I Perdenti 8. ANTÔNIO Conselheiro di Canudos

Nella
diocesi di Paulo Afonso, nello stato della Bahia in Brasile, sorge la cittadina
di Canudos; il nome di una località che agli italiani dice ben poco, ma che in
Brasile ha invece un significato molto profondo in quanto città di Antonio
Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di una originale comunità di
vita impeiata sulla condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e
sulla fratellanza reciproca che andava oltre le condizioni sociali ed
economiche e il colore della pelle di ciascuno.

La
comunità si organizzò stabilmente nel 1893 fondando il villaggio di Canudos in
quella che era una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo. Fu il
tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che,
sostenuto dai grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei
neri, degli indios, dei meticci e dei braccianti senza terra. La comunità di
Canudos, fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità politiche e militari
dell’appena nata Repubblica brasiliana come un «bubbone» da estirpare a
qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si
propagassero a macchia d’olio.

Canudos
venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti
furono tutti sterminati, comprese le donne e i bambini. Una comunità profetica
che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel
territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno scandalo troppo
evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda
di Canudos, il cui spirito aleggia ancora oggi nel vento che accarezza i mandacarù
(i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão
del Nordeste brasiliano. Con il suo carismatico fondatore abbiamo voluto
rievocare non solo le giornate di allora ma anche gli ideali di libertà che
attraversano ogni epoca.

Antonio Conselheiro come ti venne l’idea
di fondare Canudos?

Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida
caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la schiena per
ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui
vagavano molti ex schiavi africani liberati, indigeni (indios) che avevano
perso completamente la loro identità e la loro terra a causa
dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano portato anche
nuove malattie e un alcolismo devastante, e fuoriusciti bianchi in fuga dalla
legge o dai debiti con padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in
condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di loro. Ero convinto
che i principi di giustizia e frateità del Vangelo e l’esempio della comunità
degli Atti degli Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro un
mondo dove tutti potessero avere uguale dignità.

 

 

Se non vado errato, in quei tempi nel sertão
brasiliano si muovevano molte figure carismatiche.

È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il
personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato
Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato
santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo
della diocesi di Crato nel Cearà ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr),
che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a umili
somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare,
confessare e celebrare l’Eucarestia in posti dove nessun sacerdote aveva messo
mai piede. Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e
capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per ascoltarlo, confessarci e
mettere a posto la coscienza.

E tu come ti collocasti in questa realtà?

Considerando la violenza imperante ai miei tempi in quella zona,
ebbi l’idea di creare una comunità in cui si vivesse radicalmente l’ideale
evangelico, cominciai così ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della
comunità) e gli indigeni sbandati.

 

Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità?

Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati sulle loro
navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a bordo e che, una volta a
terra, avevano trovato rifugio nel sertão. Così c’era anche chi, avendo
problemi con la legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava
nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore del sertão
(caatinga, lett. foresta grigia, è l’unico bioma esclusivamente
brasiliano e si trova solo negli stati del Nordeste, ndr). Erano tutti
accomunati da uno stato di povertà e di esclusione sociale. Non per questo
erano tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura, abituata a
combattere per sopravvivere.

Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una
delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una crisi
economica e sociale già molto grave.

Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili senza
terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo
sull’aiuto divino. Ma la miseria è una pessima consigliera, così molti,
ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le
grandi fazendas e i piccoli proprietari.

In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente
abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si
ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una
terra su cui vivere.

Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel sertão,
cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos,
in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da
coltivare e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti
ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al
futuro.

 

Canudos divenne quindi un punto di
riferimento importante per molti disperati.

Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale di circa
30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al
Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune»
religiosa. Canudos era diventata la seconda città della Bahia, dopo Salvador.
Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a
preoccuparsi di una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non
riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si autogestiva
collettivamente e aveva leggi proprie.

Erano gli anni in cui il Brasile si era
appena staccato definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una
Repubblica a tutti gli effetti.

Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel 1822 e si
era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della
stessa famiglia del monarca del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte
movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889
depose l’imperatore con un golpe militare. C’era quindi, in quegli anni, un
clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale,
la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema,
anzi a qualcuno sembrava una roccaforte di restaurazione monarchica.

Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova
Repubblica o eri un nostalgico dell’impero?

Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione
non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali
avevano separato – per me in un modo anticristiano – Chiesa e Stato, ma non ho
mai pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la
Repubblica non fece molto per farsi amare dai poveri, anche se erano stati i
repubblicani a far abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati
abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era stato un
pesante aumento delle tasse sia sulla terra che su tutti i prodotti. E, come al
solito, chi ci rimetteva di più erano i più poveri, non i ricchi.

 

Il tuo progetto poteva sembrare a molti la
realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non erano certamente
disposte a lasciare una zona franca nel bel mezzo del
sertão.

Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici,
tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro spedizioni militari contro di noi.
La resistenza di Canudos fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio
della comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume
tattico e una profonda conoscenza della natura aspra e impervia del sertão
nel quale i soldati, provenienti dalle città della costa, erano impreparati a
sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due spedizioni e anche la terza,
ma con perdite pesantissime.

Ma il vostro desiderio di vivere in pace e
armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva durare…

Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato da
straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura
dallo stesso ministro della guerra, il maresciallo Carlos Machado Bittencourt.
Furono messi in campo circa 4.000 soldati con le armi più modee del tempo.
L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era provata da fame e
denutrizione, male armata, senza scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia
morte avvenuta il 22 settembre 1897 a seguito di molti giorni di penitenza,
preghiera e digiuno per la pace. Dopo un terrificante bombardamento durato
diversi giorni che incendiò le case e rase al suolo Canudos, la maggioranza dei
superstiti si arrese il 5 ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini,
donne e bambini tra terribili violenze. Di circa 30mila persone della comunità,
ufficialmente ci furono solo 150 superstiti. Di essi le donne giovani furono
vendute nei bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la mia testa
tagliata e fatta esaminare dagli scienziati per provare che ero stato un matto
fanatico. Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di Salvador, un
incendio, più pietoso degli uomini, la consumò nel 1905.

 

L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite
gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São
Paulo
, che era stato inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito
(embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della
battaglia di Canudos caddero nel dimenticatornio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga
ebbe il sopravvento.

Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e
della sua comunità non è mai scomparsa e si è tramandata nei racconti della
gente semplice e umile del sertão fino a quando è stata recuperata tra
le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza, grazie anche a
libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che
lo spirito di Canudos scorre ancora oggi come un fiume carsico sotto la crosta
dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i nordestini imparano
fin dalla nascita che devono misurarsi con le asprezze della natura e con i
cataclismi sociali che i potenti di tuo ciclicamente rovesciano loro addosso.
Questa gente speciale ha bisogno di esempi di libertà e figure eccezionali per
continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di
libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere.

Don Mario Bandera,
 Missio Novara

Mario Bandera




Sufismo sprigionato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 31

Il sufismo,
dall’Africa sub sahariana all’Estremo Oriente, dall’Europa al Maghreb,
rappresenta la via mistica dell’Islam. Affonda le sue radici nelle origini
della fede musulmana, e attraversa i secoli fino a oggi, con i grandi maestri e
i moltissimi membri dei suoi ordini. Bandito dalla Turchia laica di Ataturk nel
1925, oggi assume nuove forme continuando a nutrire la spiritualità dell’intero
paese.

Il sufismo (tasavvuf) viene
considerato, comunemente, l’ambito mistico della religione islamica. Questo è
parzialmente vero, nel senso che alcuni sufi sono stati o sono dei mistici,
altri semplicemente dei sufi. Se la mistica, infatti, è in un certo senso
l’unione con Dio o, meglio ancora, l’esperienza immediata e diretta della
divinità, allora il sufismo è mistica nel suo obiettivo più elevato.

Un abito di lana grezza

Il termine «sufismo» proviene da una
radice, molto probabilmente siriaca (sûf), che designa un abito di lana
grezza, un po’ come quello di San Francesco. Questo termine passa col tempo a
indicare il povero alla ricerca della saggezza divina. Anche i due termini più
affini indicano lo stesso significato: «derviscio» e «fâqir» (il nostro
fachiro). Al di là dell’aspetto puramente terminologico, quel che è importante
sottolineare riguardo al sufismo è il suo fine ultimo, rappresentato dal
desiderio del sufi di mondare la propria interiorità – specialmente la volontà
che si oppone a Dio – fino ad arrivare allo stadio di completa purificazione in
Dio, di «annientamento» nella divinità (fanâ‘). Come ricorda uno dei
primi sufi, Junayd (morto nel 911): «Il sufismo è che Dio ti faccia morire a te
stesso e ti faccia vivere in Lui». L’aspirazione più intensa del sufi è
raggiungere la libertà più vera. Il sufismo è quindi una via di liberazione
interiore verso l’oceano della divinità, dell’unità divina.

Il sufi non mette in questione
minimamente la professione di fede musulmana, «non c’è alcun Dio all’infuori di
Dio» (lâ ilâha illâ Allah), ma anzi la mette in pratica a tal punto che
non esiste null’altro che l’Essere divino, nel quale si perde come una goccia
nel mare. Si potrebbe allora dire che il sufismo propone una via di
purificazione e di liberazione interiore che conduce lo spirito a uscire dalla
prigione del corpo.

Ansârî (morto nel 1088), altro grande
mistico del sufismo, afferma infatti che senza essere pervenuti a questa
liberazione, si è come in una prigione: «O Dio! Nessun’altra gioia se non nella
Conoscenza tua, nessuna gioia se non nella Manifestazione tua! Colui che vive
senza di Te è come un cadavere in prigione, la vita senza Te è la morte stessa!
Colui che vive in te è eterno». Una liberazione che è tutta interiore, mistica,
e conduce a concentrare tutte le forze nel Dio Uno e Unico.

Seguire un maestro per «annientarsi»
in Dio

Il sufismo è tuttavia un fenomeno
religioso storicamente e socialmente più vasto del solo ambito mistico. Dal XII
secolo a oggi, tutto il mondo musulmano ha visto il fiorire di gruppi di sufi
che si riuniscono intorno a un maestro fondatore di una confrateita (tarikat:
vie). Due sono i principi del sufismo così come esso viene vissuto nelle
confrateite: l’obbedienza cieca al maestro sufi e la pratica della
ripetizione del nome di Dio (zikr). Riguardo all’obbedienza, si potrebbe
pensare che essa sia un principio contrario a una vera liberazione o libertà
interiore, invece, secondo la dottrina sufi, il discepolo si dona interamente
nelle mani del maestro proprio per essere condotto su una via di libertà e di «annientamento»
in Dio. Sia la pratica di affidarsi completamente alla guida di un maestro che
l’aspirazione all’annientamento in Dio solleva dei sospetti nell’Islam più «ufficiale»,
ed è una delle ragioni per cui il sufismo è stato, ed è, perseguito dalle
correnti più rigoriste dell’Islam. Anche se lungo la storia, il sufismo ha
incontrato delle opposizioni, non bisogna cedere alla tentazione di pensare che
esso non faccia parte dell’Islam. Anzi, ne fa parte appieno e in certi casi
esso è addirittura più espressivo del messaggio coranico di altre forme
ritenute più canoniche.

Il sufismo e le confrateite sufi si
diffondono in tutto il mondo musulmano, in tutte le regioni in cui c’è una
presenza islamica. Questo è segno che esso ha una sua potenzialità di libertà
rispetto alle forme più conosciute di Islam, come il wahhabismo e il salafismo,
e infine i gruppi estremi. Il sufismo come interpretazione dell’Islam
indipendente dalla versione «ufficiale», ne fa un movimento estremamente
interessante proprio per comprendere l’evoluzione della religione del Profeta.

Tra Impero ottomano e
Repubblica turca

La storia del sufismo si può grosso
modo suddividere in due fasi: quella dei carismatici sufi della prima ora
(VIII-XII secolo) e quella della seconda ondata legata alle confrateite
(XII-XXI secolo). Nell’arco di questa storia
si può dire che l’Impero ottomano dal XVI secolo in poi, e la Repubblica
di Turchia dall’inizio del XX secolo, costituiscono degli esempi interessanti
di paesi in cui il sufismo si è sviluppato in maniera estremamente capillare.
Durante l’epoca ottomana, il sufismo, attraverso le numerose confrateite
musulmane, era particolarmente vivace. Le tarikat, o vie mistiche di
realizzazione del credente musulmano, avevano diverse provenienze e tendenze.
Alcune di queste erano diffuse in molte regioni del mondo musulmano oltre che
sul territorio ottomano. Altre erano invece tipicamente ottomane perché diffuse
soprattutto nel territorio governato dal Sultano (ad esempio la Mevlevîyye).
Con l’avvento della Repubblica turca (1923), tutti questi gruppi dovettero
subire una grave battuta d’arresto. Nel 1925, infatti, la Grande Assemblea
della giovane Repubblica decretò la chiusura di tutte le confrateite e la
cessazione di tutte quelle pratiche spirituali che potevano imparentarsi con il
sufismo. Nei primi decenni della storia repubblicana, quindi, il sufismo, i
dervisci e la vitalità spirituale delle tarikat vennero espulsi
dall’ambito pubblico e dalla vita sociale e confinati alla vita privata.
Permaneva invece lo spirito sufi che impregnava tutti coloro che erano, prima
della proibizione, legati a una spiritualità o a un cammino iniziatico. A
partire dagli anni ’50 del XX secolo, cioè quando alcune leggi del governo
favorirono la visibilità sociale dell’Islam, anche il sufismo, attraverso le tarikat,
riprese a vivere, anche se sotto un aspetto più culturale e folcloristico. È il
caso tipico dei dervisci danzanti (i Mevlevîs): le antiche confrateite
che avevano subito profonde trasformazioni, potevano, grazie alla formazione
d’associazioni culturali in Turchia, garantire la trasmissione del loro
patrimonio spirituale, ma i nuovi gruppi che s’ispirano al sufismo hanno creato
nuove forme di vita, meno strutturate delle più antiche confrateite.

