Perderci e ritrovarci


Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa.

Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21).

Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.

Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.

Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.

Mi sono perso in me, allora, e non ti ho più riconosciuto. A chi mi domandava se fossi tuo amico, rispondevo di no. E non mentivo: davvero ti guardavo nel cortile di Anna e stentavo a dire di te che tu mi amavi e che io ti amavo.

Ti ho perso mentre venivi innalzato e io rifiutavo di vederti così lontano, diverso, distinto da me, così altro. Totalmente te.

Mi avevi chiamato a una prossimità intima. Ora mi chiamavi a un distacco, a una distanza che ti rivelava per ciò che sei, che mi svelava per ciò che sono.

Una distanza ancora più intima che suggerisce quanto non sia automatico, necessario o inesorabile che io e te ci amiamo.

Una trascendenza che ci chiede di sceglierci. Di nuovo. Ancora.

Lo capisco ora, masticando questo pesce arrostito.

Meraviglia!

Mentre tu sei totalmente tu e io sono totalmente io, mi chiedi se ti scelgo, mi dici che mi scegli. «Pasci le mie pecore» e, come il primo giorno, «seguimi», perché mi prendi con te e dove tu sei sarò anche io.

Buon mese missionario, in intima prossimità e alterità con Lui, da amico

Luca Lorusso

 




L’avidità si paga


Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

L’impronta sul calendario

L’overshoot day prende spunto dall’«impronta ecologica», l’indicatore che misura la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi. E se, d’istinto, siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici in essa sono molto più ampi.

Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla mobilia fatta di legno, agli edifici e le strade che occupano suolo, ai medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto (in apparenza) più sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare in automobile o per accendere una lampadina.

Troppo spesso dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo del motore, emettiamo anidride carbonica (CO2), un veleno di cui non ci diamo pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercelo di mezzo grazie all’attività delle piante. Ma non in maniera infinita. Sicuramente non abbastanza da poter assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dalla combustione dei 16 miliardi di litri di petrolio che consumiamo giornalmente a livello mondiale. Basti dire che per sbarazzarci della CO2 che produciamo bruciando un solo litro servono cinque metri quadrati di foresta.

A livello planetario la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre arabili, ammonta a poco più di 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità ne richiedono all’incirca 22. Un deficit di dieci miliardi di ettari che l’overshoot day rappresenta per mezzo del calendario.

Attestato che ogni giorno ci servono 58 milioni di ettari di terra fertile, l’overshoot day ci indica il giorno dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che ogni anno raggiungiamo qualche giorno prima. Nel 1987 l’overshoot day arrivò il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre, nel 2023 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intera annata. Parola dell’istituto ambientalista americano Global footprint network.

La terra disponibile e quella consumata

Come si possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto di prodotti naturali. Ma, paradossalmente, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che, da vari decenni, emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno 37 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in grado di assorbirne solo 20, un bilancio negativo annuale di 17 miliardi di tonnellate che, accumulandosi in atmosfera, fa aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima.

Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ognuno di noi ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile.

Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà, i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa: quasi il doppio della quantità disponibile.

Ma, se possibile, la realtà è ancora peggiore, perché le medie non danno mai il vero quadro della situazione.

Analizzando le elaborazioni effettuate dalla Footprint data foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale.

Peso e colpe dei paesi

Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) e India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9. Per l’Italia l’impronta è pari a 4,3: questo significa che, nel 2023, abbiamo raggiunto la data di esaurimento delle risorse con oltre due mesi d’anticipo rispetto a quella mondiale, il 15 maggio.

Invocando la responsabilità collettiva, i paesi ricchi sostengono che è compito di tutti risolvere la crisi ambientale che abbiamo provocato. I numeri ci dicono però che il problema non è stato creato da tutti, ma solo dalla parte più ricca, per cui tocca a lei porvi rimedio, accettando di ridurre la propria impronta ecologica. Non solo per una questione di sostenibilità, ma anche di equità. Perché i poveri potranno salire solo se i ricchi accettano di scendere. È la legge dei vasi comunicanti.

Come italiani, ad esempio, dobbiamo ridurre la nostra impronta di quasi due terzi per riportarla nel perimetro della sostenibilità. Per capire dove intervenire, dobbiamo analizzare come è composta, ossia per quali ragioni utilizziamo terra fertile. Se togliamo le esigenze legate al legname (11%) e all’edificazione (1%), rimangono l’alimentazione, che contribuisce per il 28%, e l’assorbimento di anidride carbonica che contribuisce per il 60%. Dunque, è principalmente su questi due ultimi fronti che dobbiamo intervenire.

Il peso del cibo (e quello della carne)

Rispetto al cibo, la sfida è l’eliminazione degli sprechi intesi sotto due profili: ciò che buttiamo per le nostre negligenze e ciò che buttiamo per i nostri cattivi stili di vita.

Secondo la Fao, ogni anno, a livello mondiale si perde il 31% della produzione agricola: per il 14% a causa delle inefficienze e il 17% a causa delle nostre disattenzioni. Le inefficienze riguardano le perdite che avvengono nelle fasi di raccolta, di stoccaggio, di trasporto e di lavorazione delle derrate agricole: prodotti perduti perché mal conservati, mal trasportati, mal lavorati. Secondo il Wwf, in Italia le inefficienze, comprendenti anche ciò che è buttato dai supermercati, provocano la perdita di 4 milioni di tonnellate di cibo all’anno. A cui va aggiunto ciò che buttiamo nelle nostre case. Dalle indagini condotte dal gruppo di ricerca Waste watcher, risulta che, ogni anno, fra le mura domestiche vengono gettati 27 chili e mezzo di cibo a testa. Dato che, riportato a livello nazionale, da qualcosa come 1,6 milioni di tonnellate di cibo gettato nella pattumiera.

In parte perché scaduto a causa del fatto che gestiamo male i nostri acquisti; in parte perché non mangiato a causa del fatto che non gradiamo consumare gli avanzi dei pasti precedenti. La conclusione è che, in Italia, il solo spreco domestico corrisponde ogni anno a un milione e mezzo di ettari di terra agricola. Ettari che potrebbero essere risparmiati con una gestione più accorta della nostra spesa, del nostro frigo, della nostra cucina. Molto altro terreno potrebbe essere risparmiato scegliendo di mangiare sobrio. Soprattutto riducendo il consumo di carne, in modo da recuperare cereali e leguminose per l’alimentazione umana diretta. Oggi, a livello mondiale, il 40% dei cereali e l’80% della soia sono dati in pasto agli animali. Se ci aggiungiamo i pascoli, scopriamo che l’allevamento animale utilizza quasi l’80% delle terre agricole mentre fornisce solo il 20% delle calorie consumate dall’intera umanità. In conclusione, secondo i calcoli effettuati da Our World in data, se l’umanità adottasse una dieta solo a base di vegetali, potrebbe utilizzare il 75% di terra agricola in meno rispetto a oggi.

Il peso della CO2

Veniamo ora all’aspetto più ingombrante dell’impronta ecologica, l’eccessiva produzione di anidride carbonica. Tutti concordano che la soluzione è la transizione energetica. Ossia il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma sulle politiche da seguire ci sono due linee di pensiero. Quella del potere costituito secondo il quale il problema è solo tecnologico e quella dei critici secondo i quali il problema è anche di misura. La parola d’ordine del pensiero dominante è cambiare tecnologia e continuare a vivere nel consumismo. La parola d’ordine dei critici è cambiare tecnologia e, al tempo stesso, ridurre i consumi. Una posizione, quest’ultima, derivante da una constatazione e una convinzione.

La constatazione che i limiti del pianeta non riguardano solo la terra fertile, ma anche l’acqua e i minerali. La convinzione che a questo mondo non esistiamo solo noi opulenti ma anche una sterminata umanità che ha diritto a vivere meglio e una vasta progenie che ha diritto a ereditare una terra vivibile.

