San Pedro Calungsod

4 chiacchiere con

Pedro Calungsod Bissaya, originario della regione di
Visayas, nacque nel 1654 a Ginatilan (Isola di Cebu) nell’arcipelago delle
Filippine. Fin da adolescente collaborò con i Missionari Gesuiti . Ben presto
divenne catechista mettendosi al servizio dell’evangelizzazione che i discepoli
di Sant’Ignazio di Loyola avevano avviato nelle nuove terre scoperte dalla
Spagna. Fu martirizzato il 2 aprile 1672 con il gesuita spagnolo Padre Diego De
San Luis Vitoris, nell’isola di Guam – arcipelago delle Marianne – dove aveva
accompagnato il missionario per fargli da interprete con le comunità indigene
sparpagliate nell’immensa vastità dell’Oceano Pacifico.


Il messaggio evangelico fu accolto con semplicità ed
entusiasmo dai nativi delle Filippine. Alcune tribù, però, sobillate dai loro
stregoni e da chi si opponeva alla Buona Novella, si opposero attivamente ai
missionari e aizzarono anche le tribù che avevano accolto i missionari a rivoltarsi
contro di essi cercando con ogni mezzo di impedie l’azione, e arrivando
persino a utilizzare metodi cruenti e criminali. Nonostante ciò, i missionari
non vennero mai meno al loro impegno e continuarono la loro azione di
promozione umana e di evangelizzazione portando il messaggio di salvezza di
Gesù Cristo fino alle isole più sperdute e remote. Il loro coraggio e la
determinazione che li caratterizzavano non furono vani. Oggi le Filippine sono
l’unico stato a maggioranza cattolica del continente asiatico.

Caro Pedro, se non vado errato, tu sei uno dei migliori frutti
dell’opera di evangelizzazione che i missionari hanno compiuto nelle Isole
dell’Arcipelago delle Filippine.

È
vero, il messaggio del Vangelo arrivò a noi dall’America Latina perché i
missionari che sbarcarono in Messico si avventurarono nell’Oceano Pacifico al
seguito delle navi spagnole, approdando nel 1521 sulle coste delle nostre
isole, chiamate da allora «Isole Filippine» in omaggio al loro re Filippo. In
un certo qual modo per gli spagnoli diventammo una propaggine del continente
scoperto da Cristoforo Colombo.

Infatti anche oggi molto del folklore e delle feste religiose
filippini assomiglia a quelli dei paesi di lingua spagnola dell’America Latina.

Proprio così: oltre che asiatici, dal punto di vista
della pratica religiosa, siamo anche un po’ «latinoamericani». Non è un caso
che la fede cattolica, portata dagli spagnoli partiti dalle coste messicane,
abbia attecchito in maniera così intensa e feconda nelle nostre Isole. Del resto
la colonizzazione spagnola (durata oltre quattro secoli) ha inciso
significativamente nella toponomastica, nella cultura e e addirittura nei notri
patronimici, ossia nei nostri cognomi.

In ogni caso alcune culture native erano impregnate in maniera
viscerale di tradizioni fortemente contrarie al Vangelo e questo ha costituito
un serio ostacolo alla diffusione del messaggio evangelico in Asia e in
Oceania. Confermi questa tesi?

Sì, perché gli stregoni di varie isole vedevano nei
missionari dei concorrenti e quindi delle persone che insidiavano il potere che
loro avevano sulle coscienze e sulle comunità indigene, per questo li
osteggiavano in tutti i modi. Ricordiamo che il grande navigatore Ferdinando
Magellano fu ucciso proprio dai tribali in una di queste isole.

Ma i missionari gesuiti avevano una strategia vincente, o no?

I
gesuiti erano semplicemente geniali, coinvolgevano nell’evangelizzazione
soprattutto noi giovani, studiavano le lingue del posto, arrivando a parlarle
perfettamente e, per la prima volta nella nostra storia, a metterle per
iscritto utilizzando i caratteri latini. Per questo proprio nelle stazioni
missionarie che avevano creato nelle Filippine, accoglievano coloro che
intendevano aiutarli nell’opera di evangelizzazione, li formavano adeguatamente
e davano loro un’istruzione di prim’ordine, di modo da preparare anche dei
preziosi collaboratori nel catecumenato e nell’evangelizzazione degli adulti.

Anche tu hai fatto questo iter di formazione?

Sì,
avevo solo 14 anni quando entrai a far parte del «Collegio» di formazione che
essi avevano fondato nella mia isola. Lì insieme ad altri ragazzi oltre a
imparare a leggere e scrivere, fui istruito con il catechismo che allora veniva
usato per i catecumeni in vista del sacramento del Battesimo, e spinto ad
approfondire le verità di fede contenute nel Vangelo.

Cosa ti ha colpito di più del messaggio evangelico?

Il
fatto che per la prima volta tra la nostra gente risuonavano parole come Amore,
Misericordia e Perdono, e l’invito ad amarsi vicendevolmente. Ma quello che più
mi stupì di più del Vangelo fu il comando che Gesù diede ai suoi discepoli
(quindi anche a noi!) di amare e perdonare persino i nemici.

Effettivamente questa è proprio la novità assoluta del Vangelo.

Ma è
una novità inaudita portata sulla terra da Gesù Cristo stesso, il Figlio di
Dio! Da soli non ce l’avremmo mai fatta a capirla, spiegarla e proclamarla! Né
noi asiatici, né voi europei! Questo tesoro affidato agli apostoli e da questi
alle prime generazioni cristiane, ha attraversato i secoli, diffondendosi a
macchia d’olio tra i popoli e le nazioni, grazie alla testimonianza cristallina
che seppero dare cristiani di ogni tempo. Grazie all’opera instancabile e allo
spirito di sacrificio di missionari generosi, il Vangelo valicò ampi spazi
geografici e con la scoperta di terre nuove arrivò fino a noi, fino alle isole
Filippine.

Bisogna anche dire che la Buona Notizia di Gesù si innervò a tal
punto nei vostri usi e costumi, da diventare una cosa sola con essi.

L’arrivo
del messaggio evangelico per opera dei missionari fu per noi come la
realizzazione di un’attesa che nutrivamo da tempo. Il Vangelo entrò
gradatamente nella nostra vita, nel nostro modo di vedere la realtà, unendoci
sempre più, plasmandoci come nazione in maniera indelebile e facendo di noi un
popolo nuovo. Un popolo checapiva di avere un ruolo significativo da giocare
nel continente asiatico, per la responsabilità – che scoprivamo di avere – di
annunciare Gesù ad altri popoli vicini. Il tesoro della «Buona Novella» che ci
era dato in dono, andava condiviso il più possibile con altri.

Diciamo che i missionari con voi non commisero gli stessi errori
fatti nelle Americhe.

Quello
che nel continente americano non era riuscito a Bartolomeo de las Casas e alle
anime nobili come lui che difendevano gli indios, da noi poté essere
realizzato. Infatti non vi furono né schiavi né lavori forzati. I missionari si
presentarono come protettori degli indigeni e seppero difenderli dalle
sopraffazioni dei bianchi. I riguardi e la mitezza con cui furono trattati gli
indigeni non mancarono di produrre il loro effetto. La mia gente rimase fedele
alla Spagna e ai suoi missionari, insieme ai quali difesero l’impero coloniale
contro tutti gli attacchi dei maori, dei cinesi e degli olandesi.

Questo ebbe riflessi positivi sulla nascente comunità cristiana?

La
conseguenza di questo intenso lavoro missionario, basato sul rispetto della
gente, fu che ben presto si ebbero catechisti e sacerdoti nativi, i quali con
l’andar del tempo presero in mano quasi tutto lo sforzo missionario. Pensa che
nel 1585 si contavano già 400 mila cristiani, nel 1595 quasi 700 mila, nel 1620
oltre due milioni: in meno di cent’anni la massa della popolazione
dell’arcipelago era divenuta cristiana! Nel 1595 fu istituita nelle Filippine
una gerarchia ecclesiastica propria!

Ma l’impegno missionario restava per te prioritario?

Non
solo per me, ma per molti giovani delle Filippine era un onore accompagnare i
missionari dei diversi ordini: Francescani, Domenicani, Agostiniani, Gesuiti,
ecc., nelle innumerevoli isole dell’immenso Oceano Pacifico, alle Marianne,
Salomone, Marshall e via dicendo, per
fare loro da interpreti.

Un
compito che continua anche oggi con numerosi sacerdoti, religiosi, suore e
laici, inviati dalla Chiesa Filippina ad annunciare il Vangelo in diversi paesi
asiatici, dove gli europei avrebbero magari maggiori difficoltà
d’inculturazione. Non è un caso che la Mongolia apertasi da pochi anni
all’accoglienza del Vangelo, abbia attualmente come Vescovo di Ulan Bator
proprio un presule filippino! E con le meraviglie che sa operare lo Spirito
Santo e che spiazzano sempre coloro che non vorrebbero mai cambiamenti nella
Chiesa come nella società… chissà che sorprese ci riserva il futuro!

Il 2 aprile 1672, Pedro insieme a Padre Diego, parte per le Isole
Marianne. Approdati a Guam, si addentrano verso l’interno dove giungono al
villaggio di Tomhom. Radunata la popolazione iniziano a presentare loro il
Vangelo di Gesù. Mentre espongono le verità del Vangelo, vengono circondati da
una folla di esagitati aizzati dallo stregone del posto. In odio alla fede
cristiana, sono ripetutamente colpiti con lance e frecce. Pedro cerca
disperatamente di difendere Padre Diego e viene colpito in pieno petto e finito
a colpi di scimitarra. Prima di subire la stessa sorte, Padre Diego riesce a
dargli l’assoluzione. Poi i loro corpi, spogliati e sfregiati, sono gettati in
mare, da dove non saranno più recuperati.

La
beatificazione di Padre Diego nel 1985, ha portato a riscoprire anche la
splendida figura del catechista laico Pedro Calungsod, che Papa Wojtyla ha
beatificato il 27 gennaio 2000, proponendo il giovane filippino diciassettenne
come esempio di coraggio, di fede e d’impegno missionario. Il 21 ottobre 2012 è
stato canonizzato come Santo nella Basilica di San Pietro a Roma da Papa
Benedetto XVI.

don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Indonesia: «Il pericolo cristiano»

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 22

Anche nella corsa elettorale
per le presidenziali (di luglio 2014) il peso delle istanze islamiste si è
fatto sentire. Se da un lato lo stato cerca di contrastare le derive estremiste
più pericolose, dall’altro sembra lasciare un po’ troppo margine a situazioni discriminatorie.
Le minoranze religiose, tra cui il 10% di popolazione indonesiana di fede cristiana,
sono oggetto di campagne diffamatorie e violazioni di diritti.

In piena campagna elettorale per le
presidenziali del 9 luglio (in corso nel momento in cui scriviamo), la politica
di ispirazione confessionale si è posta di traverso lungo la strada di Joko
Widodo (Jokowi), il candidato favorito, popolare governatore di Jakarta, in
lizza contro Prabowo Subianto, ex comandante delle forze speciali
dell’esercito. La minaccia degli islamisti di togliere il sostegno al suo
partito, il Partito democratico indonesiano per la lotta (Pdi-P), ha inserito
un elemento di incertezza nella corsa elettorale che prima era sembrata priva
di ostacoli.