Le confrateite cambiano
forma

La loro designazione, quella di cemaat
(comunità), indica l’idea di un consorzio più ampio che s’ispira e che
obbedisce al carisma di un maestro e del suo insegnamento. Quello che era
tipico della tarikat, il patto d’obbedienza a un vero maestro spirituale
(shaykh), viene sostituito da una fedeltà che si realizza anche solo
attraverso la lettura dei suoi scritti e un legame interiore alla sua figura.
Le pratiche fondamentali nelle organizzazioni tradizionali, il rito della
ripetizione del nome di Dio (zikr) e la danza sacra (semâ‘), sono
sostituite da altre formule più comunitarie di espressione, come la diffusione
stessa del pensiero del maestro. Il gruppo che oggi è certamente più conosciuto
in Turchia è quello che si richiama alla figura di Fethüllah Gülen (nato nel
1941) che, grazie alla fedeltà di tanti simpatizzanti, ha potuto costituire una
vera e propria comunità spirituale, diffusa sia in Turchia che all’esterno del
paese. Altre organizzazioni, anche di donne, s’ispirano all’antica struttura
delle confrateite sufi che avevano influenzato la religiosità dell’Impero
ottomano. Si potrebbe dire ancora che, come nell’ambito della vita religiosa
cristiana il modello del monaco rimane essenziale, così per il sufismo turco,
il modello della tarikat permane fondamentale.

Nel tessuto del popolo turco

Al di là delle caratteristiche
specifiche dei singoli gruppi, quello che è degno di nota è la grande impronta
che lo spirito del sufismo ha impresso nella religiosità turca. Jelâl ed-Dîn Rûmî
(m. 1273), Yûnus Emre (m. 1320) sono due delle figure del misticismo più
autentico dell’Islam, e i loro scritti, così come il loro pensiero, sono
penetrati nel tessuto del popolo turco. È questa mistica, profonda e anche
tollerante, che ha segnato il carattere spirituale dei Turchi, un aspetto del
sufismo in Turchia ancora poco studiato, che è probabilmente un’eredità della
storia ottomana e una peculiarità dell’Islam in questo paese.

Si potrebbe analizzare in modo
sintetico il sufismo turco tenendo conto di tre elementi che lo caratterizzano.
Il primo elemento è certamente costituito dal pensiero e dagli scritti dei
grandi sufi. Il secondo elemento è rappresentato dal patrimonio che la
tradizione delle confrateite sufi ha consegnato alla storia presente della
Turchia. Infine, il terzo elemento è una certa libertà, tipicamente turca,
nella creazione di nuove modalità e di nuove formule di esistenza spirituale.
Grazie a questi elementi, la Turchia, paese laico, sperimenta una vera
religiosità e una spiritualità profonda.

Una presenza tutt’altro che
marginale


Oggi, tanto in Turchia quanto in
numerosissimi altri paesi a maggioranza musulmana, le confrateite sufi sono
una presenza tutt’altro che marginale. Sono, in certi casi, capaci di cambiare
le sorti di un paese o di orientare tanto la religiosità quanto addirittura la
compagine politica. Nella Turchia repubblicana, questo è evidente nell’azione
delle confrateite più tradizionali e dei nuovi movimenti, le comunità.

Questi caratteri del sufismo, seppur
tratteggiati rapidamente, conducono a una riflessione più ampia sul suo ruolo
all’interno dell’evoluzione del mondo musulmano. Infatti, sia nella storia
primordiale di questo movimento ascetico e spirituale, che nel prosieguo, i
sufi hanno affermato una capacità di resistenza e di affermazione della propria
spiritualità e interiorità a costo di condanne e persecuzioni.

Espressione fedele
dell’Islam

Ancora una volta bisogna affermare
che il sufismo è un elemento interno alla religione del Profeta e che non si
discosta in nulla, nelle sue parti fondamentali, da essa. Il sufismo è semmai
un’interpretazione più interioristica e, certe volte, iniziatica. È forse
questo aspetto che fa sprigionare il sufismo nella sua capacità di formare le
persone alla dipendenza assoluta da Dio – la «classica sottomissione» di cui
parla l’Islam – ma in termini di liberazione interiore. Pur rimanendo legato al
Dio uno e unico dell’Islam, il sufi cerca di sperimentare una purificazione e
una libertà intima. A questo aspetto più spirituale fa seguito anche una certa
passione per la libertà fondata proprio sul desiderio di esprimersi liberamente
nelle confrateite sufi. La libertà interiore a cui aspira il sufi si riflette
quindi anche nel suo desiderio di libertà a livello sociale, soprattutto in
società segnate da un certo contenimento dello spazio individuale.

Alberto Fabio Ambrosio
Fine prima puntata

Sufismo tra rifiuto e
accettazione

Secondo l’Inteational
Religious Freedom 2013
del dipartimento di stato degli Usa, i sufi hanno
subito negli ultimi anni discriminazioni e abusi in diversi paesi nel mondo: in
Somalia Al-Shabaab ha distrutto luoghi di culto e tombe di chierici e religiosi
sufi, ha ucciso civili e funzionari di governo di orientamento sufi tramite
assassinii mirati denunciandoli come non-musulmani o apostati; gruppi salafiti
hanno vandalizzato e distrutto siti sufi in Libia, oltre ad aver rivendicato
l’uccisione di un religioso sufi; salafiti hanno attaccato decine di santuari
sufi anche in Tunisia; attacchi sono stati registrati contro i sufi in
Pakistan, Iran, Iraq, Siria.

Nel rapporto The
World’s Muslims: Unity and Diversity
, pubblicato nel 2012, il Pew Centre
(autorevole organizzazione con base negli Usa) dedica una certa attenzione al
sufismo mostrando come esso e le sue pratiche vengano percepiti nelle diverse
regioni del mondo musulmano: «In Asia meridionale i sufi vengono ampiamente
considerati come musulmani (dal 77% della popolazione, ndr), mentre in
altre regioni tendono a non essere molto conosciuti, oppure a non essere
accettati come parte della tradizione islamica (vengono considerati musulmani
da circa il 50% in Medio Oriente, dal 32% in Russia e nei Balcani, dal 24% nel
Sud Est asiatico e dal 18% nell’Asia centrale, ndr). Opinioni divergenti
ci sono anche per quanto riguarda certe pratiche tradizionalmente associate a
particolari ordini sufi. Ad esempio, recitare poesie o cantare in lode di Dio
sono pratiche generalmente accettate nella maggior parte dei paesi musulmani,
ma la Turchia è l’unico paese in cui la maggioranza dei musulmani accolgono la
danza devozionale come una forma accettabile di culto, probabilmente a causa
dell’importanza storica in quel paese dell’ordine Mevlevi o dei “dervisci
rotanti”».

Alcuni dati particolarmente interessanti riguardano il
continente africano, per il quale il Pew Centre scrive: «L’identificazione con
il sufismo è più alto in Africa sub sahariana. In 11 dei 15 paesi esaminati
nella regione, un quarto o più dei musulmani affermano di appartenere a un
ordine sufi. Significativo il caso del Senegal nel quale il 92% degli
intervistati dice di appartenere a una confrateita sufi. L’ordine Tijaniyya è
il più comune in tutta la regione, con almeno un musulmano su dieci: Senegal
(51%), Ciad (35%), Niger (34%), Camerun (31%), Ghana (27%), Liberia (25%),
Guinea Bissau (20%), Nigeria (19%), Uganda (12%) e Repubblica Democratica del
Congo (10%). Il secondo movimento più diffuso è la confrateita Qadiriyya, che
è seguito dall’11% dei musulmani in Ciad, dal 9% in Nigeria e dall’8% in
Tanzania. Inoltre, l’ordine Muridiyya è prevalente in Senegal (34%), ma non
dispone di un ampio seguito tra i musulmani negli altri paesi esaminati».

L’affiliazione
ai vari ordini sufi è percentualmente meno rilevante nel resto del mondo
musulmano. Tra i paesi presi in considerazione dall’indagine del Pew Centre,
gli unici con una proporzione di aderenti a qualche confrateita sufi più
ampia del 10% sulle rispettive popolazioni di fede islamica sono: Bangladesh
(26%), Russia (19%), Tagikistan (18%), Pakistan (17%), Malesia (17%), Albania
(13%) e Uzbekistan (11%). Parecchi ordini sono importanti in singoli paesi, come
la Naqshbandiyya in Tagikistan (16% di tutti i musulmani), Chistiyya in
Bangladesh (12%) e Bektashiyya in Albania (12%).

Luca
Lorusso

Danza coi sufi

Il libro di Alberto Fabio Ambrosio, Danza
coi sufi. Incontro con l’Islam mistico
, (San Paolo, Milano 2013, pp. 165, € 9,90) è il racconto di un incontro personale, quello dell’autore
domenicano – uno dei maggiori studiosi cristiani dell’Islam mistico – con il
sufismo: appassionato già di mistica cristiana, scopre che anche la religione
del Profeta ha una sua ricca storia di misticismo. Ma è soprattutto il racconto
dell’evoluzione di questa particolare via della spiritualità islamica,
concentrato in particolar modo sui primi secoli, le prime figure di grandi
mistici, i primi ordini sufi: a partire da Maometto (m. 632), considerato «il
prototipo dei Sufi», passando per Hasan al-Basri (m. 728), Rabi’a al-’Adawiyya
(m. 801), Harith al-Muhasibi (m. 857), fino ai grandi maestri del XIII secolo,
Ibn ‘Arabi (m. 1240) e Mawlana Rumi (m. 1273), quest’ultimo fondatore dell’ordine
dei Mevlevi, più conosciuti come Dervisci danzanti.

«Il sufismo, potremmo dire, è il lato simpatico di un
Islam che rischia sempre di fare paura. I mistici non fanno paura a nessuno,
forse a torto, perché sono i più rivoluzionari di tutti; coloro che cercano di
togliersi l’armatura delle sicurezze umane e di tuffarsi nel mare della divinità».

Il domenicano
Ambrosio non manca di esprimere più volte, nel corso degli otto capitoli, i
dubbi che negli anni gli sono sorti, o gli sono stati posti da altri, circa la
liceità, o anche solo l’utilità, di spendere la sua vita di sacerdote cristiano
nello studio del misticismo musulmano. La risposta a tali dubbi viene da sé,
viene dalla lettura di questo e altri testi che sono nutrimento per il dialogo
interreligioso, e viene anche dai molti legami, le molte analogie, che lo
studioso mette in luce tra il misticismo sufi e il Vangelo: «Quando noto come
la spiritualità cristiana si possa alleare a quella musulmana, mi sembra di
essere più completo, di essere più forte. Forse è per questo che studio,
osservo, contemplo e talvolta mi nutro della spiritualità dei miei amici (sufi,
ndr), in uno spirito di solidarietà e di comunione naturale. […] Il
Cristo per me segna la rotta; ma tutto (e dico proprio tutto) può diventare
barca, remo, vento… soffio dello spirito che mi sospinge verso Lui, perché so
che in ultima analisi, è Lui che mi cerca».

Luca Lorusso
Piccolo glossario

• Misticismo: esperienza immediata di Dio o della divinità.
Molte religioni comportano una parte di misticismo, tra cui l’Ebraismo, il
Cristianesimo e l’Islam.

• Ordine
(confrateita) sufi:
un ordine sufi nasce
da un sufi carismatico che può avvalersi dell’insegnamento di un altro maestro
accreditato. In ogni ordine sufi ci sono dei «conventi», a capo dei quali si
trova un maestro. Attoo al maestro si riuniscono dei discepoli. Un ordine
sufi non ha però una struttura giuridica né spirituale come gli ordini
religiosi cattolici. I sufi non vivono in comunità, ma si ritrovano con
regolarità attorno al proprio maestro, non fanno voto di castità ma vivono nel
mondo, con una professione, e insieme a una famiglia. Rari sono i sufi che non
si sposano.

• Wahhabismo: il movimento di ritorno alle origini
musulmane iniziato con Ibn ‘ad Al-Wahhab nell’Arabia del XVIII secolo. Questa
corrente di interpretazione è diventata il credo ufficiale dell’Arabia Saudita,
e da questo paese si è diffuso nel resto del mondo musulmano (vedi MC
1-2/2015, p.38)
.

• Salafismo: indica di fatto lo stesso movimento
iniziato da Al-Wahhab ma, mentre con wahhabismo ci si riferisce soprattutto al
movimento storico, con salafismo si indica la dottrina e la pratica di ritorno
alle origini. Il salafismo ha conosciuto numerose «riforme» che tentano sempre
di propugnare la purezza iniziale dell’Islam, eventualmente anche con l’uso
della forza, com’è il caso del salafismo jihadista.

• Danza sacra: con questo termine si intende in generale
ogni danza o movimento danzante che tende al raggiungimento di una certa
esperienza spirituale o mistica. Nel caso del sufismo, la danza sacra per
eccellenza è quella dei dervisci danzanti che permette il raggiungimento
dell’esperienza dell’unità divina.

• Shaykh e dhikr: termini riferiti ai due principi del
sufismo, soprattutto di quello che storicamente si incarna negli ordini sufi.
L’obbedienza al maestro (shaykh) il quale è rappresentante del Profeta e, in
ultima analisi, di Allah, e il rituale della ripetizione dei nomi di Dio, lo
dhikr.

