Storia del Giubileo 6. Il Giubileo


Abbiamo già visto che tutto ruota attorno alla questione della proprietà della terra, dopo l’editto di liberazione del re Ciro (538 a.C.), contesa tra i possessori di fatto che non erano stati deportati e gli esiliati rientrati che vantavano il diritto legale alla proprietà.

Schiavi per debiti

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Il rientro dall’esilio, quindi, non è stato quel trionfale e giornioso ritorno descritto dai testi sacri, ma un doloroso incidente che ha portato quasi a una guerra civile. Da un lato, per i residenti che non erano stati deportati, i nuovi arrivati erano intrusi, anzi «stranieri», venuti a scombussolare la loro tranquilla, anche se povera, esistenza. Erano passati cinquant’anni da quei fatti dolorosi e l’esilio era un ricordo nella memoria. Da parte loro, gli immigrati ritornati, pretendevano di rientrare in possesso di tutte le proprietà che erano stati costretti a lasciare per la violenza dell’invasore di allora. Si erano dunque creati due partiti contrapposti, di cui abbiamo un indizio forte nel capitolo 5 del libro di Neemia.

Quando una famiglia povera faceva un debito gravoso, dava in pegno un figlio o una figlia «come schiavo» che poteva essere trattenuto per sei anni, ma non oltre (cf Dt 15,12). Nella situazione di estrema povertà di quel tempo, i ricchi erano arrivati a prendere come ostaggi-schiavi molti ebrei, cioè fratelli dello stesso popolo e della stessa religione. Neemia aveva imposto il condono dei debiti e la libertà delle persone, proibendo in nome di Dio che un ebreo potesse essere schiavo di un ebreo. Qui troviamo già il primo nucleo di quello che si svilupperà in seguito e che prenderà il nome «Giubileo», che è dunque un istituto giuridico per rispondere ai problemi sorti con il ritorno degli esiliati nella terra d’Israele.

Il Giubileo è la risposta che Israele produce per la soluzione di questi problemi che apparivano senza apparente sbocco: due contendenti avanzavano diritti sulla stessa proprietà. Districare la matassa dopo cinquant’anni non era facile. Solo una scelta drastica poteva imporsi e allo stesso tempo essere stimolo per un progetto futuro. Nasce così il Giubileo che è lo sviluppo naturale dell’Anno Sabatico. Mentre questo riguardava un periodo relativamente corto (sette anni), per il Giubileo si prende la misura «cinquantenaria» che era il periodo di tempo che interessava nella disputa tra residenti e rientrati.

A circostanze nuove, nuova teologia

Oltre che ricostruire il tempio, Esdra e Neemia dovettero riorganizzare la religione, il culto annesso e le leggi che regolavano la vita cultuale del santuario, dimora di Dio. In questa prospettiva si raccolsero testi e tradizioni del passato, specialmente della tribù di Giuda, ma anche di alcune delle dieci tribù del regno del Nord, facendo una straordinaria opera di redazione finale della raccolta di «scritture» che divennero poi quello che oggi conosciamo come «Toràh» (ebraica) o «Pentateuco» (greco). Ciò avvenne intorno al 444 a.C. Si ripensò anche la cosmogonia, cioè l’origine dell’universo, inventato da Dio per creare lo scenario nel quale si sarebbe svolta la storia dell’alleanza tra il «Dio Onnipotente e Creatore» e il «più piccolo tra tutti i popoli» esistenti sulla terra.

La narrazione della creazione, che non è un racconto storico (anche il più sprovveduto se ne rende conto), ha anche uno scopo pedagogico perché l’autore vuole fare un’analogia: come Adamo è stato posto nel giardino di Eden in qualità di custode e servo, così, allo stesso modo, il popolo eletto è stato collocato nella terra promessa d’Israele perché la abiti, la coltivi e la custodisca come corpo prolungato dei Patriarchi e come segno della fedeltà di Dio. Anzi come corpo esteso di Dio perché la terra è «lo sgabello» del trono della sua gloria: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). Questo testo è la conclusione del libro del Terzo Isaia, vissuto in esilio con i deportati. Egli, sviluppando la teologia universalistica del profeta Isaia storico, quello vissuto nel sec. VIII, consola gli esiliati e li incita al ritorno, facendo rivivere la loro storia attuale come una ripetizione di eventi antichi, come l’esodo e la creazione che vengono «ingigantiti» per motivi di natura teologica.

Nuovo concetto  di «proprietà»

Il concetto di «popolo eletto» come «proprietà [di Dio] fra tutti i popoli» (Es 19,5), diventa una chiave teologica con la quale s’interpreta presente, passato e futuro. Tra il VI e il IV secolo in Babilonia e a Gerusalemme nasce un laboratorio in cui tutto si rinnova. Dalla storia passata, che viene riletta e ingigantita, nasce l’istituto del «sabato» come cuore della vita d’Israele e del culto, in sostituzione dei sacrifici; si crea il canone della Bibbia (intorno al 444 a.C.) nella forma dell’attuale Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). E la storia «sacra», essendo «scritta», diventa «Sacra Scrittura», cioè testo normativo e immutabile della volontà di Dio.

Per dare «peso» alla« ricostruzione del futuro», fondato sulla religione e sull’appartenenza al «popolo eletto», tutto è ripensato e riformulato: i riti e i culti, la circoncisione, il sabato, le leggi di purità, i sacrifici, la Pasqua, il calendario e l’uso della terra. Tutto è proiettato «alle origini», trasformando una normale storia di tribù, spesso banale, in una grande epopea, una saga di natura «storica» rivisitata come in un fantasmagorico «kolossal» proiettato nella notte dei tempi. Esso legge la storia contemporanea (ritorno dall’esilio) come un processo che parte dall’iniziativa di Dio sul Sinai, e prima ancora dalla liberazione dalla schiavitù d’Egitto (assonanza con la schiavitù in Babilonia).

Nel primo racconto della creazione (Gen 1), scritto in ambienti sacerdotali, si afferma con chiarezza che nell’atto di creare Adamo ed Eva, Dio stesso li pose nel «giardino di Eden perché gli ubbidissero e lo custodissero» (Gen 2,15). Si ribalta il concetto di «proprietà»: non è l’uomo proprietario della terra, ma è la terra che indica come deve essere ascoltata e custodita. L’uomo diventa il custode, il servo del creato sul quale solo Dio esercita la sua autorità, mediata certamente dall’uomo che è «immagine di Dio» (Gen 1,27). Lo stesso concetto di «sottomettere la terra» (Gen 1,28) non è assoluto, perché è connesso alla luogotenenza esercitata da Adamo in nome di Dio di cui è plenipotenziario e da cui dipende. È Dio che controlla il comportamento dell’uomo.

L’esodo però è la risposta alla promessa fatta ai Patriarchi, che a loro volta sono l’esito della fedeltà che è il contrario della ribellione di Adamo ed Eva che a loro volta erano stati i protagonisti e i signori della creazione regalata loro da Dio come premessa e promessa della terra d’Israele, la terra dell’Alleanza e del tempio del Signore. Il raccordo tra i Patriarchi e la terra d’Israele è la figura di Mosè che ha il compito di dare compimento alla volontà di Dio. Mettendo l’istituto dell’anno sabatico tra le norme di Esodo e Levitico, facendolo risalire addirittura a Mosè, i redattori del Pentateuco stabiliscono il criterio «teologico» per risolvere il contenzioso sorto tra residenti e rimpatriati dall’esilio sul possesso della terra.

Nei libri di Levitico s’inseriscono le regole che riguardano il Giubileo, dando loro il valore di una norma antica proveniente direttamente da Dio, in base al principio, formulato in questo periodo, che la terra d’Israele è «esclusiva proprietà di Dio». Se la terra è di Dio nessuno può avanzare diritti e ciascuno deve avere la coscienza di essere solo un usufruttuario temporaneo. La terra di Palestina è per Israele «terra promessa» ai patriarchi, quindi terra di ospitalità su cui nessuno può avanzare diritti.

Il nome «Giubileo»

18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta santa presso la sede della Caritas a Roma, vicino a Stazione Termini. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta Santa presso la sede della Caritas vicino alla Stazione Termini a Roma. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

In ebraico l’anno giubilare si chiama «Shenàt jòbel» che tradotto alla lettera significa «Anno dell’Ariete» perché l’inizio e la fine dell’anno giubilare erano annunciati dal suono del «qéren jobèl – corno di ariete» che richiama uno degli eventi più importanti della Toràh e successivamente della tradizione giudaica: il sacrificio di Isacco sul monte Moria (Gen 18,1-19). Poiché il racconto è conosciuto, non ci attardiamo su di esso, ma rileviamo solo gli elementi che interessano il nostro discorso sul «Giubileo».

Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio unigenito. Abramo, uomo dalla fede indiscussa, non mette in dubbio l’intenzione di Dio e ubbidisce, perché Dio sa quello che fa, e si appresta a sacrificare il figlio, sebbene il suo cuore sanguini e le sue lacrime si mescolino a quelle del figlio. Secondo la tradizione giudaica, Isacco incoraggia il padre Abramo a ucciderlo rispettando tutte le regole prescritte per i sacrifici offerti a Dio per non rendere invalida, anche involontariamente, l’offerta della sua vita. Abramo quindi supplica Dio, in nome della fede di Isacco, che ha accettato liberamente l’aqedàh-legatura alla legna del sacrificio, che in futuro, quando i suoi discendenti, pregando, chiederanno qualunque cosa in nome dei meriti di Isacco, Dio li esaudisca in ogni loro richiesta. La tradizione cristiana ha visto in Isacco una prefigurazione di Cristo «legato al legno della croce»: come Isacco stava per essere immolato all’età di 37 anni (Gen R 55,4), così Gesù fu legato e sacrificato sulla croce alla stessa età (cf L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, II. Da Abramo a Giacobbe, Adelfi Edizioni, Milano 1997, 97-102).

Il racconto ha un valore di contestazione dell’usanza diffusa dei sacrifici umani per motivi religiosi: infatti il Dio che apparentemente chiede la morte sacrificale del primogenito di Abramo, sospende la mano del padre obbediente che non osa discutere l’ordine di Dio e lo sostituisce con un «ariete» che Abramo scorge impigliato tra i rami. Il messaggio è chiaro: il Dio d’Israele non vuole la vita umana, lui che la crea e Abramo e Isacco, padre e figlio, ringraziano Dio con un olocausto che Dio stesso «ha provveduto sul monte».

Qui sta la ragione per cui si suona il «corno dell’ariete – qèren yobèl» sia per il Giubileo sia l’Anno Sabatico, sia al tramonto del venerdì per annunciare l’arrivo dello Shabàt, sia in tutte le feste importanti della vita d’Israele. Dio ha salvato Isacco, e il suono del corno di ariete ricorda a Israele che Dio salva il suo popolo, anche quando non lo merita. Il suono del corno diventa il simbolo, il segno della liberazione di Dio e viene proiettato indietro, fino alle pendici del Sinai, dove Dio parlava a Mosè al suono del corno di ariete (cf Es 19,13.19). Il suono del corno precede l’arca dell’alleanza e guida alla battaglia della presa di Gerico (Gs 6,4-6.13).

Il suono del corno squillerà ogni 49 anni per dare inizio al giubileo del cinquantesimo anno, anno di grazia e di liberazione, di salvezza e di perdono totale:

«10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. 13In quest’anno del giubileo ciascuno toerà nella sua proprietà. 14Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. 15Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. 16Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. 17Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio. 23Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. 24Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (Lv 25, 10-17.23-24).

Questo è il punto di partenza dell’istituto del Giubileo che, in una fase di riforma religiosa e sociale, è codificato nella tradizione posteriore che però viene addirittura fatta risalire a Mosè, agli eventi del Sinai per dare a questa norma un peso di notevole importanza e coagulare attorno ad essa l’unità di tutto il popolo nuovo di Israele, composto dai residenti che mai lasciarono la terra di Palestina, ma anche dai rimpatriati che, liberati da Ciro, rientravano come stranieri nella «loro» terra che non avevano mai visto né conosciuto perché spesso erano nati e vissuti solo in terra d’esilio. La riforma non riguarda solo la terra, ma si presenta come una legge complessa che concee le persone, l’economia, il latifondo, la redistribuzione della ricchezza e il concetto di proprietà «privata», la quale nell’insegnamento biblico non ha mai attecchito.

In un tempo di crisi socio-religiosa (post esilio) nulla di più spontaneo che ritornare indietro, alle proprie origini, ripensarle alla luce dei nuovi eventi e «riscrivere» la storia come premessa per un nuova avventura, incastonata dentro un contesto ampio, antropologico, cosmico che si perde nella notte dei tempi e che raggiunge il cuore di Dio creatore che come all’inizio creò l’universo, ora crea di nuovo il suo popolo. Sacerdoti e classi dirigenti si servono della religione che ripensano e riformulano rivisitando narrazioni, tradizioni, epopee e preghiere del passato per dare risposta ai nuovi problemi che la Storia di «oggi» pone, imponendo una soluzione. Il Giubileo è un momento di questo processo che appartiene a un passaggio cruciale, una svolta decisiva che bisogna cogliere, se non si vuole perdere l’appuntamento con se stessi e il futuro.

Paolo Farinella, prete
(6, continua)




Allamano sacerdote missionario


La Pasqua che stiamo celebrando riassume tutta l’azione di Dio che per amore ha mandato a noi il suo Figlio. Egli ha portato a compimento la salvezza. È il vertice dell’Antico e del Nuovo Testamento. Per questo la Pasqua è considerata «la festa delle feste», «a cui convergono tutti i misteri della nostra religione» (S. Leone Magno). Ha anche un richiamo esplicito alla Missione. Alle prime persone che incontra, il Risorto dice: «Andate ad annunziarlo»; e agli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»; e prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Gv 20,21; Mc 16,15).

beato Giuseppe Allamano

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La Pasqua è anche la «festa della fedeltà». Richiama il battesimo e le promesse a esso collegate, l’ascolto della Parola di Dio e l’invito a farsene annunziatori e testimoni. Per i missionari della Consolata vi è un ulteriore richiamo: a essere fedeli alla loro vocazione secondo il carisma e lo spirito del beato Allamano. Per questo egli ha dato «come speciale protettore» dell’Istituto S. Fedele da Sigmaringen: missionario, primo martire di Propaganda Fide. Il 24 aprile 1900, nel giorno della celebrazione liturgica del Santo, l’Allamano spedì la lettera al Card. Richelmy per la fondazione dell’Istituto, dopo averla posta sull’altare durante la celebrazione della Messa. E a noi raccomanda: «Imitatelo nella fedeltà ai vostri doveri presenti e futuri; fedeltà universale, cordiale e semplice, nelle cose grandi e piccole; nel corrispondere alle grazie di Dio e a lasciarvi formare… per riuscire degni missionari».

Ma la Pasqua richiama un’ulteriore fedeltà, anch’essa testimoniata dall’Allamano: essere fedeli alla vocazione sacerdotale. Tutto quello che ha fatto, ha nel sacerdozio la motivazione. Per lui il sacerdote è missionario di natura sua. Anche se incardinato in una diocesi, il sacerdote non può preoccuparsi soltanto dei problemi del suo territorio, deve aprirsi a tutto il mondo. È la qualifica data all’Allamano dal Decreto sulle sue virtù eroiche: «Nella mirabile schiera di Servi di Dio fioriti nella Chiesa Torinese… si distinse per aver percepito il dovere di ogni Chiesa locale di aprirsi alla missione universale». Una missione che, come ribadisce il Concilio Vaticano II, riguarda ogni sacerdote. L’ordinazione sacerdotale, infatti, «non destina a una missione limitata e ristretta, ma a una vastissima missione, fino ai confini del mondo, come quella di Cristo». Lo hanno ripetuto i Papi più recenti ed è un richiamo insistente di Papa Francesco sulla «Chiesa in uscita» verso le periferie non solo geografiche, ma anche umane.

padre Gottardo Pasqualetti

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Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti

 




I perdenti 13 i Cristeros e il beato Miguel Agustin pro


Nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica del mondo, il Messico, tra il 1925 e il 1929, visse un periodo tragico della sua storia. Al governo della Repubblica si era installato un gruppo di potere formato in prevalenza da massoni anticlericali, denominato «gli uomini di Sonora». Tra i vari provvedimenti che essi presero, spicca l’inasprimento delle leggi anti religiose. Con il presidente Plutarco Elia Calles, queste leggi vennero imposte in maniera rigorosa in tutta la Federazione Messicana. Alla Chiesa venne tolta ogni autonomia giuridica, furono espulsi tutti i sacerdoti stranieri e furono confiscati tutti i beni delle istituzioni cattoliche: chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, ecc. Dall’agosto del 1925 la Chiesa sparì completamente dalla vita pubblica del religiosissimo popolo messicano. Fu a questo punto che accadde una cosa incredibile: migliaia di persone di ogni condizione sociale si diedero alla macchia dando vita a una insurrezione spontanea, motivata dal fatto che se «Cesare diventa un tiranno, il popolo ha diritto di difendere la propria libertà».

