scansione della salvezza
Abbiamo anche sottolineato che il tema del «terzo giorno» attraversa tutta la Scrittura sia del Primo che del Secondo Testamento: Abramo sacrifica Isacco, Giona è salvato dal pesce, Ester salva il suo popolo, Esdra ricostruisce il tempio. Per i profeti è il giorno della risurrezione, ma anche di condanna per gli atei che si fingono religiosi. Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la resurrezione di Gesù, per cui possiamo dire che «il terzo giorno» ritma l’eternità di Dio e segna il tempo dell’uomo. Qual è il nostro «terzo giorno»? Un fatto è certo: nella nostra esistenza c’è un «terzo giorno» che segna la nostra identità e l’evento centrale che ha determinato la nostra vita. Se non prendiamo coscienza di esso e se non lo riconosciamo, noi viviamo come ubriachi che camminano a zonzo, senza una direzione e forse scambiamo i lampioni per punti di riferimento: parliamo a vuoto, mentre ci illudiamo di parlare con Dio.
B) Una formula teologica
L’espressione «E nel terzo giorno» è posta all’inizio del racconto e quindi, come si dice tecnicamente, in posizione «enfatica», cioè preminente, come se l’autore volesse che il lettore si rendesse subito conto che non si trova di fronte ad una nota cronologica, ma un evento teologico. Questa posizione di rilievo inoltre è un esplicito richiamo ai giorni precedenti, perché non si dà un «terzo giorno» senza riferirsi ai giorni precedenti che nel capitolo primo cominciano a descrivere una settimana, che è quella iniziale dell’attività di Gesù, presentata dall’evangelista come la settimana corrispondente a quella della Genesi, quando Dio «crea il cielo e la terra». Se mettiamo insieme il ritmo dei giorni descritti dall’autore scopriamo che il «terzo giorno» delle nozze di Cana corrisponde al «sesto giorno» della stessa settimana. Infatti, lo schema che propone il IV vangelo è il seguente:
1.  Gv 1,19-28: «Io non sono il Cristo»:                                 giorno uno della settimana
(Giovanni rende testimonianza e annuncia alla religione ufficiale il nuovo tempo)
2.  Gv 1,29-34: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): secondo giorno della settimana:
(Giovanni annuncia al mondo l’«Agnello di Dio»)
3.  Gv 1,35-42: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): terzo giorno della settimana:
(Un discepolo anonimo, Andrea e suo fratello Pietro sono chiamati da Gesù)
4.  Gv 1,43-51: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): quarto giorno della settimana
(Filippo e Natanaele sono chiamati da Gesù)
5.  Gv 2,1:   «E nel terzo giorno» (gr.: têi hēmèrai têi trìtēi): sesto giorno della settimana:
(Cana: rinnovo dell’alleanza del Sinai in chiave sposale)
6.  Gv 2,12: «Non molti giorni»
(gr.: oú pollàs hēemèras).
(Permanenza di Gesù, sua madre e i discepoli a Cafaao.)
C) Una nuova Genesi?
È evidente che Gv 1 e l’inizio di Gv 2 sono ritmati da questa scansione di giorni che convergono come alla loro foce naturale nel «terzo giorno» di Cana cui fa seguito l’osservazione redazionale che «rimasero non molti giorni» (Gv 2,12), che può essere letto come «un riposo» dopo la settimana impegnativa e di cui parleremo dopo per l’importanza del verbo. In questo modo avremmo uno schema settenario con sei giorni lavorativi e il settimo di riposo, costruito sul modello della settimana della Genesi, in cui per sei giorni Dio «Disse e opera» e, infine, si riposa al settimo. Il terzo giorno del nostro schema corrisponde al sesto giorno della settimana e non al settimo perché secondo il computo ebraico, il giorno si conta dalla fine di quello precedente, dal tramonto al tramonto. Su questo specifico aspetto della struttura settimanale, gli studiosi sono tutti d’accordo nel ritenere che Gv 1,19-2,12 è strutturato nello spazio di una settimana, ma moltissimi divergono nella divisione dei giorni: alcuni calcolano sei giorni, altri sette, altri otto e c’è anche chi ipotizza dieci giorni. Una minoranza di studiosi non ammette nemmeno lo schema settimanale perché secondo loro gli indizi sarebbero fragili. Noi tralasciamo queste discussioni che sono tecniche perché incomprensibili a chi non è addentro a sistemi di indagine esegetica complessa. Chi volesse però approfondire gli argomenti, può ricorrere ad un testo organico e completo di uno dei massimi esperti di Gv e specificamente del racconto di Cana a cui ha dedicato di fatto tutta la vita: Aristide Serra, Le nozze di Cana (Gv 2,1-12). Incidenze cristologico-mariane del primo “segno” di Gesù, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 560.
D) Dal «principio» primordiale al «principio»
         dell’incarnazione
A questo punto ci pare quasi ovvio dire che lo schema settimanale, all’interno del quale troviamo l’espressione «E nel terzo giorno», è uno schema teologico e non cronologico. Infatti il riferimento al racconto della creazione di Gen 1 non solo è lecito, ma è anche logico perché l’evangelista presenta l’attività di Gesù dentro uno schema settimanale per mettere in evidenza che è un’attività salvifica, una ripresa dei temi della creazione, anzi, con Gesù inizia «una creazione nuova » che trova nella «nuova alleanza» anticipata da Geremia (cf Ger 31,31) l’inizio del tempo escatologico che sia la Scrittura che la tradizione giudaica annunciano come il tempo del Messia. è anche da sottolineare che lo schema settimanale di Giovanni si apre allo stesso modo, della Genesi, con l’assoluto e solenne «In principio» che da un senso di eternità a tutto il racconto. «In principio» Dio pone mano alla creazione del cielo e della terra così come «In principio» il Lògos irrompe nel tempo della storia per farsi «carne», cioè fragilità e temporalità. In greco si trova  l’espressione «en archê» che è la traduzione con cui la LXX traduce l’ebraico «Bereshìt» di Gen 1,1. I primi cristiani usavano come Bibbia propria appunto la LXX che era quindi la loro Scrittura di riferimento per l’AT. Un altro elemento, o quanto meno un forte indizio, a cui abbiamo solo accennato, si trova nel verbo «rimasero» di Gv 2,12: dopo la settimana di Gv 1 e le nozze di Cana «nel terzo giorno» di Gv 2, Gesù, sua Madre e i discepoli si ritirano a Cafàao, dove «rimasero non molti giorni». Il verbo usato da Gv è «mènō – rimango/resto/sosto» e quindi «riposo», dove vi potrebbe essere un’eco dello «shabàt-riposo» di Dio creatore. In questo caso Gv presenta Gesù non più come la «Sapienza» che era accanto al creatore pronta ad eseguire i suoi ordini (Pr 24,1-13), ma come il «Lògos» eterno che presiede direttamente la nuova creazione che troverà il culmine nella redenzione, espressa e manifestata nella rivelazione della «gloria» che risplende sul mondo dal trono della croce. Il racconto di Cana è dunque sotto questo aspetto, una rilettura cristiana, un midràsh, della creazione di Genesi e, come abbiamo anticipato nelle puntate precedenti e come vedremo in seguito, anche e specialmente della liberazione dell’esodo e del dono della Toràh al monte Sinai.
[continua – 14]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (13) DAL TARGUM AL MIDRÀSH: ACQUA, SANGUE E VINO

Il racconto delle nozze di Cana (13)

«Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 4,20).
Alle difficoltà interposte da Mosè, Yhwh pone tre «segni» (cf Es 4,9), di cui due sperimentati sul momento perché preparatori: il bastone che diventa serpente e la mano lebbrosa che guarisce (cf Es 4,2-8), mentre il terzo, che è il vero «segno», qui è solo annunciato, anzi minacciato: «Se non crederanno neppure a questi due segni (nel greco-Lxx: semêia) e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). Si svela il mistero: l’acqua di Cana cambiata in vino è un esplicito richiamo (antìtipo) all’acqua del Nilo cambiata in sangue (tipo). Vedremo come questo segno sia determinante nella letteratura giudaica per capire il senso di quello che avverrà dopo. Ancora una volta, il rapporto «segno» di Dio e «incredulità/fede» di Mosè è messo in primo piano e bisogna capire cosa accade se si vuole scoprire il senso delle nozze di Cana che si rifanno all’alleanza del Sinai. Per cogliere la portata del racconto evangelico come midràsh è necessario partire da Es 4 e passare in rassegna i tre segni che Dio oppone all’incredulo Mosè.
1° Segno: il bastone
Il 1° segno che Dio oppone all’incredulità di Mosè che egli somma con quella degli schiavi del faraone, è il segno del bastone (Es 4,2-5) che in Oriente è l’insegna del potere, qui di Dio conferito a Mosè:
«1Mosè replicò dicendo: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: ‘Non ti è apparso il Signore!’”. 2Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. 3Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5“Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”».
L’arte della magia e della trasformazione degli oggetti non deve sorprendere perché era un’attività molto diffusa in Oriente dall’Egitto a Babilonia: le corti abbondavano di maghi che dilettavano il sovrano o impressionavano il popolo con magie più o meno roboanti. In un certo senso, si potrebbe dire che era la tv del tempo. Nell’obiezione di Mosè l’autore usa tre verbi importanti «credere, ascoltare e vedere/apparire», facendo proprio il linguaggio della rivelazione di Dio. Il binomio «ascoltare/vedere» è proiettato verso il «credere» e provengono anche dalla relazione che ogni Ebreo ha con la Toràh che deve essere creduta, ascoltata e contemplata. La fede non è raziocinio, ma è visione e ascolto, cioè contemplazione ed esperienza che si consuma nell’incontro «fisico» tra il credente e il creduto. La fede cristiana parte dalla storia e arriva alla persona, anzi alla Shekinàh – Dimora/Presenza.
Il segno del bastone (1) è importante perché secondo la tradizione giudaica, esso finita la peregrinazione nel deserto, venne custodito prima nella tenda del convegno, dove era alloggiata l’arca e quando Salomone costruì il tempio sulle colline di Sion, stava nel Santo dei Santi, accanto all’arca dell’alleanza, insieme ad una bottiglia con l’acqua del Mare Rosso e un’altra con la manna. Erano i segni «visibili», i «sacramenti» degli interventi di Dio nell’atto fondativo del suo popolo Israele.
 2° Segno: la mano lebbrosa guarita
Il 2° segno che Dio, in un crescendo di intensità, oppone all’incredulità di Mosè è quello della mano che diventa lebbrosa: è un segno di conferma e di passaggio al terzo, il più importante:
«6Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. 8“Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo!» (Es 4,6-8).
Anche in questo 2° segno è interessante notare come nel greco della Lxx per due volte si mettono in relazione la «fede» con il «segno» (Es 4,8). Quest’ultimo non suscita la fede, ma la svela. Al contrario della convinzione comune che vuole «il miracolo» come «prova» dell’azione di Dio o della fede. Questo modo di vedere le cose non è biblico perché la fede è figlia della Parola che instaura una relazione, e non un teorema che deve essere dimostrato. Come non si dimostra l’amore, così non si può dimostrare la fede.
3° Segno: l’acqua diventa sangue
Con il 3° segno si raggiunge l’apice del crescendo in tutta la sua gravità e drammaticità, qui solo annunciata perché «il segno» sarà operativo solo nel capitolo 7 dell’Esodo che a sua volta anticipa anche l’ultimo «colpo» che piegherà il faraone e tutto l’Egitto: la morte dei primogeniti egiziani nella notte di sangue, quando l’angelo del Signore segnerà con il sangue dell’agnello pasquale gli stipiti delle porte degli Ebrei e ucciderà i figli dell’Egitto: vita per gli uni, morte per gli altri (cf Es 12,29-34, spec. 21-24). Anche qui il rapporto è tra fede e segno, con una particolarità: qui il faraone e la sua corte non devono credere a Yhwh, ma a Mosè e alla sua voce che così viene identificato con la persona stessa di Dio (cf Es 4,9). È quello che farà anche Gv nelle nozze di Cana, dove non fa manifestare la «gloria di Dio», ma quella di Gesù.
Targum e Midràsh: il sangue dalla roccia
Del 1° e del 3° segno, anche combinati insieme, come il bastone che colpisce la roccia e ne fa scaturire sangue, si occupano sia il Targum  (traduzione in aramaico delle letture bibliche in ebraico) che il Midràsh (spiegazione della Scrittura con altri testi della Scrittura).
Il testo biblico di riferimento è il libro dei Numeri al capitolo 20 che è il seguente:
«6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8“Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame”. 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?”. 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. 12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do”» (Nm 20,6-12).
Il Targum di Gerusalemme a Nm 20,8.11-12 (riportiamo solo i testi che ci interessano) così traduce, mettendo insieme sia la tradizione del bastone sia quella più tardiva della roccia:
«8Prendi il bastone, tu e tuo fratello Aronne. Voi due chiedete alla roccia per il grande Nome divino perché dia acqua davanti ai loro occhi. Se si rifiuta, tu solo, darai un colpo sopra la roccia con il bastone che tieni in mano. 11Mosè alzò la sua mano e colpì la roccia con il suo bastone; la prima volta fece sgorgare sangue, mentre la seconda volta uscì acqua in abbondanza e la comunità potette bere insieme al suo bestiame. 12Yhwh disse a Mosè e ad Aronne: “Giuro: poiché non avete creduto alle mie parole per santificarmi davanti …”».
Adam sempre in agguato
Il Targum di Gerusalemme e anche il Midràsh (Esodo Rabbà a Es 4, 9) dunque mettono in evidenza il binomio fede/non fede di Mosè e Aronne: mentre Dio ordina di colpire «una sola volta» la roccia con il bastone di Dio, Mosè invece colpisce «due volte» la roccia. La prima volta sgorga sangue, e l’acqua la seconda volta. Troviamo anche qui il nesso tra acqua – sangue – fede – non fede; allo stesso modo nelle nozze di Cana troviamo il rapporto tra acqua – vino – fede (della madre e dei servitori) – non fede dell’architriclino. Il Midràsh (a Es 4, 1) aggiunge un paragone: Mosè è paragonato al serpente dell’Eden che insinua in Adam il dubbio malvagio (la gelosia) nei confronti del Creatore; Mosè invece cerca di insinuare in Dio stesso il dubbio sulla fede degli Israeliti oppressi: egli calunnia il popolo di Dio e quindi non santifica il suo Nome:
«Dovresti essere colpito con il bastone che tieni in mano perché hai calunniato i miei figli che invece sono credenti, come sta scritto: “Allora il popolo credette” (Es 4,31); essi infatti sono figli di credenti come sta scritto: “Egli [Abramo] credette al Signore” (Gen 15,6). Mosè agì come il serpente che calunniò il Creatore, quando disse: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Mosè quindi sarà punito allo stesso modo del serpente che attribuì a Dio una intenzione malvagia agli occhi della prima coppia» (Midràsh, Esodo Rabbà a Es 4,1).
Dal bastone del potere alla Parola dello Sposo
Nelle nozze di Cana non c’è più Mosè con il bastone, simbolo del potere, e non c’è neanche l’intenzione di dubitare, ma vi è una realtà nuova, foriera di una grande novità: c’è l’Israele fedele che aspetta la redenzione, simboleggiata dalla madre, c’è l’Israele incredulo simboleggiato dall’architriclino e dallo sposo ignaro, c’è la disponibilità a cominciare a credere della nuova umanità simboleggiata dagli apostoli, convitati anch’essi alle nozze; ma soprattutto c’è lui, lo Sposo nascosto, che aspetta l’ora della sua Gloria, ma che è costretto dal bisogno del mondo ad anticiparla. L’acqua non si cambia in sangue minaccioso di morte, ma nel vino dell’allegria nel contesto della gioia nuziale. Il nuovo Mosè non deve battere le anfore di pietra con il bastone del potere,  ma è sufficiente una sua Parola, perché lo Sposo della nuova alleanza agisce come il Creatore: opera attraverso la Parola. Egli parla e così avviene.
È evidente che lo schema teologico dell’Esodo fa da sfondo al racconto giovanneo che ancora una volta s’interroga e interroga sul mistero della personalità di Gesù, che diventa così la chiave ermeneutica per rileggere gli eventi antichi e scoprie i sensi nascosti che portano in sé. Gesù non è venuto a soppiantare Israele perché egli è immerso nella storia e nella fede del suo popolo e ciò che compie e dice e insegna non è una sostituzione di ciò che lo precede, ma la ricchezza abbondante nascosta e portata alla luce perché il mondo intero potesse «vedere la Gloria e cominciare a credere».
Principio e compimento
L’acqua e il vino, sullo sfondo dell’acqua del Nilo che diventa sangue, acquista anche un altro simbolismo perché anticipa il valore sacramentale della morte di Gesù alla fine del vangelo, costituendo così una particolare inclusione o richiamo non solo verbale, ma tematico, passando per la consapevolezza di Gesù che, prima della lavanda dei piedi dei suoi discepoli (Gv 13,1-38), «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). L’espressione «fino alla fine» in greco si dice «eis tèlos» che raggiunge il suo apice nel momento della morte, quando Gesù prima di consegnare il suo Spirito alla nuova umanità, rappresentata dal discepolo e dalla madre, dice: «È compiuto!» (Gv 19,30), espressione che in greco ha la forma verbale del perfetto, quindi dell’azione passata i cui effetti continuano nel presente: «tetèlestai» che deriva dal verbo «telèō – io compio/porto a compimento/concludo» e da cui deriva il sostantivo «tèlos – fine». In questo modo si passa dall’«archê – principio» del prologo (Gv 1,1) e delle nozze di Cana (Gv 2,11) al «compimento» che si realizza nel servizio ai discepoli/umanità e alla «pienezza dell’ora» che si realizza nella morte di Gesù (Gv 19,30): il «principio dei segni» che avviene a Cana trova il suo compimento e il suo riposo ai piedi della croce, quando tutto «è compiuto».
Ora possono cominciare le nozze della risurrezione perché l’umanità insieme ad Israele possono correre verso lo Sposo–roccia che disseta la fame di vita perché «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Nel racconto dell’esodo come anche nel Targum e nel Midràsh è Mosè a colpire con il bastone la roccia da cui scaturisce acqua e sangue, mentre sul Calvario è un pagano (un soldato romano) che colpisce il fianco di Dio, il quale inonda della sua grazia l’umanità intera, rappresentata dai quattro soldati romani/pagani e dalle quattro donne ebree/credenti, uomini e donne (cf Gv 19, 23-27).
Nell’AT il fatto centrale degli eventi era segnato dalla mancanza di fede del faraone e di Mosè che cerca di coinvolgere anche il popolo che ancora non conosce; nel NT inizia e cammina l’avventura della fede che comincia e finisce nella persona di Gesù di Nazaret, figlio della madre/Israele e figlio di Dio/Padre.
Con l’apertura del costato di Cristo si ritorna all’Esodo e all’acqua del Nilo mutata in sangue, con una differenza: l’acqua del Nilo insanguinata è presagio di morte, mentre la morte di Dio fa scaturire dal suo costato le sorgenti dell’acqua e del sangue dei sacramenti che come fiumi di grazia alimentano la vita che cammina verso il regno. La Storia della salvezza comincia nel «segno dell’acqua e del sangue» per la morte e si conclude nel «segno» sacramentale dell’acqua e del sangue per la risurrezione. Tra questi due estremi si colloca il racconto delle nozze di Cana che da un lato richiama e riprende il «segno» dell’esodo e dall’altro prefigura e anticipa il dono di Dio nel «segno» della morte che innaffia la vita con l’acqua e il sangue del corpo di Cristo. Ora, sì, si compie il desiderio dell’Apocalisse: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
 [continua – 13]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Nucleare? Di nuovo «NO grazie»