Due diritti che possono essere garantiti solo se gli opulenti smettono di dedicarsi al saccheggio in un pianeta dai contorni molto fragili.

Le strade da intraprendere

Di qui la necessità di passare non solo dai fossili alle rinnovabili, ma anche dallo spreco alla sobrietà. Obiettivo che si raggiunge in parte convertendosi al riciclo e al recupero, ma anche limitando i nostri consumi e cambiando modo di soddisfare i bisogni.

Parlando di mobilità, ad esempio, se da una parte dovremo accettare di muoverci di meno con andatura più lenta, dall’altra dovremo rinunciare al mezzo privato, anche se elettrico, e sviluppare al contrario una forte rete di mezzi pubblici.

Fino ad ora la discussione è stata fra sviluppo sostenibile e insostenibile e ne abbiamo fatto solo una questione di tecnologia. Ma la vera scelta è fra sviluppo egoistico e sviluppo altruistico ed è anche una questione di quantità.

Francesco Gesualdi

 




Rosario Livatino: sub tutela Dei


Da qualche mese sta girando in tutta Italia una bella mostra, presentata per la prima volta al Meeting di Rimini nell’estate del 2022, con il titolo «Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino»(1).

Chi è questo giovane giudice, morto il 21 settembre 1990 sotto i colpi della mafia siciliana? E perché è stato beatificato – primo giudice nella storia della Chiesa – il 9 maggio 2021?

Ecco qualche breve cenno sulla vita e sul pensiero di una figura che merita di essere conosciuta sempre di più, non solo come beato, ma anche come professionista.

Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Figlio unico di due genitori benestanti, le sue radici affondano nella fede e nel diritto. Il nonno, già laureato in giurisprudenza, era stato sindaco del paese negli anni Venti e si era dimesso con l’avvento del fascismo; il padre Vincenzo, anch’egli giurista, lavora nell’esattoria comunale. La madre, Rosalia Corbo, donna profondamente cristiana, è parente del venerabile cappuccino Gioacchino La Lomia, missionario in Sud America e morto a Canicattì negli anni Trenta in odore di santità.

Terra di contraddizioni

Rosario vive in una terra di provincia, una sorta di isola nell’isola, ricca di contraddizioni. Tra i fermenti letterari di un Pirandello o uno Sciascia, si alternano le vicende della mafia agrigentina che ha le sue propaggini anche a Canicattì.

Per capire il contesto in cui cresce il futuro giudice, basti pensare che, al piano di sopra dello stabile di famiglia, vive il boss mafioso Giuseppe Di Caro, il quale deciderà di far murare l’ingresso comune per non incontrare Rosario che spregiativamente definirà «santocchio».

A scuola Rosario si distingue per bravura e sete di conoscenza. Guardato con stima e simpatia dai compagni del liceo classico da lui frequentato a Canicattì, non si sottrae alle richieste di aiuto per spiegare una lezione particolarmente complicata o ripassare prima delle verifiche.

Di natura riservata e umile, non ama apparire ma è particolarmente maturo e ha le idee chiare. La professoressa Ida Abate racconterà: «All’ultimo anno si chiedeva ai ragazzi di maturità: ma tu cosa pensi di fare, adesso? Giurisprudenza, rispose Rosario dolcissimo.
Mi ricordo che gli chiesi: forse perché papà e anche il nonno sono laureati in Giurisprudenza? No, perché voglio difendere la collettività»(2).

La laurea in Giurisprudenza a Palermo arriva infatti nel 1973 con lode; ne seguirà una seconda in Scienze Politiche.

Rosario Livatino alle elementari (il quarto da sinistra nella fila centrale)

«S.t.D»

L’acronimo S.t.D., che compare più volte nelle sue agende, fa l’esordio sul frontespizio della tesi di laurea in diritto penale. Non si tratta di una sigla misteriosa per indicare nomi in codice (come ipotizzano inizialmente gli inquirenti), bensì dell’invocazione «Sub tutela Dei»: un auspicio che riflette una fede radicata, ma anche il desiderio di essere illuminato e protetto in una professione di cui avverte con vertigine le gravi implicazioni.

Per un breve periodo infatti è vicedirettore all’Ufficio del registro di Agrigento, ma già nel 1978 vince il concorso di magistratura.

Queste le parole riportate, con inchiostro rosso, nella sua agenda il 18 luglio 1978: «Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».

Per comprendere l’approccio di Rosario Livatino al ruolo di magistrato, è molto significativo riprendere una delle due confe
renze pubbliche tenute da lui e ancora conservate, in particolare quella che si svolge il 30 aprile 1986 all’istituto Suore vocazioniste di Canicattì, dal titolo «Fede e diritto»: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare […]. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio […]. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che gli affida una somma così paurosamente grande di potere – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».

Livatino con la famiglia

Guerra alla mafia

Negli anni ’80 imperversa in Sicilia la seconda guerra di mafia, che vede nel 1984 l’affermarsi del clan dei corleonesi di Totò Riina. Poco dopo nasce nell’agrigentino una nuova «famiglia» mafiosa, di nome «stidda», che si contraddistingue per una organizzazione non verticistica ma paritaria, sulla base di federazioni tra gruppi più o meno consolidati nei vari comuni siciliani della zona.

Livatino si mostra fin da subito deciso nel perseguire vecchie e nuove formazioni mafiose, inclusi i rappresentanti di Canicattì (è sua la condanna di Alessandro Ferro, che abita a pochi passi da casa sua, a 12 anni di reclusione).

Le grandi difficoltà riscontrate nell’amministrazione della giustizia sono legate a un contesto normativo ben più complicato dell’attuale: negli anni ‘80 infatti non esistono né la procura nazionale e né le procure distrettuali antimafia, e le indagini risultano spezzettate tra procure con continue fughe di notizie; non esistono i collaboratori di giustizia (i cosiddetti «pentiti» – la prima norma significativa sul tema è del 1991), né associazioni antiracket, né tanto meno il 41bis, che oggi prevede il carcere duro e l’isolamento per i mafiosi. È frequente che proprio in carcere si alimentino le relazioni tra i malavitosi; risulta che persino l’omicidio di Livatino sia stato architettato tra mura penitenziarie.

In questo difficile contesto, Rosario non si tira indietro, anzi: magistrato molto preparato, sempre disponibile ad aiutare i colleghi nello svolgimento delle loro mansioni e nella conoscenza del contesto, è assai stimato nel suo ambito, tanto da ricoprire per ben due volte, nonostante la giovane età, il ruolo di segretario della sottosezione agrigentina dell’Anm (Associazione nazionale magistrati).

Interpreta le sue funzioni in modo integerrimo e nel riserbo più assoluto, senza concedere mai interviste – per questo non è molto apprezzato dai giornalisti locali. Rifugge, al contrario di alcuni colleghi, le correnti e gli avvenimenti mondani, ed evita di parlare di lavoro anche tra parenti e amici.

Magistrato «stile Livatino»

Nella seconda conferenza pubblica tenuta da Livatino, emerge con chiarezza il ritratto del magistrato «secondo Livatino». Questi deve tenere una condotta di vita consona sia in privato che in pubblico, pena la mancanza di autorevolezza agli occhi dalla comunità civile: «Nella sua vita di relazione e cioè nei rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive […] è importante che egli offra di se stesso l’immagine di una persona seria, […] equilibrata, […] responsabile, […] comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come fossero sue e difendere davanti a chiunque. Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre»(3).

Memorabile è il rispetto che Livatino nutre verso gli avvocati e verso gli stessi imputati. La polizia penitenziaria resta stupita nel vederlo, un giorno di Ferragosto, recarsi personalmente in carcere per consegnare un mandato di scarcerazione: è infatti inconcepibile per lui dover rimandare anche soltanto di poche ore la libertà di un detenuto, una volta giunta la fine della detenzione prevista per legge.