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I generali dell’esercito federale pensavano di sconfiggere in poco tempo quegli insorti inesperti e male armati, tuttavia l’organizzazione si consolidò in quanto sostenuta dalla maggioranza della popolazione e nacque così la «Cristiada», l’insurrezione di «Cristo Re», che coinvolse milioni di persone, preoccupò le Cancellerie di mezzo mondo e costrinse i papi a intervenire. L’esercito cristero in poco tempo si organizzò e divenne una formidabile difesa per la popolazione inerme. La reazione dello stato centrale fu rabbiosa e fece massacri indiscriminati, campi di prigionia, impiccagioni di massa.

In quegli anni furono scritte pagine luminosissime da parte di umili e semplici cristiani che volevano vivere la loro fede. Ne parliamo con padre Miguel Agustin Pro (nome completo José Ramón Miguel Agustín Pro Juárez), che fu uno dei martiri di quel periodo convulso della storia del Messico.

Padre Miguel, come ebbe inizio questa tragedia?

Dopo il trentennale governo di Porfirio Diaz, un presidente che si era convertito dopo la morte della moglie, presero il potere elementi giacobini e radicali chiamati «gli uomini di Sonora», i quali fecero approvare dal parlamento una costituzione ferocemente anti religiosa. La Chiesa accusata di essere retrograda e responsabile di tenere il popolo nell’ignoranza dei propri diritti, fu privata di ogni possibilità di intervento sul piano religioso e sociale a favore della popolazione.

Ovviamente questa era una campagna di menzogne fatte circolare ad arte in certi ambienti per privare la popolazione di un supporto istituzionale sicuro.

Mai menzogna nel mio paese fu più ignobile di questa, in quanto i cattolici erano i più attivi nel paese. Il vivace laicato messicano aveva elaborato ambiziosi programmi di sviluppo ispirandosi all’enciclica «Rerum Novarum» di papa Leone XIII; inoltre c’erano associazioni di mutuo soccorso, patronati di beneficenza e una miriade di gruppi che si prendevano cura dei giovani e dei più poveri. C’erano anche molte cornoperative sociali, per aiutare i più bisognosi.

Ma tutto ciò non fu sufficiente a fermare la crudeltà di chi aveva preso il potere.

Certo che no. La requisizione dei beni fu accompagnata da uno spietato controllo poliziesco che impediva ogni forma di manifestazione religiosa pubblica o privata. Questo spinse prima pochi gruppi di persone, poi interi villaggi a darsi alla macchia per conservare gli ideali e i principi religiosi che da secoli caratterizzavano il popolo messicano.

Nasceva così la «Cristiada», una resistenza armata per difendere la Chiesa e i cristiani.

Questi rebeldes, come venivano definiti dal potere massonico, erano in gran parte contadini, ma tra le loro fila vi erano anche operai, impiegati, funzionari, avvocati, studenti e altra gente di città. La lotta era sostenuta, nelle aree urbane, anche da una resistenza passiva che ricorreva a boicottaggi, foiva false informazioni alle truppe federali e, nel contempo, cercava di far continuare la vita sacramentale, come era già avvenuto in passato nell’Inghilterra anglicana e, solo pochi anni prima, nella Russia sovietica.

Quale ruolo ebbero le donne in questa insurrezione?

Migliaia di donne, inquadrate nelle brigate di Santa Giovanna d’Arco, sfidando ogni sorta di pericolo, procuravano munizioni ai Cristeros i quali, lungo gli anni, erano cresciuti di numero arrivando a essere quasi cinquantamila combattenti. A causa dell’assenza dei loro uomini dai villaggi, erano loro a portare avanti il lavoro nei campi, a organizzare incontri di preghiera e a provvedere in ogni modo all’educazione dei figli.

Cosa ha contribuito a far sì che i Cristeros diventassero un’armata capace di tenere in scacco l’esercito regolare?

Enrique Gorostieta, un generale che si definiva ateo ma affascinato dall’ideale dei Cristeros, si era unito ai ribelli e in breve ne era diventato il comandante. Grazie alla sua capacità professionale i Cristeros non persero più una battaglia, sconfiggendo l’esercito federale dovunque, e tenendolo in scacco per anni, nonostante che quest’ultimo godesse di un massiccio appoggio economico e logistico da parte delle logge massoniche degli Stati Uniti.

Una guerra, anche se di difesa, comunque provoca sofferenze, lutti e distruzione.

La prova che il Messico ebbe ad affrontare fu devastante sotto ogni aspetto, il paese restò diviso tra zone controllate dai Cristeros e zone controllate dai Federali. L’economia crollò, i morti furono decine e decine di migliaia, gli storici parlano di circa centomila vittime, contando anche coloro che morirono di malattie e di fame nei campi di prigionia.

La festa religiosa di Cristo Re era stata istituita da Pio XI nel 1925. «Viva Cristo Re» fu il grido che gli insorti adottarono per sostenersi a vicenda nei conflitti che ebbero con i federali.

Il grido di «Viva Cristo Re» si udiva sempre più frequentemente e nella comunità cristiana lo si ripeteva in continuazione. Insieme a questa invocazione si gridava anche «Viva la Vergine di Guadalupe», con ciò si riaffermava la divinità di Cristo Re dell’Universo e ci si poneva con fiducia sotto la protezione della «Morenita» (così il popolo messicano chiama la Madonna di Guadalupe).

La guerra della «Cristiada», con i suoi morti, i suoi martiri e i suoi umili eroi, è poco conosciuta anche in America Latina, al di fuori del Messico è pressoché ignorata.

È vero. Eppure siamo di fronte al caso eclatante di un esercito che vince tutte le battaglie ma perde la guerra perché depone le armi su richiesta dei propri vescovi, e di riflesso della Santa Sede, che volevano evitare un ulteriore bagno di sangue specialmente alla popolazione inerme ed innocente. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros, ma la diplomazia internazionale con gli Arreglos (accordi) del ’29, che ponevano fine agli eventi bellici: la Chiesa accettava pesanti limitazioni pur di mantenere la libertà della pratica religiosa.

I cristiani messicani diedero una bella testimonianza di fede nonostante l’uragano antireligioso che si era abbattuto sul tuo paese.

Nella tormenta di quegli anni il Signore fece emergere persone meravigliose. Voglio ricordare in particolare un adolescente di appena 14 anni: José Luis Sanchez Del Rio, che si unì ai Cristeros diventandone il loro portabandiera. Nel corso di una battaglia il piccolo Josè cedette la propria cavalcatura al generale Luis Guizar Morfin perché si mettesse in salvo dicendogli: «La vostra vita è più utile della mia». Catturato dai federali non gli fu fatto nessun processo ma si accanirono su di lui percuotendolo e seviziandolo, gli spellarono le piante dei piedi, lo fecero camminare sul sale e lo condussero al cimitero, dove esasperati dalle sue continue grida:« «Viva Cristo Re», lo uccisero con un colpo di pistola.

Stessa sorte toccata anche a te o sbaglio?

Nato nel 1891, nel 1911 ero entrato nella Compagnia di Gesù. Inviato a completare gli studi in Belgio, fui ordinato sacerdote nel 1925. Venuto a conoscenza di quanto stava succedendo nella mia patria, chiesi ai miei superiori di tornare in Messico. Una volta rientrato iniziai a svolgere clandestinamente un’intensa attività assistenziale e pastorale, celebrando la Messa nelle case private e portando l’Eucaristia di nascosto agli ammalati e a coloro che me lo chiedevano (a volte oltre 500 al giorno). La mia allegria e la mia chitarra mi aprivano molte porte. Ero anche l’animatore spirituale della Liga Nacional para la Defensa de las Libertades Religiosas, una delle tante organizzazioni nate tra il popolo per resistere alla repressione anticattolica.

E quando ti scoprirono, che successe?

Nel 1927 venni arrestato con la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il generale Alvaro Obregón, candidato alla presidenza repubblicana. Ignorando tutte le testimonianze in favore della mia innocenza e senza farmi nessun processo, il 23 novembre 1927 mi portarono davanti ad un plotone di esecuzione insieme a mio fratello Humberto. Mentre i soldati scaricavano su di me il piombo dei loro fucili, consegnavo il mio corpo all’amata terra messicana e rendevo la mia anima a Dio gridando: «Viva Cristo Re».