Esiste un nucleare sicuro? (prima puntata)

Come accaduto per gli inceneritori, anche per il nucleare è partita la grancassa mediatica per farli accettare senza se e senza ma. Chi è «contro», viene demonizzato. Nel nostro piccolo, noi torniamo a ribadire che i pericoli per la salute rimangono eccessivi. Senza dimenticare che il conto inevitabile – legato all’estrazione dell’uranio e allo smaltimento delle scorie – potrebbe essere pagato dal Sud del mondo. Perché l’energia nucleare è «pulita» da noi, ma «sporca» nelle case dei più deboli. Come storia insegna.

Il 10 febbraio 2010 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo, che disciplina la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica in Italia. Questo decreto è stato approvato senza tenere  in considerazione il risultato del referendum dell’8 novembre 1987, in cui il 70% degli italiani si espresse contro il nucleare.
Pochi giorni dopo, negli Stati Uniti, il presidente Obama ha approvato un prestito di 8 miliardi di dollari, per finanziare la costruzione sul territorio statunitense della prima centrale nucleare dopo 30 anni dall’ultima, costruita in Georgia nel 1979. Anche questo nuovo impianto dovrebbe essere realizzato in Georgia, a Burke. La finanziaria di Obama mette a disposizione del nucleare 36 miliardi di dollari, che vanno ad aggiungersi ad altri 18,5, già in bilancio, ma ancora da spendere, per un totale di 54,4 miliardi di dollari, il che significa, considerando che la costruzione di una centrale nucleare costa circa 8-10 miliardi di dollari, che ci sono fondi a sufficienza per costruire 6 o 7 nuove centrali nucleari. Secondo la Southe Co., la società che costruirà l’impianto in Georgia, la realizzazione di quest’ultimo darà lavoro a 3.000 persone, in fase di costruzione e ad 800 in modo permanente. L’impianto foirà elettricità a 1,4 milioni di abitanti, che andrà ad aggiungersi a quella prodotta dai 104 impianti già esistenti in Usa, i quali producono il 20% dell’energia totale consumata ed il 70% di quella considerata «pulita». I sostenitori del nucleare, e tra questi lo stesso presidente Obama, infatti, considerano l’energia nucleare «pulita e sicura», al pari dell’eolica, della fotovoltaica e della geotermica. Ma è proprio così?

Effettivamente la produzione di energia nucleare non determina un aumento dei gas serra climalteranti, quindi in questo senso tale energia può essere definita «pulita». Se, però, consideriamo cosa accade nelle zone dove sono presenti ricchi giacimenti di uranio, il principale materiale utilizzato come combustibile (una volta arricchito) per le centrali elettronucleari, oppure consideriamo il problema delle scorie nucleari, ci rendiamo conto allora che definire pulita questa energia è un grave errore.
A proposito dei giacimenti d’uranio, è inquietante quanto è capitato in Niger, o nella terra dei navajo nel New Messico. In Niger, nel 2007, sono stati riscontrati livelli di radioattività fino a 100 volte superiori rispetto alla radiazione di fondo nel villaggio di Akokan, dove sorgono due miniere di uranio, gestite da società affiliate di Areva, la compagnia nucleare francese, che dovrebbe occuparsi anche della costruzione e della gestione delle centrali elettronucleari italiane. Nel 2008, l’Areva ha sostenuto di avere bonificato la zona, sotto la supervisione delle autorità nigerine (Niger Department of Mines, Ministero delle miniere del Niger).
Nel novembre 2009 è stata effettuata una spedizione di Greenpeace, con il supporto del laboratorio indipendente francese Criirad e della rete di associazioni locali Rotab (Réseau des Organisationes pour le Transparence et l’Analyse Budgetaire) e sono stati visitati sia le miniere, che i villaggi vicini. Nel dossier di Greenpeace si legge che nel villaggio di Akokan sono stati rilevati livelli di radioattività fino a 500 volte superiori, rispetto al livello di fondo, anche negli stessi punti bonificati da Areva. La contaminazione sarebbe dovuta all’idea di Areva di utilizzare gli scarti delle miniere di uranio, per costruire le strade dei villaggi, un sistema per fare sparire le scorie radioattive.
In Nord America, nel New Messico, le cose non vanno meglio. Secondo l’editoriale del 12 febbraio 2008 del New York Times, nella terra dei navajo permangono tuttora 520 siti di miniere di uranio dismesse ed abbandonate, dopo decine di anni di escavazione (sono state estratte 4 milioni di tonnellate di uranio) per procurare il materiale necessario per le armi della guerra fredda e per la produzione di energia. Restano inoltre 4 siti di lavorazione dell’uranio ed una discarica. Ancora oggi si trovano enormi mucchi di minerali di scarto, che franano. Le miniere aperte percolano pioggia contaminata nell’acqua potabile, mentre il vento solleva polvere radioattiva. In questa terra, le case sono state costruite con gli avanzi delle escavazioni.
Nel 1979, a sud della riserva, si verificò un disastro, allorquando le scorie della lavorazione dell’uranio defluirono nelle acque del fiume Puerco, che i nativi sfruttano per abbeverare il bestiame e per l’irrigazione. Il risultato di tutto ciò sono migliaia di casi di cancro nella popolazione locale ed un’età media scesa a 43 anni. E pensare che i navajo erano in passato una delle popolazioni più longeve d’America. Naturalmente le compagnie minerarie non si sono mai assunte le loro responsabilità e non hanno mai provveduto ad alcuna bonifica. Ed ora cosa succede? Il New York Times riporta che l’industria nucleare americana intende riprendere a scavare l’uranio in questi territori ed una compagnia mineraria ha già richiesto i permessi necessari per una nuova miniera in terra navajo. Le comunità navajo, in particolare quelle di Crowpoints e di Church Rock, hanno intrapreso un’azione legale contro la NRC (Nuclear Regulatory Commission), che ha autorizzato l’apertura della miniera. Il loro grido di battaglia è ora «leetso doo’da», che vuole dire «no all’uranio».

Un altro grave problema è rappresentato dallo smaltimento e dallo stoccaggio delle scorie nucleari. Secondo i dati dell’Inteational Nuclear Societes Council (INSC), ogni anno l’industria nucleare mondiale produce un volume di circa 270.000 metri cubi di scorie tra bassa, media ed alta radioattività. Si tratta di un volume abbastanza insignificante, dal punto di vista quantitativo (una centrale elettrica a carbone da 1.000 megawatt produce annualmente 400.000 metri cubi di ceneri), ma molto pericoloso dal punto di vista della radioattività. In queste scorie si trovano infatti sostanze estremamente pericolose. In particolare, quelle ad alta radioattività, rappresentate dal combustibile esausto delle centrali nucleari e dal materiale proveniente dalle centrali dismesse, contengono in media il 94% di uranio 238, l’1% di uranio 235, l’1% di plutonio, lo 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio) e 3-4% di prodotti di fissione.
Queste sostanze impiegano fino a centinaia di migliaia di anni, prima di diventare stabili. Come devono essere trattate, per essere messe in sicurezza? Queste sostanze devono essere ridotte di volume (trattamento), immobilizzate in idonei contenitori, resistenti dal punto di vista chimico, fisico e meccanico (condizionamento), stoccate temporaneamente per qualche decina di anni, in modo che si abbatta l’emissione di calore, per progressivo decadimento ed infine allocate in un sito nazionale centralizzato, per lo smaltimento definitivo. Non sempre, però, le cose vanno così.
I servizi segreti bosniaci – ad esempio – hanno scoperto un traffico di scorie e di materiali radioattivi organizzato dalle truppe francesi appartenenti alla missione di pace Nato in Bosnia-Erzegovina. Secondo il quotidiano crornato Veceji list, durante le missioni di pace Ifor/Sfor della Nato (1), grandi quantità di rifiuti radioattivi dell’industria nucleare francese sono state portate in Bosnia e gettate in tre laghi della Erzegovina, cioè i laghi Busko, Ramsko e Jablanicko. Questa attività è andata avanti per anni. In Erzegovina fu attivata un’unità speciale dell’esercito francese, interamente costituita da soldati maori provenienti dalla Polinesia francese e dalla Nuova Zelanda, con il compito di smaltire i rifiuti radioattivi. Secondo le testimonianze dell’intelligence bosniaca, tali rifiuti vennero cementati e gettati nei laghi con degli elicotteri.
Come possiamo vedere, da questi esempi, l’energia nucleare è «pulita» a casa nostra, ma «sporca» a casa degli altri, cioè nei paesi del Sud del mondo. È un po’ come quando si nasconde la sporcizia sotto il tappeto: tutto appare pulito, ma la sporcizia c’è, nascosta.