A minacciare il boicottaggio è stato soprattutto l’alleato
Pkb (Partito per il risveglio nazionale), braccio politico della maggiore
organizzazione di massa indonesiana, il Nahdlatul Ulama (Nu), sottoposto
all’influsso dei leader religiosi, scettici sull’agenda sociale del candidato
del Pdi-P, e sul suo programma in generale, in cui poco spazio trovavano le
istanze religiose.

Al programma laicista del Pdi-P, infatti, il Partito per
il risveglio nazionale contrappone un’agenda fortemente ispirata all’islamismo
sociale che sempre più ricopre un ruolo di peso nelle dinamiche politiche
nazionali. Le istanze del Nahdlatul Ulama, infatti, e quelle dell’altro
grande movimento sociale islamista, la Muhammadiya, entrambi con decine
di milioni di membri, sono difficilmente ignorabili da chi detiene il potere a
Jakarta, e ancor più da chi intenda mantenerlo.

Un paese musulmano

L’Indonesia è il più popoloso paese islamico al mondo, con
250 milioni di abitanti, di cui l’88% musulmani. Arrivato all’inizio del XIV
secolo e abitualmente pacifico e dialogico, l’Islam indonesiano è fortemente
influenzato dall’esperienza della mistica islamica (sufismo) che ha trovato
varie modalità di accordo con la preesistente mistica animista o di ispirazione
induista.

L’arcipelago indonesiano, esteso su quasi due milioni di
chilometri quadrati e frammentato in 17mila isole, decine di etnie e centinaia
di lingue e dialetti, ha fatto in tempi recenti della «grande rete» di Inteet
uno strumento importante di comunicazione e di integrazione nazionale. Anche
per il cristianesimo locale, che raccoglie circa il 10 per cento della
popolazione, Inteet rappresenta uno strumento d’informazione e di educazione
fondamentale. Esso si affianca alla presenza cristiana nei mass media stampati,
televisivi e radiofonici, e alla partecipazione attiva al dibattito politico,
sociale e culturale.

Su Inteet si muove però anche l’islamismo radicale
duramente represso dalle autorità nelle sue espressioni estremiste e
terroriste, indebolito da centinaia di arresti, condanne al carcere e alla pena
capitale dopo i tragici attentati di Bali del 12 ottobre 2002. L’azione di
contrasto del radicalismo islamico cerca insieme di disinnescare il rischio di
conflitto interreligioso, di sovvertimento del potere civile e di fuga dei
cooperanti e investitori stranieri di cui il paese ha bisogno. Essa però fatica
a evitare la pressione crescente che opprime le minoranze religiose.

«Pericolo cristianizzazione»

Gli islamisti paventano una «cristianizzazione»
dell’arcipelago. Essa è lo spauracchio che giustifica le mobilitazioni di massa
e gli attacchi da parte di facinorosi.

Il sobborgo di Bekasi, presso la capitale Jakarta, è
diventato dal 2008 il centro di una contesa tra Chiese cristiane e gruppi
radicali islamici che riguarda edifici religiosi per i quali vengono concessi
permessi di costruzione ma non di apertura al culto. I luoghi di culto di altre
fedi rappresentano una minaccia per chi vede nell’Islam la sola fede possibile
nell’arcipelago.

Dalle strade di Bekasi, lo scontro si è portato da tempo
anche sulle strade «virtuali» di Inteet, sempre aspro e pretestuoso, e con
gli stessi «protagonisti». Alcuni, come il Consiglio indonesiano per la
diffusione dell’Islam e il Movimento degli studenti islamici, con un forte
accento anticristiano. Altri, come il Fronte dei difensori dell’Islam,
particolarmente impegnati contro l’apostasia. Infine, hanno un ruolo di
supporto organizzazioni semilegali o del tutto illegali di derivazione salafita
e jihadista, come pure la Jemaah Ansharut Tauhid, l’organizzazione
fondata nel 2008 da Abu Bakar Ba’asyir, ora in carcere per aver ispirato i
fatti di Bali, ma ancora principale punto di riferimento della Jamaah
Islamiah
, movimento emulo di Al Qaeda.

La propaganda islamista definisce «allarmanti» le
conversioni al cristianesimo, e insinua che l’accesso a religioni diverse da
quella musulmana sia frutto di manipolazione e non di adesione spontanea.
Secondo questa campagna denigratoria, l’Islam dovrebbe affrontare i «concorrenti»
ad armi pari, con propri strumenti televisivi e informatici.

A confutare queste insinuazioni e pretese sono in molti, e
tra essi l’Inteational Crisis Group, che ha denunciato il tentativo di
creare tensioni e scontri tra le comunità, utilizzando a pretesto i dati
relativi ad aree del paese che hanno visto una certa immigrazione cristiana per
ragioni professionali o per fuga da calamità naturali (come nella provincia di
Aceh, sull’isola di Sumatra).

Tagliare le radici dell’odio

Al momento il grande paese asiatico, impegnato a gestire
l’uscita dal sottosviluppo e a mantenersi ancorato a un Islam tradizionalmente
dialogico e tollerante, è al 47° posto nella classifica della persecuzione
anticristiana nel mondo stilata da Open Doors (e reperibile su www.worldwatchlist.us).
Non ha tuttavia tagliato le radici dell’odio. Forze di sicurezza e magistratura
hanno colpito duramente l’islamismo radicale per quanto riguarda la minaccia
alla stabilità nazionale, ma il governo ha mancato di prevenire e combattere le
intimidazioni contro le minoranze religiose. Movimenti di attivisti islamici,
che attuano iniziative da veri e propri vigilantes, sono diventati una minaccia
all’ordine pubblico. In più il fallimento di una vera decentralizzazione
amministrativa, anche delle autorità preposte alle attività religiose, ha
impedito lo sviluppo di iniziative efficaci di dialogo e confronto. Infine, gli
interessi politici e personali che inquinano il dibattito sui limiti della
libertà d’espressione, hanno permesso iniziative propagandistiche e
persecutorie. La carta della paura della «cristianizzazione», di una presunta
minaccia al predominio islamico nell’arcipelago, giocata dai movimenti
islamisti, rischia di portare non soltanto nuovi aderenti al network estremista
e alle sue affiliazioni jihadiste, ma anche visibilità e giustificazione,
finora negate, alle loro azioni.

Leggi per l’unità, destinate
a dividere

A Sumatra, nella provincia di Aceh, dove l’autonomia
garantita dagli accordi di pace firmati tra guerriglieri islamisti e governo
indonesiano ha portato tra l’altro anche all’affermazione – unica provincia
indonesiana – della Sharia, la legge coranica, diverse fonti denunciano
crescenti difficoltà per la cristianità locale che conta 12-13mila individui.

Oggetto del contendere non è soltanto il lungo e tortuoso
iter necessario per aprire un luogo di culto non islamico, ma anche un
documento firmato dai cristiani nella provincia nel 2001 in cui si accetta che
ad Aceh possano esservi una sola chiesa e quattro cappelle. Una situazione
superata negli anni per arrivare a 22 luoghi di culto, formalmente provvisori e
costruiti con l’approvazione – secondo Fides – di un forum
interreligioso locale che include esponenti musulmani. Una necessità per i
cristiani di Aceh, contro cui hanno preso posizione i militanti islamici.

Come sottolineato a agenzia Fides da padre
Romanus Harjito, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie, «tali
episodi sono tollerati dal governo centrale, che ha concesso la Sharia. In
questi casi, per noi cattolici, c’è il mancato rispetto della Pancasila, la
legge fondamentale dello stato indonesiano alla base della convivenza fra
comunità religiose, i cui cinque principi sono: fede in un solo Dio, diritti
umani, unità nazionale, democrazia, giustizia sociale».

Proprio nel tentativo di tradurre i cinque principi in
norme che, nella visione dei padri fondatori dello stato nel 1945, dovevano
essere fonte di unità, nazionalismo e identità, starebbero però le radici di
buona parte dei problemi delle minoranze religiose. Sia perché esse hanno
riconosciuto come religioni ufficiali i soli islamismo (nella versione
sunnita), protestantesimo, cattolicesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo,
a scapito di altre fedi come il giudaismo, l’islamismo shiita, l’islamismo
Ahmadiya (che sostiene il principio di una profezia non completata con
Maometto), le fedi tradizionali autoctone; sia perché hanno indotto una parte
consistente delle strutture di governo e amministrazione a organizzarsi proprio
sulla base di tali presupposti.

Ad esempio, il ministero per gli Affari religiosi ha
dipartimenti che rispettano le fedi approvate, negando a chi non ne fa parte il
riconoscimento ufficiale e eventuali benefici. I curricula scolastici
rispecchiano la discriminazione, e gli educatori sono scelti in base alla loro
fede per operare con studenti della stessa fede, ovviamente mainstream,
negando così possibilità anche professionali a comunità di fedi non
riconosciute.

Di converso, l’Organismo di cornordinamento per il controllo
delle credenze mistiche (ovvero le fedi ancestrali), attivo dagli anni
Cinquanta, ha, in tempi recenti, esteso le proprie attività fino a includere il
controllo di denominazioni accusate di provocare disordine sociale, tra cui i
circa 400mila Ahmadiya, che da minoranza discriminata si trovano anche a essere
sottoposti a politiche coercitive.

Stefano Vecchia
 

Nahdlatul Ulama e
Muhammadiya

Nata nel 1926, la Nahdlatul Ulama (Nu,
Risveglio dei leader religiosi) è la maggiore organizzazione di ispirazione
islamica (sunnita) dell’Indonesia. Forte oggi di almeno 30 milioni di membri,
con una decisa impronta sociale, ha il suo nucleo operativo nelle quasi 8.000
scuole coraniche (pesantren) che costituiscono un sistema educativo
parallelo a quello pubblico soprattutto tra i gruppi meno favoriti o isolati di
popolazione. Nonostante il suo ruolo determinante nella lotta contro il
colonialismo e l’occupazione giapponese, dopo l’indipendenza il suo impegno
politico è stato solo occasionale. Raramente è scesa a compromessi con la sua
essenza di movimento religioso e sociale con l’obiettivo di far nascere uno
stato islamico in Indonesia, paese musulmano ma dai forti tratti laicisti.
Ufficialmente non ha svolto attività politica nell’ultimo quarto di secolo. La
parentesi della presidenza di Abdurrahman Wahid «Gus Dur», suo leader, tra
l’ottobre 1999 e il luglio 2001, si è conclusa prematuramente, nonostante il
prestigio personale. Essa però è servita a unificare il paese dopo la fine del
regime di Suharto, che aveva usato la carta islamista per rafforzare il suo
potere fino alle massicce proteste che lo hanno indotto alle dimissioni nel
1998.