• Religione
iniziatica:
è quella in cui per
diventae membro è richiesto un rito «segreto», di accoglienza o di
iniziazione appunto, in cui il candidato, passando delle prove, viene accettato
dagli altri adepti. Anche il cristianesimo, in un certo senso, comporta
l’iniziazione (il battesimo) con la differenza che il rito non è nascosto ma
pubblico.

 

Sufismo: breve
cronologia

• VII-XII secolo: epoca dei «grandi maestri spirituali», tra
cui Bistâmî, Junayd, Rabi’a.

• 922: morte di al-Hallaj. La sintesi della sua
dottrina si può riassumere così: «Se Dio è tutto e io sono nulla, io sono anche
Dio, poiché tutto è nulla e solo Dio è». Il sufismo diventa «ufficialmente»
sospetto.

• XI secolo: Glâzâlî (m. 1111) scrive la Revivificazione
delle scienze religiose, una sorta di Summa theologica islamica in cui viene
ufficialmente trattato il sufismo.

• 1240: morte di Ibn ‘Arabî, filosofo mistico
dell’Islam.

• 1273: morte di Rûmî, uno dei più grandi mistici e
poeti dell’Islam.

• XII-XXI secolo: il sufismo si realizza negli Ordini sufi.

• Dal XVIII secolo: i sufi subiscono la persecuzione dei
wahhabiti in Arabia Saudita e, in seguito, in altre regioni.

• 1925: il sufismo e gli ordini sufi sono banditi
dalla Repubblica di Turchia.

A.F.A.

Alberto Fabio Ambrosio




Moringa, l’albero contro la fame

La moringa oleifera è
una pianta nativa dell’Himalaya e diffusa specialmente in India ma molto
presente anche nel resto dell’Asia e in Africa. È oggetto di attenzione
crescente per il suo alto valore nutrizionale. Vi proponiamo un excursus sullo
stato delle conoscenze a proposito di questa pianta e sul ruolo che potrebbe
avere nella lotta alla malnutrizione.

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«Questa pianta potrebbe da sola risolvere metà dei problemi nutrizionali del paese. Anzi, dell’Africa». Non aveva dubbi padre Julius Gichure Mwangi, quando a Cuamba, Mozambico, nel luglio 2014, facendomi visitare il centro nutrizionale gestito dai missionari della Consolata, indicava le piccole tondeggianti foglie verde brillante che tremolavano sui rami di un albero accarezzato dal venticello dell’inverno australe. «Il fatto è che la gente non sempre lo sa: qui nel Niassa, ad esempio, la usano come ultima risorsa, quando non hanno più carne o pesce o altre cose più saporite con cui accompagnare la chima (polenta di manioca o di mais diffusa in tutta l’Africa con diversi nomi che vanno da fufù a ugali a, appunto, chima o shima, ndr). Per questo va benissimo monitorare il peso dei bambini e distribuire cibo, ma altrettanto importante è formare le mamme, informarle su che cosa è meglio che mangino. Contro la malnutrizione hanno un’arma potente che cresce spontaneamente dietro casa e magari nemmeno la conoscono».

Le foglioline verdi, i rami e l’albero a cui sono attaccati vanno sotto il nome botanico di moringa oleifera e mai come negli ultimi anni si è parlato di questa pianta, che è presente sul pianeta in una decina di specie oltre alla oleifera. Sul sito della Fao, che l’ha nominata coltivazione del mese nel settembre 2014, si legge che «la moringa è una coltura importante in India, Etiopia, Filippine e Sudan» e diverse specie della pianta sono coltivate in quasi tutta l’Africa, l’Asia tropicale, l’America Latina, i Caraibi, la Florida e le isole del Pacifico. La moringa oleifera è la specie dal valore economico più elevato. In Africa anglofona è spesso chiamata drumstick tree, «albero delle bacchette da tamburo», per via della forma allungata dei baccelli che ne contengono i semi, mentre in Asia è nota come malunggay.

Ma vediamo nel dettaglio quello che sappiamo per certo e quello che ancora è da verificare circa i benefici di questa pianta.

Che cosa sappiamo sulla moringa

Andreas Ebert del World Vegetable Center, citato dalla rivista Nature, sostiene che la moringa è una delle piante più salutari, sia dal punto di vista nutrizionale che medico.

l Secondo uno studio FAO del 2012 sulla composizione degli alimenti dell’Africa Occidentale, la moringa, a parità di porzioni da cento grammi, ha più potassio della banana, più vitamina C dell’arancia - ne basta mezza porzione per soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto - quasi tre volte il calcio contenuto in uno yogurt, poco meno delle proteine foite dall’equivalente quantità di uova, più vitamina A e addirittura quattro volte il beta-carotene delle carote. Ha inoltre numerose altre sostanze nutritive, antiossidanti, antinfiammatorie.

l Dalle ricerche effettuate dall’Università di Uppsala (Svezia)è emerso che i semi della moringa sono inoltre efficaci nella purificazione dell’acqua: le proteine dei semi macinati, infatti, si legano meglio di altre sostanze alle particelle contenute nell’acqua, «catturate» e aggregate le quali diventa più semplice ottenere acqua potabile attraverso il filtraggio.

l La polvere di moringa, inoltre, è efficace come detergente per le mani. Uno studio, pubblicato nel 2014 e condotto da ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, ha dimostrato che quattro grammi di moringa hanno lo stesso effetto del normale sapone nel rimuovere gli E.coli, batteri coliformi responsabili di diverse gastroenteriti e della diarrea che ancora oggi uccide annualmente mezzo milione di bambini sotto i cinque anni.

l Altro aspetto importante dell’uso della moringa oleifera è quello relativo alla produzione di latte vaccino: è molto citata in rete una ricerca effettuata dieci anni fa in Nicaragua da due studiosi austriaci che dimostrerebbe un incremento anche del trenta per cento nel latte prodotto da vacche che abbiano visto inserita nella propria dieta la moringa.

l Ulteriore uso della pianta è quello derivante dai suoi semi: da maturi, contengono fra il trenta e il quaranta percento di olio che può fare da combustibile per lampade. è in fase di approfondimento il suo utilizzo come agrocombustibile per un impiego su più ampia scala. Il valore aggiunto sarebbe che, oltre a fornire olio adatto alla combustione, la moringa è anche una pianta commestibile e dall’alto valore nutrizionale e per questo la sua coltivazione porterebbe benefici sia in termini di sicurezza alimentare che di energia sostenibile. Altre coltivazioni di agrocombustibili, ad esempio la jatropha - che pure aveva conosciuto all’inizio degli anni Duemila un momento di grande popolarità -, hanno al contrario il limite di sottrarre terra e acqua alla produzione di cibo.

 «L’albero dei miracoli», così chiamano la moringa diversi siti web che ne promuovono l’utilizzo e la commercializzazione sotto forma di integratori, polvere e foglie essiccate per infusi. «Un supermercato sopra un tronco», la definisce più prosaicamente il rapporto del 2006 Lost Crops in Africa citato dalla rivista Nature. Ma alcuni aspetti necessitano ancora di maggiori verifiche.

Che cosa non sappiamo

l Innanzitutto occorrono studi più rigorosi per stabilire l’eventuale differenza nell’efficacia delle foglie a seconda che si consumino crude, cotte o essiccate. La cottura, ad esempio, pare diminuire il contenuto di vitamina C ma aumentare la fruibilità di altre sostanze, come il ferro.

l Anche l’uso della moringa nella medicina tradizionale - ampiamente documentato ad esempio in India - ha ricevuto nell’ultimo decennio maggiori attenzioni. Già nel 2005 Jed W. Fahey, del Dipartimento di Farmacologia e Scienze molecolari della Johns Hopkins School of Medicine, affermava che «una pletora di richiami della medicina tradizionale ne attestano il potere curativo», ma «purtroppo, molti di questi richiami non sono supportati da sperimentazioni cliniche randomizzate e controllate contro placebo, né sono stati pubblicati in riviste ad alta visibilità».

l Altra importante verifica, direttamente connessa alla precedente, è quella del possibile ruolo della moringa oleifera nella prevenzione e nel trattamento di particolari patologie: il sito web The inteational moringa germplasm collection cita studi che sembrano deporre a favore della sua efficacia nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue, dato rilevante per la cura del diabete, e della sua attività antibiotica nel proteggere dall’Helicobacter pylori, batterio che può causare l’ulcera; altri studi ancora suggeriscono un’efficacia della moringa nella prevenzione e cura del cancro e nella riduzione degli effetti collaterali della chemioterapia. Ovviamente la comunità scientifica mette in guardia contro il sensazionalismo e i facili entusiasmi a cui alcuni siti web sembrano cedere e annuncia il primo «Simposio internazionale sulla moringa» che si terrà a Manila, Filippine, dal 15 al 18 novembre prossimi. Il titolo dell’evento, che per le Filippine è il sesto simposio nazionale su questo tema, sarà «Moringa: un decennio di progressi nella ricerca e nello sviluppo».

Perché è importante

In un articolo dell’agosto 2014 dal titolo «Fame zero» pubblicato sulla rivista Science, uno dei padri della cosiddetta «rivoluzione verde» in India, Mankombu Sambasivan Swaminathan - peraltro aspramente criticato dall’attivista Vandana Shiva proprio per aver promosso la meccanizzazione e l’uso di prodotti chimici imposti da quella rivoluzione negli anni Sessanta - afferma che oggi occorre puntare non più sulla sicurezza alimentare ma soprattutto sulla sicurezza nutrizionale. «L’impulso a ridurre la fame nel mondo si è largamente poggiato su colture come il grano e il riso per fornire calorie. Ma aumentare solo le calorie non va bene. Diete migliori e buona salute richiedono un rinforzo nutrizionale. L’agricoltura commerciale», continua Swaminathan, «tende a promuovere monocolture più sensibili alle leggi di mercato che alla corretta nutrizione, mentre quella familiare è più diversificata e per questo è più adatta a soddisfare i bisogni nutrizionali specifici di ciascun luogo. Vegetali come le patate dolci, il frutto dell’albero del pane, la moringa e vari tipi di bacche, tutti ricchi in micronutrienti come ferro, zinco, vitamina A e vitamina C, dovrebbero trovare uno spazio maggiore nell’agricoltura familiare».

D’altra parte, anche papa Francesco ha sottolineato nell’enciclica Laudato si’ l’importanza di questo genere di agricoltura. «Vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala», scrive Francesco, «che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale». Tuttavia, continua il papa, gli sforzi di diversificazione si infrangono contro l’impossibilità per molti di questi produttori a accedere ai mercati locali o globali o contro l’infrastruttura di vendita e di trasporto asservita alle grandi imprese.

Ecco, dunque, che cosa dovranno tenere d’occhio nell’immediato futuro coloro che hanno a cuore la lotta alla malnutrizione: che la ricerca chiarisca sempre meglio il potenziale di risorse come la moringa e altre piante «dimenticate» e che la priorità sia utilizzarle per creare contesti di agricoltura sostenibile che mirino a contribuire innanzitutto alla corretta nutrizione delle popolazioni maggiormente svantaggiate, evitando che questi alleati naturali diventino l’ennesima preda dei colossi agro industriali da trasformare magari in cosmetici, rimedi anti età e integratori per diete dimagranti.

A questo proposito Mark Olson, esperto di dell’Instituto di Biologia all’Università Nazionale Autonoma del Messico e principale autore del sito sopra citato, The inteational moringa germplasm collection, efficacemente ironizza: «Se puoi mangiare broccoli, perché dovresti preferire la moringa? Se hai bisogno di vitamina A mangia qualche carota o cucinati un po’ di patate dolci. Se hai voglia di qualche buona verdura verde, fatti un piatto di spinaci, di bietole, di cavolo riccio coltivati da qualche produttore della tua zona. […] Il punto è che la moringa è l’albero dei miracoli non perché offre a persone ricche in paesi temperati quel che hanno già in abbondanza. La moringa è l’albero dei miracoli perché offre a chi non li ha gli stessi benefici finora riservati a chi vive nei paesi ricchi».

Chiara Giovetti
Chiara Giovetti




I Perdenti 7. San Tommaso Moro


Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) a Londra da una famiglia benestante, il padre era giudice. In gioventù si dedicò agli studi giuridici, diventando avvocato. Sposatosi nel 1505, ebbe quattro figli. Pur avendo un ruolo istituzionale di rilievo, condusse una vita ascetica in stile francescano. Rimasto vedovo nel 1511, si risposò quasi subito, accogliendo in casa la figlia della nuova sposa e, cosa nuova per quei tempi, volle che le figlie ricevessero la stessa alta educazione dei figli, dando un esempio alle famiglie nobili del tempo.

Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni, ricoprendo incarichi sempre più importanti e diventando sempre più conosciuto per le sue capacità e la sua integrità. Segretario personale e consigliere del re Enrico VIII, seguì il cardinale Thomas Wolsey (1471-1530), dal 1515 Cancelliere del Regno, in diverse missioni diplomatiche in Europa per favorire la pace tra i vicini litigiosi come il re di Francia e l’imperatore di Spagna e Germania e per sostenere il papa alle prese con la nascita e lo sviluppo del protestantesimo luterano. Fu eletto Speaker nel 4° parlamento convocato da Enrico VIII nel 1523. Nel 1529, caduto in disgrazia Wosley, Moro venne nominato Lord Cancelliere del Regno d’Inghilterra. Durante questo periodo usò tutta la sua autorità per fermare la diffusione del protestantesimo luterano. Ma dopo solo tre anni, nel 1532, restituì al re l’incarico e il sigillo di Cancelliere adducendo motivi di salute.