La difficoltà di trovare un sito per lo smaltimento definitivo delle scorie nucleari è un problema di non poco conto in ogni parte del mondo. In Italia, nel 2003 era stato individuato come possibile sito il comune di Scanzano Ionico, la cui popolazione si è immediatamente ribellata, per cui tuttora non si sa dove smaltire tali scorie.
Negli Usa è ancora ben lontano dall’essere realizzato il progetto, costato già 8 miliardi di dollari per gli studi preliminari del terreno, di realizzare un deposito permanente sotto il Yucca Mountain, nel Nevada meridionale, 160 chilometri a nord ovest di Las Vegas. Questo progetto prevede la costruzione di un deposito sotterraneo capace di immagazzinare 77.000 tonnellate di scorie radioattive per 10.000 anni, dal costo stimato di oltre 60 miliardi di dollari. Per il trasporto delle scorie in questo sito dovrebbero essere impiegati 4.600 fra treni ed autocarri, che percorreranno migliaia di chilometri, attraverso 44 stati (essendo le scorie attualmente dislocate in 131 depositi temporanei situati in 39 stati), con a bordo materiale estremamente pericoloso. Il solo fatto che si preveda un tempo di immagazzinamento di 10.000 anni per le scorie ad alta radioattività, cioè quelle che possono rimanere radioattive anche per 250.000 anni ed oltre, rende del tutto inadeguata questa struttura.
C’è poi il problema dell’umidità, che, per quanto modesta in questa zona, a lungo andare può determinare la corrosione dei contenitori del materiale radioattivo, permettendone la dispersione nelle falde acquifere. La difficoltà di individuare i siti adatti per depositi permanenti di materiale radioattivo è legata allo sviluppo di enormi quantità di calore, da parte di tale materiale, che potrebbe reagire con i materiali circostanti, provocando la formazione di idrogeno, altamente incendiabile ed esplosivo.
È inoltre indispensabile che il territorio ospitante non sia soggetto a movimenti tellurici. Infine, è indispensabile una sorveglianza permanente, da parte dell’esercito, per scongiurare eventuali attacchi a tali siti, il che comporta una militarizzazione delle zone interessate.

C’è da chiedersi cosa intendano i suoi sostenitori, definendo l’energia nucleare «pulita e sicura», con problemi come quelli appena accennati, al momento del tutto irrisolti. Soprattutto c’è da chiedersi come si possa definire «sicura» questa tecnologia, dopo la catastrofe avvenuta il 18 aprile 1986 a Cheobyl, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morte, dovuta all’insorgenza, nelle popolazioni colpite, di vari tipi di tumori e di leucemie, nonché di malattie degli apparati respiratorio, digestivo, circolatorio, del sistema endocrino e di quello immunitario, a cui si sono aggiunte gravissime patologie del sistema riproduttivo, che hanno portato ad infertilità, impotenza maschile, aborti spontanei, complicazioni della gravidanza (pre-eclampsia, distacco della placenta e anemia), nonché inibizione dello sviluppo fetale. L’incidente di Ceobyl fu la conseguenza di un mix di errori umani, compiuti durante un’esercitazione condotta senza criterio, unitamente alla tipologia dei reattori di vecchio tipo e pericolosi. Tuttavia, questo è solo il più noto e catastrofico degli incidenti finora occorsi a delle centrali nucleari, ma certamente non l’unico.
Nel 1979 a Three Mile Island, negli Usa, si arrivò quasi alla fusione del nocciolo, mentre nel 1999 un incidente analogo interessò la centrale giapponese di Tokaimura e nel 2007 vi fu uno sversamento di liquidi radioattivi in un’altra centrale giapponese, quella di Kashiwazaki Kariva, una delle più grandi e modee del mondo. Come si fa a parlare di impianti sicuri, specialmente considerando che il loro funzionamento è controllato da uomini e noi sappiamo bene che l’errore umano è sempre possibile? Come si può ben vedere, il ritorno al nucleare, ben lungi dal risolvere i problemi energetici dell’umanità (2), rischia di creare enormi problemi di sicurezza e di aumentare ancora di più il divario tra il Nord del mondo, che fruisce dell’energia ed il Sud del mondo, dove le scorie radioattive possono essere portate con qualche missione di «pace». 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Glossario
Le parole del nucleare

Attinidi: sono un gruppo di 14 elementi chimici radioattivi, con numero atomico compreso tra 89 e 103. Partendo dal capostipite attinio, la serie, in ordine di numero atomico crescente, comprende i radioattivi naturali: torio, pro-attinio, uranio ed i radioattivi artificiali, detti «transuranici» (nettunio, plutonio, americio, curio, berkelio, califoio, einstenio, fermio, mendelevio, nobelio e laurenzio).

Fissione: reazione consistente nella frammentazione di un atomo in due di massa più piccola, a seguito della collisione di un neutrone con il suo nucleo. Da questa reazione si liberano altri due o tre neutroni, che vanno a colpire altri atomi, innescando una reazione a catena, la cui velocità aumenta progressivamente e, se non viene controllata come avviene nelle centrali nucleari, porta all’esplosione atomica.

Pre-eclampsia: nota anche come gestosi, è una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di sintomi quali edema, ipertensione o proteinuria in una donna gravida.  Si parla di eclampsia quando, alla sintomatologia classica, si associano le crisi convulsive. La causa non è ancora nota, anche se sono stati individuati da più studiosi dei possibili fattori scatenanti come l’ipertensione essenziale preesistente, le patologie renali preesistenti, l’eccessivo incremento ponderale durante la gravidanza, il diabete ed i fattori immunologici. Ricerche più recenti hanno dimostrato che un elemento fondamentale nel determinismo della pre-eclampsia è rappresentato da alterazioni a carico della placenta.

Scorie nucleari: con questo termine si indica solitamente il combustibile esausto, derivante dall’attività dei reattori nucleari. Esse fanno parte dell’insieme dei rifiuti radioattivi, che comprende tre classi, in base al livello di radioattività: bassa (ad esempio, gli indumenti usa e getta, utilizzati nelle centrali nucleari e il materiale utilizzato a scopo diagnostico o nei laboratori di ricerca), media (incamiciatura del combustibile nucleare, impianti di riprocessamento) ed alta (combustibile nucleare irraggiato “tal quale”). Le scorie nucleari ad alto livello costituiscono solo il 3% del volume prodotto dalle attività umane, ma contengono il 95% della radioattività. La loro composizione, mediamente, è la seguente: 94% di uranio238, 1% di uranio235, 1% di plutonio, 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio), 3-4% di prodotti di fissione. Le scorie radioattive decadono nel tempo, ma i tempi di decadimento dei vari componenti sono molto diversi: si va dai 300 anni per i prodotti di fissione, ai 10.000 anni per gli attinidi ed ai 250.000 anni per il plutonio.
La gestione delle scorie nucleari, al fine di assicurare la massima radioprotezione per la generazione attuale e per quelle future, consta di diverse fasi: riduzione del volume; predisposizione alla fase di condizionamento (mediante evaporazione, filtrazione, ultrafiltrazione, precipitazione, flocculazione, incenerimento, supercompattazione, a seconda del tipo di rifiuti); condizionamento vero e proprio, cioè immobilizzazione in una matrice solida come il cemento, nel caso dei materiali a bassa e media radioattività e come il vetro borosilicato per i rifiuti ad alta radioattività e successivo posizionamento in idoneo contenitore; stoccaggio temporaneo di alcune decine di anni, per permettere un congruo abbattimento dell’emissione di calore, che caratterizza il decadimento radioattivo; collocazione definitiva in apposita struttura, cioè solitamente in depositi superficiali o a bassa profondità, per rifiuti di media radioattività ed in depositi costituiti da formazioni geologiche profonde, per i rifiuti ad alta radioattività.

Uranio: è un metallo bianco lucido, ad alta densità, chimicamente molto reattivo e, se si trova in stato di fine suddivisione, piroforico. Esso costituisce lo 0,0004% della crosta terrestre, quindi è un elemento abbastanza raro. I minerali, in cui si trova in diversi stati di ossidazione, sono l’uranite, la pechblenda, la bannerite, la davidite e la coffinite. Esso viene utilizzato come combustibile per le centrali nucleari e le sue riserve accertate sono tra 2 e poco più di 3 milioni di tonnellate, al mondo. In natura, l’uranio è presente in 3 isotopi differenti (hanno lo stesso numero atomico, cioè di protoni e di elettroni, ma diverso numero di massa, poiché è diverso il loro numero di neutroni): si tratta dell’uranio234, 235 e 238. Di questi 3 isotopi, l’uranio238 è il più abbondante (99% di tutto l’uranio naturale), ma non è utilizzabile come combustibile per le centrali, perché il suo nucleo non si presta alla fissione. È solo l’uranio235, che può partecipare alla reazione di fissione nucleare, ma la sua quantità nell’uranio naturale è decisamente bassa (0,7%), quindi è necessario un arricchimento per portare questo isotopo al 3%, nel materiale combustibile.

(a cura di R.Topino e R.Novara)


Roberto Topino e Rosanna Novara




Cana (12) Un Dio «straniero» abolisce i confini

Il racconto delle nozze di Cana (12)

«Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui» (Gv 2,11).
Abbiamo riflettuto a lungo sul significato del vino e le sue implicanze, e, senza esaurie la simbologia e i testi, ne abbiamo esaminato i più importanti. Facciamo un passo avanti proponendo l’ipotesi che il racconto dello sposalizio di Cana possa essere un midràsh cristiano della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che, passando attraverso «i colpi» (le piaghe) e la peregrinazione nel deserto, trova nel Sinai il proprio fondamento e culmine. All’interno di questa prospettiva, possiamo dare alcune indicazioni ulteriori che ci aiutino a vedere sempre più profondamente Cana in rapporto con il Sinai, mettendo in evidenza analogie e confronti che di primo acchito non sono evidenti.
Nel «segno» di un Dio diverso
Nella mentalità e nella intenzione dell’evangelista, l’evento di Cana è connesso con la 1a delle dieci piaghe con cui Dio ha spezzato la resistenza del faraone perché liberasse Israele dalla schiavitù. La parola «piaga», in ebraico «negà‘» e in greco «plēghê», nel libro dell’Esodo è usata solo per il decimo colpo che convincerà definitivamente il faraone: l’uccisione dei primogeniti (cf Es 11,1). Per i primi nove fatti, descritti nei capitoli 7-10 del libro dell’esodo, l’ebraico usa sempre il termine «’ot» che il greco della Lxx traduce sempre con «sēmeîon» (cf Es 4,8-9.30; 7,9), lo stesso che usa Giovanni per definire lo sposalizio di Cana (cf Gv 1,11). Non si tratta come banalmente si dice di «miracoli» nel senso moderno del termine, ma di «segni» che devono accreditare il Dio di Mosè presso gli Israeliti schiavi e presso il faraone che è invitato a riconoscere la «potenza» del nuovo Dio.
Non entriamo nel merito della formazione del testo del racconto dell’esodo che è la confluenza di diverse tradizioni con riflessioni di natura teologica, scritte in epoca tardiva, ma proiettate in epoca antica da un redattore che sta riflettendo sulla «teologia della storia». Sarebbe inutile, oltre che stupido, volere cercare la spiegazione di questi «segni» in prodigi astronomici o con le scienze naturali, perché si tratta di fenomeni naturali, all’epoca conosciuti, riletti in modo iperbolico per fare risplendere davanti agli Israeliti e al faraone l’onnipotenza del Dio straniero Yhwh che vanta diritti anche dentro i confini dell’Egitto.
Nel 2° millennio a. C. la concezione della divinità era quella del «dio territoriale»: una divinità cioè non aveva poteri fuori dei confini di sua competenza. La divinità è legata alla terra, gli dèi egiziani erano impotenti in Babilonia e quelli di Assiria nulla potevano in terra di Canaan. Il loro sconfinamento era affidato alla guerra: se un popolo vinceva su un altro popolo, gli dèi di questi si sottomettevano a quelli del vincitore. Due esempi classici di «divinità territoriale» si trovano nel ciclo delle gesta di Eliseo: la donna di Zarèpta (Libano meridionale) crede in un Dio straniero annunciato da un profeta straniero che viene da oltre confine e ne riceve il beneficio della farina e dell’olio (cf 1Re 17,10-16); l’altro esempio è Nàaman, capo dell’esercito siriano, affetto da lebbra. Egli va da Eliseo che lo guarisce. Prima di ritornare al suo paese, egli chiede al profeta di potersi portare un po’ di terra d’Israele, quanta ne possono trasportare due muli. Giunto al suo paese, per potere ringraziare il Dio d’Israele che lo ha guarito, è sufficiente che salga su di essa per ritrovarsi «realmente» sulla terra d’Israele (2Re 5,1-27; Lc 4,27). Pregare su quella terra aveva, quindi, lo stesso valore che essere in Israele (è lo stesso principio che sta alla base del tappeto di preghiera dei Musulmani).
Il «segno» non è miracolo
In questo contesto, è evidente che lo scopo dei «segni» operati da Mosè è rivelare agli Israeliti e al faraone che il Dio straniero rappresentato da Mosè non conosce confini, ma è libero di agire nel deserto, nella terra di Madian quanto in Egitto. Allo stesso modo «il segno» di Cana ha lo scopo di «manifestare la gloria di Gesù», cioè la novità del suo messaggio: il Dio che egli annuncia è un Dio non straniero, ma lo Sposo che chiama alle nozze dell’alleanza l’umanità intera qui rappresentata dai discepoli che sono i garanti del «segno» di Cana di Galilea. Il rapporto con l’esodo non è solo letterario, ma riguarda anche il contenuto. Già in Es 4,9, Yhwh preannuncia che Mosè dovrà cambiare l’acqua del Nilo in «sangue» come avverrà con il 1° segno: «Con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue … Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 7,14-24, qui 17.20). Accennare soltanto al nesso che può intercorrere tra l’acqua cambiata in vino a Cana e l’acqua cambiata in sangue in Egitto, ci fa immediatamente comprendere la portata del racconto evangelico che travalica il fatto dello sposalizio che è un semplice «accidente» di contorno.
Il parallelo più volte sottolineato tra Sinai e Cana è un dato di fatto che balza agli occhi: da una parte la Toràh rivelata e dall’altra la Gloria manifestata; al Sinai è Yhwh che parla, a Cana è il Lògos che si rivela; nell’uno e nell’altro caso domina il tema dell’alleanza in chiave nuziale. Anche il confronto «tipologico» tra Mosè e Gesù è un elemento acquisito e quasi una costante nei vangeli e specialmente in Gv che lo impone fin dal «prologo» come parametro costitutivo: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Abbiamo tradotto «la grazia della verità» e non «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Bibbia-Cei 2008) per coerenza con Gv 1,14: «E noi vedemmo la sua gloria,  gloria come di unigenito dal Padre, pieno [della] grazia della verità», dove i due termini ricorrono insieme e nell’uno e nell’altro caso sono una endiadi (1) di rafforzamento.
Da Mosè alla pienezza della verità
Al Sinai fu data «la Legge», ora a Cana è data «la grazia della verità» cioè la pienezza della rivelazione che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per Paolo la Legge aveva l’obiettivo di guidare alla fede, dunque è nell’ordine dei mezzi, come la Chiesa, come i sacramenti. Per questo motivo l’apostolo la paragona ad un «pedagogo» che ha il compito di accompagnare il discepolo nel cammino di maturazione e di crescita: «Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24-25; cf 1Cor 4,15). Ora che è arrivata «la pienezza della verità», si apre la «cella del vino» che è il monte Sinai e inizia la festa delle nozze del Lògos. La figura di Mosè come anticipazione (tipo) di Cristo (antìtipo) è importante nel IV vangelo(2).
Gv infatti lo cita 13 volte (Gv 1,17.45; 3,14; 5, 45.46; 6,32; 7,19.22 [2x].23; 8,5; 9,28.29), ma solo nella prima parte, nel «libro dei segni» e mai nella seconda parte: «il libro dell’ora» che è quella della rivelazione definitiva, della «epifania della grazia per grazia» (Gv 1,14), il cui culmine e fondamento è la morte-risurrezione di Gesù. Interessante la nota che Mosè compare solo nel «libro dei segni», come a dire che egli è nell’ordine del provvisorio e il suo compito è funzionale al profeta che verrà dopo di lui (cf Dt 18,15.18; At 3,22; 7,37). Anche dall’uso del nome e della sua distribuzione nel testo, concludiamo che Mosè apparteneva alla dimensione del mondo finito, dei «segni», ed era proteso verso il suo naturale compimento: «Il Lògos-Sarx/Cae/Fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Qui è il vertice di tutta la rivelazione.
Con la sua presenza a Cana, Gesù non rivela solo la «sua Gloria», ma svela anche il ruolo e l’importanza di Mosè nel disegno di Dio che trova nel Sinai il suo fulcro e la sua chiave di lettura: senza Gesù (antìtipo) anche Mosè (tipo) sarebbe sminuito nella sua importanza. Si potrebbe dire che il fatto di Cana è l’evento-cerniera che per Giovanni evangelista salda il cammino dell’AT con quello del NT: l’uno senza l’altro non può sussistere e l’uno diventa il senso o quanto meno il fondamento di senso dell’altro. In questo sta il principio che la Scrittura deve essere letta tutta nel suo contesto globale perché è una storia «unica» che si snoda in molte tappe e che ancora non è finita.
Principio o inizio?
Siamo convinti che il racconto dello sposalizio di Cana con il Vino che fa da protagonista d’eccellenza, sia un midràsh di tutto il racconto dell’esodo. Per capire meglio il testo del vangelo nel contesto di tutta la Bibbia, esamineremo il testo biblico, la versione della Lxx, il targum e infine il midràsh che costituiscono il materiale e l’ambiente dove nasce, si forma e si sviluppa il NT, in modo particolare il vangelo. è evidente che Gv non prende ogni singolo fatto, ma si riferisce ad alcuni di essi che diventano così emblematici e quindi tipologici. L’obiettivo a cui tende il racconto è Gv 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Così almeno la traduzione corrente, anche dell’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), che nella nota al versetto spiega: «[Gv] 2,11 Questo … fu l’inizio dei segni»: non solo il primo dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria) di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose (che Gv preferisce chiamare segni)». Non fu solo il primo segno, ma un «modello».
Secondo noi, mantenendo l’uniformità con il prologo, Gv 2,11 non deve essere tradotto con «inizio dei segni», perché si darebbe una connotazione temporale che l’autore esclude volutamente, ma si deve tradurre così: «Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui». L’evangelista, infatti, usa il termine «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono correttamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre in Gv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la frase «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valore non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svilupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcleto (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fede non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione.  
Dalla non-fede a «cominciarono a credere»
Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è una nota folcloristica o ascetica, ma un preciso commento teologico che Gv mette in relazione con il «principio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella esperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» (sēmêion) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Sinai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fideranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, anzi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascolteranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvolgendo nella sua incredulità coloro che nemmeno conosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, ipotecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli assenti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può disporre: «non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «cominciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per esimersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè estende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo una lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità.
A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «cominciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovrebbe liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre-Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizione di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era impegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora intervenuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villaggio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva omettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. – [continua – 12 ]