La Muhammadiya
(Frateità di Maometto), gruppo nato all’inizio del XX secolo e visto con
sospetto dagli islamisti tradizionalisti (Nahdlatul Ulama è nata proprio
in reazione alla Muhammadiya), è nei numeri di poco inferiore alla Nu,
ma ha un impatto maggiore sulla vita pubblica. Si ispira a una diversa visione
dell’Islam (incentiva l’interpretazione individuale del dettato coranico
piuttosto che quella della giurisprudenza islamica), e ha un maggiore slancio
sociale e politico. Anch’essa si avvale di numerose scuole di ispirazione
islamica (6.000). Esse però sono più aperte nei curricula, e in molti casi
accettano studenti non musulmani. Alla Muhammadiya fanno riferimento
anche centinaia di ospedali e cliniche diffusi nel paese, centri culturali e di
studi sociali. Politicamente attiva, l’organizzazione – che ha finora resistito
alle spinte per dare vita a un proprio partito – lascia sostanzialmente liberi
i suoi membri di aderire a movimenti che non contrastino con le sue idee di
base. Suoi limiti, secondo i detrattori, sarebbero l’apertura a istanze
religiose locali precedenti l’arrivo della fede di Maometto nell’arcipelago,
l’apertura dialogica nei confronti di altre fedi immigrate, come quella
cristiana, e infine la mediazione tra Islam e modeità che è al centro delle
sue origini e del suo sviluppo.

Risultati delle elezioni 2014:

Canditato
Vice
Partito
voti
%

Prabowo Subianto
Hatta Rajasa
Great Indonesia Movement Party (Partai
Gerakan Indonesia Raya)
62,248,936
46.83%
Joko Widodo
Jusuf Kalla
Indonesian Democratic Party –
Struggle
(Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan)
70,666,298 
53.17%

Total   132,915,234 votanti 
Dati ufficiali dalla Commissione elettorale Indonesiana (http://www.kpu.go.id)

Il Jakarta Globe parla di vittoria incontestabile di  Joko Widodo.

Vatican Insider commenta: «La sconfitta del presidente in carica e la vittoria dei moderati alimentano la fiducia tra le minoranze cristiane».

Dati completi delle elezioni su Wikipedia.Indonesian presidential elections, 2014.
Nella foto qui sotto il nuovo presidente dell’Indonesia Joko Widodo (da Wikipedia)

S.V.

Tags: Indonesia, presidenziali, Joko
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religiose, movimenti islamisti, cristianizzazione, odio religioso, persecuzione

Stefano Vecchia




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche

Siate conche, non canali, con i beni spirituali – Siate canali, non conche, con i beni materiali

7.

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche
il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio
«olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo
dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto
riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.


La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta
a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe
Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa
necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico –
visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna
rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super
sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che
l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei
Cantici
di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della
Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che
vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve,
secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione:
infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio
e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in
noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che
servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza,
profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del
prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non
sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio
altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva
da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i
secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere
ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Beardo. A poco
servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di
carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe
però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una
solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado
di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza,
riempire di amore. Beardo teme la superficialità e per questa ragione
definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca,
piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa,
mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua
abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Beardo, si hanno nella
Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere
ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di
ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe
come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di
Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate
più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione
apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e
giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo
VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto
più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le
persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole
pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano
semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui
sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi
sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua
più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e
persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso,
equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di
Beardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza
che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se
lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può
essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana
entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di
facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri
col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla
bla bla
e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare
strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare,
è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa
fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima
attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene
che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di
preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere
il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare
della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di
sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e
purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La
nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non
è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in
effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per
lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia,
migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo
seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a
esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla
fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere
la propria missione in modo autentico ed efficace.

Trattenere
i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di
egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con
generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia,
annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità
scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San
Beardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta
e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Beardo dice
che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […],
ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e
questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E
questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente
che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro
spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà.
I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che
scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del
regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la
salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve
essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non
possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con
ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero
sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato
per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie
della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono,
aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire
fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo,
talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe
Allamano
ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e
oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di
vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci
di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in
conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere
…». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della
Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i
più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe
Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è
fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale
si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti»,
sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte
ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza
risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che
solo Dio conosce.

Inutile
dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza
nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono
copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro
prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser

 


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FRANZ JÄGERSTÄTTER nacque nel 1907 a Sankt Radegund, in Austria, e come semplice contadino visse le vicende della sua patria fino a che Hitler nel 1938 con l’Anschluss (ovvero l’annessione) inglobò l’Austria, facendola diventare parte integrante della Germania nazista. Come tutti i giovani del suo tempo, doveva obbligatoriamente prestare servizio militare e giurare fedeltà alla dottrina del nazional-socialismo e al Führer tedesco, cosa che egli si rifiutò di fare per la sua tenace convinzione che il nazismo fosse incompatibile con il Cristianesimo e che non potesse assolutamente mettere in secondo piano i principi evangelici per assumere quelli della dottrina nazional-socialista.  
JOSEF MAYR-NUSSER nacque nel 1910 a Bolzano da una famiglia di viticoltori. Benché cittadino italiano, sia pur di lingua tedesca, venne forzatamente arruolato nelle truppe delle SS naziste e inviato in Germania per essere addestrato e indottrinato al verbo nazional-socialista prima del giuramento al Führer. Unico tra tutte le reclute presenti, egli, con nobile gesto, si rifiutò di adempiere tale formalità. Entrambi questi giovani praticarono e vissero la fede cattolica in forma adamantina. Furono tra i pochi obiettori di coscienza al nazismo e si ribellarono a una visione della vita fondata sul dogma della superiorità della razza ariana, che il dittatore nazista voleva imporre con la forza nei paesi invasi, sconfitti e sottomessi dall’esercito tedesco. I due giovani hanno pagato cara la loro coerenza evangelica e la fedeltà alla loro coscienza modellata sul messaggio di Gesù di Nazareth. Furono condannati a morte e la loro esistenza fu stroncata in maniera tragica e feroce. Franz Jägerstätter è stato dichiarato beato nel 2007 da Papa Benedetto XVI (un Pontefice tedesco!), mentre per Josef Mayr-Nusser la diocesi di Bolzano ha avviato il processo di canonizzazione.
Franz e Josef, voi avete saputo offrire in tempi difficilissimi una testimonianza forte del Cristianesimo ascoltando la vostra coscienza. Avete dimostrato che è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, una posizione che in tutta la storia del Cristianesimo altre figure di Santi hanno assunto fino alle conseguenze estreme, ovvero il martirio. Disubbidire alle leggi umane per essere fedeli a Dio, non è cosa da poco, è una scelta sublime!
Franz: Io partecipavo alla vita pubblica del mio paese e, in occasione del plebiscito organizzato dai nazisti per incorporare l’Austria alla Germania, fui l’unico a votare «no» nel mio comune. E una volta che l’annessione fu realizzata, mi rifiutai categoricamente di continuare a partecipare alla vita amministrativa del mio paese, in quanto trovavo la dottrina di Hitler incompatibile con la fede cristiana.   Josef: Noi sudtirolesi, per via della lingua, eravamo considerati gli alleati naturali degli austriaci e dei tedeschi. Io provenivo dalle fila dell’Azione Cattolica (che il fascismo aveva tentato di ostacolare in ogni modo) e trovavo sempre più difficile identificarmi con i progetti propugnati dalla stretta unione d’intenti tra l’Italia fascista e la Germania nazista. Inoltre mi risultava difficile aderire ai programmi che venivano imposti e che rendevano sempre più filonazista la politica italiana.
Al di là di queste considerazioni personali, varrebbe la pena che presentiate un quadro della vostra situazione, di modo che diventi per noi più facile capire il contesto in cui vi muovevate e comprendere nella sua valenza profetica il gesto che avete fatto.
Franz: Io fui allevato da mia nonna perché mia mamma mi generò da una relazione extraconiugale. Quando la mia mamma, dopo qualche anno dalla morte del mio papà naturale, sposò Heinrich Jägerstätter, questi mi adottò e ne assunsi il cognome. Nel 1933 morì senza figli propri e così ne ereditai le proprietà. Nel 1936 sposai Franziska Schwaninger e dal matrimonio nacquero tre figlie: Rosalia, Maria e Aloisia. Qualche anno prima avevo riconosciuto la pateità di una bambina nata da una relazione sentimentale con un’altra ragazza, Theresia Auer. Per dirla tutta, non ero «uno stinco di Santo» e anche la mia famiglia aveva qualche problema con la morale ufficiale della Chiesa.   Josef: Nella ditta in cui lavoravo a Bolzano, ebbi la fortuna di conoscere Hildegard Straub, una ragazza che era impiegata nello stesso posto e che proveniva anche lei dal gruppo dei giovani dell’Azione Cattolica altornatesina. Dopo un breve fidanzamento, nel maggio del 1942 ci sposammo e l’anno successivo nacque nostro figlio, cui demmo il nome di Albert.
Le vostre mogli - mi sembra di capire - avevano gli stessi sentimenti vostri, quindi da parte loro avete avuto un sostegno notevole nel dire di «no» a Hitler.
Franz: Con Franziska andai in viaggio di nozze a Roma; il matrimonio e quel viaggio segnarono una svolta nella nostra vita. La preghiera e la lettura della Bibbia divennero, per scelta comune, una consuetudine quotidiana. Ci sostenevamo reciprocamente nel nostro cammino di fede non tanto vivendo gli atti devozionali della comunità, quanto nel renderci consapevoli che la fede cristiana non poteva essere messa sullo stesso piano della dottrina nazional-socialista. Josef: Per far capire quanto intensa fosse la nostra scelta comune di vivere fino in fondo la fede cristiana e di non piegarci al nazismo, riporto qui quanto scrissi alla mia carissima Hildegard appena arrivato al centro d’indottrinamento delle SS di Konitz: «Ciò che affligge il mio cuore è che la mia testimonianza nel momento decisivo possa causare a te, fedelissima compagna, disgrazia temporale. Prega per me affinché nell’ora della prova io agisca senza timore ed esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza».
Quindi eravate decisi non solo a rifiutare di imbracciare le armi per servire il vostro paese, ma anche di opporvi al cuore stesso del potere nazional-socialista rifiutando di giurare fedeltà a Hitler.
Franz: Nel 1940 fui arruolato dalla Wehrmacht, ma tornai a casa dopo un anno per la mia situazione familiare. L’esperienza negativa nell’esercito e il programma sull’eutanasia che il partito nazional-socialista portava avanti a vasto raggio rafforzarono la mia decisione di non tornare più alla vita militare. In quegli anni feci la scelta di diventare terziario francescano e questo irrobustì la mia idea di non mettermi al servizio delle smanie di potere del nazional-socialismo, quindi di non giurare a Hitler. Josef: Giurare è un verbo insopportabile, giurare a chi, a che cosa, per quali motivi, giurare a un uomo, a un dittatore, a un Führer, giurare per odiare, per conquistare e sottomettere altre persone, per incendiare la storia e impolverare la creazione di Dio, giurare per versare sangue innocente sulla terra? Giurare a Hitler era compiere un culto demoniaco, il culto del capo innalzato a idolo di una religione sterminatrice. Volete sapere com’era la formula del giuramento nazista? Era così: «Giuro a Te, Adolf Hilter, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte, che Dio mi assista».
Certo che quel finale «che Dio mi assista» è più a una bestemmia che una preghiera.
Franz: Per nulla al mondo avrei pronunciato quelle parole. Dopo aver manifestato l’intenzione di non giurare a Hitler fui trasferito nella prigione militare di Linz, dove incontrai altre persone che opponevano resistenza al nazional-socialismo e si rifiutavano di fare il giuramento nazista. Josef: Può un cristiano pronunciare simili parole? Può egli mettere Dio al servizio del potere, della guerra, della furia distruttiva, della violenza fine a se stessa? Dio che è al di sopra di ogni legge, di ogni nome, di ogni spazio, di ogni luogo, come può farsi paladino di un dominatore senza scrupoli? Chi può manipolare ciò che di più sacro e intangibile appartiene alla fede? Più che mai ero convinto che non avrei pronunciato quel giuramento.
Nessuno cercò di dissuadervi da questa vostra decisione?
Franz: Oh sì! Molti cercarono di farlo. Chi mettendoci di fronte alle responsabilità verso la patria tedesca, chi ci diceva di giurare per evitare che la nostra famiglia subisse spiacevoli conseguenze. Persino il Vescovo della diocesi di Linz, Josephus Calasanz Fließer, mi consigliò di desistere dall’obiezione di coscienza. Solo la mia Franziska, benché conscia delle conseguenze, mi sostenne in questa decisione. Josef: Anche con me ci furono tentativi di farmi cambiare idea, ma devo dire che l’assistente dell’Azione Cattolica di Bolzano, don Josef Ferrari, invece mi sostenne nella decisione che avevo preso. L’unica che vibrò fino in fondo per il medesimo ideale restandomi accanto fino all’ultimo istante fu la mia amatissima Hildegard.
FRANZ JÄGERSTÄTTER fu condannato a morte e ghigliottinato il 9 agosto 1943 nel carcere di Brandeburgo. Dopo la fine della guerra, l’ua con le sue ceneri fu portata a Sankt Radegund, dove fu tumula il 9 agosto 1946. La sua figura di obiettore cristiano si delineò con chiarezza alcuni decenni dopo, grazie allo storico Gordon Charles Zahn, il quale ne scoprì l’epistolario conservato dalla famiglia da cui emerge con cristallina coerenza la sua fede e le sue profonde motivazioni per il rifiuto dell’ideologia totalitaria del nazional-socialismo e di ogni tipo di guerra. JOSEF MAYR-NUSSER, rinchiuso nel carcere di Danzica con l’accusa di tradimento, subì ogni sorta di torture e maltrattamenti. Condannato quindi a morte, fu destinato al famigerato campo di sterminio di Dachau. Un bombardamento alleato alla linea ferroviaria bloccò il treno alla stazione di Erlangen. Gravemente provato per via delle forti e continue privazioni cui era stato sottoposto durante la prigionia, morì nel vagone bestiame del treno il 24 febbraio 1945.
 
Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara




Il credo e la carta d’identità

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 16


L’alevismo è una espressione religiosa che alcuni aleviti
considerano parte dell’islam, mentre altri no. Un cittadino turco chiede che
sulla sua carta d’identità non venga indicata la sua appartenenza all’islam, ma
all’alevismo. Dopo il rifiuto della Corte d’appello e della Cassazione, l’uomo
si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Gli viene data ragione,
anche se su un aspetto diverso: la violazione della sua libertà di credo c’è stata a causa della presenza sul documento d’identità di
una casella dedicata alla religione di appartenenza.

Sinan Isik, un cittadino turco di
Izmir, l’antica Smie, nel 2004 chiese alla Corte d’appello della sua città di
cambiare sulla sua carta d’identità la dicitura «islam» con «alevita1». Secondo la legge turca, infatti,
sul documento di riconoscimento si deve indicare la confessione religiosa cui
si appartiene. Quella posta dall’ufficiale dello stato civile sul suo documento,
secondo Isik, era sbagliata.

Alevismo e islam

Gli aleviti sono una minoranza religiosa piuttosto consistente in
Turchia. A essa, infatti, appartiene almeno il 10% della popolazione, ma forse
anche di più.

Se l’alevismo sia o meno una confessione islamica è una questione
aperta. Una parte dei suoi membri lo crede, ma un’altra lo nega. Sinan Isik era
di questa seconda convinzione, sostenuta dalle associazioni che fanno parte
della Federazione degli aleviti Bektachi.

«Io ritengo, sulla base delle mie convinzioni – sostenne Isik –
che una persona non possa essere contemporaneamente alevita e musulmana. La
Repubblica di Turchia protegge nella propria Costituzione la libertà di
religione e di coscienza e mi rifiuto quindi di tollerare questa ingiustizia
che mi ferisce profondamente».

La Corte d’appello, qualche mese dopo, respinse la sua domanda,
sulla base del parere della Direzione degli affari religiosi da essa
interpellata. La Direzione è un organismo che dipende dal primo ministro e ha
il compito di occuparsi delle credenze, del culto e della morale dell’islam,
nonché della gestione dei luoghi di culto. Essa indicò l’alevismo come un
sottogruppo dell’islam che non può essere considerato una religione
indipendente. La dicitura «alevita» – secondo la Direzione degli affari
religiosi – non va quindi indicata sulla carta d’identità, dove non possono
essere riportate le sottoculture o le interpretazioni di una religione, ma solo
la dicitura generale per non compromettere «l’unità nazionale, i principi
repubblicani e il principio di laicità».

La Corte d’appello stabilì dunque che non vi era errore relativo
all’indicazione dell’appartenenza religiosa sul documento di riconoscimento di
Isik. Per chiarirlo ancora meglio, indicò che dal materiale stesso prodotto
dall’interessato a sostegno della sua richiesta, l’alevismo risultava
un’articolazione dell’islam. Gli aleviti infatti, ad esempio, considerano Ali
come il primo imam con un ruolo centrale nella loro confessione religiosa. Ma,
come quarto califfo, genero e successore di Maometto, egli è una delle
personalità più illustri dell’islam. Gli aleviti, insomma, secondo la Corte
d’appello, sono degli islamici, esattamente come cattolici, protestanti e
ortodossi sono tutti cristiani. Quando un individuo aderisce a una delle
interpretazioni dell’islam, rimane islamico.

Sull’obbligo di dichiarare
il proprio credo

Isik non accettò la sentenza e fece ricorso alla Cassazione,
precisando meglio la sua posizione. Oltre all’indicazione errata della propria
religione, egli infatti contestò il fatto stesso di doverla segnalare sul
documento d’identità. L’obbligo lo costringeva contro la sua volontà a rivelare
la sua appartenenza religiosa, violando, a suo parere, la Costituzione turca,
che nell’articolo 24 afferma: «Nessuno può essere obbligato a rivelare le
proprie credenze e le proprie convinzioni religiose». Anche il parere della
Direzione degli affari religiosi, che aveva considerato la sua confessione come
islamica, per Isik era inaccettabile.

La giustizia turca ha tempi invidiabili. Prima della fine di
quello stesso 2004 arrivò la decisione della Cassazione. Purtroppo per Isik,
anche questa a suo sfavore. La Cassazione infatti confermò la sentenza della
Corte d’appello, respingendo la sua richiesta. Per la Direzione degli affari religiosi,
così come per i giudici di primo e secondo grado, l’obbligo di indicare la
propria religione sulla carta d’identità non violava il principio di rispetto
della laicità prescritto dall’articolo 136 della Costituzione.

A sostegno di questa posizione c’era addirittura una sentenza
della Corte costituzionale turca del 1995, che difese quell’obbligo di legge:
«Lo stato deve conoscere le caratteristiche dei suoi cittadini» per esigenze di
ordine pubblico, di interesse generale e per «imperativi economici, politici e
sociali». La norma riguarda tutte le religioni, che vengono quindi trattate
allo stesso modo come deve avvenire in uno stato laico. Di conseguenza non crea
alcuna discriminazione tra i cittadini. Essa, infine, non si intromette nelle
credenze degli individui, o nella loro mancanza di credenze. In particolare,
non introduce alcun obbligo – incostituzionale – a divulgarle. D’altro canto il
codice civile turco permette a ogni cittadino maggiorenne di scegliere
liberamente la propria religione. Nel caso la cambi, è sufficiente che richieda
agli uffici dello stato civile di scrivere quella nuova.

Cinque giudici costituzionali su undici, si erano opposti alla
decisione degli altri sei, ritenendo incostituzionale la legge. La sentenza del
1995 fu, quindi, a strettissima maggioranza.

L’ostinazione di Isik

Sinan Isik non si diede per vinto, e si appellò alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (Cedu). Poté farlo perché la Turchia, che non appartiene,
come noto, all’Unione Europea – è in corso l’esame della sua richiesta di
entrare a fae parte -, è però membro del Consiglio d’Europa, e ha quindi
sottoscritto la Convenzione dei diritti dell’uomo di cui la Cedu controlla il
rispetto.

Nel frattempo in Turchia fu introdotta una normativa più
tollerante che abrogava la precedente. Da quel momento le informazioni relative
alla religione dell’individuo sono inserite o modificate nei registri di stato
civile solo in base a quanto dichiarato per iscritto dall’interessato. È
previsto inoltre che la casella relativa sul documento d’identità possa essere
lasciata vuota o che l’informazione già trascritta venga cancellata.

Nel suo ricorso alla Cedu Isik ribadì le sue posizioni, ritenendo
che la normativa, anche se nel frattempo modificata, violasse l’articolo 9
della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (quella sulla libertà di
religione di cui abbiamo parlato anche nei due precedenti articoli, ndr.). Secondo lui, infatti, il rigetto
della sua domanda di sostituire «islam» con «alevita» sulla sua carta
d’identità, aveva rappresentato un’ingerenza dello stato nel suo diritto alla
libertà religiosa, oltre al fatto che la carta d’identità, presentata
continuamente e per i più svariati motivi, rappresentava di per sé una
divulgazione obbligatoria delle proprie opinioni religiose.

Durante il dibattimento, pure il rappresentante del governo turco
ribadì le posizioni della propria parte. Per rinforzarle, si riferì anche alla
sentenza della Corte costituzionale del 1995 già ricordata. «La Repubblica di
Turchia è uno stato laico – affermò – dove la libertà di religione è
espressamente consacrata dalla Costituzione». Negò che la legge contestata da
Isik andasse contro quel principio. Il contenuto della carta d’identità,
secondo lui, non poteva essere determinato in funzione dei gusti di ogni
persona: le confessioni che fanno parte dell’islam sono molteplici ed era
quindi necessario non menzionarle «per preservare l’ordine pubblico e la
neutralità dello stato».