In realtà aveva maturato un insanabile disaccordo con Enrico VIII circa la gestione dell’annullamento del matrimonio con la regina Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Fedele e devoto cattolico, non concordava con le misure che il re andava prendendo per escludere ogni influenza del papa nella vita e organizzazione della Chiesa inglese. Nel 1533 si rifiutò di partecipare all’incoronazione di Anna Bolena come regina d’Inghilterra, facendo aumentare l’ostilità nei suoi confronti. Difesosi con successo da diverse accuse di tradimento e corruzione, il 13 aprile 1535 gli fu richiesto di giurare fedeltà all’Atto di Successione (che riconosceva Anna come legittima regina d’Inghilterra). Si rifiutò però di accettare un secondo documento a esso connesso: l’Atto di Supremazia che nominava il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra disconoscendo il primato del papa su tutta la Chiesa. Quattro giorni dopo fu incarcerato nella Torre di Londra con l’accusa di tradimento. Durante la sua detenzione fu interrogato più volte ma non cedette né alle lusinghe né alle minacce. Il primo giorno di luglio venne condannato a morte per «avere parlato del re in modo malizioso… e diabolico» e il 6 luglio dello stesso anno fu decapitato.

Tommaso, tu sei stato una delle persone più in vista del tuo tempo, noto in tutta Europa sia come statista che come uomo di cultura, polemista e strenuo sostenitore della Chiesa e del Papato. Dal tuo ritratto più famoso sembri anche un tipo arcigno. è proprio così?

Macché. La mia fede mi dava una grande pace e serenità interiore. Ero un uomo dallo spiccato senso dell’humor e non lo perdevo neanche nelle situazioni più scabrose.

Ma l’humor non è una caratteristica di tutti i sudditi di sua maestà?

Magari fosse così! Purtroppo, anche ai miei tempi c’era gente dal brutto carattere, arcigna e irascibile che non sorrideva mai e spesso e volentieri perdeva le staffe.

Ti riferisci forse a Enrico VIII, che quando veniva contraddetto, andava subito in “ebollizione”?

Enrico era un uomo intelligente, ma passionale, impetuoso e impaziente. A lui ho dedicato molto del mio impegno politico, prima come membro del Parlamento inglese, poi come segretario personale del re, vicesceriffo della città di Londra, cancelliere del ducato di Lancaster, Speaker del Parlamento e infine come Gran Cancelliere del Regno, cercando di moderare le sue intemperanze e di aiutarlo a prendere decisioni che fossero per il vero bene del paese.

Prima di addentrarci in quella che è stata la causa della tua condanna, parlarci un po’ di te…

Venni al mondo il 7 febbraio 1477 da una famiglia non nobile della piccola borghesia londinese. A tredici anni fui mandato a fare il paggio di John Morton, cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Quindi proseguii i miei studi in campo giuridico, diventando un avvocato. Frequentando l’ambiente universitario ebbi modo di conoscere una delle personalità più in vista dell’Europa del mio tempo: Erasmo da Rotterdam (1466-1536, teologo, umanista e filosofo olandese, ndr).

Fu in quel periodo, in cui eri ritenuto unanimemente una delle menti più brillanti del mondo accademico inglese, che scrivesti L’Utopia, l’opera per la quale ancora oggi sei conosciuto e considerato con rispetto in campo filosofico, oltre politico?

Attraverso il mio romanzo «Utopia» volevo esprimere ciò che era il sogno di tutti gli intellettuali del Rinascimento europeo, descrivendo una società segnata dalla correttezza di relazioni fra le persone che vi abitano, in cui è la cultura a dominare e regolare la vita degli uomini. In un certo qual modo volevo ri-esprimere con un linguaggio adatto ai miei tempi quello che Platone aveva scritto nella sua opera «La Repubblica» in cui parlava esplicitamente di una città ideale. L’ispirazione di quest’opera, molto apprezzata nelle varie università, mi venne lavorando con Erasmo da Rotterdam alla traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano di Samosata (120-190 ca.).

Tra te ed Erasmo nacque anche un rapporto di stima e di affetto reciproco.

Con Erasmo rimasi sempre legato da una profonda amicizia, tant’è vero che in una lettera mi descrisse come un «credente ardentemente ansioso di verace religiosità, agli antipodi di ogni forma di superstizione», e anche quando fui imprigionato le sue lettere furono un fermo incoraggiamento e una profonda consolazione.

Ma oltre a Erasmo anche i tuoi familiari ti furono sempre accanto…

La mia prima moglie Jean Colt mi diede quattro figli: Margaret, Elisabeth, Cecily e John. Purtroppo la mia cara Jean morì a soli 23 anni, io rimasi con quattro bambini da accudire, per questo mi risposai dopo pochi mesi con Alice Middleton, anch’essa vedova che portava con se una figlia grandicella. Le mie spose e i miei figli furono sempre un rifugio caldo e accogliente in ogni stagione della mia vita, in modo particolare quando mi trovai imprigionato nella Torre di Londra.

Nonostante i tuoi molti meriti nell’amministrazione dello stato e nella gestione dei rapporti interazionali del tuo paese, il re entrò in contrasto con te sulla questione dell’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.

Il fatto che Caterina d’Aragona fosse la zia di Carlo V, re e imperatore di Spagna (sul cui impero «non tramontava mai il sole»), creava già per sé complicazioni interazionali. Però quel matrimonio era stato celebrato rispettando tutte le leggi della Chiesa, con documenti stilati con cura dai più competenti giuristi del tempo. Era quindi valido a tutti gli effetti e pressoché impossibile da sciogliere.

Ma la passione acceca l’animo degli uomini e in questo i re non sono da meno dei comuni mortali…

Vero. Però se la passione aveva la sua parte, la ragione principale era un’altra: il re voleva a tutti i costi un erede maschio, mentre tutti i figli di Caterina erano morti appena dopo il parto e solo Maria (che sarebbe diventata poi regina) era sopravvissuta. Per questo Enrico VIII volle l’annullamento del matrimonio con Caterina per sposare Anna Bolena. Dopo di lei ebbe altre quattro mogli. Delle sei, da due divorziò, una morì nel 1537 dopo il parto dell’unico figlio maschio del re (il futuro Edoardo VI), una gli sopravvisse e due furono decapitate per ordine suo. Una di queste fu proprio Anna Bolena, che pur avendogli dato una figlia – la futura Elisabetta I -, fu accusata di adulterio, incesto e stregoneria, e decapitata il 19 maggio 1536.

Il papa fu irremovibile nel rifiuto dell’annullamento del primo matrimonio e la conseguenza fu che il Regno d’Inghilterra si staccò completamente dalla Chiesa Cattolica.

E pensare che papa Leone X l’11 ottobre 1521 aveva conferito a Enrico VIII, primo monarca europeo a riceverlo, il titolo di Defensor fidei (difensore della fede) come riconoscimento al libro che il re aveva scritto: «Difesa dei sette sacramenti», un’opera a sostegno soprattutto del sacramento del matrimonio e della supremazia del papa. Quell’opera fu vista come un importante attacco contro la nascente Riforma protestante, e specialmente contro le idee di Martin Lutero. A seguito della decisione di Enrico VIII di rompere i rapporti con la Chiesa cattolica e di fondare la Chiesa d’Inghilterra, papa Paolo III revocò il titolo e scomunicò il re.

Come reagisti quando nel 1532, ricattando il clero inglese, Enrico VIII si fece proclamare «unico protettore e capo supremo della Chiesa Anglicana»?

Come laico non ero tenuto a giurare su quel documento, ma, non condividendolo, il giorno dopo restituii al sovrano il sigillo – segno della mia carica di Cancelliere – e mi ritirai a vita privata, preparandomi ad affrontare una dura povertà in quanto perdevo ogni stipendio dalla Corte e ogni altro introito professionale, e non avevo risparmi, avendo dato tutto ai poveri e badato al sostentamento della mia numerosa famiglia.

Con che animo, quando Anna Bolena il 1° giugno del 1533 venne incoronata regina a Westminster, partecipasti alla celebrazione?

Io quel giorno mi astenni dal partecipare alla cerimonia, rimasi a casa con la mia famiglia adducendo motivi di salute. Così facendo mi attirai le ire della nuova regina, la quale, neanche troppo velatamente tramò perché io fossi sempre più emarginato.

Il re non ti diede scampo e ti invitò a prendere una posizione netta e ufficiale sulla questione.

C’erano tre punti che avrei dovuto accettare con un giuramento: che il matrimonio tra Caterina e il re Enrico VIII era nullo e quindi mai esistito; che Anna Bolena era la legittima regina di Inghilterra; e che il re aveva la supremazia sulla Chiesa d’Inghilterra non solo per le materie temporali ma anche quelle spirituali. Riconobbi che il Parlamento aveva il diritto di dichiarare Anna regina di Inghilterra, ma rifiutai categoricamente di accettare come valido l’annullamento del matrimonio con Caterina e soprattutto non feci il giuramento con il quale avrei dovuto riconoscere l’Atto di supremazia del re sul papa anche in materia di religione. Fui l’unico laico in tutta l’Inghilterra a rifiutare tale giuramento. Del clero rifiutarono soltanto il vescovo John Fischer e alcuni monaci certosini, che vennero anch’essi giustiziati.

Possiamo dire che i contrasti che hai avuto con il Re erano dei problemi di coscienza?

Mano a mano che procedeva il dialogo a distanza con il Re e con i suoi funzionari incaricati di convincermi a firmare, mi rendevo sempre più conto che era mio preciso dovere, come credente, rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.

Quando fosti interrogato nella Torre di Londra, ti torturarono?

Torture fisiche no, ma ero sempre alla presenza di diverse persone, giudici agguerriti che cercavano in ogni modo di cogliermi in fallo. Nel corso di quattro drammatici interrogatori, tenni testa con pacata fermezza alle minacce e blandizie dei giuristi asserviti al monarca. Ma alla fine fui condannato a morte: «per avere parlato del Re in modo malizioso… e diabolico».

È vero che non perdesti il tuo senso dell’umorismo neanche negli ultimi istanti della tua vita?

Mentre salivo gli scalini che mi portavano al patibolo inciampai e caddi, dissi al boia: «Per favore mi aiuti a salire, a scendere non ce ne sarà più bisogno».

La condanna a morte e l’esecuzione di Tommaso Moro fu recepita come un fatto clamoroso da tutte le Corti europee. La notizia attraversò come un lampo tutto il vecchio Continente e la devozione verso questo integerrimo servitore dello stato e della Chiesa ebbe subito inizio.

Leone XIII lo proclamò Beato nel 1886 e Pio XI lo fece Santo il 19 maggio 1935. Nel 1980 la Chiesa Anglicana d’Inghilterra ha aggiunto Tommaso Moro e l’arcivescovo John Fisher alla lista dei «Martiri ed eroi della Riforma» e ne celebra la festa il 6 luglio. Il 31 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II lo ha nominato protettore di tutti i politici e amministratori pubblici. Con la sua vita, e con la sua morte, Tommaso Moro ci ricorda che c’è ancora qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di accettare il martirio. Aveva tratto dalla sua fede e dall’entusiasmo umanistico del suo tempo, il desiderio di essere un vero uomo, totalmente uomo. Ma un giorno comprese che ci sono situazioni in cui un cristiano, proprio per essere pienamente «uomo», deve consegnare a Cristo tutta la sua umanità; situazioni in cui c’è posto solo per questa alternativa: o la disumanità, o l’Umanità del Risorto. O osservare le leggi dello stato o seguire la propria coscienza. La sua scelta è un esempio ancora oggi per tutti coloro che vogliono vivere con coerenza la propria fede.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 

Preghiera del buonumore

Dammi o Signore, una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo,
col buonumore necessario per mantenerla.
Dammi o Signore, un’anima santa,
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi del peccato,
ma trovi alla Tua presenza
la via per rimettere di nuovo
le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri e i lamenti,
e non permettere
che io mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama «io».
Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo,
concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia
e possa farne parte anche ad altri.

San Tommaso Moro

 

Mario Bandera

 

 




Non più schiavi, ma fratelli

Il contrasto tra due parole forti che esprimono due modalità
opposte di concepire la relazione con l’altro è ciò che ci propone il tema
della 48a giornata mondiale della pace celebrata il 1° gennaio: Non più
schiavi, ma fratelli.
Due termini carichi di significati: lo schiavo è
oggetto
che non dispone di sé, proprietà di chi brama possederlo; il fratello
è soggetto
, persona libera, dignità. Il fratello inoltre non è soltanto
persona e basta, ma è persona in relazione, che condivide con qualcuno lo
stesso padre, una comune provenienza, una medesima origine, un’identica
sostanza umana.

Mentre scriviamo, il testo del
messaggio del Papa non è ancora disponibile. Possiamo tuttavia immaginare ci
sia, tra i brani biblici che hanno ispirato il tema, Giovanni 15,15: «Non vi
chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho
chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto
conoscere a voi».

Il tema scelto dal pontefice è
ampio e urgente. La schiavitù non è infatti un flagello relegato nel passato:
sono molteplici e spesso nascoste le sue forme odiee. Schiavitù «estee»,
vissute da persone vittime di tratta, di condizioni di lavoro estreme, di
situazioni di guerra, di famiglie segreganti, di violenze, di discriminazioni,
di degrado ambientale, di malattie, e di altro ancora; schiavitù «interiori»
vissute da persone dominate da ideologie o moralismi, da sensi di colpa,
dall’invasività delle tecnologie della comunicazione, dall’isolamento, dal
mercato, dall’assenza di speranza e fede, dalla fame insoddisfatta di amore.