Leggendo le sue sentenze si resta stupiti per la cura del dettaglio e per la conoscenza del contesto, nonché di settori – come quello economico o ambientale – non di sua stretta competenza. È tra i primi, per esempio, a dare il giusto peso al sequestro dei beni dei mafiosi, consapevole che la mafia debba essere colpita innanzitutto nel patrimonio.

Personalità trasparente

D’altra parte, il lavoro è il riflesso del suo modo di condurre la vita privata. Ce lo testimoniano amici e parenti, ma anche le sue agende annuali nelle quali è solito appuntare gli incontri e le incombenze quotidiane, alcune riflessioni sui fatti pubblici e privati cui assiste, e persino il bilancio di ogni mese (positivo, negativo, incerto): ne emerge una personalità trasparente, molto affezionata alla famiglia e autenticamente umana (come quando riporta il desiderio di approfondire qualche conoscenza femminile e le delusioni amorose).

Racconta di un compagno di classe che, avendolo incontrato in Tribunale, lo salutò con l’appellativo «signor giudice». Livatino, dopo averlo chiamato in privato, gli disse: «Ricordati che per gli amici io sono sempre Rosario»(4).

Negli anni 1984 e 1985 vive un periodo di grande aridità, che da tanti viene definito come una vera e propria «notte oscura dell’anima»: gli appunti nell’agenda si diradano fino a scomparire e Rosario, pur continuando la sua frequentazione della Chiesa, evita di comunicarsi. Scrive: «Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?»(5).

Probabilmente incidono alcune delusioni nell’ambito lavorativo, e la crescente consapevolezza dei rischi che il suo lavoro implica, tanto che – a chi gli chiede come mai non pensa a farsi una famiglia – risponde di non voler lasciare una vedova e degli orfani(6).

Pronto alla prova

Nel 1986 la crisi viene superata e il magistrato annota in agenda che ha ripreso a frequentare l’Eucarestia: forse ha deciso di accettare quello che la vita gli chiede, pur con tutti i rischi che corre? Non lo sappiamo, possiamo solo provare a immedesimarci con le difficoltà che sicuramente si trova a fronteggiare ogni giorno.

Certo è che due anni dopo Livatino decide di avanzare la richiesta della Cresima, sacramento che in Sicilia solitamente non si riceve in età infantile ma nel contesto di scelte mature e di circostanze particolari. Qualcuno ipotizza che possa avere inciso nel settembre 1988 la morte del giudice Saetta e di suo figlio Stefano. La richiesta della Cresima è della settimana successiva. Ad ogni modo nulla di certo si sa sui motivi più profondi che spingono Rosario a compiere questo passo, senza peraltro approfittare di iter particolari di preparazione, com’era nel suo stile. Una ipotesi la avanza il vaticanista Luigi Accattoli: «Lui sa già a quella data che sarà ucciso e si prepara chiedendo la Cresima come il sacramento dell’età adulta, il sacramento quindi per affrontare anche la prova massima del sangue»(7).

L’esecuzione

Ritrovamento e riconoscimento del corpo del giudice Livatino

La prova, quella che si poteva forse immaginare, arriva nemmeno due anni dopo. Rosario Livatino viene ucciso il 21 settembre 1990, quando con la sua Ford Fiesta si reca al lavoro sulla statale 640, nonostante fosse un giorno di ferie.

Gli esecutori, quattro giovani di Palma di Montechiaro, fanno parte della stidda locale: era stato loro detto che il giudice tutelava Cosa Nostra e si accaniva contro le nuove formazioni mafiose. Parole false ovviamente: la stidda era ben consapevole che Livatino rappresentava un ostacolo per tutte le mafie, anche perché noto come cristiano integerrimo e incorruttibile.

L’esecuzione è particolarmente drammatica: i quattro giovani lo avvicinano su auto e moto; il giudice riesce ad accostare e a tentare la fuga in una scarpata, ma viene raggiunto e freddato a distanza ravvicinata. Le sue ultime parole, rivolte al killer, sono: «Cosa vi ho fatto, picciotti?». Vengono in mente le parole bibliche che ricordano il venerdì santo: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (Michea 6, 3).

Un testimone, uno solo, vede tutto e decide di parlare subito dopo i fatti: si tratta di Piero Ivano Nava, commerciante lombardo che abitualmente viaggia in Sicilia, quel giorno particolarmente a rilento per un guasto della sua auto. Grazie a una memoria fotografica, riesce a ricostruire i fatti e a ricordare volti e fisionomie degli esecutori, ed è in forza della sua preziosa testimonianza che in breve tempo gli assassini vengono catturati.

Seguono numerosi processi con relative condanne(8), e desta stupore la conversione di almeno due tra mandanti ed esecutori, uno dei quali chiederà di testimoniare nel processo di beatificazione(9).

Verso la beatificazione

Negli anni successivi alla tragedia, infatti, la figura di Livatino diventa sempre più nota e amata nella sua terra e non solo. Nel 2011 l’arcivescovo di Agrigento dà inizio al processo di beatificazione. Anche se sono almeno due i miracoli attribuiti alla sua intercessione, si decide di seguire l’iter, già intrapreso per don Pino Puglisi, del martirio in odium fidei: tra le cause che portarono i mafiosi all’omicidio ha un peso importante una avversione alle pratiche cristiane del giudice, che vengono correlate all’esercizio della giustizia.

Dice di lui Papa Francesco nel 2019: «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni»(10).

La cerimonia di beatificazione avviene il 9 maggio 2021, anniversario della visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993(11). Vale la pena ricordare un passo dell’omelia del cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi: «Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come martire».

La sua ricorrenza liturgica è stata fissata il 29 ottobre, giorno della Cresima del magistrato «Sub tutela Dei”. Un giorno assai significativo per chi, come lui, è stato chiamato a testimoniare con il sangue l’amore a Dio e alla giustizia.

Chiara Michelis


Note

1 La mostra è stata promossa da Libera Associazione forense, Centro studi Rosario Livatino, Centro culturale Il sentiero di Palermo, ed è noleggiabile dall’associazione Meeting di Rimini. Il catalogo della mostra, cui attinge questo articolo, è stato pubblicato da Itaca nel 2022.

2 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Paoline, Mi­lano 2022, pp. 34-35.

3 Da Il ruolo del giudice in una società che cambia, conferenza al Rotary club di Canicattì (7 aprile 1984).

4 Testimonianza di Giuseppe Palilla, presidente dall’Associazione Amici del giudice Rosario Angelo Livatino e testimone del processo di beatificazione, riportata in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 185.

5 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 11.

6 Idem, p. 253

7 Cit. in G. Livatino, Giudice Rosario Livatino. Aperto il processo diocesano per la beatificazione, in L’Amico del Popolo, 16 maggio 2010 (in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 251).

8 La vita di Nava venne stravolta: all’epoca non esisteva nessuna norma sui testimoni di giustizia (le prime sono del 2001), e gli stessi assassini diranno che era un fatto insolito, in quel contesto, trovare qualcuno che parlasse. Nava non si tirò mai indietro per alto senso civico e dovere morale e, come disse lui, quel giorno scomparve insieme al giudice. Infatti, perse il lavoro, venne trasferito con la famiglia in diverse città, fu costretto a cambiare identità e a non sentire né vedere più nessuno. Per approfondire si rimanda al libro-autobiografia Io sono nessuno. Da quando sono diventato il testimone di giustizia del caso Livatino (336 pagine, curato per Rizzoli da Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi, con la prefazione della ex presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi).