La sentenza di Strasburgo

La Cedu diede ragione a Sinan Isik con la sentenza del 2 febbraio
2010: c’era stata effettivamente una violazione dell’articolo 9 della
Convenzione europea a causa dell’obbligo di indicare la propria religione sulla
carta d’identità. Anche il ricorso al parere della Direzione per gli affari
religiosi, secondo la Corte europea, era stata discutibile. Infatti in una
società democratica lo stato è il garante ultimo dei pluralismi, compreso
quello religioso. Le autorità dunque non possono privilegiare
un’interpretazione della religione a scapito di un’altra, o costringere una
comunità religiosa divisa a porsi, contro la sua volontà, sotto una direzione
unica: si violerebbe di nuovo, in tal caso, il dovere di neutralità e
imparzialità dello stato. Ricorrere al parere della Direzione degli affari
religiosi, che si occupa solo di affari riguardanti la religione musulmana, non
è conciliabile con tale dovere. Essa infatti è un organismo di parte, che
esclude l’esistenza dell’alevismo come religione a se stante.

È interessante, infine, pure quanto la Cedu affermò a proposito
della possibilità di lasciare vuota sulla carta d’identità la casella
riguardante l’appartenenza religiosa. Con la nuova legge, che lo prevede,
infatti, le istituzioni mantengono comunque informazioni sulla religione dei
cittadini nei registri di stato civile. La casella dedicata al credo
d’appartenenza, compilata o lasciata vuota, continua a esistere sulle carte
d’identità e rischia in entrambi i casi di diventare un’informazione sulle
convinzioni intime dell’individuo. Chi chiedesse di cancellare l’indicazione
religiosa potrebbe essere ritenuto avverso al divino, chi invece lasciasse
vuota la casella si distinguerebbe – contrariamente alla propria volontà e in
virtù di un’ingerenza delle pubbliche autorità – da chi invece vi indicherebbe
la propria appartenenza.

La Cedu, insomma, con la sua sentenza indicò qual era il vero
problema contenuto nel caso Isik. Esso non riguardava tanto il rifiuto in sé di
sostituire «islam» con «alevita» sulla carta d’identità, quanto la trascrizione
– obbligatoria o facoltativa che fosse – della religione sulla carta d’identità
che comportava, a causa dello stesso utilizzo del documento, la divulgazione
obbligatoria di convinzioni intime e personali. Era quella trascrizione che
andava tolta. Solo così, concluse la Cedu, sopprimendo cioè la casella dedicata
alla religione sulle carte d’identità, si sarebbe potuto riparare il danno
subito da Sinan Isik, rimediando alla violazione dei suoi diritti.

La decisione fu condivisa da sei giudici su sette. Anche l’unico
che non era d’accordo, per ragioni che non è qui il caso di esaminare, sostenne
comunque di non comprendere né l’interesse, né l’utilità di far comparire la
religione su una carta d’identità, anche se su base volontaria.

L’impegno degli stati

Le sentenze della Cedu diventano esecutive, perché gli stati che
hanno sottoscritto la Convenzione sono impegnati a conformarsi a esse. C’è un
Comitato dei ministri, cui le sentenze sono trasmesse, che ha appunto il
compito di sorvegliae l’esecuzione.

Questo permette di riprendere una considerazione fatta già nei
precedenti articoli: la Corte, di fronte alla condivisione dei principi da
parte di tutti i membri del Consiglio d’Europa, rende possibile uniformare
anche la loro applicazione nei vari stati. Questa funzione ne fa uno degli
strumenti più rilevanti per la costruzione in Europa di una comune coscienza
civile e della sua traduzione pratica.

Paolo Bertezzolo

 
Note:

1-
Gli Aleviti sono un gruppo religioso, sub-etnico e culturale
presente in Turchia che conta circa dieci milioni di membri. L’Alevismo è
considerato una delle molte sette dell’Islam.

L’Alevismo
è una setta unica nell’ambito dell’Islam sciita duodecimano, dal momento che
gli Aleviti accettano il credo sciita riguardo Alī
e i dodici Imam. Alcuni Aleviti non vogliono però essere descritti come Sciiti
ortodossi.

Non
sono da confondere con gli Alawiti presenti ad esempio in Siria.

Nel
capitolo dell’Inteational Religious Freedom Report for 2012 del
Dipartimento di stato Usa dedicato alla Turchia gli aleviti vengono stimati tra
i 15 e i 20 milioni, mentre si dà conto del fatto che i leader del gruppo
religioso sostengono essere 20-25 milioni gli aleviti in Turchia. Secondo il
suddetto rapporto, su una popolazione di 74,7 milioni stimata nel 2011, il 99%
è musulmano, di cui la maggioranza sunnita.

Circa
165mila cristiani delle varie Chiese, tra cui 25mila cattolici.

Paolo Bertezzolo




Pillole «Allamano» 1: Cercate Dio solo e la sua santa volontà

I dieci consigli («pillole») contro il logorio della vita
modea che, a partire da questo mese e per tutto l’anno, MC vi offre, sono
anche conosciuti come «I dieci comandamenti» dell’Allamano. Nati dalla creatività
di mons. Luis Augusto Castro (missionario della Consolata e arcivescovo di
Tunja, Colombia) essi riassumono in poche parole il pensiero del nostro
Fondatore. La sintesi che ci propongono non è sicuramente esaustiva. Del resto,
come potrebbero dieci frasi esaurire il pensiero di un uomo che ha dedicato
tutta la sua vita all’apostolato diocesano e alla missione? Sono però dieci
passwords che colpiscono per la loro brevità e immediatezza, e offrono una
chiave di accesso all’umanità e alla spiritualità di un santo prete, come fu
senza ombra di dubbio Giuseppe Allamano. Va detto inoltre che lo spirito di
questi brevi articoli non è tanto quello di spiegare il pensiero del nostro
Fondatore, quanto quello di partire da alcuni suoi spunti per offrire una
scintilla di spiritualità missionaria che possa illuminare la nostra
quotidianità.

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«Contro il logorio della vita modea» era il motto che reclamizzava anni fa un noto liquore digestivo. La vita contemporanea non ha certamente diminuito il suo impatto devastante sui nostri sistemi gastrici, né ha contribuito a migliorare la qualità delle nostre relazioni. Va da sé che, forse, il nostro logorio esistenziale vada affrontato con qualcosa di diverso di un digestivo, qualcosa che tocchi alla radice il malessere del quotidiano che ci sfida impedendoci di raggiungere la serenità nella quale vorremmo essere immersi. Fermo restando che la perfetta felicità è un obiettivo che raggiungeremo a tempo debito, viene da chiedersi se, in materia spirituale, sconfiggere le amarezze con qualcosa di amaro sia il rimedio più adatto.

La cura offerta dai consigli di Giuseppe Allamano vuole essere un rimedio dolce, se non altro perché proprio la dolcezza era una delle qualità principali del nostro Fondatore, come venne del resto raccontato da chi ebbe modo di incontrarlo di persona. Certamente, come tutti i rimedi, anche questa cura potrà lasciarci in bocca il sapore non gradito di una medicina, ma pensiamo che, se davvero potrà farci bene, il gioco varrà la candela. Il beato Allamano, ce l’avrebbe somministrata con uno zuccherino, giusto per darci un incoraggiamento, una spinta a fare bene, meglio o diversamente.

Devo dire che non mi piace definire questi pensieri come dei «comandamenti». Innanzitutto perché estrapolati come sono da un contesto più ampio perdono obbligatoriamente la loro forza coercitiva; non appartengono a nessun codice. In secondo luogo perché l’insegnamento spirituale di Giuseppe Allamano è caratterizzato da un approccio molto dialogico ed esperienziale in cui il «si deve fare così» o il «non si deve fare così» non nascono tanto dall’esigenza di imporre una dottrina, quanto e soprattutto dalla comunicazione di un’esperienza di vita, la sua o quella dei suoi punti di riferimento: Cristo, la Madonna e i Santi, iniziando da suo zio, San Giuseppe Cafasso.

Questo approccio mi sembra molto moderno e attuale. Forse è per questo che, in un’epoca in cui ogni tipo di autorità viene messa in dubbio, e quella ecclesiale in particolar modo soffre la sindrome dell’abbandono, la figura dell’Allamano continua ad attirare le persone, anche al di fuori della vita religiosa o del sacerdozio. Il suo understatement, tipico del piemontese doc quale lui era, lo rendeva una persona affabile e disponibile ai suoi contemporanei e continua a renderlo tale a noi. A tutti, ieri e oggi, Giuseppe Allamano propone il suo primo Consiglio, la prima e fondamentale medicina per l’uomo contemporaneo: «Cercate Dio solo e la sua santa volontà».

Ad maiorem Dei gloriam … per la maggior gloria di Dio. In un periodo in cui la spiritualità è intrisa degli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, Giuseppe Allamano fa suo questo motto del fondatore dei gesuiti per tracciare quello che per lui è un vero e proprio programma di vita. Durante le sue conferenze, importanti momenti di insegnamento e condivisione rivolti a missionari e missionarie in formazione, ne ripete varie volte le parole e il senso. In un mondo che ha celebrato nel recente passato «la morte di Dio» e che continua oggi a vivere e operare scelte come se Dio non esistesse, questo prete piemontese ci invita ad andare «in direzione ostinata e contraria» (prendo a prestito questa frase da una canzone di Fabrizio De André), scegliendo Dio come unica ragione del nostro esistere. Solo Dios basta, diceva Teresa d’Avila, altra santa amata e citata da Giuseppe Allamano. Dio è sufficiente: lui soltanto è il termine ultimo del nostro tanto arrabattarci.

Chiaramente il «cercare Dio soltanto» significa relativizzare i nostri bisogni, le nostre necessità e, perché no, almeno ogni tanto, anche i nostri capricci. Un esercizio chiaramente in controtendenza in un’epoca in cui, al contrario, si relativizza Dio in nome di un individualismo sempre più sfrenato.

Mi sembra importante l’accento che Giuseppe Allamano pone sull’azione di «cercare» Dio, condizione necessaria per potee fare poi la volontà. Dobbiamo imparare a lasciare parlare il Signore, mettendoci, come lui stesso diceva, in un atteggiamento di «santa indifferenza», che non vuol dire farsi gli affari propri, quanto invece «mettere da parte il nostro ingombrante io» per cogliere la presenza di Dio lì dove egli vuole manifestarsi ed essere disponibili a fare ciò che da noi vuole, con determinazione e perseveranza.

Il cammino di fede si genera nell’incontro con Cristo, incontro che deve però essere continuamente alimentato per poter crescere, rafforzarsi, diventare energia vitale capace di muovere montagne (cf. Mt 17,14-20). Ognuno di noi conosce bene i mille terreni accidentati di cui è formata la propria esistenza, in cui il seme della Parola che cade non trova le condizioni per dare frutto. La vita di fede è fatta di un continuo procedere alla ricerca del terreno fertile e, una volta trovata la terra buona questa va curata, coltivata, concimata e difesa da chi potrebbe rovinarla. Il missionario e, più in generale, il cristiano non può permettersi di smettere di cercare Dio e la sua volontà lì dove vive, ogni giorno della sua vita.