Ancora oggi molti schiavi cercano
la liberazione.

La riflessione sull’opposizione
tra oggetto (schiavo) e soggetto (fratello), ci ha ricordato (chissà perché?)
un altro brano di Giovanni, quello dell’adultera considerata oggetto dai
farisei e dagli scribi, e invece soggetto da Gesù (Gv 8,1-11): «Maestro, questa
donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha
comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Nell’episodio di
Giovanni 8, Gesù, prima di rispondere, scrive col dito sulla sabbia, poi, data
l’insistenza degli accusatori, risponde: «Chi di voi è senza peccato, scagli
per primo la pietra contro di lei». Infine si rivolge direttamente
all’accusata: «Donna, dove sono?». Come suona differente la parola «donna»
pronunciata prima dai farisei in terza persona singolare («lei»), e poi da Gesù
in seconda persona singolare («tu»). Sembra quasi che Giovanni voglia
rovesciare i ruoli: la donna adultera, percepita come oggetto dagli ideologi,
diviene soggetto, un tu con cui Gesù si mette in relazione, una donna, una
sorella, un’amica a cui Gesù fa conoscere l’amore del Padre («vi ho chiamato
amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi»);
i farisei e gli scribi che si credono liberi e padroni (soggetti), si scoprono
invece schiavi (oggetti delle loro intransigenze) grazie all’espediente del
Maestro di disegnare segni indecifrabili sulla sabbia: loro dovrebbero sapere
sul conto di Dio Padre (attraverso le scritture e gli stessi insegnamenti di
Gesù) cose fondamentali che invece non sanno. Loro chiedono a Gesù: «Tu che ne
dici?», ma dovrebbero sapere già da sé la risposta. Non sanno, non conoscono
quello che Dio compie, perché sono schiavi («il servo non sa quello che fa il
suo padrone»), non intuiscono in tal modo nemmeno di essere figli amati dal
Padre, cioè fratelli tra loro, fratelli della donna che vogliono lapidare. Solo
dopo aver richiamato la loro attenzione sulla loro incapacità di capire, Gesù
esprime a parole il cortocircuito in cui quegli uomini si trovano: «Chi di voi è
senza peccato», chi di voi non condivide la stessa natura umana della donna,
chi di voi ritiene che ella sia un oggetto, e non sua sorella, «scagli per
primo la pietra contro di lei». Uomini che vogliono disporre della vita di una
donna, che essi considerano un oggetto perché peccatrice, non possono negare di
essere essi stessi peccatori, quindi simili alla donna, suoi fratelli perché
provenienti dalla stessa origine, accomunati da una simile condizione umana.
Alla spicciolata, iniziando dai più anziani fino ai più giovani, tutti se ne
vanno lasciando libera la donna, la quale a sua volta, forse, in quel momento
comprende di essere stata altrettanto schiava, prima d’incontrare Gesù.

Non più
schiavi, ma fratelli. Non più imprigionati dentro l’assenza di fede, di
speranza e di amore, dentro l’idea che la pace non sia possibile. Ma fratelli,
persone in relazione tra loro che conoscono la loro comune provenienza,
consapevoli che la pace è impossibile senza un padre comune, difficile ma
realizzabile accompagnati da Lui.

Luca Lorusso
 
 

Cari amici di amico,
avrete notato che in questo
numero di Missioni Consolata mancano le sedici pagine
dedicate ai giovani e
all’animazione missionaria che da quattro anni siete abituati a trovare a
inizio anno.


Amico cartaceo non è sparito,
ha solo cambiato periodicità: da
tre «inserti di formAzione missionaria» all’anno, passiamo a cinque,
con una
fogliazione leggermente inferiore. Ci ritroveremo quindi nel prossimo numero di
marzo,
e poi in quelli di maggio,
luglio, ottobre e dicembre 2015. 

Nel frattempo seguiteci online su
amico.rivistamissioniconsolata.it

Luca Lorusso




La Tratta: facciamo il punto

L’8 febbraio è la
prima «Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento
sessuale»1. La data è stata scelta perché coincidesse con la festa di Santa
Giuseppina Bakhita, una schiava sudanese nata nel 1869 diventata, dopo la
liberazione, una religiosa canossiana. Dopo circa trent’anni dalla comparsa del
fenomeno della tratta in Italia, Missioni Consolata, come già altre volte,
propone una riflessione sulla situazione.

Leggi articolo integrale con intervista a suor Eugenia Bonetti nello sfogliabile pdf

«La tua università è
la strada»

Hope (Speranza – nome inventato) è arrivata in Europa
dalla Nigeria in aereo, con un passaporto valido e un permesso di soggiorno per
motivi di studio in tasca. Prima ha fatto scalo in Olanda, dove, insieme a un
gruppo di coetanee, ha seguito una settimana di corso di orientamento
preliminare all’inizio degli studi. Poi le ragazze sono state divise a seconda
della destinazione finale. A Hope è toccata l’Italia, paese raggiunto
nuovamente in aereo. Una volta arrivata, è stata accompagnata a casa di una sua
connazionale che l’avrebbe ospitata durante il periodo di studio. «Domani andrò
all’università a iscrivermi ai corsi», ha detto Hope alla padrona di casa. «Non
uscirai di qui finché non lo dirò io», le ha risposto la signora. «La tua
università è la strada».

È cominciato così l’incubo di una ventenne nigeriana
convinta di venire in Italia per frequentare l’università e che ha invece
rischiato di diventare l’ennesima vittima di sfruttamento sessuale.

«Per fortuna lei ha reagito subito», spiega la
missionaria della Consolata suor Eugenia Bonetti, cornordinatrice dell’Ufficio
tratta donne e minori dell’Unione Superiori Maggiori d’Italia e presidente
dell’associazione Slaves No More (Mai più schiave) che assiste le donne
vittime di tratta. «Ha reagito prima che le botte e il terrore annientassero la
sua volontà: ha approfittato di una distrazione dei suoi carcerieri ed è
scappata, si è messa a camminare lungo i binari della ferrovia ed è arrivata a
una stazione dove ha chiesto aiuto alla polizia. Da lì, grazie alla
collaborazione della moglie del sindaco locale, che parla inglese, la rete che
cornordino è riuscita a intercettarla e ad assisterla nel realizzare l’unico
desiderio che a quel punto le era rimasto: tornare a casa».

Ma la storia di Hope non è così comune: molte di più
sono invece le nigeriane vittime della tratta incapaci di sottrarsi alla catena
di violenza che le annichilisce, ai riti vudù che le terrorizzano e ai debiti
che le inchiodano a un’esistenza in cui l’esperienza di sottomissione le
devasta fisicamente e moralmente al punto da non riuscire più a riprendersi.
Non solo. Anche quando le donne riescono a uscire dal «giro» e a regolarizzare
la loro posizione entrano in campo una serie di difficoltà: «Noi seguiamo
diverse ragazze che lavorano in Italia con regolare contratto e permesso di
soggiorno», spiega suor Eugenia, «ma quando queste persone hanno dovuto fare il
passaporto elettronico l’ambasciata nigeriana ha rifiutato il rilascio di
quarantanove documenti, perché il passaporto precedente è risultato falso e
l’impronta digitale collegata è stata utilizzata per falsificare altri
documenti. Ora queste donne rischiano di perdere permesso di soggiorno e lavoro».

In entrata, inoltre, i meccanismi legati alla richiesta
d’asilo hanno di fatto aperto un ulteriore varco per l’ingresso delle ragazze
destinate alla strada: «Una volta inoltrata la richiesta di riconoscimento
dello status di rifugiato», continua suor Bonetti, «le ragazze possono uscire
dai centri di identificazione ed espulsione in attesa dell’esito. A quel punto
vengono intercettate dalla rete criminale, che le fa letteralmente sparire nel
nulla per farle riemergere poi sulla strada. Le spese, ingenti, per la richiesta
d’asilo vengono spesso sostenute dalla stessa rete criminale e vanno poi a
ingrossare il debito, di solito nell’ordine dei cinquanta/sessantamila euro,
che le ragazze dovranno ripagare prostituendosi. Questa dinamica getta una luce
sinistra su un sottobosco di persone coinvolte nel favorire il meccanismo: ad
esempio quegli avvocati che suggeriscono alle ragazze di dichiarare la propria
provenienza da zone settentrionali della Nigeria, quelle in preda alla guerra
civile, mentre noi, in vent’anni di lotta alla tratta, abbiamo verificato che
le donne vengono piuttosto da aree, come Benin City, in cui non c’è nessun
conflitto che possa dare diritto allo status di rifugiato».

Non solo prostituzione

Se il caso delle donne nigeriane costrette a
prostituirsi è forse uno dei più riportati dai media, la tratta di esseri umani
è molto più ampia e tocca diverse categorie di persone. Donne e minori
specialmente, ma anche uomini di fatto ridotti in schiavitù e costretti a
svolgere lavori degradanti. Un po’ di dati. Secondo uno studio
dell’Organizzazione mondiale del Lavoro, nel mondo le persone vittime di lavoro
forzato sono quasi ventuno milioni; di queste, nove milioni si trovano
intrappolate nelle reti delle nuove schiavitù in seguito a una migrazione,
intea o estea. È difficile dire quante di queste siano vittime di tratta,
le persone cioè reclutate e trasportate attraverso varie forme di violenza o di
inganno per scopi di sfruttamento sessuale o lavorativo. Un rapporto di Save
the Children
del 2008 stimava che tali vittime fossero quasi tre milioni,
di cui l’ottanta per cento donne e minori, per un giro d’affari che secondo le
Nazioni unite arriva a trentadue miliardi di dollari l’anno.

Secondo Eurostat, la direzione generale della
Commissione europea incaricata di fornire alle istituzioni europee i dati
statistici relativi ai paesi dell’Unione, in Europa nel triennio 2010-2012 le
vittime della tratta documentate – cioè note alle autorità perché il crimine è
in qualche modo emerso – sono state più di trentamila, l’ottanta per cento
delle quali donne. Due terzi delle vittime erano cittadini dell’Unione europea
e i primi cinque paesi di provenienza erano Romania, Bulgaria, Paesi Bassi,
Ungheria e Polonia, mentre i primi cinque paesi extra Ue erano Nigeria, Brasile,
Cina, Vietnam e Russia.

Ma questi casi documentati sarebbero solo la punta
dell’iceberg se è vero che, in Italia, le sole nigeriane vittime di tratta fra
il 2011 e il 2013 sarebbero state quindicimila (dati Unicri, Istituto
interregionale di ricerca delle Nazioni unite sul crimine e la giustizia
,
con sede a Torino).

La situazione in Italia

L’Italia ha incassato lo scorso autunno una bocciatura da
parte del Gruppo di esperti sulla lotta contro la tratta di esseri umani
(Greta) dell’organizzazione internazionale indipendente denominata Consiglio
d’Europa. Il Greta bacchetta l’Italia per la mancanza di una strategia e di una
struttura di cornordinamento nazionale che contrasti il fenomeno. «L’Italia ha
una lunga esperienza nella lotta alla tratta per sfruttamento sessuale» si
legge nel rapporto, «ma dovrebbe prestare maggior attenzione anche alla tratta
per sfruttamento lavorativo e al traffico di bambini». Inoltre, è scritto nel
rapporto, nessuna campagna di sensibilizzazione a livello nazionale è stata
realizzata negli ultimi anni. Infine, la collaborazione a livello regionale e
locale fra autorità pubbliche e società civile ha dato buoni risultati per
quanto riguarda le procedure d’identificazione delle vittime, ma non riesce a
colmare il vuoto derivante dalla mancanza di un meccanismo d’identificazione a
livello nazionale. Il governo Renzi, a inizio incarico, aveva promesso di
approvare entro tre mesi il Piano nazionale, ma a fine 2014 ancora nulla si era
mosso. La Piattaforma nazionale anti tratta ha lanciato una petizione
nella quale sottolinea che «l’approvazione del Piano nazionale doveva avvenire
per disposizione di legge entro la fine di giugno scorso» e chiede al Goveo
di «non far morire il sistema nazionale di tutela e protezione delle vittime
della tratta e di adottare urgentemente i provvedimenti vincolanti previsti dal
decreto 4 marzo 2014 n. 24».

Chiara Giovetti
Nota:

1-
La Giornata internazionale contro la tratta è promossa da Pontificio Consiglio
per la Pastorale dei Migranti, Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, Unioni inteazionali femminili e maschili dei Superiori/e Generali (Uisg
e Usg), assieme a Caritas Inteationalis, Talita Kum, Global Freedom Network,
Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi, associazione Slaves no more.

glossario

Definizione di tratta

Dal Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione,
soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo
donne e bambini (noto anche come uno dei tre Protocolli di
Palermo, 2000).

La Tratta di Persone:
«Indica il reclutamento, trasporto,
trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso
della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno,
abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o
ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che
ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende,
come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di
sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche
analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi».

 
Tipi di sfruttamento
Eurostat distingue tre tipi di sfruttamento:

sessuale:
riguarda le persone costrette a prostituirsi o diversamente impiegate
nell’industria del sesso (esibizione in locali nottui, pornografia,
eccetera);

lavorativo:
riguarda persone costrette a lavori forzati o servitù domestica;

altre forme:
riguarda le persone costrette a mendicare, a svolgere attività criminali, a
cedere organi e a subire altri tipi di sfruttamento, come i matrimoni forzati.