9 Nel catalogo della mostra sono ripor­tate due lettere di Domenico Pace (uno degli esecutori) e di Giovanni Calafato (uno dei mandanti).

10 Dal discorso di papa Francesco ai membri del «Centro studi Rosario Livatino» il 29 novembre 2019.

11 Quel giorno Giovanni Paolo II aveva scagliato il suo anatema contro la mafia proprio nella Valle dei Templi di Agrigento: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». È risaputo che il papa poche ore prima aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino e che quell’incontro lo aveva profondamente segnato.


Siti web su Rosario Livatino




Osea, profetizzare con la vita


Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.

Un libro complicato

Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.

Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.

Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.

Un matrimonio difficile

«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.

Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.

Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.

Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).

Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.

Una soluzione «divina»

La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.

Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.

E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.

«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.

E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.

Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.

«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».

È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.

Un amore senza condizioni

Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».

Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.

Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».

Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.

Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).

Un’intuizione abissale

Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.

Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.

Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».

Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.

Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.

Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)




Presentazione della rivista di ottobre

Editoriale

Il Sinodo: da evento a processo

Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che si svolge a Roma dal 4 al 29 ottobre e che ha per tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione». […]

Dossier

Foto di gruppo dei due capitoli generali IMC e MdC con il cardinal Parolin

In un cambiamento d’epoca. I capitoli generali della famiglia Consolata

Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.

Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi. Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.

In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori. […]

Articoli

In Venezuela. Foto Yuri Cortez / AFP.

La Russia in America Latina:
Le mosse dello zar

La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina? […]

Foto Piero Battisti.

Accade nelle Langhe:
Le vigne del riscatto

Colline, vigneti, borghi, panorami, cantine. Dal 2014, le Langhe sono patrimonio dell’Unesco. Sono bellezza, lavoro, denaro, fama. Nel caso (unico) dell’«Accademia della vigna», nata esattamente un anno fa, possono significare anche buone pratiche e sostenibilità sociale, riscatto e integrazione.

Il giovane Ousmane viene dalla Guinea Conakry. Ha trovato finalmente un lavoro stabile, e ogni mattina inforca la sua bicicletta e raggiunge l’azienda agricola Mirafiore, dove è stato assunto in qualità di operaio di vigna. […]

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole:
Piccoli soldati crescono

Le scuole italiane aprono le porte alle Forze armate. La società civile si organizza per reclamare la priorità del valore della pace e della nonviolenza come colonna portante del percorso formativo dei minori. L’Osservatorio, nato solo pochi mesi fa, raccoglie e diffonde informazioni su questa pericolosa deriva.

Pochi giorni prima della chiusura delle scuole, il 5 giugno scorso, 200 studenti di Messina, di età compresa tra i 9 e i 16 anni, hanno partecipato alla festa dell’Arma dei Carabinieri nella locale base della Marina militare. […]

Reportage da una Mogadiscio blindata:
Sognando la normalità

Uno stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?

I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. […]

Porta Palatina, Torino. Foto Alice Mandracci.

Il progetto Migrantour:
«Oggi vi accompagniamo noi»

A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. […]

Rubriche

Noi e Voi

Più vita di missione

Trovo sempre meno testimonianze di vita vissuta nella rivista MC (spesso solo in qualche trafiletto nelle ultime pagine), e molto più, certo apprezzabile, giornalismo che racconta i vari paesi del mondo. Ecco, perdonatemi la richiesta, ma secondo me sarebbe bello vi fosse molto più spazio dei racconti della vita di missione, come forse era alle origini quando era l’allegato a raccogliere i racconti dei missionari. […]

Onorificenza pontificia a padre Sandro Faedi

Papa Francesco ha voluto riconoscere e distinguere padre Sandro Faedi, missionario della Consolata nativo di Gambettola (Cesena), con la decorazione «Pro Ecclesia et Pontifice». La cerimonia di consegna della medaglia d’onore al missionario (nella foto, al centro padre Sandro Faedi e a sinistra il vescovo di Tete monsignor Diamantino Antunes) si è svolta domenica 13 agosto a Zóbuè, nella diocesi di Tete, Mozambico, in occasione del pellegrinaggio diocesano al santuario dell’Immacolata Concezione. […]

Perché partire, perché restare

Stimatissimo Marco Bello, ho letto il suo editoriale su Missioni Consolata di Agosto 2023, «perché partire, perché restare». È proprio il nocciolo della questione. […]

Perplessità

Caro Marco, forse ricorderà lo scambio di battute quando cercammo – vanamente – di aiutare Haiti: anche se a volte le nostre ideologie non coincidono, le cose da fare ci trovavano in pieno accordo. […]

Economia

L’avidità si paga

Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto. […]

Camminatori

Osea, profetizzare con la vita

Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici. […]

Cooperando

Argentina, contro le diseguaglianze

Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.

l 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda. […]

I Perdenti

Rosario Livatino: sub tutela Dei

Da qualche mese sta girando in tutta Italia una bella mostra, presentata per la prima volta al Meeting di Rimini nell’estate del 2022, con il titolo «Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino».

Chi è questo giovane giudice, morto il 21 settembre 1990 sotto i colpi della mafia siciliana? E perché è stato beatificato – primo giudice nella storia della Chiesa – il 9 maggio 2021?

Ecco qualche breve cenno sulla vita e sul pensiero di una figura che merita di essere conosciuta sempre di più, non solo come beato, ma anche come professionista. […]

Amico

Perderci e ritrovarci

Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa. Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21). Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.

Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.

Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.

Librarsi

Con la resistenza civile

Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati». […]

 




La via di Capitini


La via di Capitini

È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.

Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.

La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.

Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.

Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».

Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.

Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.

Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.

Le ragioni della nonviolenza

Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.

Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.

Religione aperta

Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.

Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.

Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.

Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.

Amico di Norberto Bobbio

Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.

Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.

Massimiliano Fortuna




I laici non mancheranno mai


Siamo nel 1891, dieci anni precisi prima della fondazione dell’Istituto missioni Consolata, Giuseppe Allamano, sebbene impegnato in Torino come rettore del Santuario della Consolata e nel Convitto ecclesiastico, pensa, prega e si consulta per capire se la fondazione di un istituto esclusivamente missionario in Piemonte sia nella volontà di Dio e nei disegni della Chiesa. Scrive a questo riguardo al padre Carlo Mancini, religioso lazzarista residente a Roma, perché esplori presso la congregazione di Propaganda fide la possibilità e l’opportunità di questa nuova avventura missionaria. Nella lettera così si esprime: «Anche oggi ho un certo numero di sacerdoti (i laici poi non mancheranno) che mi stanno ora giornalmente attorno sollecitandomi di metter mano a quest’opera».

Questo primo discreto accenno alla presenza dei laici diventerà sempre più chiaro nella mente di Giuseppe Allamano e dieci anni dopo, nel 1901, fonda l’Istituto missioni Consolata che accoglie parimenti sacerdoti e laici. Nel 1902 la prima spedizione missionaria verso il Kenya è formata da quattro missionari: due sacerdoti e due laici. Tale formula si dimostra subito vincente, poiché essa è capace di integrare in maniera armonica lo sviluppo umano portato avanti dai laici con il ministero pastorale dei sacerdoti e, in seguito, con i preziosi servizi delle Suore missionarie.

L’Istituto, con il passare degli anni, si sviluppa e tutti i suoi membri fanno i voti religiosi. Così, assieme ai sacerdoti, nasce il ramo dei «Fratelli»: sono laici che si votano per sempre alla missione con la professione religiosa. La loro presenza si dimostra preziosa e indispensabile, soprattutto quando si tratta di aprire nuovi campi di evangelizzazione in Africa.

Arriviamo poi al Concilio Vaticano II che richiama tutti i battezzati alla loro responsabilità di rispondere alla chiamata evangelizzatrice e missionaria. Ne fa eco l’enciclica Redemptoris Missio che esorta i laici a «impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l’annuncio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo e in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (71).