Sicuramente Giuseppe Allamano è un uomo di preghiera. Dio lo cerca nel silenzio del Santuario della Consolata, nel «coretto» da cui può contemplare in un’unica occhiata i due amori della sua vita: la Madonna e l’Eucaristia. Tuttavia, la straordinaria capacità che gli viene riconosciuta nel rispondere ai bisogni delle persone o delle situazioni che si trova davanti, dimostra come Dio gli si presenti anche in tanti altri modi: nei drammi personali ascoltati nel confessionale, nelle solitudini e nelle sofferenze delle persone che assiste nel suo apostolato, nelle lettere e nei diari dei suoi missionari e missionarie che, da lontano, gli raccontno le giornie e le difficoltà della vita in missione.

Oggi abbiamo bisogno di riscoprire questo approccio che ci impone di cercare Dio «solo», ma ci chiede anche di non cercarlo «da soli». Papa Francesco ci spinge, con la forza di cui è capace il Vangelo quando deve imporre la verità, a percorrere strade affollate, a farci compagni di viaggio di chi cammina, a volte con fatica, i percorsi accidentati della vita. Non possiamo permetterci, come missionari del Vangelo, di annunciare un Dio che non è in sintonia con la vita che viviamo, che non parla il linguaggio dei giovani, che non si interessa di chi sta per perdere il lavoro, che non viaggia sui gommoni di chi fugge dalla fame o dalla guerra, che non dice due paroline giuste nell’orecchio di chi, in nome dei diritti del proprio Ego, è disposto ad abbandonare ai margini della storia chi non riesce a trovar posto nel suo progetto di vita.

Come alcuni anni fa sosteneva giustamente Stephen Bevans, uno dei più importanti teologi contemporanei della missione, la figura del missionario può essere paragonata a quella di un «cacciatore di tesori», che si reca in un posto carico della ricchezza della buona novella e l’annuncia, rendendosi però conto molto presto che le sue parole non evocano assolutamente nulla alle orecchie di chi lo ascolta, proprio perché non sono espresse con la lingua e con le forme culturali appropriate. Scavare nelle culture per estrarre il tesoro nascosto vuol dire essenzialmente incontrare l’essere umano nel suo contesto, agire con una mistica dagli occhi aperti, capace di una spiritualità concreta, atterrata nella vita di tutti i giorni. Vuol dire scavare non da soli, ma con la gente che ci è vicina, con la quale ci si incontra o ci si scontra tutti i giorni in famiglia, per la strada, al lavoro, o nelle nostre comunità ecclesiali. Dio vive nella storia, e la sua ricerca, fenomeno che nasce e matura inizialmente nel cuore dell’essere umano, assume la sua forma più piena e compiuta quando viene condivisa, con chi è di casa e con chi è lontano, con chi la pensa come noi e con chi può insegnarci qualcosa da un’esperienza diversa dalla nostra, con chi ci precede nel cammino della fede o con chi si aspetta da noi una parola di consolazione.

Ancora oggi colpiscono l’immediatezza e la concretezza di Giuseppe Allamano, qualità che sintetizzano molto bene la cultura contadina delle sue origini e la mentalità dell’uomo vissuto quasi sempre in città, capace però di spalancare le finestre della sua casa sugli orizzonti infiniti della missione. Pur con un raggio di azione davvero limitato (l’Allamano ha vissuto 46 anni della sua vita come rettore sempre dello stesso santuario), questo sacerdote della diocesi di Torino ha insegnato alle prime generazioni di missionari della Consolata ad allargare i paletti delle loro tende e spinge noi, figli e figlie del nostro tempo, a essere uomini e donne globali, planetari (per usare la definizione di un altro grande prete a noi più contemporaneo, Eesto Balducci) desiderosi di cercare Dio, ma anche di non limitare la ricerca solto ai posti dove pensiamo di trovarlo con certezza.

Ugo Pozzoli

 

Incontro al beato Giuseppe Allamano tramite le sue foto.

L’Allamano è vissuto nel tempo che ha visto nascere la fotografia, uno strumento in cui ha creduto, anche se non ha mai amato farsi fotografare. è lui che ha chiamato Secondo Pia, il fotografo della Sindone, a fare le prime foto del quadro della Vergine Consolata. è lui che ha voluto che i suoi missionari in partenza per l’Africa fossero dotati delle più modee macchine fotografiche e imparassero «il mestiere» dai professionisti. è lui che per il periodico «La Consolata», madre di questa rivista, ha voluto stampe fotografiche di altissima qualità ottenute con lastre allora prodotte solo a Vienna, in Austria.

La foto che vi presentiamo questo mese è stata fatta nel 1923 in occasione del suo 50° di sacerdozio. È il particolare di una lastra da 13x18 cm, in cui il beato Allamano è ritratto seduto con lo sguardo rivolto a una statuetta della Consolata e con il libro del regolamento di vita dei Missionari della Consolata da lui fondati in mano. Per l’occasione i fotografi crearono un set improvvisato nel cortile di Casa Madre, a Torino, utilizzando due tappeti, uno di rovescio (con la fodera rossa x creare lo sfondo nero) e uno in terra, e un tavolino per dare l’illusione di una sala arredata. La foto, pesantemente ritoccata sulla lastra originale per correggere i limiti di stampa del tempo, è ora visibile nella sua bellezza originale che ci restituisce il volto sereno del nostro Beato Padre Fondatore.

Nota di correzione al testo.

Scrive p. Pavese nel libro fotografico Giuseppe Allamano, l’uomo per la missione, EMC, Torino 2009, pag. 232: [Sono] Otto le fotografie dell’Allamano in occasione del 50° di ordinazione sacerdotale. Dalle testimonianze risulta che le prime quattro furono riprese alla Consolata (nell’annesso cortile del Convitto Ecclesiastico, ndr.), per interessamento dei canonici G. Cappella e N. Baravalle. Sarebbe stato lo stesso Baravalle (secondo una testimonianza del Cappella, ndr.) a suggerire all’Allamano di sorridere, perché abitualmente era serio di fronte all’obiettivo fotografico».

La testimonianza del Cappella e i pochi dettagli visibili in una delle fotografie sono gli indizi che ci permettono di collocare questa foto e le altre tre (purtroppo la lastra originale con l’Allamano chiaramente sorridente è andata perduta) nel contesto del Santuario della Consolata. L’impianto scenografico casereccio era legato alla necessità di fotografare alla luce diua, quindi in esterno, preferibilmente in un giorno con le nuvole per avere una luce diffusa senza ombre nette. (Gigi Anataloni)

Ugo Pozzoli




Integrazione o disintegrazione?

Viaggio dove convergono le periferie del mondo: periferie
urbane, baraccopoli, marginalizzazione, migrazione, seconde generazioni, nuove
povertà. Ormai da anni è in corso un processo nel quale le nostre città e la
nostra società stanno cambiando volto.Con la tragedia di Lampedusa ancora negli occhi, mentre
molti media si concentrano sulle offese al ministro Kyenge e sulla polemica
intorno al reality «Mission», che cosa sta succedendo nelle nostre città? Che
cosa funziona, che cosa non funziona e perché nella trasformazione di quella
italiana in una società multietnica? Quanto contano i fattori culturale,
urbanistico, economico? MC propone una panoramica sul tema delle periferie e
sulla situazione europea e italiana che introduce un ciclo di reportage dalle
zone marginali italiane.

La lama
di un coltello posato su un piccolo tagliere di legno riflette l’azzurro del
cielo fra pezzetti di peperoni gialli e rossi tagliati in quadratini così
precisi da sembrare tessere di un mosaico; accanto, vicino a un canovaccio
candido ripiegato per fare da presina, l’acqua bolle dentro un pentolino di
metallo scaldato dalla fiamma blu di un fornello e un sacchetto di riso aperto
aspetta che una mano prelevi una manciata di chicchi e la getti nell’acqua
bollente. Il piano di lavoro di questa cucina è fatto di rocce scure e lucide
che digradano fino a tuffarsi nell’acqua; il soffitto è l’impalcato di un ponte
e i muri sono l’aria calda e asciutta dell’estate e le sponde erbose del
Tevere. Un uomo a torso nudo si muove in questa insolita cucina con movimenti
lenti e uniformi, i movimenti di qualcuno che ha imparato da tempo a fare i
conti con le irregolarità dei sassi e a mantenere l’equilibrio. La sua faccia è
rilassata, alza appena la testa ogni volta che una nuova coppia di piedi passa
all’altezza del suo naso un paio di metri più in là, sulla pista ciclabile che
costeggia il fiume.

«Ieri camminando in questa zona ho perso un ciondolo»,
gli domanda una passante, «lei per caso lo ha trovato?». «Io non so», risponde
l’uomo in un italiano stentato, «devi chiedere alla signora che sta là» e
indica un punto sul muro che riveste la scarpata, quasi all’altezza della
strada. Da qualche parte vicino al quel punto nel cemento deve esserci una
signora, probabilmente dentro a un alloggio di fortuna che un muretto nasconde
alla vista di chi passa sul lungotevere, costruito con i cartoni e le lamiere
recuperati da qualche discarica, o da un cantiere, o da un cassonetto
dell’immondizia. Quella signora forse sa che fine ha fatto il ciondolo perché
anche lei, come l’uomo che cucina i peperoni, abita lì e vede tutto quello che
nel corso di una giornata scorre, ritorna, si perde e si ritrova in quei venti metri
in riva al fiume.

La prima «rivelazione» che colpisce un osservatore delle
molteplici forme dei cosiddetti insediamenti urbani informali è che la
sensazione di disordine e di mancanza di logica che si può avere all’inizio è
in larga parte sbagliata: così come uno slum (baraccopoli) di una grande
metropoli del sud del mondo, apparentemente un agglomerato di puro caos,
polvere e sporcizia, è in realtà un micro-mondo altamente organizzato, allo
stesso modo nel nord del mondo, nelle periferie urbane e anche negli anfratti e
recessi del centro delle città, le persone si aggregano e si organizzano anche
se in condizioni abitative – ed è questo che genera la sensazione di disordine
– che risulterebbero inaccettabili per la maggior parte della popolazione urbana.

Come si legge nel dossier di Nigrizia sulle baraccopoli
d’Italia curato da Fabrizio Floris nel 2010, il cuore del problema sta in ciò
che si vede, o si crede di vedere, quando si passa accanto a questi
insediamenti: «Vedi ladri, approfittatori, gente a cui piace vivere così perché
è la loro cultura. Oppure vedi poveri da aiutare o l’effetto delle politiche
pubbliche mancate, sbagliate…». Si vede, o si pensa di vedere tutto questo,
cioè categorie, immagini, concetti: molto più raramente si vedono persone e si
percepiscono quegli spazi non come errore del sistema o bruttura da nascondere
ma come luogo che si è sviluppato all’interno di un processo storico nel corso
del quale sono cambiate le condizioni economiche, la società e, di conseguenza,
la città e i suoi spazi. Per farsi un’idea di questi meccanismi e processi
storici è utile partire dal luogo che per definizione si trova al margine: la
periferia.

Come nasce e che cos’è la periferia

In uno studio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani del 2008 si tenta un’analisi dell’origine e della
natura delle periferie: le periferie, si legge, sono una «invenzione» della
città modea, che segue l’abbattimento – non necessariamente fisico – delle
cinte murarie di difesa che le nuove tecniche di guerra (ad esempio l’uso del
bombardamento aereo) hanno reso irrilevanti ai fini della protezione delle città.
Il vocabolario indica la periferia come «la parte estrema e più marginale,
contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio»
e la locuzione «di periferia» nell’uso comune indica non solo la collocazione
di un’area nel tessuto urbano, ma «aggiunge spesso una connotazione riduttiva,
di squallore e desolazione».