Chiara Giovetti




I Perdenti: 1. I Charrua

Nel Prado di Montevideo, un grande
parco situato nel cuore della capitale dell’Uruguay, c’è un monumento in bronzo
e in pietra intitolato Gli ultimi Charrua, gli indios che popolavano
quelle terre prima dell’arrivo degli spagnoli. I quattro indigeni raffigurati
furono trasportati in Francia dove vissero gli ultimi anni della loro vita come
attrazione principale di un circo che voleva mostrare lo stile di vita degli
indios prima dell’arrivo dell’uomo bianco.

I Charrua, che
abitavano le rive del Rio De La Plata erano una etnia della famiglia dei Tupì-Guaranì,
la grande e multiforme popolazione indigena che si estendeva dalle rive
dell’Atlantico all’estremità del Paraguay e del nord dell’Argentina, diffusa
nella fascia sub tropicale del continente latinoamericano.
I nomi dei quattro Charrua deportati in Europa erano: Senaqué, Tacuavé, Vaimaca
Pirù e Guyunusa. Parliamo con Senaqué, sciamano.

La vostra storia può
essere presa come emblema di tante altre storie di membri delle diverse etnie
indigene che abitavano il continente latinoamericano prima dell’arrivo dei
conquistadores.

In un
certo qual modo è proprio così. Los Minuanos, los Guinuanes, los Boanenses, los
Yaros e los Chanaes, erano tribù indigene nostre sorelle che abitavano in
quelli che attualmente sono i territori dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul in
Brasile e delle province di Corrientes, Entre Rios, Santa Fe in Argentina.
Erano installate in quelli che sono i grandi fiumi confluenti nell’estuario del
Rio De La Plata, cioè: il Rio Uruguay, il Rio Ibicuy, il Rio Negro e il Rio
Paranà.

Voi eravate quelli
che vivevano nelle distese sconfinate che formano l’interno dell’attuale stato
dell’Uruguay.

Come
si sa, la ricchezza di corsi d’acqua della zona e la natura pianeggiante del
territorio, ci ha permesso di vivere raccogliendo bacche e frutti che la natura
ci offriva, cacciando gli animali e pescando i pesci che popolavano quelle
terre.

Più o meno quanti
eravate?

Non
esistono cifre precise, ma possiamo, con un certo grado di esattezza, dire che,
all’arrivo degli spagnoli, eravamo dalle trenta alle quarantamila persone.
Avevamo un’organizzazione sociale per la quale ogni comunità eleggeva il suo cacique
(capo), responsabile di guidare e custodire la sua gente.

La vostra economia su
che cosa si basava?

Per
vivere ci bastava quanto ci dava la natura, la carne ci era foita soprattutto
dai ñandù, una specie di struzzo di dimensioni più piccole che viveva
nelle nostre zone e che noi cacciavamo con le bolas, cioè tre pietre
legate alle estremità di lacci che facevamo ruotare sopra la testa. Esse si
aprivano a mo’ di raggiera di una ruota e, una volta lanciate, si
attorcigliavano attorno alle zampe degli animali facendoli cadere. Le zone dove
si andava a cacciare erano ben delineate, nessuno di noi poteva andare a caccia
nei territori di altre tribù.

Sbaglio o avevate
anche una certa fama di guerrieri?

Non
sbagli affatto, eravamo gelosi della nostra terra e del nostro fiume, così,
come tutte le altre etnie erano attaccate alla loro. Ci difendevamo con le
unghie e con i denti quando altri ci assalivano o volevano portarci via la
cacciagione che faticosamente avevamo messo insieme.

Ma la vostra grinta
leggendaria non servì a molto quando arrivarono gli europei, nella fattispecie
gli spagnoli…

Eh sì!
Ci accorgemmo ben presto che bolas, lance e frecce, non erano
assolutamente in grado di misurarsi con gli archibugi, le spingarde e i
cannoni. In più gli spagnoli avevano anche i cavalli che noi non avevamo mai
visto. Tutto ciò dava a loro una superiorità tecnologica e militare al cui
confronto le nostre modeste armi non potevano certamente competere.

Quando Juan Diaz de
Solis, al comando delle navi spagnole, primo europeo che risalì il corso del
Rio De La Plata, si incontrò con la vostra gente, capiste subito che la
superiorità non solo tecnico militare ma anche di navigazione, avrebbe
significato per voi la fine della vostra presenza in quelle zone.

Juan
de Solis risalendo il Rio De La Plata si incontrò con i nostri avi e non fu
certo un incontro facile: ogni volta che i conquistadores sbarcavano nei
villaggi situati sulle rive del grande fiume, si comportavano da padroni,
occupavano le nostre terre, prendevano le nostre donne e ci cacciavano
dall’ambiente in cui noi avevamo vissuto fino a quei giorni.

In uno di questi
conflitti Juan Diaz de Solis rimase ucciso, non è così?

È
vero, però noi non sapevamo di aver ucciso il comandante in capo, perché subito
il comando fu preso da altri uomini della spedizione, e il modo di comportarsi
nei nostri confronti non cambiò per nulla. Gli spagnoli, quando catturavano
qualcuno di noi e lo facevano prigioniero, lo riducevano in schiavitù e lo
vendevano al miglior offerente. Inoltre gli adolescenti di ambo i sessi
venivano forzatamente messi a servizio delle dimore dei conquistadores.
Cresceva quindi in noi un grande astio verso queste persone che in un primo
momento avevamo accolto come ospiti. Ci rendemmo conto ben presto che a loro
interessavano solo l’oro e l’argento. E quando non li trovavano, occupavano la
nostra terra dichiarandola loro proprietà.

Questa concatenazione
di avvenimenti, di scaramucce, contrasti, lotte in campo aperto tra voi e gli
spagnoli, portò a un episodio particolarmente vergognoso, ricordato come il
genocidio di Salsipuedes. Puoi raccontarci come andò?

Il
generale Fructuoso Rivera si accordò con i portoghesi, anche loro presenti
sulle sponde del Rio De La Plata, precisamente alla Laguna Merin, per delineare
i confini tra Brasile e Uruguay. Lui cedette ai portoghesi una larga fascia di
terra a condizione che questi non interferissero nella sua politica di
eliminazione degli indigeni. Il nipote di Fructuoso, Beabé Rivera, con le sue
truppe spinse molti Charruas sulle rive del torrente Salsipuedes, e lì, l’11
aprile 1831, fece una vera mattanza eliminando quasi tutta la presenza charrua
nell’Uruguay. Quei pochi che si salvarono scapparono verso il Nord o verso il
Brasile, trovando accoglienza nelle varie tribù, ma si può dire che, come
comunità, i charrua si estinsero del tutto.

Per
ironia della sorte, suo zio, il generale Fructuoso, nel 1830, era stato eletto
primo presidente dell’Uruguay!

Così voi quattro
foste inviati in Francia per essere mostrati agli europei…

Non
solo, anche per essere studiati come uomini della pietra che avevano vissuto
per secoli senza conoscere le varie invenzioni che si erano succedute nel
mondo. Però dopo gli studi sul nostro corpo, sulla nostra testa, sulla nostra
lingua, fummo venduti a un circo che, girando per l’Europa, mostrava gli «Indios
del Rio De La Plata».

Però il nome Charrua
non è scomparso del tutto, e pur essendo l’Uruguay una nazione formata quasi
esclusivamente da discendenti dell’emigrazione europea, la «Celeste», ovvero la
nazionale di calcio del piccolo paese sudamericano, è conosciuta come la
nazionale «Charrua».

Si
vede che per cancellare i crimini commessi, gli attuali abitanti dell’Uruguay,
che non hanno nessuna colpa del loro passato, e per identificarsi di fronte al
resto delle nazioni latinoamericane, si onorano del termine «Charrua», un po’
come i neozelandesi del rugby che, pur essendo quasi tutti discendenti dai
coloni inglesi, prima dei loro incontri si esibiscono nella «Haka», la danza
tipica degli indigeni Maori originari della Nuova Zelanda.

L’attuale popolazione
dell’Uruguay non include al suo interno minoranze indigene precolombiane.
Quando arrivarono gli spagnoli all’inizio del sedicesimo secolo, le malattie
che questi portarono contribuirono all’estinzione della popolazione indigena. I
Charrua furono i più fieri avversari dei conquistadores. Qualche secolo dopo,
l’eroe nazionale dell’Uruguay, Josè Gervasio Artigas, integrò i pochi indigeni
Charrua rimasti nel suo processo di liberazione dal giogo coloniale,
promettendo loro terra da coltivare una volta conquistata l’indipendenza. Ma già
verso la metà del secolo XIX rimanevano solo pochi nuclei di indigeni che
sempre più si ritiravano in zone disabitate dell’interno e lentamente ma
inesorabilmente si ridussero di numero. Oggi non rimane più nessuna traccia di
questa etnia del Rio De La Plata.

A
ricordare questo popolo resta solamente lo struggente poema epico di Juan
Zorrilla de San Martin: «Tabaré», pubblicato nel 1888, nel quale, con versi
straordinari, il grande scrittore uruguayano racconta la storia di un amore
impossibile tra il cacicco indio, Tabaré, e Blanca, una donna spagnola
espressione di un altro mondo e di un’altra cultura. Un poema che, meglio di
qualunque romanzo, esprime l’anima profonda del sentimento nazionale degli
uruguayani narrando l’incontro-scontro tra l’innocente naturalezza degli
indigeni e la violenza assurta quasi a mistica di vita dei nuovi arrivati.

Gli
usi e costumi, i miti e le tragedie del popolo Charrua, sconfitto sul piano
storico, diventarono così il racconto epico, quasi una saga leggendaria della
nascente nazione uruguayana, un marchio indelebile che suggellerà per sempre
l’anima profonda del «Pueblo Oriental» del Rio Uruguay. Possiamo dire allora
che il popolo Charrua, un popolo perdente come tanti altri popoli indigeni
precolombiani, si è preso la sua rivincita lasciando un nome glorioso come una
eredità culturale che va ben al di là di un succinto richiamo storico. Le
tradizioni Charrua permeano tutt’oggi la vita di un popolo che non vuole
dimenticare, e men che meno ripetere, gli errori del passato.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Italia: intese tra Fedi e Stato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 25

Iniziamo con
l’intervista a Stefano Ceccanti, ex senatore del Pd che si è occupato in senato
di libertà religiosa, una piccola serie di dialoghi con politici italiani di
diverso orientamento. Diritto sancito dalla Costituzione, la libertà di culto,
a livello legislativo, deve ancora trovare compimento. Alcune intese tra lo
stato italiano e confessioni religiose ampliano il panorama, in attesa di una
legge generale sul tema.

«Nonostante sia necessario per l’Italia
arrivare a una legge generale sulla libertà religiosa che sia pienamente
inserita nella Costituzione repubblicana, oggi purtroppo ne abbiamo ancora una
– ampiamente amputata dalla Corte costituzionale – del ‘29, quella sui culti
ammessi».

Professore ordinario di Diritto
pubblico comparato, Stefano Ceccanti è docente di Diritto costituzionale
italiano e comparato e di Diritto parlamentare presso l’Università La Sapienza
di Roma. È stato senatore del Pd nella XVI legislatura (2008-2013). È autore di
numerose pubblicazioni su riviste italiane e inteazionali.

Lo incontriamo per approfondire la
questione della libertà religiosa nel nostro paese, non da un punto di vista «filosofico»
o «teologico», ma da quello giuridico: il diritto dell’individuo di avere una
fede religiosa e di praticarla, o di non avee nessuna.

La nostra conversazione si avvia
subito dal nodo fondamentale: la difficoltà di arrivare a una legge generale
che finalmente sostituisca quella del ‘29. La legge sui culti ammessi era stata
emanata dopo i Patti lateranensi tra la chiesa e lo stato italiano. Essi
riconoscevano il cattolicesimo come religione dello stato, ponendolo in una
condizione superiore agli altri culti religiosi «ammessi». La Costituzione
repubblicana eliminò questa sperequazione, affermando la piena eguaglianza tra
i culti e foendo ampie garanzie per la libertà religiosa di tutti. Tuttavia,
fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, la libera esplicazione dei culti
non cattolici, in particolare protestanti, fu molto limitata, con
un’applicazione della legislazione in materia sostanzialmente simile a quella
del periodo fascista. I principi costituzionali, insomma, erano come «congelati».
La svolta si ebbe a partire dal 1956, quando entrò in funzione la Corte
costituzionale che intervenne ripetutamente, abrogando le norme in contrasto
con la Carta fondamentale.

Allo stesso tempo, col Concilio
Vaticano II, la chiesa cattolica inaugurò una stagione di grande rinnovamento,
anche in questo campo. La dichiarazione Dignitatis Humanae, il decreto Unitatis
Redintegratio
sull’ecumenismo e la dichiarazione Nostra Aetate sulle
relazioni con le religioni non cristiane, costituirono documenti fondamentali
per il pieno riconoscimento da parte dei cattolici della libertà religiosa di
ogni essere umano. Fu possibile, così, giungere nel 1984 al superamento del
Concordato del ’29, sostituendolo con un accordo tra la chiesa cattolica e lo
stato italiano ispirato ai principi della Costituzione e ai valori del
Concilio.

Si avviò quindi una trasformazione
che, tuttavia, non è ancora conclusa. Oggi, infatti, ci si trova con la vecchia
legge profondamente amputata delle sue parti incompatibili con la Costituzione.

Come mai quella del ‘29 non
è stata ancora sostituita da una nuova legge complessiva che regoli le
questioni connesse alla libertà religiosa nel nostro paese?