Anche oggi non mancano al nostro Istituto i laici che, rispondendo all’invito del beato Allamano e ai costanti richiami di papa Francesco, offrono la loro collaborazione all’opera missionaria, sia in patria che in altri continenti, esercitata soprattutto nel campo educativo e sanitario, senza escludere attività prettamente pastorali per l’annuncio del Vangelo. Stimolare e sostenere il prezioso contributo dei laici nel campo missionario dovrebbe essere l’impegno di tutti coloro che amano l’opera missionaria della Chiesa.

padre Piero Trabucco

La spiritualità del «di più»

Per l’Allamano, il missionario è l’uomo del di più, deve strafare, non può accontentarsi del minimo indispensabile: bisogna fare tutto bene, «il bene va fatto bene».

Un «di più» per la gloria di Dio

«Magis» è un avverbio latino che significa di più o più grande. È implicito nella frase latina legata ai missionari della Consolata ad maiorem Dei gloriam, che significa «per la maggior gloria di Dio». Magis descrive chi fa di più per Cristo, o di più per gli altri. Indica l’aspirazione o l’ispirazione collegata alla formazione di una spiritualità centrata su Gesù Cristo.

Definito in termini più semplici, magis descrive l’eccellenza o la qualità di una impresa: non c’è scuola o impresa sulla terra che non rivendichi l’eccellenza nella descrizione della sua missione. Il magis ci ricorda costantemente che tutte le decisioni che prendiamo, per quanto personali o private possano sembrare a prima vista, hanno ampie implicazioni nella vita della comunità, e quindi il bene comune è un valore da tenere sempre presente.

La spiritualità del magis

In questo contesto, una spiritualità guidata dal magis è quella che cerca il di più, la qualità e l’eccellenza: non si accontenta del minimo indispensabile, ma è incessantemente incline a cercare qualcosa di più grande.

Negli scritti del beato Giuseppe Allamano, questo magis può essere visto in diversi modi:

  1. È la spiritualità che cerca la qualità e l’eccellenza per la maggior gloria di Dio e per il servizio all’umanità. Lo ricorda con chiarezza quando parla di quei missionari che rispondono con poca generosità e senza esagerare; nella sua spiritualità non c’è spazio per il minimo indispensabile.
  2. Lo vediamo anche quando, in modo attivo, invita ad approfittare delle circostanze. Per Giuseppe Allamano non si tratta di aspettare le occasioni d’oro, ma di trovare l’oro nelle occasioni a portata di mano.

Questa ricerca dell’eccellenza, questo fare di più, questa spiritualità, questo magis, Giuseppe Allamano lo vuole vedere nella vita dell’Istituto e nella vita dei suoi missionari.

Nella vita dell’Istituto

In occasione del decimo anniversario della fondazione morale dell’Istituto (24 aprile 1910) Giuseppe Allamano diceva che questa comunità era stata fondata non per lui ma ad maiorem Dei gloriam (per la maggior gloria di Dio). Tutto ciò che l’Istituto ha fatto in passato, tutto ciò che fa attualmente e tutto ciò che farà in futuro, è per la maggior gloria di Dio che si manifesta nella sua missione e nel servizio all’umanità.

Quindi, tutte le attività e tutti gli strumenti di promozione umana scelti per l’evangelizzazione dei non cristiani hanno a che vedere con questo: le fattorie agricole, i laboratori industriali, le scuole, le visite a domicilio, gli orfanotrofi, i collegi e l’assistenza medica… tutto rivela il di più, la ricerca minuziosa della qualità dell’opera.

Lo riconosce anche il cardinale Van Rossum, prefetto di Propaganda fide, che in un incontro con Giuseppe Allamano continuava a ringraziare per tutto il buon lavoro che l’Istituto stava facendo sottolineando che «questo che voi fate va al di là di quello che si deve fare, non si è obbligati a fare tutto questo». In tutta risposta, l’Allamano aggiungeva: «Abbiamo fatto solo il nostro dovere; uno non dovrebbe essere prete se non sente zelo per le anime». Ecco evidente il magis che l’Istituto ha ricevuto dal Fondatore come eredità.

Nella vita del missionario

La spiritualità guidata dal magis dell’Allamano la vediamo anche nella vita di ogni missionario.

Nella risposta alla propria vocazione il magis è molto presente: non basta essere chiamati, non basta rispondere alla chiamata, non basta entrare nell’Istituto e non basta nemmeno andare in missione. Tutte queste cose hanno un senso se contengono una risposta piena, generosa e costante alla grazia di Dio.

Il magis riappare nel lavoro, nella preghiera e nella carità. Il lavoro deve essere fatto con spirito di generosità: «I missionari – diceva – sono generosi e possono lavorare per molti». E nella preghiera un missionario non può dire di pregare troppo: «Lo dico a voi, non si può mai dire di pregare troppo».

Nella carità desiderava in ogni comunità non una semplice carità, ma una carità sempre attenta all’altro, una carità che sopporta tutto, una carità capace di amare secondo la misura di Dio. «Il nostro cuore – diceva – è così piccolo che non lo possiamo dividere tra Dio e le creature. Dio vuole tutto il nostro cuore e quindi dovremmo amare con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente, con tutte le nostre forze».

Sull’esempio di Cristo

Quindi, con la spiritualità del magis e infondendo uno spirito di generosità e costanza, l’Allamano aiutava ogni missionario a rispondere bene alla sua vocazione, ad amare e servire Dio con zelo, a mettersi con generosità al servizio di Dio e del prossimo e a rivitalizzarsi.

San Paolo esorta i suoi cristiani a vivere una vita piena di amore, seguendo l’esempio di Cristo che «ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) e ricorda loro che questa vita ci trasforma in ambasciatori di Cristo perché «per mezzo nostro, è Dio stesso che esorta» (2 Cor 5,20).

È proprio la spiritualità del di più che ci permette di essere apostoli zelanti, veri ambasciatori di Cristo.

padre Charles Orero

UNA SCUOLA CON SPIRITO MISSIONARIO

Il 7 ottobre 2022, anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano, avvenuta nel 1990, i 1.705 studenti della scuola bilingue «Giuseppe Allamano» di Bogotá (Colombia), hanno celebrato la Giornata missionaria mondiale evidenziando il carisma del fondatore dei Missionari della Consolata e titolare della loro scuola.

Eucaristia a più voci

Per una di quelle sincronicità che avvengono lungo i cammini della missione, hanno concelebrato l’eucaristia nel cortile della scuola tre missionari della Consolata che hanno condiviso con gli studenti le loro diverse esperienze di vita e di missione.

Il primo, padre Im Sang Hun (Marcos), attuale superiore dei missionari della Consolata in Argentina, con il suo inconfondibile accento coreano (Corea del Sud), ma supportato da un eccellente spagnolo, ha interloquito con sette giovani della scuola che studiano il coreano. Il secondo, padre Francisco Pinilla, preside della scuola, con una lunga esperienza di missione in Etiopia, ha rivolto ai presenti alcune parole in amarico, una delle cinque lingue parlate nel Paese.

Il terzo, padre Salvador Medina, missionario in Colombia e Brasile, ha fatto lo spelling del proprio nome «Sal-va-dor», per spiegare il significato della missione, che in sintesi parla della partenza degli inviati per svolgere un compito: «sal», imperativo del verbo partire;  «va», imperativo del verbo andare; «dor», nel dolore in portoghese. Lasciare se stessi e il proprio mondo – cultura, geografia, religione e posizione sociale -, andare nel mondo dell’altro diverso ma uguale ed essere «sale» per dare sapore e gusto, per preservare e guarire il dolore «dor».