Di Paolo Farinella

Note

(1) Endiadi
Dal Greco «hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean, 29-30 e relativa bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique, Leuven 1988, 22-46).
(2) Il Confronto tipologico
Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o  un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco «antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi biblica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi  il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21).

Paolo Farinella




Ci siamo mangiati il tonno

Il degrado delle acque

La maggioranza delle persone si ricorda che anche il mare e gli oceani meritano rispetto soltanto quando avviene qualche catastrofe: una petroliera che perde in acqua il proprio contenuto, gruppi di cetacei che si arenano su qualche spiaggia, alghe che infestano le località balneari. In realtà, l’uccisione dei mari è fatto quotidiano, prodotto da una pluralità di cause, tutte riconducibili all’uomo e alle sue attività.

Quante volte, facendo la spesa al supermercato, abbiamo distrattamente preso qualche scatoletta di tonno, oppure qualche trancio di verdesca o di spada, o dei gamberi, senza chiederci che cosa significhi fare questa scelta? Effettivamente l’offerta di pesce, sui banconi di un grande supermercato è così grande e diversificata, che diventa un gesto piuttosto naturale scegliere tra i vari tipi di pesce. Oltretutto, da più parti ci vengono ripetutamente sbandierate le qualità nutrizionali del pesce, peraltro vere: oltre ad essere una fonte eccellente di proteine animali, esso contiene le vitamine A e D, il magnesio, il fosforo, i sali minerali, gli acidi grassi omega-3 (essenziali per lo sviluppo del cervello nel feto e nel neonato). Purtroppo attualmente i grandi pesci predatori, cioè i caivori come gli squali, i tonni, i marlin, per citae alcuni, sono anche ricchi di diossine, di Pcb e di metalli pesanti, come il mercurio, a causa dell’inquinamento marino, come visto nel nostro articolo precedente (MC, gennaio 2010). Ma, oltre i rischi che la nostra salute può correre, consumando determinati tipi di pesce, è indispensabile conoscere anche quale impatto può avere  un certo tipo di pesca sull’ambiente e, conseguentemente, sulle popolazioni costiere, specialmente le più povere.
Secondo il rapporto dell’Onu sulla pesca di marzo 2009, attualmente il 77% delle risorse ittiche vanno considerate completamente esaurite o quasi. Le zone più sfruttate in assoluto sono l’Atlantico orientale ed il Mare del Nord. Si stima che, ogni anno, l’ammontare mondiale del pescato sia di circa 86 milioni di tonnellate e le specie a maggiore rischio di estinzione sono il cetorino, il merluzzo bianco, il nasello, il pesce specchio atlantico ed il tonno rosso. A queste specie di pesce, vanno aggiunte quelle di alcuni dei grandi mammiferi marini, come le balene grigie del Pacifico occidentale, i cui esemplari rimasti sarebbero solo più un centinaio (mentre quelle del Pacifico orientale avrebbero avuto un recupero numerico), o le balenottere azzurre dell’Antartide, che sono ormai solo l’1% della popolazione originaria.
Negli ultimi 30 anni, il mercato dei prodotti ittici e dell’acquacoltura ha registrato uno sviluppo esponenziale, legato essenzialmente alle modalità di vendita. In pratica, nelle grandi superfici commerciali, non solo c’è una grande offerta di pesce fresco, ma un’altrettanto grande varietà di prodotti trasformati, soprattutto i piatti pronti, per cui c’è un’esigenza costante di nuovi approvvigionamenti di pesce. Oltre a questo, una parte consistente del pescato (comprese le cai di balena e di delfino) viene utilizzata nella produzione dei mangimi (per gli allevamenti intensivi di bovini, di suini, di pollame), del cibo per animali domestici e come cibo per le specie pregiate di pesce allevate in acquacoltura, come il salmone. In quest’ultimo caso, la quantità di pesce necessaria per l’allevamento dei salmoni è veramente considerevole. In media servono 5 chilogrammi di pesce grasso, come aringhe e sardine, per produrre un chilogrammo di salmone. Questo comporta l’alterazione di interi ecosistemi – i delfini, le foche e le orche, che normalmente frequentano gli estuari dei  fiumi nella Columbia Britannica, in Canada o in Cile, ad esempio, sono sempre meno numerosi e denutriti e spesso vengono respinti dai dispositivi utilizzati, per proteggere i recinti degli allevamenti – e l’impoverimento di molte piccole comunità di pescatori, che non hanno altra fonte di reddito, oltre alla pesca. Il pesce d’allevamento rappresenta ormai il 30% delle proteine animali di origine ittica e l’industria dell’acquacoltura ha un fatturato di 30 miliardi di dollari all’anno, ma l’impatto che essa ha sull’ambiente è sconcertante. Basta pensare che, secondo la David Suzuki Foundation, un’organizzazione ambientalista di Vancouver, nella Columbia Britannica, l’acquacoltura praticata in questa provincia canadese scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di rifiuti di una città di mezzo milione di abitanti.
In genere ogni allevamento di salmoni è costituito da 12-15 gabbie, cioè recinti di reti collocati in corrispondenza degli estuari dei fiumi, dove sono presenti forti correnti e può ospitare anche 200.000 pesci. Dai recinti fuoriescono grandi quantità di rifiuti ittici, di antibiotici somministrati per contrastare il rapido diffondersi di malattie tra gli animali, di microbi diventati resistenti agli antibiotici, di pesticidi e tutte queste sostanze si depositano sul fondo del mare, distruggendo varie forme di vita. Inoltre una parte considerevole di tali sostanze viene trasportata dalle correnti, va alla deriva e riesce ad insinuarsi nelle tane dei crostacei, contaminandole e diffondendo malattie in tutta la catena alimentare. Qualcuno si chiederà perché vengono usati i pesticidi negli allevamenti di salmone. Il motivo è la necessità di debellare i pidocchi di mare, che spesso infestano i salmoni.
Negli anni ’80 e ’90, si fece, a tale scopo, grande uso di Nuvan (noto anche come Aquagard), contenente il 50% di dichlorvos, un organofosfato messo al bando dalla Commissione Europea e considerato uno dei pesticidi più tossici, associato dai ricercatori all’insorgenza del cancro ai testicoli, proprio per il suo uso negli allevamenti di salmoni. Come spesso accade, i pidocchi di mare sono diventati resistenti al dichlorvos, per cui attualmente si utilizzano altre sostanze, come la cipermetrina, un veleno neurale cancerogeno, l’ivermectina, una neurotossina, il teflubenzurone, il benzornato di emamectina ed il verde malachite; si tratta di sostanze capaci di uccidere crostacei e molluschi nel raggio di alcune miglia, ma tossiche anche per altre specie di pesci, di uccelli e di mammiferi.
Una sostanza comunemente usata come disinfettante e conservante negli allevamenti ittici di tutto il mondo è la formalina, soluzione al 37% del gas formaldeide, noto cancerogeno per l’uomo. Come se tutto ciò non bastasse, ai salmoni d’allevamento (anche da allevamento biologico) viene somministrata una tintura, per conferire alle loro cai il tipico colore roseo degli esemplari allo stato brado, i quali lo acquisiscono, mangiando crostacei e gamberetti. Tale tintura è a base di carotenoidi sintetici, in particolare l’astaxantina e la cantaxantina (E161), controparti sintetiche delle versioni naturali, presenti nel krill (minuscoli crostacei simili a gamberetti), di cui si nutrono i salmoni liberi. Nel 2003, la Commissione Europea ha pubblicato un rapporto sul danno alla retina, provocato dalla cantaxantina sintetica, scientificamente provato e l’UE ha ridotto l’utilizzo consentito negli allevamenti di questa sostanza (usata anche negli allevamenti di pollame).
Un altro tipo di acquacoltura, che arreca danni gravissimi all’ambiente è quello dei gamberi, che comporta la distruzione delle foreste di mangrovie, situate in delicate zone di confine tra il mare e la terraferma. Le foreste di mangrovie ospitano grandi quantità di pesci e di crostacei e sono, nel contempo, l’habitat per svariate specie animali terrestri o arboricoli, come i giaguari e le scimmie. Da sempre, la sussistenza delle comunità locali dipende da queste foreste: basta pensare che le donne catturano pesci e molluschi, che vengono rivenduti al mercato e permettono di mantenere intere famiglie. La crescita rapida dell’industria dell’allevamento dei gamberi ha comportato la perdita, a livello mondiale,  del 38% delle foreste di mangrovie, secondo Greenpeace, e la scomparsa di molte delle tradizionali aree di pesca delle comunità locali. Sia in Asia, che in America Latina si sono verificate violente proteste delle popolazioni locali, che hanno tentato di opporsi all’introduzione dell’allevamento dei gamberi, ma talvolta tali proteste si sono concluse con l’uccisione di qualcuno degli insorti.
Oltre alla perdita delle foreste di mangrovie, il danno di questi allevamenti è dato anche dalle grandi quantità di mangimi artificiali, di antibiotici e di pesticidi, che vengono rilasciati nell’acqua. Inoltre, i siti di allevamento dei gamberi necessitano di un frequente ricambio, per cui i proprietari abbandonano spesso le zone di palude, ormai trasformate in vere e proprie discariche, per trasferire i loro allevamenti in altre zone costiere. La distruzione delle foreste di mangrovie è senz’altro una delle cause delle terribili conseguenze degli tsunami, poiché le onde non trovano più alcuna barriera naturale alla loro potenza distruttiva.
Enormi quantità di pescato sono necessarie anche per gli allevamenti dei tonni pinna azzurra o tonni rossi, che prendono sempre più piede nel Mediterraneo. Si calcola che servano 25 chilogrammi di pesce, per un chilogrammo di tonno. Questa attività è conosciuta anche come ranching dei tonni e consiste nella cattura e nel trasporto dei tonni in particolari siti, presso le coste del Mediterraneo, dove essi vengono chiusi in gabbia e messi all’ingrasso, per rifornire la clientela giapponese, che paga lautamente per ottenere pesce di elevata qualità per il sushi ed il sashimi. I rapidi profitti derivanti da questa attività hanno portato all’uso di navi da pesca sempre più grandi, che, con reti a circuizione, catturano interi banchi di tonni, per convogliarli nelle gabbie d’allevamento. Le navi, dotate di radar e di sonar, vengono assistite da elicotteri od aerei da ricognizione, che dall’alto avvistano i banchi. Sono inoltre stati costruiti nuovi aeroporti, per il trasporto del tonno. Dal 1997, l’Unione Europea eroga annualmente 34 milioni di dollari, come sussidio per quest’attività ed a questi fondi si aggiungono gli investimenti del Giappone e dell’Australia, che hanno incoraggiato le sempre più organizzate aziende ittiche.
Purtroppo la conseguenza di questa febbrile attività è stata la drastica riduzione del tonno rosso, che è diminuito del 74% nel Mediterraneo tra il 1957 ed il 2007, mentre nell’Atlantico è diminuito dell’83% tra il 1970 ed il 2007. Va detto che il tonno rosso del Mediterraneo non è quello, che troviamo nelle scatolette; in questo caso si tratta di tonno del Pacifico, una varietà meno rara. Attualmente, a livello internazionale, le quote di pesca del tonno rosso del Mediterraneo sono state diminuite del 30% dall’Iccat (Inteational Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ma il Principato di Monaco ha proposto di inserire questa specie tra quelle a rischio di estinzione, nell’elenco Cites (Convention On Inteational Trade In Endangered Species of wild flora and fauna), come auspicato anche dal Wwf. Purtroppo tale proposta, a settembre 2009, non è stata accolta dall’UE; hanno infatti votato contro di essa l’Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia e Malta, cioè i Paesi, che più pescano tonno, mentre Cipro si è astenuta ed il Portogallo era favorevole. Oltre al respingimento di questa proposta, l’Iccat ha fatto anche una concessione quanto mai discutibile, cioè due anni di proroga al Marocco, per l’eliminazione delle reti derivanti, usate illegalmente per la cattura del pesce spada e responsabili della morte, ogni anno, di 4.000 delfini e di 25.000 squali nel Mediterraneo.
Tra le specie, che rischiano l’estinzione ci sono i grandi pesci predatori, come gli squali, i merluzzi, i pesci spada, il cui numero sta scendendo ad un ritmo vertiginoso, al punto che, secondo gli studiosi del settore, il 90% di tali pesci è già stato pescato. Considerando che il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, a livello industriale, è cominciato solo negli anni ’50, mantenendo lo stesso livello dei prelievi di tutti questi anni, si arriverà ad un totale sovvertimento degli ecosistemi marini. Venendo a mancare i grandi predatori, inevitabilmente nei mari si avrebbe infatti un’eccessiva diffusione delle specie da loro controllate, tra cui, ad esempio, le meduse. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha già avuto le sue prime conseguenze: in Canada, le popolazioni di merluzzo si sono drasticamente ridotte di numero, per cui la pesca di questa specie è ferma dal 1992 e, conseguentemente, sono andati persi 40.000 posti di lavoro.
Un grosso problema correlato alla pesca intensiva è quello delle catture accidentali, che vanno sotto il nome di bycatch. Si tratta, in pratica della pesca non selettiva, per cui ogni anno, secondo Greenpeace, quasi 100 milioni di squali e di razze vengono catturati erroneamente, mentre circa 300.000 cetacei (balene, delfini, focene) rimangono accidentalmente intrappolati nelle reti. Questo fenomeno assume dimensioni preoccupanti nelle zone, in cui si pratica la pesca a strascico dei gamberetti dei fondali. Secondo la Fao, la pesca a strascico dei gamberi, da sola, è la maggiore fonte di scarti inutilizzati. Le reti a strascico sono tutt’altro che selettive e, al loro passaggio, catturano spesso esemplari giovani di svariate specie commerciali, nonché specie a rischio di estinzione, come le tartarughe marine. Secondo uno studio del Wwf, va sprecato il 40% del pescato al mondo, a causa delle catture accidentali, poiché tali catture sono considerate inutili ed il pesce viene rigettato in mare, il più delle volte morto. Al massimo, in certi casi, il pescato accidentale viene utilizzato come mangime per l’acquacoltura, ma il Wwf ha stimato uno spreco annuale di circa 38 milioni di tonnellate di pesce. Questo saccheggio sconsiderato del mare ha portato ad una riduzione di quasi il 90% di alcune riserve ittiche, con gravissime ripercussioni sull’economia di quelle popolazioni povere, che vivono solo di pesca locale. Oltre a questo la pesca industriale non selettiva distrugge la biodiversità marina, uccidendo esemplari di ogni genere.
Sempre più spesso gli Stati ed i governi dimostrano una totale insensibilità per questo tipo di problema e, come abbiamo visto sopra, concedono proroghe e permessi di pesca con mezzi assolutamente devastanti per l’ambiente, spronati dal miraggio dei guadagni facili. Dietro la pesca industriale ci sono infatti movimenti di milioni di dollari, specialmente quando si tratta di specie particolarmente ricercate, come il tonno rosso. Le flotte di pesca industriale contano ormai centinaia di pescherecci, molti dei quali dotati di reti a circuizione (per circondare interi banchi) o a strascico, o derivanti (spadare). Molti pescherecci pescano con i palamiti. Sempre più spesso i pescherecci sono vere e proprie navi, che raggiungono anche le 8.000 tonnellate, dotate di radar e di sonar, in grado di lavorare completamente il pescato a bordo, di surgelarlo e di trasportarlo per migliaia di chilometri. Quasi sempre le navi appartenenti alle grosse società di pesca prelevano più di quanto stabilito dalle norme inteazionali, con le quote di pesca. Nel Mediterraneo, ad esempio, la quota di tonno pescabile annualmente è di 32.000 tonnellate, ma si stima un prelievo totale tra le 50.000 e le 60.000 tonnellate, perché le ispezioni ed i controlli sono spesso irrisori.
Un gravissimo problema sia per le economie dei paesi in via di sviluppo, che per l’ambiente è rappresentato dalla pesca pirata, cioè la pesca illegale sempre più diffusa nei mari di tutto il mondo, una pesca senza regole, la cui unica mira è il maggior quantitativo possibile di pescato. Si tratta di un pericolo a livello mondiale, perché questo tipo di pesca causa gravi danni ambientali, contribuisce all’esaurimento degli stock ittici e fa concorrenza sleale ai pescatori rispettosi delle regole. In tal modo è messo in pericolo l’equilibrio economico delle comunità costiere, con tragiche ripercussioni nei paesi in via di sviluppo, dove può essere compromessa la stessa sicurezza alimentare. Basta pensare alle coste dell’Africa sub sahariana, i cui villaggi spesso dipendono dalla pesca. Si stima, ad esempio, che la Guinea, nell’Africa occidentale, perda annualmente 100 milioni di dollari, a causa della pesca pirata effettuata nelle sue acque territoriali. Molti di questi Paesi non hanno i mezzi sufficienti, per pattugliare il mare antistante alle loro coste, così i pescatori illegali ne approfittano per sovrasfruttare queste acque. Inoltre spesso le imbarcazioni, che pescano illegalmente, si servono come mano d’opera, di marinai e di pescatori dei Paesi in via di sviluppo, che vengono imbarcati e lavorano con paghe modestissime, in condizioni di vita e di lavoro, che talora rasentano la schiavitù.
A tal proposito, Greenpeace ha elaborato il documento «Freedom of the seas», dove sono illustrate le misure attuabili dai governi, sia singolarmente che con una cooperazione internazionale, per fermare sia la pesca pirata, che quella attuata con metodiche distruttive, come la pesca a strascico. Tra le misure adottabili sicuramente c’è quella del controllo capillare degli sbarchi, sia da parte dello Stato di bandiera, che dello Stato del porto, da cui le navi partono o dove arrivano. Secondo la normativa marittima, infatti, una nave è quasi considerata come parte del territorio dello Stato di bandiera, il che significa che le possibilità d’ispezione a bordo, da parte dello Stato di porto sono fortemente limitate ed i bracconieri conoscono perfettamente questo principio, quindi portano il loro carico lontano, in luoghi dove le autorità locali non possono o non vogliono controllare. Da qui essi riescono poi a fare entrare il loro pescato nel mercato legale.
Una soluzione al progressivo depauperamento dei mari è la istituzione di una rete di riserve marine, come è stato fatto in Nuova Zelanda; si tratta di zone dove è proibita ogni attività di pesca, ma anche di estrazione mineraria e di scarico di rifiuti. In queste zone sono inoltre bandite tutte le attività legate al turismo. Laddove esse sono presenti già da anni (la prima è stata creata a Goat Island Bay, Nuova Zelanda, nel 1977), si è assistito ad un consistente aumento delle colonie marine, della durata della vita dei pesci e ad un aumento della loro capacità riproduttiva.
è perciò sempre più indispensabile un consumo di pesce da parte nostra, che sia intelligente e rispettoso, per non arrecare danno agli altri ed all’ambiente e per fare questo è sufficiente limitare il numero di pasti a base di pesce e fare delle scelte oculate, seguendo ad esempio la guida «Sai che pesci pigliare?» stilata dal Wwf, che è consultabile in rete. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