«Nella storia dell’Italia
repubblicana è mancata, da parte delle autorità, una consapevole e organica
politica ecclesiastica. Lo aveva rilevato già Arturo Carlo Jemolo (1891-1981,
luminare di diritto ecclesiastico, cattolico liberale, impegnato in sostegno
della laicità dello stato, ndr)».

Non sono mancati, tuttavia,
tentativi di introdurre una disciplina generale e organica sulla questione.

«Sì. L’ultimo risale alla XV
legislatura (2006-2008). Ma la proposta di legge di cui fu relatore Roberto
Zaccaria (Pd) è naufragata».

Ricordo che essa,
recuperando proposte presentate in precedenza e mai approvate, intendeva
caratterizzare in modo molto preciso il diritto di libertà religiosa,
specificando i diritti dei singoli e delle confessioni religiose, ad esempio,
anche in relazione all’educazione scolastica, al lavoro, allo stato di «ministro
di culto», ai loro rapporti con i privati e con le pubbliche amministrazioni,
alla degenza in luoghi di cura, all’appartenenza alle forze armate,
all’inteamento in istituti di pena, alle esequie, alla tumulazione e, non da
ultimo, agli effetti civili del matrimonio celebrato davanti a un ministro di
culto non cattolico o a «soggetto equiparato». Prevedeva pure, tra l’altro, una
novità rilevante come l’istituzione di un registro delle confessioni religiose
presso il ministero dell’Inteo per definie lo «status» nei confronti
dell’ordinamento italiano.
Per quale motivo la proposta non è stata approvata?

«Soprattutto perché non si è riusciti
a trovare una posizione comune attorno al concetto di laicità dello stato. Esso
era espre-sso nei primissimi articoli, tra le disposizioni di principio. In
parlamento e nel paese, in particolare nella posizione assunta dalla Conferenza
episcopale italiana, si è manifestato un disaccordo che non è stato possibile
conciliare».

Sì. L’allora segretario
generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, sostenne, ad esempio, che
l’introduzione del principio di laicità, «addirittura quale fondamento della
legge sulla libertà religiosa», suscitava «sorpresa e contrarietà». Gli
interventi su questo punto in parlamento, poi, avevano, a mio avviso, rivelato
molteplici modi d’intendere il principio della laicità dello stato, passando
dall’uno all’altro senza vera consapevolezza. Cosa può insegnare tale
esperienza?

«Credo si debba concludere che è
difficile superare le diverse visioni quando si affrontano problemi generali,
concettuali e teologici. Una normativa generale inevitabilmente cerca di dare
delle “definizioni di sistema” sulle quali l’accordo è arduo, se non
addirittura impossibile.

Non bisogna mai dimenticare, infatti,
la lezione di Jean Bauberot (nato nel 1941, ndr), storico e sociologo
delle religioni francese, fondatore della sociologia della laicità. Egli ha
sostenuto che, quando si parla di questi temi, ognuno parte dal suo lato del triangolo:
1) la libertà religiosa con la forza dei numeri per i credenti nella/e
religione/i di maggioranza, 2) l’uguaglianza a prescindere dai numeri delle
confessioni di minoranza, 3) la separazione tra chiese e stato per atei e
agnostici. Si fa fatica a condurre tutti dentro i confini del triangolo per far
loro prendere coscienza di tutti i lati. Prima di Bauberot, Jacques Maritain
(1882-1973, filosofo cattolico francese, ndr) lo aveva già spiegato bene
a Città del Messico il 6 novembre del 1947. Si era nella fase di preparazione
della Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu. Egli sostenne che si trattava
di accettare un paradosso: arrivare a un accordo su un comune pensiero
politico, sull’affermazione di un medesimo insieme di “convinzioni che dirigano
l’azione”, è tanto più facile quanto più si rinunci a convergere sui
fondamenti, cioè “sulla giustificazione dei principi pratici”».

Secondo
lei, dunque, è molto più proficuo un approccio «pragmatico» alla questione.

«Sì. Del resto
in questo modo si sono ottenuti dei risultati non trascurabili nella XVI
legislatura».

Nel
corso di essa lei, assieme al senatore Lucio Malan di Forza Italia, ha
presentato un disegno di legge sulla libertà religiosa che ha contribuito a
raggiungere i risultati a cui si riferisce. Cosa vi proponevate di ottenere con
quell’iniziativa?

«Diverse intese
tra lo stato e alcune confessioni religiose già stipulate dal primo governo
Prodi e, in seguito, dal quarto governo Berlusconi, erano di fatto congelate.
Si trattava di arrivare alla loro approvazione anche in via legislativa».

Le
Intese sono previste dall’articolo 8 della Costituzione per regolare i rapporti
delle confessioni religiose con lo stato. È una prescrizione che serve a
proteggerle da eventuali imposizioni unilaterali, da parte dello stato
italiano, di una qualche disciplina relativa ai loro rapporti con esso.
Ciascuna intesa deve poi tradursi in legge, per entrare a tutti gli effetti
nell’ordinamento dello stato. Con quante confessioni religiose sono state
stipulate intese?

«A tutt’oggi
sono 11 (si veda Box, ndr). Le intese rendono possibile, alle
confessioni che le hanno stipulate e che lo richiedano, l’accesso all’otto per
mille. Delle 11, solo 10 lo fanno, perché i Mormoni non l’hanno richiesto. I
contribuenti quindi possono scegliere tra queste dieci, oltre alla chiesa
cattolica e allo stato. Si tratta di 12 opzioni: un complesso piuttosto ampio.
In favore di tutte quante, oltre che in favore della chiesa cattolica, è
possibile fare offerte deducibili nella dichiarazione dei redditi».

Si è
poi raggiunta l’approvazione per legge delle intese?

«Sì, cinque
delle undici sono state approvate per legge proprio nella XVI legislatura. Tra
esse, due sono per la prima volta estee al tradizionale ambito giudeo
cristiano. Si tratta dell’intesa con i buddisti e di quella con gli induisti».

I
risultati di questo modo di procedere che punta su accordi diretti con le
confessioni religiose, mettendo da parte, per il momento, una legge generale
sulla libertà religiosa, sembrano dunque molto positivi.

«Certamente.
L’approvazione con una legge delle nuove intese ha reso possibile una cosa
importante, cioè la soluzione delle macro questioni di carattere organizzativo,
senza perdersi in quelle di “definizione generale” che avrebbero molto
probabilmente bloccato di nuovo il dibattito».

Questo
tipo di approccio tuttavia è stato criticato. Da ultimo lo ha fatto Alessandro
Ferrari, docente di diritto canonico ed ecclesiastico all’Università degli
studi dell’Insubria, nel libro La libertà religiosa in Italia. Un percorso
incompiuto
. Cosa sostengono questi critici?

«Per loro la
preferenza accordata alle intese – non solo quelle approvate recentemente con
legge, ma anche le “intese storiche” – piuttosto che a una legge generale, ha
generato una “piramide dei culti” al cui apice sarebbe un “diritto
specialissimo”: il diritto pattizio con la chiesa cattolica e con le
confessioni, ma con la prima in posizione sovraordinata rispetto alle seconde.
Tale “diritto specialissimo” sarebbe seguito da un “diritto speciale” che
dovrebbe essere rappresentato dalla legge generale sulla libertà religiosa, in
sostituzione della legislazione fascista, e che al momento è molto ridotto. Da
ultimo vi sarebbe il “diritto comune”».

Quali
problemi creerebbe questo sistema?

«Produrrebbe
delle vittime: le confessioni non riconosciute, lasciate sole alla base della
piramide e alla mercé della discrezionalità delle autorità statali».

Lei
non è d’accordo con tale critica. Perché?

«In realtà,
fermo restando il dialogo che in ogni momento può essere attivato con tutte le
confessioni religiose, l’avvicinamento delle confessioni diverse dalla
cattolica al regime concordatario rappresenta il superamento degli effetti
negativi della “uguale libertà e non completa uguaglianza” che erano ancora
insiti nel primo regime concordatario e che, prima della revisione del 1984, la
stessa Corte costituzionale faceva fatica a rimodulare. È
vero, quindi, che le tutele sono aumentate per tutti, e non viceversa. Puntare
a una legge generale prima delle intese, al contrario, avrebbe portato a
ulteriori fallimenti determinati dalla insistente volontà di individuare
definizioni che non sono ancora condivise».

Questo modo di operare può
valere anche per l’Islam?

«Al momento l’Islam vi sfugge, per
una serie di ragioni».

Quali sono?

«L’Islam è una religione estranea al
“paradigma confessionale”, è policentrica, sia per gli orientamenti teologici
sia per la particolare composizione etnica dei musulmani italiani. Questo rende
difficile individuare un unico interlocutore».

È un problema risolvibile?

«Penso di sì. Si era proposto allo
stesso modo anche per i Buddisti e gli Ortodossi, con cui l’intesa è stata
realizzata. Anche Valdesi e Metodisti, che in origine erano divisi, si sono
aggregati proprio in vista dell’intesa. D’altro canto la Spagna, che è
culturalmente simile all’Italia, ha raggiunto da tempo l’intesa con l’Islam».

Vi sono altri problemi che
rallentano il raggiungimento di un’intesa con l’Islam?

«Sì. È difficile, ad esempio,
distinguere tra fattore religioso e fattore etnico culturale (poligamia,
mutilazioni genitali femminili, burqa), o anche trattare alcuni precetti della
teologia islamica che riguardano la separazione tra sfera politica e sfera
religiosa che mal si declinano con l’idea di laicità così come si è sviluppata
nel nostro ordinamento.

Anche alla luce di queste considerazioni
è chiaro che l’aspirazione a una normativa generale sulla libertà religiosa
difficilmente può giungere a una realizzazione. Anche in questo caso, lo
strumento delle intese offerto dall’articolo 8 della Costituzione (si veda Box,
ndr), che i Costituenti hanno voluto fosse flessibile, continua a
rappresentare l’opzione preferibile per il superamento di questioni pratiche e
per l’avvicinamento delle parti in causa».

È meglio, dunque,
rinunciare definitivamente a una legge generale sulla libertà religiosa?

«No. Una legge generale può benissimo
esserci. Ci si può arrivare, tuttavia, in un momento successivo e più
pacificato, e solo nell’ottica di fornire una “coice” a un quadro in gran
parte già formato dalle intese».

La preferenza «operativa»
per le intese piuttosto che per una legislazione generale sembra avvicinare
l’approccio del nostro paese alla questione della libertà religiosa e della
laicità al modello americano.

«Sì. Le intese con le confessioni
religiose diverse da quella cattolica in fondo non sono altro che “pratiche di
accomodamento”. Infatti cercano soluzioni a situazioni specifiche, creando in
alcuni casi anche delle deroghe al diritto comune in nome della libertà
religiosa. La pratica dell’accomodamento è tipica degli Stati Uniti d’America,
paese in cui si è realizzato uno dei principali modelli di libertà religiosa al
mondo. Esso, in virtù del diritto giurisprudenziale, affronta le esigenze dei
diversi gruppi religiosi e dei singoli con un approccio “caso per caso”.

L’incremento delle intese ratificate,
nell’ottica di declinare il pluralismo religioso, ha avvicinato il nostro
modello a quello di “laicità aperta”, dove il pluralismo si coniuga con la
separazione tra sfera civile e religiosa, ma non con l’ostilità per la presenza
della religione nel dibattito e nello spazio pubblico, né con l’indifferenza
delle autorità per il fenomeno religioso. Insomma, la laicità pluralista
italiana effettivamente è molto più vicina agli Usa di quanto non si sia
storicamente e culturalmente indotti a pensare».

Questo fatto può avere
influenze sul quadro europeo e sulla gestione del fenomeno religioso nello
spazio pubblico dell’Unione europea?

«Certamente. Il modo in cui l’Italia
risponderà, e sta già rispondendo, alle sfide poste dal pluralismo religioso,
conta molto per l’Europa. Le risposte italiane avranno tanto più valore quanto
più proverranno da un paese la cui storia è fortemente segnata dalla prevalenza
di una religione maggioritaria quale quella cattolica, peraltro in corso di
evidente e fecondo aggioamento».

Paolo Bertezzolo

libertà religiosa e
intese

In Italia la libertà
religiosa è sancita nell’articolo 8 della Costituzione, dove si afferma che «Tutte
le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le
confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi
secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano». Tale norma costituisce parte del «principio di laicità» dello stato
italiano che si ricava dalla lettura combinata di numerose disposizioni della
Costituzione, come ha precisato la Corte costituzionale nel 1989 e, in
particolare, dell’articolo 7 che stabilisce la separazione tra ordine religioso
e ordine temporale.

Sempre
l’articolo 8 stabilisce che i rapporti delle confessioni religiose con lo stato
«sono regolati per legge sulla base di intese stipulate con le relative
rappresentanze».

La tavola
valdese è stata la prima confessione non cattolica a stipulare un’intesa con lo
stato italiano, nel 1984, subito dopo la revisione del Concordato lateranense
del 1929 avvenuta quell’anno. Da quel momento si è avviata una grande
trasformazione nei rapporti dello stato italiano con la chiesa cattolica e con
le altre confessioni religiose, definita in una serie di leggi.