«Così ha fatto Dio – ha continuato padre Medina -, attraverso il suo missionario e inviato, Gesù (Dio salva) come Emmanuele (Dio-con-noi), per la potenza dello Spirito che ci rende comunione e comunità. Questo è ciò che tutti noi, studenti, maestri e servitori della vita, possiamo e dobbiamo fare, in nome del Dio della vita, per servire la vita in tutte le sue manifestazioni, specialmente là dove è più minacciata o ferita. Tutto perché la vita non muoia e valga la pena di essere vissuta».

Commemorazione del beato Giuseppe Allamano

«Proprio in un giorno come oggi, 32 anni fa, il nostro fondatore è stato riconosciuto a Roma, da papa Giovanni Paolo II, come una persona che ha compreso la missione di Dio e vi ha dedicato la sua vita, i suoi studi e i suoi beni. La scuola porta il suo nome, che ne ispira la spiritualità, la pedagogia e la dimensione missionaria universale.

Come disse il Papa all’Angelus di quel giorno, il 7 ottobre 1990, in piazza San Pietro: «I nuovi beati, Giuseppe Allamano e Annibale Maria Di Francia (beatificati lo stesso giorno), entrambi formatori di sacerdoti e apostoli dell’animazione vocazionale, intercedono anche per noi».

Per questo motivo la loro beatificazione durante lo svolgimento del «Sinodo per la nuova evangelizzazione» acquista un significato particolare.

«Sono, infatti, testimonianza vivente delle meraviglie che lo Spirito Santo opera in coloro che rispondono generosamente alla chiamata divina. Con il loro esempio, ricordano a tutti l’urgenza di chiedere “al padrone della messe di mandare operai nella sua messe” (Mt 9, 38), e incoraggiano i sacerdoti, i seminaristi e i loro formatori, apostoli della nuova evangelizzazione, a percorrere senza dubbio e con gioia la via della santità, che è l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio e il servizio senza riserve ai fratelli.

Insieme a loro, ci rivolgiamo ora alla Madre del Salvatore, venerata dal beato Allamano con il titolo di Consolata, e dal beato Annibale Maria Di Francia con il titolo di Maria Fanciulla».

Il viaggio e la missione continuano

Nelle aule gli studenti e gli insegnanti hanno proseguito la giornata delle missioni ricordando e aggiornando le loro conoscenze e lasciando volare la loro immaginazione attraverso i cinque continenti, con i loro diversi colori, visitando culture, balbettando lingue, conoscendo usi, tradizioni e religioni per organizzarli, artisticamente ed esteticamente nel cosiddetto «Angolo missionario», che poi è stato oggetto di pellegrinaggio e scambio tra tutti.

La giornata si è conclusa con la realizzazione di un «salvadanaio missionario» in ogni aula, riempito con il dono della loro solidarietà, che è stato inviato a Cuba, una bellissima isola che si è «spenta» a seguito dell’uragano Ian, il 28 settembre, quando il suo sistema elettrico è crollato, lasciando 11 milioni di cubani senza elettricità.

Conclusione

In questo modo, la comunità educativa Giuseppe Allamano di Bogotá si è unita al resto dei luoghi dove il 7 ottobre è stata ricordata e celebrata la vita e l’eredità di colui che continua a essere maestro di missionari, un’opera iniziata in Africa e che si è estesa in tutto il mondo grazie a fratelli, sacerdoti, suore e laici che continuano ad «annunciare la gloria di Dio alle nazioni».

équipe di Animazione missionaria giovanile e vocazionale Imc Colombia

 

 




Mozambico e Angola: due paesi, uno stile


Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.

Lo scorso 15 giugno è stata chiusa la sedicesima e ultima base della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), il gruppo militare, oggi partito politico conservatore, che fra il 1977 e il 1992, nella guerra civile mozambicana, ha combattuto il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al governo di ispirazione marxista. La base si trovava a Vinduzi, nei pressi del parco nazionale di Gorongosa (provincia di Sofala), storica roccaforte della Renamo, e la cerimonia ha visto Ossufo Momade, segretario della Renamo, consegnare l’ultima arma da fuoco, un mitragliatore AK-47, nelle mani del presidente mozambicano e leader del Frelimo, Filipe Nyusi@.

Con questo atto si è concluso il processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr nell’acronimo portoghese, da Desarmamento, desmobilização e reintegração), che a cominciare dal giugno 2019 ha interessato un totale di 5.221 guerriglieri (257 donne e 4.964 uomini). Durante la cerimonia, il presidente Nyusi ha assicurato che si procederà ora al pagamento delle pensioni per gli ex combattenti, molti dei quali si trovano in condizioni economiche precarie dopo la smobilitazione, almeno secondo quanto dichiarato nel 2021 a Radio France International dal presidente della Renamo, André Magibire@.

Se questo conflitto è concluso – il prossimo 4 ottobre ricorreranno i 31 anni dalla firma, a Roma, del trattato di pace fra Frelimo e Renamo – lontano dalla fine sembra quello nel nord del paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata jihadista, alla quale però molti combattenti locali hanno aderito soprattutto perché si sentono esclusi dai benefici economici derivanti dalle scoperte di minerali e idrocarburi nella zona. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a maggio scorso risultavano nel nord del Mozambico oltre 834mila sfollati interni, mentre altre 420mila persone avevano fatto ritorno nelle zone da cui erano fuggite, di cui quasi 392mila in località all’interno della provincia di Cabo Delgado, 27mila in quella di Nampula e un migliaio nel Niassa@.

Vi sono infine gli effetti del ciclone Freddy@, che tra febbraio e marzo ha colpito principalmente il Malawi e le regioni del nord del Mozambico, peggiorando le condizioni igienico sanitarie e aggravando l’epidemia di colera che era già in corso e che, secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), fra l’inizio dell’anno e il 15 maggio scorso aveva fatto registrare poco meno di 90mila casi e 1.900 morti solo fra Malawi e Mozambico@.

La nuova gestione della salina

Fra le aree danneggiate dal ciclone c’è anche Nova Mambone, dove si trova la salina di Batanhe, fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento da padre Amadio Marchiol e da allora gestita dai missionari della Consolata@.

«La ricostruzione è ancora in corso», racconta padre Sisto Elias, missionario della Consolata mozambicano e superiore regionale al secondo mandato, «ma sarà completata in tempo per la stagione di produzione, che va da agosto a novembre». Negli ultimi due anni, la salina ha vissuto nella propria gestione un cambiamento profondo, incentrato sul metodo di lavoro che i Missionari della Consolata in Mozambico si sono dati sotto la guida di questa direzione regionale: «Abbiamo deciso di decentralizzare e investire sulle risorse locali», spiega Sisto. «Da Maputo facciamo la supervisione, garantiamo costanti visite sul campo e rimaniamo noi i responsabili in ultima istanza. Ma a portare avanti le attività sono le persone della comunità locale, sul posto».

Ora alla salina sono legate due imprese, una per la produzione e trasformazione del sale e una per la vendita all’ingrosso, così da garantire una migliore divisione del lavoro oltre che rigore nella gestione economica e nelle procedure igienico sanitarie. Rigore, precisa padre Sisto, che è lo stato mozambicano stesso a chiedere e a verificare con controlli e ispezioni.