C’è rete e rete

Reti da circuizione: si tratta di reti ideate per catturare banchi interi di pesci, i quali spesso vengono attratti da luci. Una volta catturato il banco di pesci, il fondo della rete si chiude, impedendone la fuga. Questo tipo di pesca può essere molto selettivo, ma anche molto dannoso, se utilizzato per i banchi di pesci giovani, poiché, in questo caso, intacca direttamente le riserve ittiche.
Reti a strascico: per la pesca sul fondo del Mediterraneo, i pescherecci usano reti a forma di sacco, con un’apertura larga 20 metri ed alta circa 2 metri. Tali reti sono tenute aperte da due divergenti, detti “tavoloni”, spinti di lato dalla pressione dell’acqua, da galleggianti posti superiormente all’imboccatura e da piombi posti inferiormente alla stessa. Il peschereccio traina la rete per parecchie ore, per un tratto di mare di 15 o più chilometri, irretendo e sconvolgendo tutto ciò, che si trova in quel fondale. In pratica, a causa dei pesi metallici trascinati sul fondale, questo viene quasi arato, con la cattura e l’uccisione di ogni forma di flora e di fauna presente. Per ripopolare i tratti di fondale, così devastati, possono essere necessari degli anni. La superficie interessata da una simile battuta di pesca può arrivare a 100.000 metri quadrati. In tal modo vengono catturati molti pesci giovani, col pericolo di impoverire le riserve ittiche. Per evitare questo problema, molti Paesi hanno fissato il limite di 20 millimetri, per le maglie delle reti, ma di fatto nessuno controlla.
Reti a strascico d’altura: si tratta di una variante più distruttiva dell’ambiente marino, rispetto alla precedente, perché questo tipo d’attrezzo consente ai pescherecci di pescare sia sul fondo, che a media profondità. L’ampiezza dell’imboccatura delle reti varia da 10 a 15 metri e le maglie sono molto più piccole (9-12 millimetri), quindi inferiori rispetto al limite legale. In genere, i pescherecci, che usano questo tipo di reti, hanno motori molto più potenti degli altri e riescono a catturare qualsiasi cosa si presenti sulla loro strada. Le reti a maglie piccole, trascinate a forte velocità, creano una sorta di barriera (anche perché in tal modo le maglie si rimpiccioliscono ulteriormente) e, di conseguenza, riescono a catturare anche pesci di piccole dimensioni, che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Palamiti: si tratta di attrezzi costituiti da cime “madri” lunghe parecchi chilometri, a cui sono applicate migliaia di cime più corte, dotate di ami con esche, distanziate l’una dall’altra di qualche metro. Un sistema di galleggianti e di piombi permette a questo attrezzo di essere posizionato sulla superficie dell’acqua o alla profondità desiderata. I palamiti posizionati in superficie spesso catturano tartarughe (decine di migliaia, ogni anno) ed uccelli marini. Purtroppo spesso i palamiti vengono posizionati lungo le rotte migratorie delle tartarughe.
Reti derivanti: sono reti fisse, lunghe parecchi chilometri, posizionate singolarmente o a gruppi anche fino a 30 metri di profondità, oppure sospese in acqua, mediante galleggianti. La dimensione delle loro maglie varia a seconda delle specie cacciate, che di solito sono pesci spada, alalunga e tonni bonito. La pesca con queste reti è del tutto indiscriminata e spesso vi si impigliano delfini, balene, tartarughe e talvolta uccelli marini.
Tramaglio: tipo di rete fissa, alta circa 2,5 metri, usata nel Mediterraneo, costituita da un insieme di due reti a maglia larga (200 millimetri), entrambe tese, con in mezzo una rete più estesa e meno tirata, a maglie più piccole (30-40 millimetri), di modo che il pesce, nuotando in mezzo, vi resti intrappolato.