Le richieste di
intesa devono seguire una procedura precisa. Dapprima vengono sottoposte al
parere della Direzione generale affari dei culti, presso il ministero degli
interni. Quindi il governo avvia le trattative con le rappresentanze delle
confessioni religiose in vista della stipula dell’intesa. Esse sono affidate al
sottosegretario-segretario del Consiglio dei ministri. Le trattative sono
avviate solo con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della
personalità giuridica ai sensi della legge n. 1159 del 24 giugno 1929, su
parere favorevole del Consiglio di stato. Il sottosegretario si avvale della
Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose
affinché predisponga la bozza di intesa unitamente alle delegazioni delle
confessioni religiose richiedenti. Su tale bozza di intesa esprime il proprio
preliminare parere la Commissione consultiva per la libertà religiosa. Dopo la conclusione
delle trattative, le intese, siglate dal sottosegretario e dal rappresentante
della confessione religiosa, sono sottoposte all’esame del Consiglio dei
ministri ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del presidente del
Consiglio. Dopo la firma del presidente del Consiglio e del presidente della
Confessione religiosa le intese sono trasmesse al parlamento per la loro
approvazione con legge.

Oltre a quella
con la tavola valdese, sono state approvate, con legge ai sensi dell’art. 8
della Costituzione, le intese con: le Assemblee di Dio in Italia (Adi),
l’Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno, l’Unione delle
Comunità Ebraiche in Italia (Ucei), l’Unione Cristiana Evengelica Battista, la
Chiesa Evangelica Luterana in Italia (Celi), la Sacra Arcidiocesi ortodossa
d’Italia ed Esarcato per L’Europa meridionale, la Chiesa di Gesù Cristo dei
Santi degli ultimi giorni, la Chiesa Apostolica in Italia, l’Unione Buddista
italiana (Ubi), l’Unione Induista Italiana. L’intesa con la Congregazione
cristiana dei testimoni di Geova, siglata nel 2007, non è stata invece ancora
approvata con legge.

P.B.

Paolo Bertezzolo




Itinerari Mozambicani /1

Il Mozambico affronta, questo mese di ottobre, la sua quinta elezione presidenziale dal 1994, anno dell’introduzione del multipartitismo dopo una devastante guerra civile durata vent’anni e conclusa con la pace di Roma del 1992. In queste pagine racconto il viaggio che, come responsabile dell’ufficio progetti della MCO, ho fatto lo scorso giugno nel paese lusofono. Una panoramica sulla situazione politica e qualche istantanea della quotidianità nelle missioni.

Leggi Cooperando nello sfogliabile. Clicca sulla foto.

Chiara Giovetti




Cent’anni portati bene

Nel numero di maggio
di MC abbiamo raccontato l’installazione di Monsignor José Luis Ponce de Leon,
missionario della Consolata, come vescovo di Manzini, Swaziland, in occasione
del centenario dell’arrivo nel paese dei primi missionari cattolici, i Servi di
Maria. In questo numero, vi proponiamo una panoramica sulle attività della diocesi
e le testimonianze dei protagonisti, raccolte da MCO nel corso della visita
dello scorso giugno.

La Croce del Sud nel cielo notturno, le persone avvolte nelle sciarpe e
nelle giacche a vento per difendersi dai primi freddi nelle mattine di giugno,
gli alberi di frangipani e di stelle di Natale sono tutti indizi che – non
bastassero le diciassette ore di viaggio e i cambi di aereo – aiutano a
percepire quanto lo Swaziland sia distante dall’Europa. Ma più lontani ancora
appaiono lo smog delle metropoli africane, le baraccopoli di lamiera e terra,
l’asfalto che si arrende impotente ai morsi di una natura onnivora e vorace.
Manzini, il principale centro urbano del paese, è una città gradevole
incoiciata dalle colline, dove tutti sembrano affaccendati in qualche cosa:
saldare le parti di un motore, spostare frutta e verdura dentro e fuori dalle
celle frigorifere di un magazzino, entrare e uscire da un supermercato, vendere
dolciumi e ricariche telefoniche agli angoli delle strade e ai banchetti sui
marciapiedi.

Se quella dello sviluppo è una via, il piccolo regno
dello Swaziland – con un’estensione pari a quella del Lazio e circa un milione
di abitanti – sembra trovarsi fra gli stati africani che vi camminano con un
buon passo, dal momento che viene collocato nella fascia bassa dei paesi a
reddito medio. Ma uno sguardo meno superficiale che si allarghi oltre Manzini o
la capitale, Mbabane, e tocchi le aree rurali del paese permette di scorgere
una realtà meno rosea. A cominciare dal tasso di prevalenza dell’Hiv: secondo i
dati più recenti, una persona su quattro è affetta dal virus.

Saint Philip, la battaglia
contro l’Aids delle suore di Madre
Cabrini

Lungo la strada che da Manzini va a Est e poi a Sud in
direzione del Sudafrica, la cupola azzurra con i costoloni rossi della chiesa
di st. Philip appare all’improvviso oltre il tappeto verde dei campi di canna
da zucchero adagiati nel lowveld (bassopiano) della regione Lubombo. La
deviazione del fiume, che permette di coltivare, è un intervento recente in
un’area dove le colline lasciano il posto a una distesa di savana piatta
colpita da ricorrenti ondate di siccità e dalla conseguente carenza di cibo. In
questa parte del paese lavorano le suore del Sacro Cuore di Gesù, fondate da
Santa Francesca Saverio Cabrini e più note come Cabrini Sisters. La
storia della loro presenza qui comincia negli anni Settanta, ma è solo a
partire dalla fine degli anni Novanta, proprio quando la congregazione è vicina
alla decisione di lasciare lo Swaziland per spostarsi in paesi più bisognosi,
che  si intreccia con quella della
pandemia dell’Hiv/Aids.

«A un certo punto cominciarono a morire, tutti», spiega
suor Diane Dallemolle, americana di Chicago. «Io e Barbara [suor Barbara
Staley, consorella di Diane diventata lo scorso maggio superiora generale delle
suore di Madre Cabrini
] ci rendemmo conto che non c’era un solo nucleo
familiare che non avesse un membro sdraiato su una stuoia dentro casa, privo di
forze e scheletrico, in attesa della fine. Non potevamo andarcene». La speranza
di vita degli swazi crollò nel 2004 a trentasette anni; il tasso di prevalenza
del virus era intorno al quaranta per cento.

«Cominciammo ad andare in giro per le case di tutta la
zona», continua Pius Mamba, che collabora con le Cabrini Sisters da
allora, «io facevo da interprete e le suore chiedevano alla gente di farsi
prelevare un campione di sangue per fare il test Hiv». Le provette con il
sangue venivano poi mantenute al freddo con il ghiaccio e portate ottanta
chilometri più in là, al Good Shepherd di Siteki, uno dei sette ospedali
gestiti nel paese dalla diocesi di Manzini e che serve un bacino d’utenza di
duecentocinquantamila persone nella regione Lubombo. La sua scuola per
infermieri, inoltre, forma ogni anno personale qualificato che presta poi servizio
nelle strutture sanitarie di tutto il paese.

«Facevamo anche più viaggi al giorno, finché non ci fu
donato un frigo. Da quel momento cominciammo a vivere con decine di fiale di
sangue in casa».

Il governo swazi e la comunità internazionale iniziarono
a reagire alla pandemia. In alcuni paesi la disponibilità di farmaci
antiretrovirali non era costante e il rischio per i pazienti era quello di
sviluppare resistenza a causa dell’irregolare aderenza alla terapia e di dover
passare ai farmaci cosiddetti di seconda linea, più cari e ancor meno reperibili.
«Questo in Swaziland non si è mai verificato», dice suor Diane, «fin
dall’inizio la disponibilità di antiretrovirali è stata garantita dal Fondo
Globale
che ha fornito la terapia in modo costante».

Oggi, il tasso di prevalenza è al ventisei per cento,
ancora il più alto del mondo, e nonostante i farmaci anti-retrovirali siano
foiti dal sistema sanitario nazionale non sempre le persone decidono di
curarsi: la negazione, la stigmatizzazione, la diffidenza, le resistenze
culturali nelle aree più disagiate – dove i casi di stupro sono più numerosi e
la disponibilità fisica di una donna è data per scontata a partire dalla prima
adolescenza – non sono state completamente eliminate.

Il futuro del paese si gioca anche intorno a un’altra
sfida, quella degli orfani a causa dell’Hiv. «In Swaziland, sono solo ventidue
su cento i bambini che hanno entrambi i genitori», spiega suor Diane, «tutti
gli altri ne hanno perso almeno uno. E crescere bambini orfani di entrambi i
genitori non è un problema che si risolve solo costruendo orfanotrofi. Essere i
tutori di questi bambini non è semplice, non si tratta solamente di nutrirli e
di mandarli a scuola, ma anche di dare loro qualcosa di altrettanto importante:
la sensazione di appartenere a qualcuno, di essere legati a qualcuno».

Le suore di Madre Cabrini, accanto alle attività di
diagnosi e cura dell’Hiv attraverso la clinica presso la missione e le visite
alle comunità, gestiscono un programma di servizi sociali, un ostello per
orfani che lo scorso anno ha ospitato 107 bambini e numerose attività di
sensibilizzazione e formazione. Negli ultimi dieci anni, Cabrini Ministries
– questo il nome dell’organizzazione no-profit attraverso la quale le suore
agiscono in Swaziland – ha assistito seimila persone affette da Hiv/Aids e
circa millecinquecento orfani e bambini vulnerabili.

Rifugiati, sanità,
istruzione: le numerose attività della Chiesa in Swaziland

Sandlane Street è l’animata strada di Manzini che va
dalla cattedrale alla scuola salesiana. Percorrerla a piedi è forse il modo più
rapido per ottenere una sintesi visiva degli ambiti in cui la Chiesa cattolica è
attiva in Swaziland.

Proprio di fronte alla cattedrale si trova l’edificio
che ospita Caritas Swaziland, con i suoi numerosi uffici, le sale per
incontri e convegni, la libreria e l’ufficio del vescovo. Una delle attività
che ogni giorno impegnano i membri dello staff è l’assistenza ai rifugiati,
realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Acnur), che mobilita le risorse necessarie per il mantenimento
complessivo del programma, e il governo dello Swaziland, che garantisce la
sicurezza. Caritas si occupa invece degli aspetti nutrizionali, sanitari e
dell’assistenza legale durante le procedure per l’ottenimento dello status di
rifugiato.

Dopo la Caritas ci sono la Saint Theresa primary e
high school
, per ragazze, mentre in fondo alla strada si trovano Salesian
primary school e high school
, per ragazzi. Sono centinaia gli studenti che
alla mattina convergono nel fiume colorato di uniformi che affluisce alla
scuola. Proseguendo oltre la struttura dei salesiani, s’incontra la clinica Saint
Theresa
, una delle sette strutture sanitarie della Diocesi.

La camminata su Sandlane street si conclude alla Hope
House
, un centro di cura per pazienti terminali e disabili gestito da Caritas
Swaziland
, che ha venticinque piccole unità abitative per i malati e i
familiari che li accompagnano.

La collaborazione fra la
diocesi di Manzini e Missioni Consolata Onlus

Proprio su un intervento alla Hope House si è
realizzata la prima collaborazione fra Mco e la diocesi di Manzini. La
Conferenza Episcopale Italiana ha finanziato la scorsa primavera il progetto More
Strength to Hope
– Più forza alla speranza, che prevede attività di
adeguamento strutturale, l’avviamento di un servizio di fisioterapia,
l’aggioamento del personale sanitario e la formazione dei pazienti e degli
assistenti informali (spesso membri della famiglia) che accompagnano il malato
in clinica e lo seguono poi durante la convalescenza a casa.

«La Hope House è nata nel 2001 come centro per
malati, specialmente di Hiv/Aids, giunti allo stadio terminale», spiega suor
Elsa Joseph, delle Missionary Sisters of Mary Help of Christians,
responsabile della struttura, «e l’obiettivo era quello di accompagnare queste
persone alla morte garantendo loro cure palliative e dignità. Oggi, però,
grazie alla disponibilità di antiretrovirali e di altri farmaci, la percentuale
di malati che riesce a tornare a casa in buone condizioni è del novanta per
cento».

Oltre ai malati di Hiv, il centro ospita anche persone
colpite da tubercolosi, cancro, ictus e malattie dell’apparato
cardiocircolatorio, e il servizio di fisioterapia che verrà reso disponibile
con il progetto è pensato proprio per accelerare il ripristino delle
funzionalità fisiche nei pazienti la cui mobilità è stata temporaneamente
compromessa.

Un ulteriore occasione di collaborazione si è poi
realizzata nell’ambito dell’assistenza nutrizionale che la diocesi fornisce a
circa settecentocinquanta bambini di tre parrocchie grazie alla generosità di
una fondazione statunitense. Durante la visita a due delle tre comunità, la
rappresentante delle madri dei bambini beneficiari, nel ringraziare la Chiesa
cattolica per il progetto, ha auspicato che il supporto nutrizionale possa
continuare, e ha aggiunto che ci sono ancora diversi bambini della comunità
malnutriti o a rischio malnutrizione. «La seconda cosa che la signora ha detto»,
scrive nel suo blog monsignor Ponce de Leon, presente durante le visite insieme
all’amministratore diocesano padre Peter Ndwandwe e al direttore di Caritas
William Kelly, «è quella che mi ha toccato di più, perché dà la misura del
senso di “famiglia” di queste persone: pur avendo ricevuto ciò di cui hanno
bisogno, non dimenticano i membri della loro comunità che sono in condizioni di
necessità. Non solo. Di fronte a quanto la donna ha detto, non si può fare a
meno di chiedersi come sia possibile che ci siano così tanti bambini, e anche
adulti che non hanno cibo a sufficienza in questo paese così bello. Come
Chiesa, non possiamo limitarci a distribuire cibo a chi ha fame, dobbiamo anche
cercare di capire le cause della situazione e lavorare con gli altri per
assicurarci che tutti noi viviamo con la dignità di figli di Dio».

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, Swaziland, Hiv/Aids, rifugiati, sanità, educazione, Manzini

Chiara Giovetti