Non si tratta di un fenomeno nuovo: nasce infatti in
Europa in concomitanza con una fase avanzata del processo di
industrializzazione. In Italia, il fenomeno appare più in ritardo rispetto agli
altri Paesi europei e nelle grandi città conosce un boom negli anni della
ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Numerose testimonianze
di quell’epoca raccontano delle condizioni di disagio e della mancanza di
servizi e infrastrutture patite dagli abitanti di queste aree periferiche. La
periferia come era intesa negli anni Cinquanta e Sessanta
era spesso una terra di nessuno ai margini delle grandi città dove gli
immigrati interni, che lasciavano le aree rurali italiane per le grandi città
dove sorgevano le industrie, potevano insediarsi, comprare un piccolo pezzo di
terra e cominciare a costruire piano piano una casa; oppure erano una sorta di
anticamera, un posto nel quale appoggiarsi fino a quando i risparmi fossero
stati sufficienti per potersi permettere una casa in quartieri più centrali
oppure, nei decenni successivi agli anni Settanta, in zone sempre estee ma
residenziali, a volte anche di lusso.

Oggi la situazione è in parte cambiata: la marginalità
sociale ed economica non corrisponde più così nettamente alla distanza dal
centro e le sacche di marginalizzazione sono distribuite sia verso l’esterno
della città sia negli spazi cittadini più centrali, se è vero che a Milano una
baraccopoli era sorta nella zona di Porta Romana (a un paio di chilometri dal
Duomo), mentre a Roma nel 2012 è stata smantellata una bidonville lungo
i binari della ferrovia nei pressi della stazione Ostiense, a meno di tre
chilometri dal Colosseo.

Gli insediamenti informali sono uno degli aspetti – forse
il più estremo – che accompagnano il disagio sociale, la povertà e la
marginalizzazione, non l’unico. Bidonville e periferia non sono
necessariamente sovrapponibili, né c’è una corrispondenza totale fra marginalità
socio-economica e nazionalità straniera.

Le periferie europee, una panoramica

Quando si pensa agli aspetti problematici legati alle
periferie urbane ritorna in mente l’episodio clamoroso degli émeutes (sommosse) nella banlieue di Parigi. Il 27
ottobre del 2005 a Clichy-sous-Bois, un comune pochi chilometri a est di Parigi
due adolescenti muoiono fulminati mentre si nascondono nella cabina del
trasformatore della Edf, la società francese dell’energia, tentando di sfuggire
alla polizia. In seguito alla diffusione della notizia scoppia una serie di
disordini che durerà tre settimane, allargandosi anche ad altre periferie del
Paese. Il bilancio finale sarà di quasi tremila arresti, oltre cinquanta
poliziotti feriti e circa novemila automobili date alle fiamme, numeri che
fanno della rivolta la più grande che si sia verificata nelle città francesi
dal maggio del 1968. Gli insorti sono quasi tutti di origine africana. Le
notizie degli scontri francesi hanno una grande risonanza mediatica
internazionale e portano alla ribalta della cronaca i temi del disagio e
dell’emarginazione nella banlieue francese raccontati in film come La haine (L’odio) di Mathieu
Kassowitz (1995).

Le altre capitali europee non sono estranee a questo
genere di tensioni. Nel 2011, dopo l’uccisione a Londra di un ventinovenne da
parte della polizia nell’ambito di un’indagine sui crimini da arma da fuoco
all’interno della comunità nera, un’ondata di violenza e saccheggi scuote la
Gran Bretagna partendo dai quartieri londinesi di Tottenham e Brixton e
estendendosi poi ad altre aree della città e del Paese. Mentre il governo e le
forze dell’ordine attribuiscono i disordini a criminali e teppisti, diversi
osservatori indicano fra le cause anche il disagio sociale, la disoccupazione e
la povertà che si stanno diffondendo a seguito della crisi finanziaria e delle
politiche economiche del governo britannico.

Un servizio della Bbc del febbraio 2012 illustra poi la
realtà degli slums ai margini di Londra, mostrando una delle zone a ovest
di Londra dove immigrati illegali provenienti prevalentemente dallo stato
indiano del Punjab vivono in circa 2.500 casette per la maggior parte abusive,
a volte prive di acqua ed elettricità, in cambio delle quali pagano affitti che
arrivano anche a ottocento sterline al mese. Attualmente, gli insediamenti
illegali a Londra sono, secondo le stime, circa diecimila.

Nemmeno la Svezia, spesso citata come modello di welfare
state
e capace, fino ad oggi, di limitare il disagio sociale, è immune dai
disordini. Nel maggio dello scorso anno, a Stoccolma la polizia uccide, nel
tentativo di disarmarlo, un immigrato di origine portoghese armato di coltello.
L’evento suscita una serie di rivolte che partono da Husby, quartiere
multietnico della capitale svedese, e si estendono nel corso di cinque giorni
ad altri quartieri ed altre città. Sebbene i disordini a Stoccolma abbiano
proporzioni differenti rispetto a quelle di Parigi e Londra, il fatto che la
pacifica e socialmente inclusiva Svezia abbia vissuto giorni di violenza e
scontri spinge molti commentatori a chiedersi: se l’instabilità può travolgere
perfino la Svezia, che cosa può succedere altrove, dove le condizioni sono già
più critiche e il disagio tangibile?

La situazione in Italia

In un articolo del 2005 il Sir (Servizio di informazione
religiosa) chiedeva a diversi esperti se i fatti di Parigi possono ripetersi
anche da noi. Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università di
Milano-Bicocca, rispondeva che la principale differenza fra il caso francese e
quello italiano risiede nel fatto che oltralpe «la ghettizzazione riguarda
immigrati di seconda generazione, i quali sperimentano la disillusione, la fine
del sogno di integrazione e di benessere» mentre a Milano «sono immigrati di
prima generazione, spesso giunti da poco nel nostro paese. Per loro il sogno
italiano resiste ancora». Inoltre, aggiungeva la sociologa, in Italia «la
presenza straniera è più distribuita sul territorio. Questo mix sociale tende
dunque a ridurre o a stemperare la marginalità e svolge un ruolo di
ammortizzatore del disagio». Ciò premesso, concludeva Zajczyk, non si può del
tutto escludere l’ipotesi che la situazione che in Francia ha dato origine alle
rivolte interessi progressivamente pure altri paesi e, per effetto emulativo,
tocchi anche l’Italia.

Quanto al tema specifico degli insediamenti informali,
non ci sono dati certi e univoci circa il loro numero sul territorio italiano,
né è chiaro quante persone vivano in queste condizioni; le stime parlano di
circa seimila baraccopoli in tutta la penisola e di circa due milioni di
persone (non solo stranieri) interessate dal fenomeno degli alloggi informali.
Il censimento Istat del 2011 ha rivelato che in dieci anni le famiglie che
dichiaravano di vivere in baracche, tende o simili era più che triplicato:
oltre settantunomila contro le circa ventitremila del 2001.

Nel corso del 2014 Cooperando cercherà
di affrontare il tema delle periferie urbane, degli insediamenti informali e
del disagio con una serie di reportage sulle realtà e sulle esperienze in corso
in alcune città italiane. Particolare attenzione verrà data alla condizione dei
migranti, ma si cercherà di estendere il più possibile lo sguardo in modo da
far emergere un quadro il più verosimile possibile delle persone e delle storie
che abitano il margine e la periferia, ovunque questo si collochino nella città.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Amico: Semplicità

Era notte oramai. Dopo un’intera giornata di subbuglio,
erano tutti riuniti a parlare del Signore risorto. Veramente era apparso a
Simone. Veramente aveva camminato con i due di Emmaus. E ora stava lì, di
fronte a loro, con il suo timbro di voce risorta vibrante di pace. «Pace a
voi!». Quella pace che è l’unione nuziale definitiva tra l’eterno e il
temporaneo, tra il Creatore e la creatura.

Era notte oramai. Avevano vissuto già tutto un giro di sole,
dall’alba al tramonto, con la notizia della vita risorta nel cuore. E ora erano
stanchi e turbati. E increduli ancora… increduli di gioia, di troppa
meraviglia.

E il Signore ripete l’esercizio d’incarnazione. Non di
fantasmi, né di prodigi magici e taumaturgici si tratta. Ma di vita. Come
quella di un piccolo di tre chili attaccato al seno della sua mamma, al riparo
di una stalla, come quella di un uomo che prende una porzione di pesce
arrostito per portarla ai denti, alla gola, allo stomaco.

La salvezza è nella storia. Non un’idea, né un ideale, tanto
meno un’ideologia. Non un procedimento esoterico, per iniziati, con bilance e
bilancini per soppesare meriti e castighi, dottrine e livelli di conformità.

La salvezza è semplice. E la missione altrettanto. È il Suo
sguardo d’amore su tutti e su tutto.

La pace è già realizzata e possibile ogni giorno. È l’unità
compiuta tra la vita concreta e la nostra identità più profonda.

Iniziamo il cammino del nuovo anno con questa semplicità.
Con questa pace semplice. Dopo aver camminato e lottato lo scorso anno, sperato
e disperato, dopo aver corso verso un sepolcro in cerca di un corpo e aver
trovato una bocca che pronunciava il nostro nome. Dopo aver «capito tutto» (o
almeno intuito qualcosa) alla Sua presenza, e nella frateità del confronto
con i compagni di strada, apriamo il cammino inedito che ci sta davanti nel
segno della pace, in questo mese dedicato a essa, e nel segno della «cultura
dell’incontro» e della globalizzazione della frateità, come suggerisce papa
Francesco.

Buon 2014.
E buona pace da amico.
Luca Lorusso

Luca Lorusso




Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo | Rendete a Cesare – 8

«Siate pastori con l’odore delle pecore»

(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)

Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.

Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:

13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).

Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.

In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.

Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?

Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.

Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.

Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.

Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.

L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.

Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.

Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).

Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.

La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Conclusione

Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

[8 – fine]

____________________________________

 

1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.

2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.

3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC  l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.

4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].

5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

Paolo Farinella




Europa: libertà contro laicità? Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 14

L’effigie
degli evangelizzatori Cirillo e Metodio sulle monete da due Euro slovacche
trova l’opposizione della Commissione Europea (Ue). C’è chi considera
quest’ultima come «l’anticristo». Ma il fatto che in alcune aree del vecchio
continente ci siano più persone che credono negli extraterrestri di quante
credano in Dio non sembra una conseguenza del laicismo delle istituzioni.
In merito al
rispetto dei diritti (tra cui la libertà religiosa) il punto di riferimento –
anche per la Ue – diventa sempre più la Corte europea dei diritti dell’uomo del
Consiglio d’Europa. È alle sue sentenze che bisogna guardare per capire in che
direzione va la libertà di credo nel Vecchio Continente.