Di R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Cana (11) Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza

Il racconto delle nozze di Cana (11)

«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor [1] di vino (2Baruc XXIX,3-5).
Quando Giacobbe, il patriarca padre dei dodici figli che daranno vita alle dodici tribù di Israele sta per morire, benedice Giuda con queste parole:
«Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte» (Genesi 49, 11-12).
è l’unico testo in tutta la Toràh che accenna espressamente al re Messia:
«Il targum Onqelos [dal 60 a. C. al sec. II d. C.] applica questo versetto al re Messia. La vite simboleggia Israele. Il termine il suo asinello è interpretato come “la sua città” cioè Gerusalemme. La vite è Israele di cui sta scritto: Io ti avevo piantato come vigna pregiata [Ger 2,21]. L’espressione figlio della sua asina è interpretata come: “Essi edificheranno il suo santuario”, dove il termine asina (’aton) è riferito per significato al termine “ingresso” (’iton) del tempio, che ricorre nel profeta Ezechiele (cf Ez 40,15). Il targum presenta ancora un’altra interpretazione. La vite sono i giusti. Il suo asinello sono “coloro che si occupano dello studio della Toràh”, in riferimento al testo: Voi che cavalcate asine bianche [Gdc 5,10]. L’espressione lava nel vino la sua veste significa “la sua veste sarà di porpora preziosa”, il cui colore è come quello del vino» (cf Rashì, Genesi 409-410).
Un asino, una vite, il Messia
In Is 49,12 si conclude che gli occhi sono iniettati di vino (sangue di vite): «Scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Avere gli occhi scuri, cioè rossi di vino, nel contesto, significa essere talmente pieni dalla Toràh da essee sommersi fino agli occhi: come un recipiente pieno che straborda. In Es 20,18 si dice che il popolo vedeva i suoni con cui Dio si rivelava la montagna del Sinai. Ascoltare e vedere sono quindi sinonimi. Non basta ascoltarla con gli orecchi perché la Toràh deve anche «uscire» dagli occhi, deve riempirli, perché essa fa vedere il Signore. Occhi iniettati di vino è dunque sinonimo di conoscenza profonda della Parola del Signore. Chi vede la Toràh che ascolta ha compreso la rivelazione del Sinai.
Il tempo del Messia, prefigurato dal targum sul testo di Gen 49,10-12, sarà segnato da un’abbondanza strepitosa di vino e latte. La terra di Giuda, notoriamente abbastanza arida diventerà florida e irrigata dal vino e dal latte: una terra dove scorre «latte e miele» (Es 3,8.17, ecc.). Poiché i due versetti si riferiscono direttamente al Messia, il vino è un’allusione all’assemblea di Israele che riceve la Toràh, mentre l’asinello e il figlio d’asina sono un’allusione al Messia: «Chi vede (in sogno) un vitigno scelto, aspetti il Messia, secondo quanto fu detto: “Egli lega alla vite il suo asino ed a vitigno scelto il figlio della sua asina”» (Talmud, trattato Berakòt/Benedizioni, 57a). Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per andare all’appuntamento con la sua morte si presenta come il Messia della discendenza di Davide che viene a dorso non di un cavallo, simbolo di guerra e di violenza, ma di un asino, strumento di lavoro e di lavoro pesante: «Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come stà scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro di asina» (Gv 12,14-15; cf Zc 9,9-10). Il Messia che viene a dorso di un asino è colui che porta l’unità nel popolo di Dio, ma porta anche la Toràh al compimento pieno, cioè a comprensione universale.
Il giogo della Toràh
Nella stessa benedizione di Giacobbe in Gen 49,14-15 la tribù di Ìssacar è paragonata ad un «asino robusto … ha piegato il dorso a portare la soma». Secondo la tradizione ebraica Ìssacar è la tribù che si dedica interamente allo studio della Toràh: «Egli porta su di sé il giogo della Toràh, come un asino robusto che è caricato di un fardello pesante [cf anche Midràsh Genesì Rabbà XCXC, 10] (Rashì, Genesi 411). Il vino è l’abbondanza della Toràh, mentre l’asino è colui che porta il peso della Toràh. L’asino nel giudaismo è simbolo dello studio della Toràh per la sua costanza (cocciutaggine) e fedeltà a sopportare ogni peso (e lo studio è un peso notevole). A questi testi si ispira anche Gesù quando invita i suoi ascoltatori ad imitarlo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore … il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30), come lui stesso darà l’esempio quando si carica non più del leggero peso della Parola, ma del giogo della croce che in questo contesto assume il valore di un nuovo monte Sinai da cui non scende più una Toràh scritta sulle fredde tavole di pietra, ma la persona stessa di Dio, nell’uomo e Figlio di Dio, Gesù: «Ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio … dove lo crocifissero» (Gv 19,16-18). Da questo momento non è più il vino il simbolo della nuova Toràh, ma lo Spirito del risorto che egli consegna nel momento stesso in cui si affida al Padre suo e alla sua volontà di salvezza: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Inondazione di vino
In Gen 49,11 (v. sopra) l’abbondanza del vino è così grande che vi sarà bisogno di un asino per ogni vite tanto il raccolto sarà abbondante. Scrive l’apocrifo Apocalisse greca di Baruc (o 2Baruc), databile sec. I d. C.:
«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti. Infatti, usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli toerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un’unica assemblea di un’unica intelligenza, e le prime giorniranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3.5-8-XXX,1-5; testo in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
Lo stesso concetto è espresso dai Padri per i quali il tempo messianico sarà caratterizzato dall’immagine delle «viti che avranno ciascuna diecimila ceppi e su ogni ceppo diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, schiacciato, darà venticinque metrète [2] di vino» (Ireneo, Contro le Eresie, 5,33,3). Un altro apocrifo del sec. II a.C., il libro di Enoch, anch’esso del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa che descrive come una inondazione di vino:
«E in quei giorni … si pianterà su di essa [la terra] ogni sorta di alberi piacevoli; vi si coltiveranno delle vigne, e la vigna che vi sarà piantata darà vino a sazietà; e ciascun chicco seminato in essa produrrà mille misure ciascuno, e una misura d’olivo produrrà dieci pressoi d’olio» (Enoch 10,18-19).
Il vino del riscatto
Il tema vino/vigna ha una valenza fortemente messianico-escatologico (Is 55,1; Jer 2,24; Am 9,13-15; Zc 9,17) perché la venuta del Messia è vista come una festa nuziale dove il vino abbonda in misura straripante: il profeta Amos avverte che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno» (Am 9,13), mentre Isaia parla del tempo del Messia come di un sontuoso banchetto senza eguali, dove non mancherà certamente il vino (Is 25,6-8; cf 55,1). I monti e le colline sono una allegoria per indicare i Patriarchi e le Matriarche come leggiamo nel targum Neofiti a Dt 33,15: «[La terra] che produce buoni frutti per i meriti dei nostri padri, che somigliano ai monti, Abramo, Isacco e Giacobbe e per i meriti delle madri, che somigliano alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia». L’abbondanza del vino nell’era messianica sarà il riscatto di tutta la storia d’Israele perché alla gioia della nuova alleanza parteciperanno anche i Patriarchi e le Matriarche, cioè tutto il popolo di ieri, di oggi e anche di domani, come ci garantisce anche il targum Onqelos a Gen 29,12: «I suoi monti diventeranno rosseggianti per le sue vigne, i suoi colli distilleranno vino» (cf anche gli altri targumìm: Jerushalmì I e II e Neòphiti allo stesso versetto).
Si avrà un’abbondanza tale di vino che si offrirà gratuitamente a quanti lo vorranno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1). Emerge chiaro che il vino è sempre la Toràh, la Parola di Dio per cui all’epoca del Messia l’abbondanza del vino significa l’abbondanza della Parola che non avrà più bisogno di scuole particolari perché tutti la insegneranno a tutti: «poiché da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-5). Giovanni esprimerà questo esito con il solenne ingresso del «Lògos» che «era dal principio» ed irrompe nella storia (cf Gv 1,1.14). Israele è simboleggiato dalla vite che Dio ha divelto dall’Egitto e trapiantato nella terra promessa (Sal 80/79,9) e per questo egli legherà i tralci, cioè tutte le componenti d’Israele tra di loro, ma legherà anche se stesso al popolo d’Israele. Il Re Messia non solo unirà le diverse anime del popolo in unico sentimento, ma sarà anche l’esegeta della Toràh che così sarà compresa e capita da tutti i popoli che formeranno la nuova umanità messianica (cf Gv 1,18). è l’era che chiude definitivamente la carestia di Am 8,11-12.
Nel segno di un sorriso
Il vino sarà così abbondante da sostituire anche l’acqua: il versetto «lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» richiama anche il sangue del sacrificio dell’Agnello che lava le vesti di coloro che vengono dalla tribolazione: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). è un sangue che rende candida la propria identità e la propria adesione alla risurrezione di Gesù, passando attraverso la morte. Anche la comunità di Qumran prepara il banchetto per i giorni del Messia, cioè per gli ultimi giorni e si mangerà pane e mosto che saranno bevande esclusive di questo banchetto escatologico (cf 1QSa II,11-12). Allo stesso modo anche la Pasqua ebraica che anticipa quella della fine dei tempi è impeiata su quattro coppe di vino, sintesi della storia della salvezza (1a coppa: la creazione; 2a coppa: l’elezione d’Israele in Abramo; 3a coppa: l’esodo [è la coppa che Gesù prende nella sua ultima cena in Ma 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18] e infine la 4a coppa con cui si conclude il canto dell’Halle (Sal 113/112-118/117) che altro non è se non l’eco dei cinque temi della Rivelazione: l’uscita dell’Egitto; la divisione del Mar Rosso; il dono della Toràh; la risurrezione dei morti; le tribolazioni del Messia (cf Serra, Contributi 248).
Una caratteristica del tempo messianico sarà il «sorriso» qui indicato con il bianco dei denti a motivo del molto latte bevuto. Il talmud babilonese spiega l’espressione della benedizione di Giacobbe a Giuda: «Denti bianchi da latte. Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte» (Ketubot 111b). Rendere bianchi i propri denti al compagno è espressione tipicamente orientale per dire «sorridere», cioè mostrare i denti bianchi. è più importante nella vita un sorriso che nutrirlo. Il sorriso, l’accoglienza, la disponibilità sono superiori a dare da mangiare, cioè dare cose materiali.
Questa attitudine di chi crede in Dio è bene espressa nella Mishnàh, trattato Pirqè Avot /Massime dei Padri I,15 in cui a nome di Shammài s’insegna: «Fa del tuo studio un’occupazione abituale; parla poco, ma fa molto [= fai pochi voti, ma pratica molto la carità] e accogli ogni persona con volto sereno». Quando una persona accoglie un’altra persona con un sorriso, è segno che il Messia è già arrivato.
La vite dello Sposo che è Cristo
Anche il Ct si proietta in un contesto messianico quando la sposa conduce lo sposo nella casa della madre: «Ti condurrò e ti farò entrare nella casa di mia madre e tu mi insegnerai: ti darò a bere del vino aromatico, del succo del mio melograno» che il targum commenta: «Io ti condurrò, o Re Messia, e ti farò entrare nel mio Tempio; e tu m’insegnerai a temere il Signore e a camminare nelle sue vie. Là ci nutriremo … e berremo il vino vecchio tenuto in serbo nei suoi grappoli fin dal giorno che fu creato il mondo». Il vino è creato da Dio nei giorni della creazione e conservato per il grande giorno del Messia (cf Talmud di Babilonia Berakot 34b = BSanhedrin 99a; Jlqut Chimoni a Gen 2,8). In Gv 2,10 l’arcitriclino rimprovera lo sposo con parole identiche: «Tu hai tenuto in serbo il vino buono fino ad ora».
L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla:
«Levati, Mosè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei, diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (2Baruc 4,15).
Per rivelare al faraone la Presenza del Dio liberatore, Mosè cambia l’acqua del Nilo in sangue (Es 4,9; cfr 7,14-25), ora nel NT, il nuovo Mosè cambia l’acqua di Cana in vino, prefigura del suo sangue che sarà versato sulla croce per lavare i figli dell’antica e della nuova alleanza. L’autore del racconto non ci spiega espressamente qual è il senso del racconto, ma ci obbliga a non fermarci alla superficie e a pescare nel pozzo profondo della Parola. Una cosa però è chiara: A Cana Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (Gv 2,11). Il senso finale del simbolismo del vino è la Parola/Lògos/Dabàr che rivela il Cristo, cioè il suo vangelo, la sua Persona come splendidamente sintetizza Sant’Agostino:
«… di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo … Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo» (Omelia 9,2 (PL 35, 1459).
Il vino del Vangelo
Il primo segno che Gesù opera nel vangelo di Giovanni è l’abbondanza del vino e il vino è il simbolo della sua Parola rivelatrice che lo pone così sullo stesso piano del Dio del Sinai, di cui le nozze di Cana sono ripresa e rinnovamento. Come al Sinai, Dio rivelò se stesso «nel terzo giorno», così ora anche Gesù rivela se stesso «nel terzo giorno»: al Sinai Israele ricevette la Toràh, a Cana l’umanità riceve il vino bello della sua Gloria. Ora sì, possiamo anche comprendere perché Gesù dice di se stesso: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) perché con lui si riapre il tempo dell’alleanza e il vino della parola scorre abbondante e senza misura «in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8) perché ora l’umanità nuova, invitata a Cana può accostarsi al cuore di Dio per «vedere» la parola e gustare il vino nuovo banchetto finale:
«Prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per tutti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui non lo berrò di nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,23-25).
Il senso generale del racconto ci apre prospettive straordinarie per la fede e la testimonianza: non si tratta di un matrimonio quanto della nuova alleanza che inaugura i tempi nuovi nell’umanità di Cristo come ripresa e compimento dell’alleanza del Sinai che ora è restaurata e compiuta: la nuova umanità, noi siamo tutti invitati alle nozze di Dio con il suo popolo che ora raccoglie tutti i popoli. Il banchetto eucaristico che celebriamo nella storia è la nostra Cana dove il vino è mutato in sangue e la parola diventa il pane del corpo del Signore, i segni nuovi che ci abilitano ad andare nel mondo ed essere anche noi segni visibili di nuzialità e di gioia. Se il vino del Sinai è la Toràh e quello di Cana è la Parola, il vino per noi è il Vangelo, cioè Gesù il Cristo, la rivelazione del Padre, in forza della testimonianza di Marco: «Principio del Vangelo, cioè Gesù, cioè il Cristo, cioè il Figlio di Dio» (Mc 1,1). [continua – 11]

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (10) UN PROTAGONISTA DELLE NOZZE: IL VINO DEL MESSIA

Il racconto delle nozze di Cana (10)