 

Il 20 novembre 2005 papa Benedetto XVI ha beatificato sia il piccolo José Luis Sanchez Del Rio che padre Miguel Agustin Pro insieme ad altri 11 martiri di quella persecuzione decisa a estirpare il cattolicesimo dal Messico. Oggi possiamo dire che se quel paese è rimasto cattolico lo deve in gran parte a quegli umili, piccoli-grandi eroi, che sacrificarono la vita per la causa del Vangelo e per il diritto alla libertà religiosa. Va detto che gli Arreglos, ovvero gli accordi tra lo Stato Federale Messicano e la Chiesa Cattolica, posero fine alla lotta armata ma non alle malversazioni che il governo centrale continuò a esercitare sulla Chiesa e i suoi fedeli. I Cristeros che fecero ritorno alle loro case, una volta disarmati, subirono numerose e feroci vendette dai militari federali nonostante le garanzie verbali di incolumità loro promesse. Morirono più Cristeros dopo gli accordi che durante la guerra. Vi fu una caccia all’uomo spietata, la repressione andò avanti in forma surrettizia fino alla fine degli anni ’30 e la Costituzione messicana con risvolti anticlericali rimase in vigore fino al 1992.

Quando Papa Wojtyla si recò a Puebla nel 1979, per aprire i lavori dell’Assemblea dell’Episcopato dei paesi latinoamericani, fu accolto dalle autorità messicane come «Signor Wojtyla», ma il calore entusiastico della gente semplice, che Giovanni Paolo II sperimentò lungo le strade del Messico, fece capire al Papa e al mondo intero che il sacrificio dei Cristeros non era stato consumato invano.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 Video e films.

 




marzo 2016 sommario


In questo numero: il dossier n. 2 sull’Is/Daesh e i suoi combattenti; reportage sui pulitori di latrine in India; l’Atlante della Giustizia ambientale; il punto sul Burundi; Porta santa a Guiúa; l’Anno Sabatico; la cannabis; Amico e tanto di più.


Non si eliminano così anche gli ulivi?
di Gigi Anataloni | Ai lettori/editoriale

Cari Missionari
lettere a MC | Lettere dai lettori

Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto

A mani nude
di Gianluca Iazzolino | Articolo | India

Guerre minerali e … code di maiale
di Claudia Caramanti | Articolo | Myanmar /2

L’Atlante della giustizia ambientale
di Daniela Dal Bene | Articolo | Mondo

Scivolando nel baratro
di Marco Bello | Articolo | Burundi

L’Anno Sabatico (5)
di Paolo Farinella | Misericordia voglio | Bibbia

Sventola Bandiera nera (2)
di Angela Lano | Dossier | Medio Oriente

Il presidente che iniziò dal Boca
di Paolo Moiola | Articolo | Argentina /2

Una porta santa nel deserto
di Sandro Faedi | Articolo | Mozambico

Non solo fumo
di Rosanna Novara Topino | Nostra Madre Terra | Mondo

La Cooperazione nel carrello della spesa
di Chiara Giovetti | Cooperando | Mondo

Amico
di Luca Lorusso | Amico

Ipazia di Alessandria
di Mario Bandera | I perdenti | Egitto

La nobiltà umana di Ettore Scola
di Gianni Minà | Persone che conosco | Italia




siè spento il sole

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Si è spento il sole. Era mezzogiorno quando si è eclissato, e ancora non torna. Il mondo è diventato cieco. Non vediamo più nulla. Nonostante qualche lume sia stato acceso dai centurioni lassù, sotto la tua croce, da questa distanza non riusciamo nemmeno a capire se sei ancora vivo.

E il terrore che le tenebre possano davvero avere vinto sulla luce ci sconvolge. Forse mai più toeremo a vedere?

Nell’angoscia che scuote le nostre viscere ci domandiamo perché hai permesso che ti prendessero? Perché non sei sceso dal patibolo? Perché non ha dimostrato a tutti che davvero eri il Figlio di Dio? E perché Dio non ha mandato i suoi angeli a salvarti? Quasi che fosse impotente.

Ci stringiamo gli uni agli altri nel buio, per sentirci meno persi, e percepiamo quanto siamo piccoli di fronte a tanta oscurità. Perché ci hai abbandonati, Signore? Quante cose ancora non avevamo capito, quante cose ancora dovevi insegnarci? Siamo solo creature fragili, fallaci. Con te ci sentivamo invincibili. Pensavamo che non avremmo più sofferto. Né fame, né malattia, né guerra, né tristezza, né morte. Invece sei proprio tu che muori, oggi. E le tenebre ci stringono per soffocarci.

Ma ecco che l’eclissi arretra. Non era definitiva, allora. La luce torna, e disegna impietosa la forma del tuo corpo inerme. Non sei più in vita. Ci sentiamo sconfitti, eppure sentiamo inspiegabilmente una piccola pace prendere posto in noi, in mezzo all’angoscia. Eri veramente Dio, eppure veramente uomo. Veramente capace di morire. Come noi. È come se il tuo morire ci dicesse che la nostra vita è così piena di dignità, per come è, da non avere bisogno di correttivi. Nemmeno per la morte.

Vediamo Maria. È lì, sotto il tuo corpo, Signore. Schiacciata dal peso della tua sofferenza, e della sofferenza del mondo intero. Eppure sta in piedi. Riusciamo a immaginare i suoi occhi, intensi come sempre, rapiti nella meditazione del tuo mistero. Accanto a lei c’è Giovanni. Ci fa un segno. Pare chiederci di aspettare qui, insieme. Poi sentiamo la voce di Pietro che ci si era avvicinato durante l’oscurità, dopo ore che non lo vedevamo più: «Non sia turbato il vostro cuore – sembra dire più a se stesso che a noi -. Abbiate fede, abbiate fede». Lo guardiamo, stupiti all’udire quelle parole che riportano alla memoria ciò che tu ci avevi detto, Gesù. Poi ci voltiamo di nuovo verso Maria. Sta venendo, in fretta, verso noi.

Buon cammino verso la Pasqua da amico.

Luca Lorusso




Storia del Giubileo 5. L’anno sabatico


Abbiamo chiuso la puntata precedente (cfr. MC 01-2/2016, p. 28) affermando che l’AT parla di due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo. Abbiamo anche aggiunto che non bisogna confonderli, come spesso si fa, perché sono distinti tra di loro pur essendo connessi dal fatto che il Giubileo è uno sviluppo dell’Anno Sabatico. Precisiamo subito che Anno Sabatico e Giubileo, su cui tanto s’infioretta in commenti estemporanei, sono solo una «teoria» (sabatica e giubilare). Pur essendo descritto con rigorose norme dettagliate, assolutamente nulla ci garantisce che «la legge sia mai stata applicata» prima del ritorno dall’esilio di Babilonia (sec. V a.C.; cfr. R. de Vaux o.p., Les institutions de l’Ancien Testament, vol. I, 264-270, Paris, Les éditions du Cerf, 1958, qui 268).

Quest’affermazione molto impegnativa di uno dei più grandi biblisti del ‘900, che cercheremo di illustrare, è un motivo in più per evitare di leggere la Bibbia «alla lettera», che è il modo migliore per rovinarci la salute: occorre approfondire sempre i testi nel loro contesto storico e sociale. La Bibbia – non lo ripeteremo mai abbastanza – ha una storia travagliata e non è un libro scritto a tavolino, né una raccolta di codici e norme studiate in una biblioteca asettica, ma è il frutto di una lenta riflessione che nasce dalla vita per dare un senso all’esistenza, motivandola con ragioni di fede che per loro natura sono universali. Il punto di partenza deve essere la condizione socio-economica di quei tempi, cioè tutto quello che oggi chiameremmo «lo stato del welfare».

L’anno sabatico tra debiti e pegni

L’istituto «Anno Sabatico» riflette la predicazione sociale dei profeti Amos, Osea, Primo Isaia (sec. VIII-VII a.C.), specialmente nella Palestina del Sud, cioè nel regno di Giuda che ha il suo epicentro attorno al tempio di Gerusalemme. Le norme riguardanti il Giubileo invece sono codificate un paio di secoli più tardi, non prima del sec. VI-V a.C., e riflettono la situazione socio-economica del dopo esilio, quando ci fu non solo la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme, ma anche la ristrutturazione e la riorganizzazione della società nei suoi assetti economici, politici, religiosi e sociali.