«Produciamo e commercializziamo all’ingrosso tre tipi di sale: il Sal do Índico, che è il nostro marchio per il sale alimentare comune, il Flor do Índico, che è il fior di sale, cioè il prodotto più pregiato, e il Sal de pesca, un sale di qualità inferiore che si usa nella zootecnia oppure nella conservazione del pesce». La salina ha venti lavoratori fissi, che arrivano fino a 80-90 durante la stagione della produzione. Ma la salina rimane, come è sempre stata, un’impresa il cui fine è prevalentemente sociale: «Innanzitutto, l’attenzione è per i lavoratori, per sostenerli nei momenti di difficoltà, per garantire a loro e alle loro famiglie l’accesso all’istruzione, alla sanità. Ma non solo: i fondi per costruire la scuola primaria di Lichinga, nel Niassa, e la secondaria di Nampula sono venuti in buona parte dalla salina». E le scuole stesse sono gestite in modo decentralizzato, appoggiandosi a personale di fiducia in loco: il ruolo dei missionari è quello di effettuare frequenti visite per verificare la trasparenza nella gestione economica e l’alta qualità dell’insegnamento. «E per gli studenti le cui famiglie si trovano in condizioni di povertà estrema dimostrate, la scuola ha un sistema di borse di studio finanziate con le rette delle famiglie in grado di pagare».

Lotta malnutrizione a Capalanca in Angola

Il centro nutrizionale di Cuamba

Una simile gestione decentrata si applica anche al lavoro del centro nutrizionale che si trova nella cittadina di Cuamba, nel Niassa. Fino a qualche anno fa, il responsabile dei progetti attivi al centro nutrizionale era uno dei missionari della Consolata presente nella missione e parrocchia di Cuamba. Con la cessione della parrocchia ai sacerdoti diocesani, da circa due anni i missionari non sono più lì. «Questo ci ha costretto evidentemente a ridimensionare le attività del centro», spiega ancora Sisto, «rinunciando ad esempio ad avere una persona incaricata che prestasse servizio costante». Ma la malnutrizione è ancora presente e il centro è importante nel contrastarla. «Abbiamo deciso di mandare avanti le iniziative in sostegno ai bambini malnutriti semplicemente acquistando e stoccando in un magazzino latte in polvere e altri cibi che si conservano nel tempo e organizzando le distribuzioni alle famiglie bisognose attraverso i cristiani locali».

La presenza del centro e le sue attività di lotta alla malnutrizione si sono rivelate molto importanti per affrontare due emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: l’arrivo da Cabo Delgado di diverse famiglie di sfollati, e le inondazioni legate al ciclone Freddy. Così, in una relazione dell’aprile scorso, padre Sisto riportava che, per far fronte ai maggiori bisogni causati da questi eventi, il centro ha collaborato con gli agenti di salute e l’Ingd (Istituto nazionale per la gestione e la riduzione dei rischi da catastrofe) per fornire assistenza alle persone ospitate in due centri di accoglienza della zona: riso, zucchero, olio, sapone, latte e farina sono stati acquistati e distribuiti a 187 famiglie con una media di 5 figli ciascuna, per un totale di 935 bambini e adolescenti, ai quali è stato assicurato l’apporto nutrizionale indispensabile.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Maúa, l’eredità di padre Frizzi

Il lavoro di padre Giuseppe Frizzi che, a partire dal 1987, ha studiato e sistematizzato il patrimonio etnolinguistico del popolo Macua Xirima@, continua a essere valorizzato e promosso dai suoi confratelli in Mozambico anche attraverso l’avvio di collaborazioni con entità come la Fondazione Fernando Leite Couto, dedicata al padre del noto scrittore e giornalista mozambicano Mia Couto. «Per prima cosa, la Fondazione ci aiuterà a far sì che tutto il materiale di padre Frizzi – libri e altri scritti – contenuti nel centro studi di Maúa ricevano i necessari riconoscimenti di legge riguardo alla proprietà intellettuale. Poi si cercherà di rendere più fruibili le parti del lavoro del Centro studi che hanno riguardato la filosofia e l’antropologia, separandole da quelle incentrate sulla teologia, in modo da creare testi, saggi, raccolte che possano essere usati per l’approfondimento in ambito accademico o della ricerca in generale».

Altra novità che riguarda il Centro studi Macua Xirima è il trasferimento della sua parte museale a Massangulo, dove c’è un’altra presenza dei missionari della Consolata. Massangulo è più vicina alla strada, meno isolata di Maúa, conclude padre Sisto, e lì un museo sarà più facilmente raggiungibile dai visitatori.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Angola, potenziale inespresso

L’Angola è un paese dal potenziale enorme dal punto di vista economico: sedicesimo produttore al mondo di petrolio@, settimo di banane, ottavo di cassava@, l’Angola si trova però al 148° posto per indice di sviluppo umano e ha un prodotto interno lordo pro capite di 6.491 dollari americani (quello dell’Italia è di 46.385)@.

«Una parte del problema», spiega padre Fredy Alberto Gómez Pérez, missionario della Consolata colombiano e responsabile della comunità di sette missionari attivi in Angola, «è anche il fatto che molti angolani ritengono l’agricoltura un’attività non dignitosa, preferendole altri lavori come l’insegnante, il funzionario pubblico, l’impiegato». Questo approccio delle persone non è ovviamente la sola causa del mancato sviluppo socioeconomico del paese che, come il Mozambico, ha vissuto fra il 1975 e il 2002 quasi tre decenni di guerra civile, i cui segni sul tessuto produttivo oltre che sulla società e sull’ambiente richiedono molto tempo per essere cancellati.

Cappella di Luacano all’inizio dell’avventura missionaria in Angola

Giovane missione

Come in tutte le presenze della Consolata di più recente fondazione, il lavoro dei missionari procede in modo molto graduale e si colloca in zone ai margini, di confine, si tratti delle periferie urbane, delle aree a cavallo fra città e campagna o dell’entroterra più remoto. «I Missionari della Consolata sono arrivati in Angola nell’agosto 2014 e oggi lavorano in tre ambiti con caratteristiche molto diverse tra loro», racconta padre Fredy. «La prima parrocchia che l’allora vescovo della diocesi di Viana, monsignor Joaquim Ferreira Lopes, ci ha affidato è stata quella di Santo Agostinho, a Bairro Capalanca, alla periferia della capitale Luanda. Un anno e mezzo dopo abbiamo rilevato la parrocchia di Nossa Senhora da Consolata nella zona di Funda, che si trova poco fuori Luanda ed è una realtà per metà urbana e per metà rurale. La terza presenza è presso la parrocchia di Santa Maria Mãe de Deus, nel comune di Luacano», che si trova oltre 1.300 chilometri a est, a circa due ore dal confine con la Repubblica democratica del Congo: «Luacano è veramente una realtà ad gentes», sottolinea Fredy, «in mezzo alle savane intorno al lago Dilolo» (su Luacano vedi MC di maggio 2023@).

In questo momento il lavoro dei missionari, oltre che all’evangelizzazione, si rivolge agli ambiti della salute e dell’istruzione: piccoli progetti di assistenza ai bambini malnutriti, creazione di equipe di pastorale sanitaria, formazione per i giovani che non frequentano la scuola. A Luacano, inoltre, i missionari hanno cercato di migliorare i servizi di base anche fornendo acqua alla comunità locale attraverso pozzi e formando gli adulti con programmi di alfabetizzazione.

Per gli anni a venire, i missionari contano di riuscire a dare alle attività un carattere più strutturato. Un annoso problema che accompagna da sempre il loro lavoro è quello di doversi dotare di spazi dove sia possibile organizzare e dare continuità alle iniziative che portano avanti.

«Il progetto del Centro sociale Santo Agostinho» nel Bairro Capalanca di Luanda, spiega padre Fredy, «è nato come risposta più elaborata e sistematica alle sfide di cui parlavo sopra, perché per realizzare tutti gli altri progetti, sia di carattere sociale che di evangelizzazione, abbiamo bisogno di uno spazio adeguato». Servono uno studio medico per assistere i malati e monitorare lo sviluppo dei bambini, una cucina per preparare il cibo e un refettorio per servire il pasti offerti agli anziani seguiti dalla Caritas parrocchiale, stanze per la formazione e la catechesi.