«E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”» (Mc 14,24-25).
Prima di cominciare il commento del racconto di Cana versetto dopo versetto, dobbiamo incontrare e conoscere, in questa e nella prossima puntata, un protagonista indiscusso dello sposalizio di Cana che è il Vino: all’inizio della narrazione manca ed è motivo di preoccupazione e alla fine abbonda e migliora. In tutto il racconto il vino è citato 5 volte (Gv 2,3[2x].9.10 [2x], mentre, come abbiamo detto a più riprese, la sposa è nominata neppure una volta e lo sposo una volta appena, alla fine del racconto (Gv 2,9) e solo per ricevere il rimprovero del responsabile delle nozze. Tutti questi elementi sottolineano insieme che il vero protagonista dello sposalizio di Cana è lui, il Vino, che assume un ruolo determinante perché in esso si cela una concentrazione straordinaria di significati che dovremo trovare.
Un vino per tutti i popoli
La Bibbia attribuisce a Noè la piantagione della prima vigna da cui ricava il vino, fonte di allegria e di gioia (cf Gen 9,20-21). Il vino è anche una droga al centro di un incesto tra due figlie e il loro padre, Lot, che ubriacano per avere da lui una discendenza per paura di estinguersi (cf Gen 19,30-38). La Palestina, come in tutto il Medio Oriente, è un paese agricolo mediterraneo e l’uva e il vino non solo sono familiari, ma formano parte importante del nutrimento ordinario, se è vero che la terra promessa è descritta come un paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8.17; 13,5, ecc.) e dove abbonda il vino, segno di fertilità, di abbondanza e di gioia (cf Gen 49,11; Dt 33,28). Quando gli Ebrei arrivano ai confini di quella che da terra promessa diventerà il loro paese, Mosè manda alcuni esploratori in ricognizione ed essi ritornano con un grappolo d’uva, colto nelle vicinanze di Ebron, che portano in due (cf Nm 13,23).
Non meraviglia quindi che tanto nella letteratura che nella Scrittura il vino assuma anche un simbolismo molto forte1. Il vino nella tradizione biblica è sinonimo di gioia e di festa come si legge nel Cantico dei Cantici che tutta la tradizione giudaico-cristiana interpreta allegoricamente come il canto dell’alleanza nuziale tra Yhwh e il suo popolo. Qui troviamo anche il nesso tra il vino e le nozze perché non vi può essere allegria senza il vino che diventa anche la misura della tenerezza sponsale: «Sì, migliore del vino è il tuo amore» (Ct 1,2). In ebraico «vino» si dice «yayìn», le cui consonanti (y_y_n) corrispondono al numero 70 (10+10+50), cioè le settanta nazioni che popolano la terra, secondo la convinzione, ancora attuale al tempo di Gesù.
Il Targum mette in relazione «amore» e «vino» contrapponendoli perché il primo simboleggia Israele che Dio ama più di tutte le nazioni, simboleggiate nel secondo: «Per la grandezza del suo amore, con cui ama noi [= Israele] più che le settanta nazioni» (cf Targum a Ct 1,2) a cui fa eco il midràsh: «Il tuo amore è migliore» è Israele; «più del vino» sono le nazioni del mondo; sono le settanta nazioni del mondo. Così ti insegna che Israele è caro al Santo – benedetto Egli sia – più di tutte le nazioni» (Cantico Rabbà, I,19). Nelle nozze di Cana, donando un vino abbondante e migliore del vino precedente, Gesù offre al mondo intero una rivelazione universale per radunare tutti i popoli sotto il segno della manifestazione della «Gloria». Il vino di Cana estende ai popoli senza alcuna riserva l’alleanza del Sinai che prefigura quella che avverrà nel vino/sangue versato sulla croce: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).
Il Sinai, cantina e scuola della Toràh
Nel Cantico dei Cantici il vino è citato 8 volte e sempre in un contesto erotico-amoroso che trasporta la sposa-Israele verso lo Sposo-Dio (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2): «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). La tradizione rabbinica considera il monte Sinai come la cantina, la «casa del vino» per eccellenza dove fin dalla creazione del mondo Dio ha conservato per Israele il vino buono della Toràh, come spiega dettagliatamente il midràsh:
«“Mi condusse alla casa del vino”: è il Sinai, dove è stata data la Toràh, che è paragonata al vino: “Bevete il vino che io ho preparato” [Pr 9,5]» (Midràsh Numeri Rabbà II, 3).
«Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto Egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai e là mi ha dato gli ordinamenti della Legge e i precetti e le opere buone, e con grande amore li accolsi» (Midràsh Cantico Rabbà II,12).
Per questo il monte Sinai è anche una scuola dove si beve il vino della Parola: «Mosè passò quaranta giorni sul monte: e stava seduto davanti al Santo – benedetto Egli sia – come un discepolo sta seduto davanti al suo maestro» (Midràsh Pirqè/Massime di R. Eliezer XLVI; cf A. Serra, Contributi, 237-238). Al tempo di Gesù, il Targum, cioè la traduzione aramaica della Bibbia ebraica che si faceva in sinagoga per fare capire la Parola nella lingua del popolo, così commentava Ct 2,4 sopra citato:
«L’Assemblea d’Israele disse: Il Signore mi fece salire alla casa di studio della scuola del Sinai perché imparassi la Toràh dalla bocca di Mosè, il grande scriba. E l’ordinamento dei suoi precetti accolsi su di me con amore, e dissi: tutto quello che il Signore ha ordinato lo farò, e obbedirò» (Targum a Ct 2,4).
Al Targum fa eco anche il Midràsh di Cantico Rabbà 2,4,1 (150 ca. a.C.) che dice: «…R. Abba insegnava nel nome di R. Isaac. Disse l’Assemblea di Israele: “Il Santo – benedetto Egli sia – mi introdusse nella grande cantina del vino, il Sinai. E lì mi diede la Toràh che è spiegata da 49 motivi per dichiarare puro e 49 per dichiarare impuro, perché il valore numerico di “vessillo” è appunto 49». In ebraico infatti ad ogni consonante corrisponde un numero (i numeri furono inventati dagli Arabi nel sec. VIII d. C.: prima si usavano le consonanti dell’alfabeto) e in Ct 2,4 la parola «vessillo», in ebraico «wedighelò», è formata dalle consonanti «w_d_g_l_w» la cui somma numerica fa appunto 49. Il vino della Toràh è conservato da Dio ancora prima della creazione del mondo in vista della rivelazione del Sinai e dell’alleanza. Su questo punto la tradizione rabbinica è costante. Nel libro dei Proverbi, infatti, «Donna Sapienza» parla della sua «preesistenza» accanto al creatore:
«22 Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. 23 Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. 24 Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; 25 prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, 26 quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo. 27 Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, 28 quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, 29 quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, 30 io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, 31 giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,22-31).
La Mishnà si collega a questa tradizione perché tra le «dieci cose» create prima della creazione del mondo, elenca anche «la scrittura», cioè le lettere dell’alfabeto e «le Tavole della Toràh» che con quelle furono scritte. In altre parole: il vino delizioso della Toràh non è una creatura di Dio, ma è parte di Dio stesso, prima ancora che la creazione avesse inizio:
«Dieci cose furono create al crepuscolo del primo Sabato: l’apertura della terra, la bocca del pozzo, la bocca dell’asina, l’arcobaleno, la manna, la verga [di Mosè], lo shamìr, le lettere dell’alfabeto, la scrittura e le Tavole della Legge. C’è chi dice: anche gli spiriti maligni e la tomba di Mosè nostro maestro, l’ariete di Abramo nostro patriarca e c’è chi dice anche la tenaglia fatta con tenaglia» (Pirqè Avot – Massime dei Padri V, 6; cf Talmud babilonese Pesachìm/Pasque 54a; Midràsh Genesi Rabbà 1,4; Midràsh Levitico Rabbà 19,1).
Secondo il Midràsh Genesi Rabbà 1,1, la Toràh servì a Dio come «modello» per la creazione del mondo, come a dire che Dio guardava la Toràh e creava le cose. Lo stesso concetto si trova in Paolo il quale descrive Cristo come «primogenito di tutta la creazione perché in lui furono create tutte le cose … Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf Ef 1,4;) e si trova pure in Pietro che presenta Cristo come «agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi» (1Pt 1,19-20). A questa tradizione sulla Toràh preesistente si riferisce Gesù quando prega dal Padre la «gloria», cioè la sua identità di Dio: «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse … poiché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,5.24).
Il vino, la manna e il pane della Parola
Questi testi e questa tradizione sulla «preesistenza», conosciuti da Gesù e dagli apostoli, alla luce del simbolismo del vino che rappresenta la Toràh, ci dicono che l’alleanza del Sinai non è un avvenimento secondario, perché in essa si compie una attesa che era un desiderio e un progetto di Dio, ancora prima che il cosmo esistesse. La Parola di Dio (o «Donna Sapienza» secondo il libro dei Proverbi), infatti, è eterna come il pensiero stesso di Dio e il Sinai è il punto di arrivo del disegno di amore di Dio, quel disegno che Giovanni chiama «Lògos/Dabàr» (Gv 1,1) della cui «gloria manifestata» il racconto dello sposalizio di Cana fa da sfondo e da contesto al cuore della rivelazione: l’incarnazione del Lògos: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la cui preesistenza è contenuta anche nel targum che traduceva il libro dell’esodo. Riportiamo in parallelo sinottico il testo dell’Esodo e il testo del Targum che veniva proclamato nella sinagoga per fare vedere come le idee e i pensieri detti da Gesù e riportati dal vangelo fossero materia di formazione comune:
Nel Targum «il pane che è conservato» è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza cioè il pane della parola di Dio che nella e con la Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Da ciò possiamo dedurre che il Giudaismo del sec. I fosse in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato anche il miracolo della manna (2Bar 29,8; Or Sib 7,148-149; Rut R. 2,14) e che l’evangelista Giovanni descrive nel mirabile capitolo 6 del suo vangelo. Il pane/manna non è un cibo per sfamare la fame, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre. Gesù mette al centro del suo vangelo il comandamento dell’amore, riducendo ad esso i 613 precetti della tradizione giudaica (cf Gv 12,50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12; 1Gv 1,2.3; 2,7; 3,23; 5,2-3; cf 2Gv 5-7). Infine, la manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza:
«Hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli (Lxx: anghèlōn trophên), dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto … perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te» (Sap 16,20-21.26).
Il pane degli angeli diventa il nutrimento dei figli di Dio che sono custoditi e conservati direttamente dalla Parola che ascoltano e che praticano nei comandamenti, nel comandamento dell’amore perché «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3 cf Mt 4,4). Pane e vino sono alimenti della vita dell’uomo mediorientale e diventano anche «sacramenti» dell’alleanza eterna e nuova (cf Ger 31,31) che si esprime e si manifesta nella Parola di Dio consegnata da lui stesso a Mosè sul Sinai. Le nozze di Cana hanno senso dentro questo quadro di riferimento ampio e solenne perché nell’intenzione dell’autore non sono l’occasione per un miracolo da poco, ma spalancano una porta nuova sulla storia dell’Esodo che oggi noi riviviamo attraverso gli sposi assenti, il vino abbondante e «bello», nella presenza della Madre e nel gesto di Gesù perché l’Esodo è ora, è qui. Adesso. [continua – 10]

Paolo Farinella

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1 Sul tema del «vino» (o della vigna) cf J. L. Mckenzi, Dizionario Biblico, a cura di Bruno Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1978, 1036-37 [vino] e 1042-44 [vite/vigna]; A. M. Gerard, Dizionario della Bibbia, voll. 1-2, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, vol. 2°, 1615-17 [vigna] 1617-19 [vino]; sul tema cf anche la bibliografia in A. Serra, Contributi, 227 nota 2.

Paolo Farinella




Cana (9) Rahab anticipa il terzo giorno

Il racconto delle nozze di Cana (9)

Nel libro di Giosuè si narra la presa di Gerico da parte degli Israeliti con l’aiuto della prostituta Rahab che per prima capisce e accetta il disegno di Dio (Gs 2, 9-13).(1) Consapevole che è inutile combattere contro il Signore degli Israeliti, Rahab accetta di collaborare, in cambio della salvezza per sé e la sua famiglia, nascondendo le spie israelite in casa propria. Quando il re viene a sapere che alcune spie sono andate nella casa della prostituta, mette in moto la sua polizia per cercare gli intrusi e ucciderli. Rahab, incurante del pericolo e correndo il rischio di essere accusata di tradimento, fa fuggire le spie dalla finestra che si affaccia sulle mura della città e li manda  verso i monti per sfuggire gli inseguitori del re di Gerico, suggerendo loro di rimanere nascosti là tre giorni» (Gs 2, 16) fino alla fine del rastrellamento. Le spie israelite, si fidano di Rahàb, la prostituta, e le ubbidiscono:  «Se ne andarono e raggiunsero i monti. Vi rimasero tre giorni, finché non furono tornati gli inseguitori. Gli inseguitori li avevano cercati in ogni direzione, senza trovarli» (Gs 2, 22).
Questi i fatti. Nel testo di Giosuè è evidente che i «tre giorni» indicano un tempo di prova e vigilanza che sfociano nella liberazione, perché le spie possano tornare da Giosuè e informarlo sulle difese della città. (2) Il Midràsh Genesi Rabbà 56 – Midràsh Grande, uno dei più antichi, commentando Gen 22, 4 – «Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo» – così commenta:

«Il Santo, Benedetto sia! Non lascia i giusti nell’afflizione più di tre giorni come è detto. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, così che potremo vivere alla sua presenza (Os 6, 2); il terzo giorno degli antenati della tribù: e Giuseppe disse loro il terzo giorno: fate questo e vivrete (Gen 42, 18); il terzo giorno della Torah: appunto al terzo giorno sul far del mattino, vi furono tuoni (Es19, 16); il terzo giorno delle spie: e nascondetevi lì tre giorni (Gs 2, 16); il terzo giorno di Giona: Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti (Gn 2, 1); il terzo giorno al ritorno dall’esilio: siamo arrivati a Gerusalemme e ci siamo riposati tre giorni (Esd 8, 36); il terzo giorno di Ester: il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, ella si tolse le vesti da schiava e si coprì di tutto il fasto del suo rango (Est 5, 1), cioè si coprì con tutto il fasto dei suoi antenati. Per i meriti di chi [la liberazione arriva il terzo giorno]? I rabbini dicono: “Per merito del terzo giorno in cui è stata data la Toràh”. R. Levi dice: “Per merito di ciò che ha fatto Abramo il terzo giorno, come è detto: Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo” (Gen 22,4)».