 Nel NT non si parla mai né di Anno Sabatico né di Giubileo, tranne forse che in un fugace cenno in Lc 4,17-19, quando Gesù, iniziando il suo ministero, si presenta come il profeta della Misericordia di Dio, citando un passo del Terzo Isaia (61,1-2), del V sec. a.C., modificandone il senso:
«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù annunciando la «liberazione degli oppressi» che è «l’anno di grazia del Signore», tralascia l’espressione seguente del profeta: «Gioo di vendetta per il nostro Dio». Oltre a questo testo, in tutto il NT non c’è nessun altro cenno al Giubileo o all’Anno Sabatico. Nella prossima puntata parleremo dell’istituzione dell’Anno Sabatico che viene fatta prima del Giubileo biblico.

Il Deuteronomio al capitolo 15 (sec. VII-V a.C. ca.) descrive l’Anno Sabatico in relazione alle persone che sono coinvolte in una delicata e complessa questione di debiti e pegni. Per un debito contratto, uno poteva dare in pegno di garanzia la sua stessa libertà o il figlio, più spesso la figlia. Ogni sette anni, tutto questo doveva essere azzerato, ricostruendo la «status quo ante».

«1Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione (shemittàh). 2Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. 3Potrai esigerlo dallo straniero (Nokrì]); ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere. 4Del resto non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso ereditario, 5purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore, tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do» (Dt 15,1-5).

La questione era tanto complessa che si arrivò a valutare il valore delle proprietà fondiarie e patrimoniali in base agli anni che separavano dal settimo, l’anno sabatico. L’Anno Sabatico è un vero e proprio editto «di liberazione» dalla schiavitù. Nessuno che facesse debiti per necessità poteva essere ridotto in schiavitù per sempre. È la relativizzazione sia del denaro sia dei vincoli economici che devono sempre e comunque essere subordinati alla persona.

Viene spontaneo pensare – e così è – che durante l’esilio di Babilonia e specialmente dopo, al momento del rientro in patria, la norma dell’Anno Sabatico conceente gli schiavi, venisse estesa alla terra e agli animali per dare forza a una legge difficile da digerire da parte dei residenti che si trovavano di fronte i rimpatriati, i quali esigevano la restituzione delle terre che erano stati costretti ad abbandonare cinquant’anni prima, senza loro colpa.

Da parte loro, i residenti consideravano i nuovi arrivati come importuni e «forestieri» per cui la tensione sociale era alle stelle. Bisognava porre un rimedio e il legislatore ricorse all’istituto dell’Anno Sabatico che venne addirittura collocato al tempo della legislazione sinaitica, come «volontà espressa del Dio liberatore» per farla accettare da tutto il popolo.

La legislazione di Esodo e Levitico

Nel libro dell’Esodo leggiamo:

«9Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto. 10Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, 11ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. 12Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,9-12).

Il libro del Levitico dice le stesse cose, ma in modo più dettagliato:

«2Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. 6Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; 7anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà”» (Lv 25,2-7).

I testi appartengono al «codice dell’alleanza» e contengono due indicazioni, una relativa alla terra (Lv 25,2-4; Es 23,10-11) e l’altra, solo nel testo di Esodo, al riposo settimanale (Es 23,12). Tutto è racchiuso dentro un precetto che riguarda «il forestiero», assunto come misura sia della propria identità (anche voi siete stati forestieri – Es 23,9) sia del riposo che deve essere riconosciuto (è un diritto!) a tutte le categorie «fragili» esistenti in natura (animali e persone, Es 23,12).

La preoccupazione sociale di salvaguardia non concee solo le persone giuridicamente abilitate, ma anche quelle che non hanno diritti e non hanno da mangiare, come i poveri, quelle sottomesse come gli schiavi e il forestiero, ma anche gli animali domestici e selvatici. È facile dedurre che qui si afferma il principio che «Dio è padre di tutte le cose», cioè della terra nel suo insieme.

In ebraico l’espressione «non la sfrutterai» (Es 23,11) è «tishmetennàh» dal verbo «shamàt – lasciare cadere/abbandonare/rimettere»; in altre parole: quello che la terra produce nel settimo anno deve essere «lasciato cadere» cioè essere «proprietà» dei poveri e degli animali selvatici. Si afferma anche l’attenzione particolare che si deve al «forestiero» (ebraico «ghèr»; greco «prosêlytos»), citato due volte all’inizio e alla fine del testo di Esodo, quasi a volee sottolineare l’importanza, perché gli stessi Ebrei che ritornavano o che erano nati a Babilonia erano dai residenti trattati come «forestieri».

 Ghèr: lo straniero integrato e residente

Tre termini si usano nella Bibbia ebraica per definire lo «straniero»:
1. Zar/straniero oltre confine, con cui non si hanno rapporti. Siccome «nemico» in ebraico si dice «zar» (stessa radice), qui straniero e nemico sono sinonimi.
2. Nockrì/straniero nomade. È lo straniero temporaneo, quello che si ferma il tempo necessario per una sosta. È questa figura che diventa segno di Dio «che passa» e mette alla prova.
3. Ghèr è lo straniero residente che è integrato e fa parte del popolo; costui è «straniero» solo di nascita (origine). Egli è protetto giuridicamente e socialmente perché la sua presenza in terra d’Israele richiama alla coscienza del popolo di Dio di essere stato «straniero» in Egitto, oppresso e molestato dal faraone: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20).
In questo atteggiamento è già anticipata la radice dell’amore del prossimo come sarà formulata dal libro del Levitico per cui l’esperienza personale diventa misura dell’accoglienza dell’altro, posta anche come fondamento dell’identità di Dio stesso: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: Io-Sono il Signore» (Lv 19,18) che Gesù assumerà come criterio centrale di tutta la Legge e della morale del suo Regno di Dio: «Ama il Signore… ama il prossimo tuo» (Lc 10,27). Non più «due amori», uno per Dio e uno per il prossimo, ma un unico amore a perdere senza chiedere in cambio nulla: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso [ton pl?sìon h?s seautôn»] (Lc 10,27; cf Mc 12,30-31).

Una legislazione «impossibile» da applicare

Occorre domandarci, però, se una norma del genere fosse concretamente praticabile; se, infatti, si si fosse attuata in modo rigoroso, non solo si sarebbero fermate l’economia agricola e pastorale (senza nutrimento, anche gli animali morirebbero), ma si sarebbe prodotto l’effetto di distruggere l’esistenza del popolo. Gli antichi popoli che circondavano Israele, con la terra avevano un rapporto di natura «sacrale», e il riposo settennale, tramandato nella memoria collettiva fin dalla notte dei tempi, poteva essere vissuto come un atto religioso «di restituzione» alla divinità della sua proprietà: ogni sette anni si faceva riposare la terra per affermare che l’uomo non ha diritto assoluto sulla terra, ma possiede solo un usufrutto. Tutto questo è un’ipotesi perché, nella Bibbia, solo dopo l’esilio comincia a fare capolino, mentre prima non v’è alcun testo che ne parli.

Nei tempi antichi non esisteva un metodo di concimazione integrato come lo sperimentiamo oggi, per cui era necessario fare riposare la terra al fine di farle recuperare i sali e le sostanze necessarie alla coltivazione. È certo che gli Assiri e i Cananei (prima degli Israeliti), usassero sistemi di alternanza della coltivazione, per cui dove si coltivava orzo, l’anno successivo di seminavano legumi e così via. Non è strano pensare che durante l’esilio gli Ebrei ne avessero appreso l’uso insieme alle tecniche che al rientro dall’esilio introdussero in Israele.

Il metodo delle coltivazioni a rotazione, cioè a raccolti alternati, s’impose e si perfezionò in vista dell’Anno Sabatico. La proprietà terriera venne divisa in sette lotti, rendendo non solo possibile l’attuazione dell’Anno Sabatico, ma anche redditizia la programmazione del riposo sabatico: ogni sette anni, solo un lotto restava incolto mentre gli altri sei erano coltivabili.

In tempi di crisi

In questo sistema socio-economico che si è sviluppò nei secoli, si aggiunse la teologia elaborata durante lo stesso periodo. I profeti del sec. VIII, prima dell’esilio, avevano centrato la loro predicazione sulla giustizia sociale come espressione compiuta della religiosità autentica. Basta leggere Isaia, Amos e Osea per rendersi conto degli strali che venivano lanciati contro le classi agiate che sfruttavano i poveri per capire che la condanna di Dio era assoluta perché non poteva darsi alcuna religione che non si facesse carico dei problemi sociali che si affrontano solo nella «giustizia sociale», che oggi definiremmo con termine moderno «equa redistribuzione della ricchezza».