Il 17 giugno scorso il New York
Times
ha pubblicato un articolo in cui raccontava di un contrasto tra la
Banca Nazionale Slovacca e la Commissione Europea. La cosa sorprendente è che
tale contrasto non riguardava temi finanziari, ma religiosi. L’istituto
bancario slovacco intendeva commemorare il 1150° anniversario della
cristianizzazione del paese emettendo una moneta Euro che riportasse l’immagine
dei santi Cirillo e Metodio coronati dall’aureola e con le vesti oate di ben
visibili croci. La Commissione Europea si è opposta, ordinando la rimozione dei
simboli religiosi.

L’articolo del prestigioso quotidiano statunitense, dal titolo a
effetto Un’Europa sempre più secolarizzata, divisa dalla Croce, è
interessante per diversi motivi: indica l’episodio come possibile «segno della
scomparsa della fede dall’Europa contemporanea», e come frutto di una
secolarizzazione molto spinta.

«In God we trust»

La tesi in un certo senso è condivisa da mons. Stanislav
Zvolensky, vescovo cattolico di Bratislava, che ha sostenuto: «C’è un movimento
all’interno dell’Unione Europea che vuole una neutralità religiosa totale e non
può accettare le nostre tradizioni cristiane».

In Europa è dunque in gioco la libertà religiosa e, in
particolare, la plurisecolare presenza cristiana? Il Nyt non giunge,
ovviamente, ad affermare questo. È significativo però che, mentre tale fatto
non ha avuto alcuna menzione sui mezzi di informazione europei, se ne sia occupata
la stampa degli Usa, paese che sulle proprie monete non ha problemi a scrivere:
«In God We Trust». Dall’altra parte dell’oceano non si vede in questo
riferimento a Dio alcun problema, dalla nostra invece si rischia addirittura di
non rispettare la storia, con effetti paradossali e anche un po’ comici: i due
evangelizzatori dell’Europa orientale, senza le loro croci, finirebbero col
trasformarsi in due «laici» del tutto irriconoscibili. Lo stesso evento che si
desidera commemorare, a quel punto diverrebbe esso stesso pressoché
incomprensibile.

Unione – o divisione – europea?

Nelle parole del vescovo Zvolensky si può anche cogliere un’eco
delle discussioni e delle polemiche che si ebbero nel momento in cui fu
definita la Costituzione dell’Unione Europea: ci si divise infatti tra chi
chiedeva che vi fosse inserito un riferimento alle radici ebraico-cristiane e
chi invece vi si opponeva. Come noto, prevalse questa seconda posizione.

Nella questione che stiamo affrontando, tuttavia, non è tanto
questo il tema in gioco. Il problema riguarda piuttosto la tutela della libertà
di credo in un’Europa che, come tutti gli stati occidentali, intende fondarsi
sulla laicità e sul rispetto del pluralismo religioso. Libertà di religione e
laicità sono due questioni strettamente collegate. Lo sono anche nell’Unione
Europea. Essa sta faticosamente costruendo una propria unità, capace di andare
oltre le profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche che la
caratterizzano. In questo processo le religioni, e soprattutto quella cristiana
per il fondamentale ruolo svolto nella storia del vecchio continente, possono
diventare un ulteriore elemento di divisione oppure una primaria forza di
coesione. Molto dipenderà proprio da come, nelle istituzioni europee e nelle
grandi religioni presenti nell’Unione, saranno intesi e interagiranno tra loro
laicità, pluralismo, libertà di credo – e quindi presenza e visibilità delle
fedi -, e quale equilibrio sarà raggiunto tra questi valori al termine del
processo di costruzione di un’Unione finalmente compiuta sul piano politico e
civile.

Parecchio resta da fare. Questi valori, infatti, appaiono
diversamente intesi nelle parti d’Europa – particolarmente quella occidentale –
in cui la laicità spesso si confonde con una secolarizzazione spinta, e in
quelle dove invece il cristianesimo è tuttora forza anche sociale e civile
molto viva, come avviene in prevalenza nei paesi dell’Europa orientale.

La commissione europea non è l’anticristo

In questa situazione la Commissione europea che, assieme al
parlamento, ha il compito non facile di governare le aspirazioni comuni
europee, finisce col diventare bersaglio delle critiche di tutti. C’è chi
l’accusa di essere troppo arrendevole nei confronti della religione e chi
invece l’accusa del contrario. «Posso assicurare che la Commissione non è
l’Anticristo», ha dichiarato Katharina von Schnurbein, funzionario della
Commissione responsabile dei rapporti con i gruppi religiosi e laici, a chi le
riportava le critiche di movimenti cristiani integralisti. Del resto lo stesso
mons. Stanislav Zvolensky si era dichiarato entusiasta della Commissione
quando, tre anni fa, era stato invitato a Bruxelles per discutere della lotta
contro la povertà nell’Unione. Nessuno, tra l’altro, si era sognato di
chiedergli di togliersi la croce episcopale dal petto. Ma poi, chi mai potrebbe
seriamente puntare a un «occultamento» dei simboli religiosi cristiani in un
continente disseminato di chiese e monasteri, dove nomi di città, paesi,
luoghi, strade e piazze, sono in gran parte riferiti a santi, tradizioni,
storie e fatti cristiani, le cui università più prestigiose sono nate per
volontà di papi e i cui stati spesso riportano la croce nelle loro stesse
bandiere nazionali?

Le dodici stelle della Vergine Maria

C’è un fatto curioso, a questo proposito. Pochissimi sanno che
anche la bandiera dell’Unione europea ha un’origine cristiana. Il cerchio di
dodici stelle su sfondo blu che la caratterizza fu disegnato nel 1955 dal
francese Arsène Heits. Era cattolico e volle ispirarsi all’iconografia della
Vergine Maria. Le stesse dodici stelle, va ricordato, compaiono sulle monete
dell’euro. Anche i tre grandi padri fondatori della Comunità europea erano
cattolici praticanti: il francese Schumann, il tedesco Adenauer e l’italiano De
Gasperi.

«C’è una generale diffidenza verso tutto ciò che è religioso,
un’idea che la fede debba essere tenuta fuori dalla sfera pubblica» sostiene
tuttavia Gudrun Kugles, direttore dell’Osservatorio sulla intolleranza e la
discriminazione contro i cristiani che ha sede a Vienna. «C’è una fortissima
corrente di secolarismo radicale» aggiunge, «che interessa tutte le religioni
ma in particolare quella cristiana».

Sono affermazioni che Katharina von Schnurbein non condivide.
L’Unione europea non segue affatto una «linea» anticristiana, afferma. Non
cerca di eliminare la religione. La Commissione, al contrario, come è detto nel
Trattato, attribuisce moltissima importanza al dialogo con i credenti e i non
credenti.

Dio vs extraterrestri

In questo momento, tuttavia, non pare proprio il frutto di un
comportamento anticristiano delle istituzioni il fatto che le chiese si
svuotino, nuove religioni crescano in Europa, come l’Islam, e un fideismo
sconcertante si diffonda un po’ dovunque.

Secondo un’indagine compiuta lo scorso anno, in Gran Bretagna le
persone che credono negli extraterrestri sono più numerose di quelle che
credono in Dio. D’altro canto un sondaggio del 2010 ha rivelato che nell’intera
Unione europea solo circa metà della popolazione crede in Dio, mentre negli Stati
Uniti il 90%.

Sono problemi che interpellano pastorale, catechesi e formazione
di laici e sacerdoti nelle Chiese, prima ancora che il rapporto tra religione e
istituzioni «statali», o l’influenza delle fedi nella definizione delle norme
pubbliche.

Il ruolo della Corte Europea dei diritti umani

Per le questioni affrontate fin qua, riveste un’importanza
primaria la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). È tale Corte, infatti,
che ha il compito di decidere i casi in cui possa essere violata la libertà
religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il
pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i
principi costitutivi dell’Europa. È un compito estremamente importante, che va
oltre la particolarità dei casi trattati. Infatti, con le proprie sentenze la
Corte sta contribuendo a costruire una coscienza civile comune dell’Europa
stessa.

La Cedu ha sede a Strasburgo e non è da confondere con la Corte di
giustizia dell’Unione europea, organismo della Ue con sede invece in
Lussemburgo. È sorta nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Vi aderiscono i 47 stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, compresi
quelli dell’Unione europea. Dunque la Cedu vale sia per il Consiglio d’Europa
sia per l’Unione europea: situazione che può creare problemi, perché possono
verificarsi casi di sentenze contraddittorie delle due Corti. Tuttavia in base
al trattato di Maastricht tutte le istituzioni dell’Unione sono tenute a
rispettare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. La Corte di giustizia
dell’Ue dunque fa riferimento nelle proprie sentenze a quelle della Cedu che
della Convenzione stessa è l’interprete. Il potenziale conflitto tra le due
Corti, che permane in linea di principio, sarebbe definitivamente eliminato se
l’Unione europea aderisse come tale alla Convenzione, cosa che non poteva fare
in passato ma che le è possibile ora, in base al Trattato di Lisbona del 2009.
Nel momento in cui questo avvenisse, la Corte di giustizia dell’Unione europea
sarebbe obbligata a rispettare le sentenze della Cedu.

Quale laicità?

La Cedu, dunque, si avvia ormai a essere
l’organo di suprema istanza anche dell’Ue in merito al rispetto dei diritti e
delle libertà civili. Per capire quindi quale concezione di laicità si stia
affermando in Europa, cosa si intenda per libertà religiosa e come essa venga
tutelata, è molto importante esaminare le sue sentenze che riguardano questi
temi. Esse fanno riferimento in particolare all’articolo 9 della Convenzione,
che tratta appunto dei diritti di libertà. È interessante notare che la libertà
di religione, come quella di pensiero e di coscienza, in quell’articolo viene
riconosciuta non solo come diritto «privato» ma, come non può che essere, anche
«pubblico». Nessuna restrizione può esservi al diritto di manifestare
pubblicamente la religione, tranne ovviamente il caso in cui possano nascere
problemi di ordine, salute e morale pubblici, o di protezione dei diritti
altrui.

Cirillo e Metodio «a spasso» per l’Europa

La vicenda della moneta slovacca da cui siamo
partiti non ha nulla a che fare con casi in cui l’ordine, la salute o la morale
pubblici vengono messi in pericolo. Riguarda, invece, proprio la laicità. È
stata la Francia a spingere la Commissione europea ad opporsi al progetto della
Banca Nazionale Slovacca, in nome di una concezione della laicità che prevede
una rigida separazione tra lo stato e la religione, e che non permette quindi
la presenza di simboli religiosi in tutto ciò che riguarda l’ambito statale.
Con buona pace dei Transalpini (e della Grecia che si opponeva alla moneta
commemorativa slovacca per ragioni «nazionali») la Banca Nazionale Slovacca ha
tenuto fermo il proprio progetto. La Commissione non se l’è sentita di
insistere nella sua posizione e, quindi, la moneta sarà prossimamente coniata.
Come ogni altra, circolerà liberamente in tutta l’Unione europea: anche in
Francia.

Paolo Bertezzolo

Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali

ARTICOLO 9: Libertà di pensiero, di
coscienza e di religione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei
riti.

2. La
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Paolo Bertezzoro