«Il terzo giorno» è il giorno della salvezza

Il Midràsh usa lo stesso metodo che abbiamo usato noi nella puntata precedente: mette insieme tutti i testi che parlano del terzo giorno e lega questa espressione ad una salvezza realizzata, dopo una attesa o un pericolo. Il Midràsh mette sullo stesso piano figure diverse, come Rahab, la prostituta, e Abramo, il patriarca fondatore, ambedue protagonisti e strumenti di salvezza per Israele. La prostituta che salva le spie di Israele è di fatto la prima profetessa che proclama la salvezza di Dio nella terra promessa, prima che gli Israeliti vi entrino come popolo e mentre, allo stesso tempo, ne prendono possesso simbolico con l’ingresso delle spie. Certamente Gesù, quando affermava: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), aveva ben presente questo Midràsh di Rahab, che a quel tempo era solo orale.
È singolare che l’evangelista inizi il racconto di Cana con una precisazione di tempo così particolare, pre-cisa e posta al principio del racconto, in posizione d’onore, in primo piano, quasi a metterci sull’avviso che non si tratta soltanto di un «lasso di tempo» cronologico, ma di un evento di salvezza, che irrompe nella storia come la teofania di Dio irruppe sul Monte Sinai dove, attraverso il dono della Toràh, Dio diede coscienza agli schiavi fuggiti dall’Egitto di essere un popolo, e un popolo prediletto. Ora a Cana, nasce un nuovo popolo, non nel senso che soppianta Israele –  cosa impossibile –, ma nel senso che lo stesso Israele assiste all’arrivo dei tempi nuovi, i tempi del Messia che viene a portare a compimento la Toràh del Sinai, rinnovandola e lavandola nel vino del proprio sangue, cioè nell’offerta della propria vita. Le nozze, sì, sono pronte, ma non quelle di una anonima coppia, ma quelle di Dio con il suo popolo, le nozze tra il cielo e la terra.
La scala di Gesù, il nuovo Giacobbe

In questa direzione ci porta lo stesso autore del IV vangelo che prima di aprire il racconto di Cana, chiude il capitolo primo con l’allusione alla scala di Giacobbe: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo» (Gv 1, 51). Subito dopo questo versetto comincia il capitolo 2 con «Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (Gv 2, 1). Quale nesso vi è fra i due testi? Gli angeli che salgono e scendono è un evidente ed esplicito richiamo a Giacobbe che sogna una scala che unisce la terra al cielo (Gen 28, 10-17).
Con questo testo allusivo a Giacobbe, Giovanni riprende le tradizioni giudaiche che interpretavano la scala di Giacobbe come simbolo del monte Sinai, attraverso la quale salgono e scendono gli angeli che nella tradizione sono Mosè ed Aronne. Oppure la scala è simbolo del tempio di Gerusalemme e gli angeli sono i sacerdoti che salgono e scendono per il culto. Le due simbologie sono presenti nel IV vangelo: l’espressione «il terzo giorno» (Gv 2, 1) richiama il «terzo giorno»  del Sinai (cf Es 19, 11), come molto spesso abbiamo sottolineato. Immediatamente dopo il racconto di Cana, Giovanni riporta il fatto della purificazione del tempio (Gv 2, 13-22), dove Gesù scaccia i mercanti e restituisce al tempio la sua dignità di «casa del Padre». Non solo, ma subito dopo questo fatto, Giovanni riporta una disputa tra Gesù e i Giudei nella quale egli identifica il suo corpo con il tempio e ancora una volta si serve dello schema del «terzo giorno» per annunciare la sua risurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19).
Per l’autore del IV vangelo, Gesù è il nuovo Giacobbe, il padre dei dodici figli che daranno origine alle do-dici tribù d’Israele. Egli come la scala del sogno del patriarca, unisce il cielo e la terra perché ora vediamo e sappiamo che «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1, 14) ed è il tempio che rinnova e purifica il culto, sostituendo il sacrificio di animali con l’offerta della propria vita e realizzando la profezia del profeta Osea: «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6, 6). Rivelando e manifestando a Cana che Dio è pronto nuovamente per le nozze con Israele e con la nuova umanità rappresentata dai dodici apostoli, Gesù pone le condizioni per una nuova storia di amore e di tenerezza, dove non prevarrà più la durezza del castigo, ma solo la dolcez-za della nuzialità che diventa così la cifra nuova dell’alleanza nell’umanità redenta.

«Il terzo giorno» porta due benedizioni

Il «terzo giorno» ha segnato l’inizio della coscienza di Israele come popolo, perché Dio si manifesta a Israele per dargli la Toràh (Es 19,10-11.16; cf Targum Gionata a Es 19, 24). Allo stesso modo i figli di Israele segnano l’inizio della vita della nuova coppia, celebrando il matrimonio «nel terzo giorno della settimana» e cioè il martedì, secondo il computo ebraico. Questa scelta è legata sia alla tradizione del Sinai, sia con il fatto che nel terzo giorno della creazione (cf Gen 1,9-13), Dio concede due benedizioni: alla creazione della terra e alla creazione dei frutti della terra. Il terzo giorno, giorno della doppia fecondità, è il più indicato per la celebrazione della fecondità dei figli d’Israele. La Legge e la Benedizione, la coscienza e la relazione sono i segni che svelano il volto di Dio nel volto dei suoi figli: come Dio si lega a Israele suo popolo nel «terzo giorno», allo stesso modo, «nel terzo giorno», i figli di Dio si legano tra di loro nella fecondità sponsale, che è la benedizione di Dio Padre e creatore riversata sul mondo presente e futuro. (9-continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (8) A CANA FINISCE LA VEDOVANZA DI GERUSALEMME

Il racconto delle nozze di Cana (8)

Più andiamo avanti nella presentazione del racconto dello «sposalizio di Cana» e più ci rendiamo conto che esso ha senso dentro il contesto del vangelo come anticipo della rivelazione «dell’ora della gloria», che coincide con la morte e la risurrezione del Signore. Nello stesso tempo, abbiamo coscienza che il racconto acquista un significato ancora più profondo all’interno del contesto remoto che comprende tutta la Scrittura, perché, come abbiamo anticipato diverse volte, il racconto di Cana ha il valore di «commento» all’evento del Sinai in prospettiva cristologica. In sostanza, l’autore ci dice che la chiave di comprensione (ermeneutica) dell’Esodo, cioè della salvezza che è entrata nella storia, è Gesù di Nazaret. Egli, infatti, si presenta come il discendente di Mosè, ma più grande di Mosè, perché compie ciò che a Mosè fu impossibile realizzare: fare entrare il popolo di Dio nella terra santa della promessa che egli annuncia e presenta come Regno di Dio.

Chi studia la parola espia i peccati
Il racconto di Cana e i temi in esso contenuti sono una rilettura cristologica delle tradizioni del Sinai, che l’autore descrive con i criteri dell’esegesi giudaica, secondo il metodo specifico che si chiama midràsh. Questa affermazione è importante perché colloca il vangelo di Giovanni nel contesto diretto del Giudaismo, che fu la culla del cristianesimo nascente. Noi siamo abituati a leggere e interpretare il vangelo con categorie quasi esclusivamente greco-romane e rischiamo di perdee l’anima stessa con il rischio di travisae il senso. Cercheremo di spiegare con semplicità in che modo il racconto di Cana sia un midràsh dell’Esodo e così offriremo uno strumento di rilet-tura del testo capace di andare ben oltre l’ovvio senso letterale che altrimenti, da solo, direbbe poco.
L’ebraicità di Gesù, degli apostoli e della Chiesa nascente appartiene al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento e condiziona la nostra fede, in forza della quale noi stessi, credenti in Cristo, ebreo, figlio di ebrei, siamo discendenti di ebrei o, come affermava Pio XI, «spiritualmente semiti».
La banalità e la superficialità sono nemiche della verità evangelica e della dignità umana che indaga, cerca, trova e vive. Ogni volta che diciamo cose scontate o improvvisiamo i nostri commenti sulla Parola di Dio, diventiamo colpevoli di «lesa Parola» perché la riduciamo a favola o a racconto morale, trasformando spiegazioni ed omelie in pillole di ovvietà che pretendono avere una dignità edificante. Spesso gli annunciatori del vangelo mancano di vera «professionalità» e si riducono ad essere professionisti del banale, alimentando così l’ignoranza del popolo di Dio. Il quale popolo ha diritto ad avere invece il meglio degli studi esegetici, affinché il messaggio evangelico non si riduca ad una pia esortazione insipida, frutto magari di manie soggettive e di una dottrina moraleggiante che lascia il tempo che trova.
Già al tempo di Gesù i Rabbini insegnavano che lo studio della Toràh equivale al sacrificio offerto al tempio, ha, cioè, valore espiatorio. Oggi, noi diremmo che lo studio della Parola ha valore «sacramentale» ed è l’equivalente dell’Eucaristia. Questo insegnamento attraversa la storia di Israele e arriva fino a noi:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo [anche fuori Gerusalemme], è considerato da Me [il Signore] come se bruciasse offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan) e un altro Rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio (= in diasporà?), come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te». Il midràsh Sifre Deuteronomio 41, commentando Gen 2, 15 («Il Signore Dio prese Adam e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse») afferma: «Perché lo coltivasse» si riferisce allo studio della Toràh e «perché lo custodisse» si riferisce all’osservanza dei comandamenti [1].
L’interpretazione corrente delle nozze di Cana si è adagiata anonimamente sul versante sacramentale perché bisognava giustificare in che modo e in che senso il matrimonio cristiano era ed è sacramento. Quale risposta migliore delle nozze di Cana? Vi è lo sposalizio, vi è Gesù, vi è la Madonna, vi sono gli apostoli; la Chiesa intera è presente e tutto è pronto: la presenza di Gesù diventa la «garanzia» della sacralità del matrimonio.
La Madonna, poi, ha un posto ancora più privilegiato, perché è lei che intercede per il vino che viene a mancare e, come si è soliti dire, con la sua sensibilità di donna e di madre si è preoccupata perché gli sposini non facessero brutta figura. Che abisso! La rivisitazione in chiave cristologica dell’irruzione di Dio nella storia di Israele e dell’umanità, la teofania del Sinai riletta alla luce del Figlio di Dio, Gesù di Nazaret, è ridotta a semplice intervento di buon senso e di galateo perché una sposina assente e uno sposo distratto non facciano brutta figura. Veramente siamo colpevoli della scristianizzazione del nostro popolo. Come possiamo pretendere che il mondo creda se noi annunciamo un messaggio evangelico che il vangelo non ha?

Una simbologia corretta
Nel contesto messianico dell’alleanza, abbiamo scoperto che nulla è fuori posto o superfluo: la madre, i servi e le giare, oltre il loro senso immediato e ovvio, diventano simbolo dell’antica alleanza e rappresentanti del popolo d’Israele e dell’umanità, invitati a guardare a Gesù come Messia e salvatore. «È lui lo sposo! Corretegli in-contro!» (cf Mt 25, 6). Anche l’assenza della sposa e la presenza puramente coreografica dello sposo sono simbolo non già del matrimonio cristiano (e come potrebbero esserlo?), estraneo alla preoccupazione dell’evangelista, ma dello stato di Gerusalemme divenuta «come una vedova fra le nazioni», in cui «nessuno si reca più alle sue feste» perché «dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore» (Lam 1, 1.4.6).
La Madre, in rappresentanza dell’umanità-vedova, e il Figlio, nella sua veste nuziale di Sposo, garantiscono che è già giunto a noi «il principio dei segni» (Gv 1, 11), il tempo della «alleanza nuova», preconizzata dal profeta (Ger 31, 31). In altre parole, ora possiamo cominciare a vedere il volto di Dio, rivelato nell’uomo Gesù, che risplenderà nell’ora della morte, morte che a sua volta esprimerà l’ora della gloria: il mistero pasquale, «principio e fondamento» della vita credente, della fede accolta e della nuzialità che siamo chiamati a testimoniare nel mondo dove viviamo. Poiché le nostre forze non sono in grado da sole di comprendere e accogliere questo mistero, «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8, 26), sostenendoci nella ricerca, nello studio e nell’adorazione.

La ricerca esegetica e lo sviluppo del magistero
Aristide Serra, esegeta dell’ordine dei Servi di Maria, ha dedicato tutta la sua vita di studioso alla figura di Maria nella Scrittura e ha approfondito il brano delle nozze di Cana sotto ogni aspetto, tanto nella tradizione biblica cristiana, quanto in quella giudaica, aprendo prospettive inesplorate e straordinarie [2]. Seguendo la sua ricerca e prima di passare all’esegesi, parola per parola, vogliamo anticipare, anzi, desideriamo puntualizzare la matrice giudaica del racconto perché, quando lo commenteremo, possiamo gustarlo con grandi respiri e soddisfazione.
Facciamo anche riferimento ad un altro testo magisteriale, che riteniamo essere fondamentale. Nel 2001, la Pontificia commissione biblica, allora presieduta dal card. Joseph Ratzinger in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicò un documento, «Il popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana» [3], della cui dirompenza solo gli specialisti si resero conto. Il documento, che è una mirabile sintesi degli ultimi quattro secoli di studi biblici, dedica un capitolo intero ai «Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento» (pp. 34-45), rendendo così ufficiale l’approccio alla Scrittura che noi sosteniamo da queste pagine ormai da diversi anni. Dopo la costituzione conciliare sulla Parola di Dio «Dei Verbum» del 1965 questo documento ufficiale della Chiesa è il secondo pilastro che non può essere disatteso da chi è responsabile della predicazione, della catechesi e della celebrazione eucaristica e/o sacramentale.

Dal Sinai a Cana e da Cana al Sinai
Abbiamo a più riprese accennato che il racconto delle nozze di Cana è un midràsh cristiano dell’evento del Sinai e, quindi, una spiegazione dell’Esodo alla luce della novità che è Cristo. Ne esaminiamo alcuni aspetti in modo organico, considerando ancora il racconto nel suo insieme. Questo metodo di prendere e lasciare, anticipare e sottolineare potrebbe disturbare chi è addentro alle questioni bibliche e che vorrebbe andare subito al sodo dell’esegesi, ma è necessario per coloro che sentono questo discorso per la prima volta. Bisogna procedere per gradi e salire la scala gradino dopo gradino, anche per abituare la ragione e il cuore ad assaporare, gustare senza ingolfarsi. È il metodo del «ruminare» la Parola affinché diventi sangue e vita.
Una rilettura giudaica dello sposalizio di Cana non è agevole per i nostri lettori che non sono abituati a considerare l’ebraicità di Gesù come condizione essenziale per comprendere lui come persona e per capire il senso autentico del suo messaggio. Per questo motivo dobbiamo essere molto schematici e chiari, a costo di essere ripetitivi. È meglio ripetere più volte lo stesso pensiero piuttosto che esprimerlo una sola volta malamente e in modo oscuro. Per capire il nesso stretto che c’è tra il racconto di Cana e la letteratura giudaica, è necessario fare un confronto tra ciò che accadde a Cana e ciò che accadde al Sinai, sottolineando fatti, idee e testi che aiutino a cogliere il legame stretto che c’è tra di essi. Il confronto tra Primo e Nuovo Patto passa attraverso il confronto Cana – Sinai, all’interno del quale troviamo diversi temi: il «terzo giorno» (che abbiamo già anticipato nelle puntate precedenti); le parole che la madre dice ai «diaconi»; il simbolismo del vino e l’allusione alla scala di Giacobbe (Gv 1, 51) che precede immediatamente il racconto delle nozze di Cana. Questi temi devono essere letti nel contesto della Bibbia, poi in quello della tradizione giudaica e infine nel contesto del vangelo che, a sua volta, vive e si sviluppa «dentro» una Chiesa che lo accoglie e lo consegna ai posteri.
(continua – 8)

Paolo Farinella

Note
1. Cf Urbach 627-628; 950, nota 402
2. Ci ispiriamo pertanto alla sua opera, che è una pietra miliare nella storia dell’esegesi, specialmente il poderoso Contributi dell’antica letteratura giudaica per l’esegesi di Gv 2,1-12 e 19,25-27, Edizioni Herder, Roma 1977, pp. 494.
3. Il popolo di Dio e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 218.

Paolo Farinella