La predicazione dei profeti fu ripresa durante l’esilio (II e III Isaia), dando sviluppo a quella teologia sociale che la casta sacerdotale codificò poi specialmente dopo l’esilio stesso. Durante l’esilio, il pericolo della «secolarizzazione» era stato grande perché con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, erano crollate tutte le certezze del popolo, si era alimentata la depressione psicologica, la religione non era più un rifugio consolatorio e per di più, in terra straniera, mancavano gli strumenti per coltivare la propria identità e la stessa appartenenza religiosa. Non c’era il tempio, non vi erano più i sacrifici, non vi era più il culto; mancava tutto ciò che dava senso e vita al popolo quando viveva nella terra promessa. Terra promessa? Davvero Dio aveva fatto promesse? Dov’è Dio? Chi è Dio?

Nei tempi di crisi tutto si mette in discussione, anche le certezze che prima sembravano granitiche. Bisognava reagire, e ricostruire il cuore e la mentalità del popolo e non permettere che si rassegnasse alla disfatta. Compito della teologia sacerdotale era ricreare le condizioni per riorganizzare la religione non più attorno al tempio, che non c’era più, e alle sue attività cultuali, ma attorno alla «Parola» che sostituiva il «Santuario». Nasceva a Babilonia la «Sinagoga», cioè la casa della convocazione dell’assemblea, che si riuniva per leggere il proprio presente alla luce del proprio passato. Si ricostruirono le tradizioni e le s’inventarono anche, s’ingigantirono contenuti e portata di eventi passati che storicamente erano stati fatti appena significativi come l’esodo, come le figure dei patriarchi Giacobbe, Isacco e Abramo, ma questo appartiene alla prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(5, continua)




Non solo fumo

 


La cannabis, nella storia, ha sempre curato le malattie dell’uomo. Nell’era moderna è stata messa al bando, ma da alcuni anni le sue proprietà terapeutiche sono state rivalutate. E le leggi italiane iniziano ad adeguarsi.

La storia della cannabis o canapa (cannabis sativa) si intreccia con la storia dell’uomo, al punto tale che l’uso di questa pianta è più antico della scrittura. Le sue origini si collocano dopo l’ultima glaciazione nell’Asia centrale, da dove è riuscita a colonizzare tutto il pianeta. La canapa, coltivata in Asia da migliaia di anni è stata a lungo utilizzata nell’alimentazione e per ricavarne fibra tessile. La prima Bibbia a caratteri mobili venne stampata da Gutenberg su carta di canapa e lino.

Questa preziosa pianta è ben nota da migliaia di anni anche per le sue proprietà psicoattive e per le sue virtù terapeutiche. Per quanto riguarda queste ultime, la prima citazione dell’uso della cannabis a scopo terapeutico si trova in un testo tradizionale della medicina cinese, il Shen Nung Ben Ts’ao, che sarebbe stato composto nel 2.737 a.C. dal fondatore della scienza medica cinese, l’imperatore Shen Nung. Qui si trovano indicazioni sull’uso della pianta per la cura dei dolori di origine reumatica e gottosa, dei disturbi ginecologici e della malaria. I chirurghi cinesi impiegavano inoltre la cannabis come anestetico.

Oltre alla pianta della canapa, in Cina venivano utilizzati per scopi medici i suoi semi, come antiemetici, nelle intossicazioni e nei casi di dismenorrea, mentre l’olio e il succo da essa ricavati erano diffusamente utilizzati nella cura delle malattie della pelle, delle ulcere, delle ferite e della lebbra.

L’uso a scopo terapeutico della cannabis è riportato anche in diversi manuali di medicina ayurvedica, la medicina induista tradizionale. In India la cannabis era usata per stimolare l’appetito e per curare la lebbra.

Nell’antica Roma, la cannabis per uso medico venne introdotta nel primo secolo d.C. e le sue proprietà vennero descritte da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, da Dioscoride, scienziato e medico, nel suo De materia medica, e da Galeno, uno dei più importanti medici dell’epoca antica, che utilizzò questa pianta per il trattamento di varie patologie e che produsse la tintura galenica di canapa, la quale venne utilizzata per secoli in varie parti del mondo come analgesico e anestetico. Galeno descrisse le proprietà della cannabis e di oltre 600 tipi di piante e di altri rimedi naturali nel trattato De natura medica, che influenzò la medicina fino agli inizi del diciottesimo secolo.

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Fuori legge

Agli inizi del ventesimo secolo, diversi interessi economici come la produzione dei materiali sintetici derivati dal petrolio e lo sviluppo dei medicinali di sintesi, portarono all’introduzione negli stati occidentali di misure sempre più restrittive e orientate alla criminalizzazione della cannabis, vista solo come sostanza stupefacente. Questo determinò l’abbandono della canapa sia per la produzione di tessuti, che di rimedi farmacologici di origine naturale. Le coltivazioni di cannabis scomparvero in breve tempo e la pianta nel 1975 venne definitivamente messa al bando in tutte le sue varietà. Il clima di ostilità, che si sviluppò nel ventesimo secolo nei confronti della cannabis è ben rappresentato dal fatto che, negli Usa prima e nel resto del mondo occidentale poi, essa venne chiamata marijuana, termine che imita il vocabolo messicano marihuana, con cui viene designata la cannabis, usata come sostanza stupefacente in Messico. La demonizzazione della cannabis per molto tempo dissuase buona parte del mondo scientifico dalla conduzione di ricerche approfondite su di essa, dal momento che gli scienziati che se ne fossero occupati avrebbero rischiato la propria reputazione, per cui fino a metà del secolo scorso era ancora sconosciuto il suo principio attivo.

Finalmente un chimico organico israeliano, Raphael Mechoulam, ebbe il coraggio di intraprendere questo studio, e nel 1964 riuscì a isolare il principale principio attivo della cannabis, cioè il delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc), la sostanza con proprietà psicoattive. In seguito Mechoulam e la sua equipe riuscirono a isolare molte altre sostanze dalla cannabis, tra cui un altro componente cruciale, il cannabidiolo (Cbd), capace di modulare l’attività del tetraidrocannabinolo prolungandone l’azione e limitandone gli effetti collaterali. Questo non è il componente psicoattivo, ed è quindi senza effetti sul cervello. Questa sostanza ha una certa efficacia come anticonvulsivante, sedativo e analgesico, aiuta a contrastare il diabete, le infezioni batteriche e i tumori maligni, serve a proteggere i nervi e ha effetti documentati contro le psicosi e gli stati d’ansia. Oggi sono oltre 600 le sostanze derivate dalla cannabis e appartengono alle famiglie dei cannabinoidi, dei flavoni e dei terpeni.

Una foglia, molte proprietà

I cannabinoidi sono più di 60. Oltre ai due già citati, sono importanti: la tetraidrocannabivarina, che accelera il raggiungimento dello stato euforico, ma ne diminuisce di molto la durata e sembra utile per combattere il diabete di tipo II, oltre ad avere mostrato un effetto preventivo contro i tumori maligni; la cannabicromina, che sembra capace di combattere gli stati di depressione e le infiammazioni e ha mostrato un effetto inibitore nei tumori al seno e nella leucemia. L’industria farmaceutica ha prodotto diversi cannabinoidi sintetici, ma questi sembrano mostrare minore efficacia e maggiori effetti collaterali rispetto ai derivati naturali. L’equipe di studiosi israeliani, non solo riuscì a scoprire i principi attivi della cannabis, ma nel 1992 riuscì a isolare la sostanza prodotta dal corpo umano che si lega agli stessi recettori del tetraidrocannabinolo, a cui dette il nome di anandamide, dal termine sanscrito ananda, che significa «gioia suprema», il primo endocannabinoide scoperto.

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Leggeri effetti collaterali

In pratica il sistema degli endocannabinoidi regola l’assorbimento energetico del nostro organismo, il movimento dei nutrienti, il loro metabolismo e la loro conservazione. Gli endocannabinoidi regolano diverse funzioni del sistema nervoso, dell’apparato cardiovascolare, del sistema riproduttivo e del sistema immunitario. Inoltre essi aiutano il nostro sistema nervoso a comunicare, funzionando da messaggeri tra una cellula e l’altra.

Le sostanze ricavate dalla cannabis, in primis il delta-9-tetraidrocannabinolo, avendo la capacità di legarsi agli stessi recettori degli endocannabinoidi, possono risultare di estrema utilità nella cura di un numero importante di patologie, senza i pesanti effetti collaterali di molti farmaci di sintesi. Tra le patologie per le quali esistono evidenze incontrovertibili dell’efficacia dei derivati della cannabis ci sono il trattamento della nausea in chemioterapia e la stimolazione dell’appetito nei pazienti con sindrome da deperimento Aids-correlata.

Ci sono poi patologie per cui esistono promettenti evidenze preliminari di efficacia dei derivati della cannabis, per le quali sono necessarie sperimentazioni cliniche controllate, cioè: sclerosi multipla, terapia del dolore, sindrome di Gilles de la Tourette, glioblastoma, artrite reumatornide, glaucoma, epilessia, ictus e traumi cranici, prevenibili grazie agli effetti neuro protettivi e antiossidanti.

Infine c’è un gruppo di patologie per le quali esistono evidenze di efficacia meritevoli di ulteriori approfondimenti, che sono: lesioni midollari (paraplegia, tetraplegia), malattie neurodegenerative (distonie, Parkinson, corea di Huntington, Alzheimer), asma bronchiale, malattie autornimmuni e patologie infiammatorie croniche (lupus eritematoso, morbo di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi), sindromi ansioso-depressive e altre sindromi psichiatriche, patologie cardiovascolari, sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze, prurito intrattabile, tumori.

Gli effetti collaterali sono gli stessi per tutti i farmaci a base di cannabinoidi e dipendono dalla dose e dalla condizione psicofisica del paziente, ma solitamente scompaiono nel giro di poche ore. Tra i più comuni ci sono le temporanee alterazioni dell’attività psichica (euforia, sedazione, ansia, alterata percezione del tempo, depressione, prestazioni cognitive diminuite) e motoria (debolezza muscolare), accelerazione della frequenza cardiaca, ipo salivazione, labile stabilità ortostatica. Non sono noti casi di morte riconducibili all’uso di cannabis.

Nuove leggi

Negli ultimi anni sono sempre di più i paesi che, mediante leggi meno restrittive, hanno consentito l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dalla cannabis. In Italia, il decreto Dm 18 aprile 2007, che prevedeva l’aggiornamento delle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope, ha stabilito l’inserimento nella sezione B della tabella Medicinali, di almeno tre sostanze derivanti dalla cannabis. Inoltre il Dm 23 gennaio 2013 ha disposto l’inclusione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture) nella sezione B. Questo significa che anche il medico di base può prescrivere cannabis e derivati per trattamenti domiciliari. I costi della cura non sono a carico del paziente, ma del sistema sanitario regionale, grazie a una legge regionale adottata da Sicilia, Abruzzo, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Lombardia e Piemonte, non ostacolata dal governo, che però ha ribadito che i farmaci in questione vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

View of a marijuana plant, part of the weed plantation with 18,000 plants who has been found in a forest, near the German border, in Reuver, The Netherlands, on August 26, 2014. The street value of 18,000 plants fluctuates around 20 million euros. AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN ***netherlands out*** / AFP / ANP / MARCEL VAN HOORN
AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN

Italia, un passo indietro

Esiste però un problema rappresentato dal fatto che l’utilizzo dei farmaci a base di cannabis e derivati è ancora particolarmente difficoltoso per la quasi totale assenza sul mercato italiano di prodotti registrati e materie prime. Finora, in Italia, un solo prodotto cioè il Sativex, ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio, ma è stato inserito in classe H, quindi è disponibile solo presso gli ospedali. Per tutti gli altri prodotti a base di cannabis e derivati, è necessario ricorrere all’importazione dall’estero. Tali prodotti possono essere utilizzati sul territorio nazionale importandoli direttamente, oppure acquistandoli tramite alcune aziende italiane, che sono state recentemente autorizzate al commercio all’ingrosso di preparazioni vegetali a base di cannabis. L’acquisto di medicinali registrati all’estero non deve gravare su fondi pubblici, tranne nel caso che l’acquisto venga richiesto da una struttura ospedaliera, per l’impiego in ambito ospedaliero.

La Regione Piemonte il 15 giugno 2015 ha però approvato la legge regionale n. 11, la quale prevede, rispetto alla normativa nazionale, che quando la terapia a base di medicinali cannabinoidi e preparazioni galeniche magistrali avviene in ambito domiciliare, la spesa per tale terapia sia a carico del servizio sanitario regionale. Questa legge definisce inoltre la possibilità di centralizzare acquisti, stoccaggio e distribuzione dei farmaci alle farmacie ospedaliere abilitate territoriali, dove il cittadino può accedere gratuitamente ai trattamenti prescritti, in modo da ridurre la spesa pubblica.

Per ridurre i costi dell’importazione dei farmaci cannabinoidi è stato approvato nel 2014 un progetto di produzione in Italia presso lo stabilimento farmaceutico militare toscano, ma al momento quest’ultimo non ha ancora reso disponibili questi farmaci.

Medicina sì, fumo no

In Italia oggi, il via libera alla cannabis per uso medico non significa libera coltivazione della pianta, né libero consumo con il fumo di preparazioni vegetali. Non va dimenticato che l’assunzione degli stessi principi attivi attraverso il fumo comporta un’assunzione di dosaggi non riproducibili e non prevedibili, poiché dipendenti da diverse variabili individuali e ambientali, senza alcun vantaggio terapeutico, ma con il rischio di una progressiva riduzione delle capacità cognitive e, negli adolescenti, di un’aumentata predisposizione all’insorgenza di malattie psichiatriche. Secondo recenti studi, la cannabis, se usata in questo delicato periodo, può alterare lo sviluppo cerebrale, riducendo la formazione di solchi e di circonvoluzioni della corteccia cerebrale e lo spessore di quest’ultima.

Rosanna Novara Topino

 




La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Ipazia d’Alessandria

PAZIA dIpazia, figlia del responsabile della famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, Teotecno detto Teone, visse negli anni a cavallo del IV e V secolo dopo Cristo, epoca in cui la decadenza dell’Impero Romano cominciava a farsi sentire, mentre in contemporanea nasceva un nuovo ordine politico e sociale. Filosofa, astronoma e matematica, Ipazia era una stimata studiosa e un simbolo di tolleranza nella sua città cosmopolita. Sebbene le sue opere scientifiche siano andate perdute, la testimonianza che ci ha lasciato è quella di una donna forte che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e allo studio pur vivendo in un’epoca di scontri religiosi e in cui tendenze culturali differenti si contrapponevano ferocemente.

Ritratto-immaginario-di-IpaziaIpazia, sei stata una donna fortunata, non solo perché Teone, tuo padre, era il responsabile della biblioteca di Alessandria d’Egitto, ma anche perché sei cresciuta in quella che ai tuoi tempi era ritenuta la capitale del sapere dell’Impero Romano.

La mia città natale, per quei tempi, era veramente un contenitore eccezionale dello scibile umano, basti pensare che nella famosa biblioteca erano conservati più di cinquecentomila volumi e rotoli in cui era contenuto tutto il sapere prodotto fino a quel tempo nel mondo allora conosciuto. Grazie a questa particolarità, Alessandria era ritenuta uno dei principali poli culturali ellenistici.

Ma oltre a questo mondo accademico culturalmente ricco e vivace che ti circondava, hai potuto conoscere altre realtà dell’Impero?

Feci dei viaggi in Grecia e in Italia, venendo così a contatto con gli illustri pensatori e filosofi dell’epoca, ero stimolata poi da mio padre affinché approfondissi gli studi e accrescessi il mio bagaglio culturale. Mi attirò molto la scuola neoplatonica che studiai a fondo, tanto da diventare insegnante di questa corrente filosofica oltre che di matematica.

Possiamo dire che benché fossi una donna diventasti un’autorità e un indiscusso punto di riferimento culturale nello scenario dell’epoca?

Lo studio mi appassionò sempre, fin da bambina, e una volta raggiunti certi traguardi scrissi trattati di matematica e compilai anche tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti che ebbero un notevole rilievo.

È vero che insieme a tuo padre fosti l’autrice di un commento in tredici volumi sull’Almagesto di Tolomeo, una mastodontica opera che conteneva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’antichità?

Non solo, mi occupai anche di meccanica e di tecnologia applicata, arrivai persino a costruire uno strumento per determinare il peso specifico di un liquido e a progettare un astrolabio che serviva per calcolare il tempo, per definire la posizione del sole, delle stelle e dei pianeti.

Una donna colta come te era una rarità in quei tempi caratterizzati dalla misoginia aristotelica. Per questo venivano da ogni parte dell’Impero per ascoltare le tue lezioni…

Alcuni ritenevano che, dal punto di vista filosofico, io avessi aperto dei sentirneri nuovi che prospettavano un orizzonte sconfinato per quanto riguardava l’intelligenza umana. Questo in germe fu l’origine dello scontro con la nuova religione che si andava diffondendo, ovvero il cristianesimo, in quanto i più fanatici del gruppo neoplatonico ritenevano inconciliabile il razionalismo che affondava le sue radici nella filosofia greca con il cristianesimo.

La nomina del vescovo Cirillo a patriarca di Alessandria nel 412, fu una vera iattura non solo per te ma per l’intero mondo alessandrino.

Io non riesco a capire come una religione fondata sull’amore e sulla misericordia di Dio, potesse indurire a tal punto il cuore degli uomini. I cristiani che uscivano da secoli di persecuzione, una volta raggiunto il potere si comportavano esattamente come gli altri. Cominciarono col cacciare gli ebrei della città e iniziarono una metodica epurazione degli «eretici» neoplatonici.

Per te, pagana dalla condotta e morale irreprensibile, maestra e punto di riferimento per il mondo culturale, non solo della tua città, non dovevano esserci problemi, anche se ti trovavi a vivere in mezzo a tensioni non indifferenti.

La situazione in città diventava ogni giorno più critica: i cristiani, incredibile ma vero, erano sempre più intolleranti. Dopo aver avuto con l’Imperatore Costantino nel 313 il permesso di praticare la propria fede alla luce del sole, con l’editto di Teodosio nel 380, che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dello stato, divennero il gruppo dominante in grado di influire sulle scelte dell’Imperatore e di imporre la propria volontà anche a quelli che cristiani non erano. Questo loro atteggiamento influenzò in modo deleterio tutta la vita sociale della città.

Infatti il vescovo Cirillo entrò in rotta di collisione con il prefetto Oreste che cercava di mantenere l’ordine sul territorio.

È vero, Oreste, incapace di mantenere l’ordine in città dopo che gli ebrei, una notte, massacrarono molti cristiani, e di conseguenza, il vescovo li aveva fatti cacciare confiscando i loro beni, chiese l’intervento dell’Imperatore d’Oriente Teodosio II a Costantinopoli. L’imperatore però, influenzato dalla sorella Pulcheria, non soddisfò le richieste di Oreste. Pulcheria era molto legata al vescovo Cirillo di cui si considerava discepola e, di fatto, agiva come se fosse l’imperatrice perché il fratello era ancora minorenne.

Cirillo nella sua ottusa e rigida visione religiosa del mondo mal sopportava il consenso e la stima che buona parte della società del tempo ti attribuiva.

Con il passare del tempo si convinse che l’ostacolo maggiore all’affermazione del messaggio della nuova religione fossi proprio io, e incominciò a ostacolarmi e diffamarmi in tutti i modi possibili e immaginabili.

Si può dire quindi che il mandante del tuo assassinio sia stato proprio lui?

Egli istigò un gruppo di monaci parabolani, una confrateita cristiana che nella Chiesa alessandrina si dedicava alla cura dei malati, specie degli appestati, e alla sepoltura dei cadaveri, sperando così di morire per Cristo. Tra i compiti che si erano attribuiti c’era anche quello di difendere il vescovo e gli altri cristiani.

Com’è che ti catturarono?

Mi tesero un agguato e, dopo avermi legata, mi trascinarono fino alla chiesa che era stata costruita sopra il Cesareion (un tempio sacro a Cesare), quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano. Strappatemi le vesti, mi scorticarono fino alle ossa con ostrakoi (conchiglie di ostrica o cocci di vasi o di tegole). Dopo avermi fatto letteralmente a pezzi, trasportarono i brandelli del mio corpo in un posto detto Cinaron e bruciarono il mio cadavere per non lasciare tracce.

Considerando il clima di terrore che Cirillo aveva instaurato, ovviamente nessuno aprì un’inchiesta sul tuo assassinio.

Per la verità il prefetto Oreste chiese che fosse fatta luce su quanto era accaduto. L’Imperatore da Costantinopoli mandò ad Alessandria un suo emissario per approfondire la faccenda, ma questi, come giunse in città, fu contattato da Cirillo che lo corruppe con una forte somma di denaro. Con la sua richiesta Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l’ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili.

Quindi il tuo sacrificio rischiava di essere dimenticato?

Fu un filosofo neoplatonico, Damascio, che, quasi un secolo dopo, incolpò Cirillo del delitto. Uno storico ariano mio contemporaneo, affermò che il mio assassinio non fu opera di un linciaggio della folla come si volle far credere, ma di alcuni fanatici appartenenti a un gruppo di monaci che aveva trasformato il messaggio cristiano in un’ideologia da imporre a ogni costo, anche con la forza, spadroneggiando sulla città e tutti i suoi abitanti. Certo è che Cirillo, anche se non direttamente responsabile della mia morte, colse l’occasione per cancellare ogni memoria di me, ordinando la distruzione di tutti i libri da me scritti e degli strumenti scientifici da me inventati.

Dopo la tua morte, Alessandria si avviò a una rapida decadenza perdendo tutto lo splendore che faceva di quella città egiziana una perla dell’Impero Romano.

Non solo, oltre alla decadenza della città ci fu anche il crepuscolo del pensiero greco, la filosofia neoplatonica venne addirittura tolta dall’insegnamento dall’Imperatore Giustiniano, un fatto che ebbe ripercussioni negative non solo sulla città ma sull’intero mondo romano bizantino.

 

La figura e la testimonianza di Ipazia si staglia lungo i secoli fino ai nostri giorni. Essa viene ricordata ancora oggi come la prima donna filosofa e matematica della storia. Bisognerà attendere il diciottesimo secolo, il secolo dei lumi, per trovare altre donne come lei, quali furono Maria Agnesi e Sophie Germain, studiose e insegnanti matematica e filosofia.

Nel celebre affresco di Raffaello: «La scuola di Atene» l’unica figura femminile rappresentata, secondo gli esperti, è proprio lei: Ipazia di Alessandria.

La_scuola_di_Atene. Ipazia
La_scuola_di_Atene. Ipazia

Nota redazionale.

La storia di Ipazia ha avuto nuova popolarità nel 2010 all’apparire del film «Agorà», pellicola diretta dal regista cileno premio Oscar Alejandro Amenabar incentrata sulla vita della filosofa neoplatonica barbaramente uccisa da monaci cristiani nel V secolo (vedi foto qui sopra).

Nell’intervista immaginaria di queste pagine, è stata scelta una posizione molto critica nei confronti dei cristiani e del loro vescovo Cirillo. In realtà è impossibile descrivere in poche pagine la complessità della situazione del tempo e soprattutto riuscire a spiegare bene quello che realmente è successo. L’assassinio di Ipazia, certo vittima di fanatismo e intolleranza, si colloca in un periodo particolarmente convulso e teso della vita di Alessandria, sia dal punto di vista politico che religioso. Un certo revival pagano, l’ostilità degli ebrei che avevano perpetrato un massacro di cristiani e la presenza di gruppi di monaci con una religiosità al limite dell’eresia, non facilitavano le cose. Inoltre Cirillo di Alessandria non è stato un villano fanatico qualunque, ma un santo amato e venerato dalla Chiesa sia cattolica sia ortodossa come «padre della Chiesa» e maestro della fede. Una visione che stride con quella che lo descrive come mandante frustrato e geloso di un assassinio così brutale.

L’unico autore contemporaneo ai fatti che ne scrive, Socrate Scolastico (380-440ca.), nel suo racconto non accusa Cirillo dell’assassino, anche se conclude che essi causarono «una non piccola ignominia» sia al vescovo che a tutta la comunità cristiana di Alessandria. È solo Damascio (458-538), un filosofo neoplatonico che ha scritto la sua storia quasi un secolo dopo, ad accusare apertamente Cirillo.

In rete si può trovare del materiale per l’approfondimento. Da notare che in Wikipedia i testi in italiano sono molto poveri e un po’ partigiani, mentre nella versione inglese si trova una documentazione più articolata e approfondita.
Interessante pure l’articolo Ipazia di Alessandria: verità e menzogne, pubblicato in mirabilissimo100.wordpress.com il 6 maggio 2010.