«Dopo una lunga attesa si è deciso di iniziare i lavori con un fondo ricavato accantonando le offerte dei fedeli, ma da soli non riusciremo a terminare i lavori nei tempi desiderati per rispondere alle urgenze che abbiamo». Per questo padre Fredy si è rivolto a Missioni Consolata Onlus per ottenere aiuto nella ricerca di fondi, proponendo un progetto dal costo complessivo di circa 95mila euro.

Chiara Giovetti

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi




Non tutti i debitori sono eguali


Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione.  Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.

Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.

Il debito pubblico dei paesi ricchi

Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.

In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.

La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.

Le banche centrali e la creazione di moneta

Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.

Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.

 

Tra prestiti interni e prestiti esteri

L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.

Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.

Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.

Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).

foto-Frantisek Krejci-Pixabay

Le conseguenze della esportazione di capitali

In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.

Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.

Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.

Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.

Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove  sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.

Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.

Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.

È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.

L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.

I creditori del Nord e il servizio del debito

Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.

Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.

In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.

Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.

Francesco Gesualdi

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Operatori di perdono


Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro. In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.

I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.

Il corso offre a padre Albino quegli strumenti che gli mancavano per dare corpo al desiderio di promuovere il perdono e la riconciliazione tra la sua gente. S’innamora a tal punto del metodo di Espere che, quando lascia il Brasile per il Portogallo, decide di farsene promotore anche nel suo paese di origine e in Europa.

Oggi afferma con convinzione che quella della risoluzione dei conflitti e della giustizia riparativa è una strada prioritaria di umanizzazione e missione.

In favela per la pace

«La mia prima destinazione è stata in Brasile. Sono arrivato lì il 17 maggio 1997», racconta padre Albino, nato il 15 agosto 1965 a Loureira, distretto di Leiria, regione centrale del Portogallo.

Ultimo di sei fratelli cresciuti in campagna in una famiglia umile,  padre Albino è entrato in seminario a soli 13 anni, nel 1979, ed è stato ordinato nel 1996.

«Il lavoro pastorale in un contesto di favela è stato impegnativo. Come sacerdote appena ordinato, ho imparato lì il meglio del mio ministero e della mia vita missionaria. Ho lavorato molto in quegli anni nella pastorale delle favelas, nella dimensione socio caritativa, con i minori abbandonati, nella Commissione diocesana per i diritti umani, ma anche e soprattutto nell’ambito della spiritualità, della catechesi e dell’evangelizzazione.

Le sfide sono state molte. Ho vissuto momenti difficili, di persecuzione e violenza. Ma credo che sia proprio nelle situazioni di tensione che la Chiesa deve essere presente, anche correndo dei rischi, per promuovere la pace e il rispetto reciproco».

Una cultura del perdono

Padre Albino conosce il progetto Espere, nel 2003. «Padre Leonel ha tenuto una conferenza a Rio de Janeiro su violenza, conflitti, perdono e riconciliazione. Ero sensibile a questi temi, anche per la difficile realtà di Rio, e sono andato a seguirla. Poche settimane dopo ho fatto il corso.

Sebbene il progetto si chiami “scuola”, non è qualcosa di teorico: Espere offre un’esperienza di perdono e riconciliazione partendo dalla vita di ogni persona. Investendo nella creazione di una cultura del perdono, le Espere riparano la vittima e, allo stesso tempo, cercano il recupero dell’autore della violenza, a scapito di una giustizia meramente punitiva molto presente nelle società di oggi, anche in Europa.

Espere nasce dalla prospettiva non solo di sognare un mondo di pace, ma di lavorare concretamente per realizzarlo.

Mi è sempre stato detto che dovevo perdonare, ma mi mancava il “come”, e con Espere ho trovato gli strumenti, il processo, il metodo, per renderlo possibile.

Inoltre, Espere è in linea con il carisma dell’Imc e con il Vangelo della consolazione: perdono e riconciliazione, compassione e misericordia, amore e pace che derivano dall’esercizio della giustizia riparativa».

Subito dopo aver seguito il corso, padre Albino lo replica nella sua parrocchia. Le valutazioni dei partecipanti sono buone e il missionario si rende conto che produce trasformazione a livello personale, comunitario e sociale.

La missione in Portogallo

Il 14 gennaio 2005, padre Albino lascia il Brasile per il Portogallo.

Tra il 2005 e il 2012 sta nella comunità Imc di Fatima dove lavora nell’animazione missionaria e nella pastorale giovanile. È direttore nazionale del Segretariato Imc per la missione, coordina per sette anni il Corso di missiologia promosso dagli Istituti missionari ad gentes (Imag) e dalle Pontificie opere missionarie portoghesi. Fonda il gruppo Jmc (Giovani missionari della Consolata) che cresce negli anni.

«Sono stato poi in missione per quattro anni al Bairro do Zambujal, nel comune di Amadora, un sobborgo dell’area metropolitana di Lisbona – prosegue padre Albino -. Zambujal è un quartiere abitato principalmente da due gruppi etnici: africani e zingari. È stato molto impegnativo.

Nel 2016, poi, ho assunto la direzione di Fatima Missionária, la rivista fondata dai Missionari della Consolata in Portogallo quasi 70 anni fa. Dopo aver lasciato la direzione della rivista, oggi continuo a contribuire come collaboratore e lavoro anche nell’area della comunicazione dell’Imc in Portogallo, soprattutto nei media digitali.

Dalla fine del 2016 sono nella comunità Imc di Olivais, a Lisbona come superiore. Nell’aprile di quest’anno sono stato nominato Segretario dell’Imc Europa».

Espere a Zambujal

Domandiamo a padre Albino quando e perché ha ripreso in mano il programma di Espere nella sua terra di origine: «Ho sentito il bisogno di riprendere il progetto Espere quando mi trovavo nel Bairro do Zambujal, un quartiere periferico con molte tensioni tra le varie etnie.

Ho riunito un’équipe, abbiamo fatto formazione, tradotto materiali e programmato corsi.

Fino allo scoppio della pandemia da Covid-19 che ci ha costretti a fermarci, ne abbiamo tenuti nove. Il team nazionale era composto da undici facilitatori organizzati in due nuclei: Lisbona e Porto. Espere consiste in due moduli di alcuni incontri ciascuno: un modulo sul perdono e uno sulla riconciliazione».

Padre Albino è il primo a promuovere il progetto Espere in Portogallo, ampliando così la crescente Rete internazionale già presente in diciannove paesi.

Liberazione e guarigione

I destinatari dei corsi sono i più vari: gruppi parrocchiali, comunità religiose, «abbiamo ricevuto richieste anche dalla Spagna – prosegue padre Albino -. C’è un grande desiderio di applicare i corsi anche nelle carceri.

Nell’ultimo organizzato, quasi tutti i partecipanti erano coordinatori e volontari del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs) la cui missione è “accompagnare, servire e difendere” i rifugiati, gli sfollati e tutti i migranti in situazioni di vulnerabilità.

È stato bello sapere che stavamo aiutando il processo di perdono e riconciliazione di tanti migranti. Spesso sono persone con ferite aperte, a volte rancori e risentimenti. Molti sono dovuti fuggire da guerre, persecuzioni religiose e politiche, tante situazioni avverse, tanto odio, ferite nel corpo e nell’anima che hanno bisogno di liberazione e di guarigione».

Spezzare la violenza

Oltre ai corsi, il missionario tiene diverse conferenze e interviste ai media nazionali. «Le persone mi confidano che l’approccio al tema del perdono e della riconciliazione porta molta novità nella loro vita. Si rendono conto che è la chiave per spezzare i circoli viziosi della violenza.

Sebbene questa metodologia sia nata in Colombia, in un contesto di “frontiera della violenza”, credo che essa sia necessaria anche per un paese come il Portogallo, e in un continente come l’Europa che, pur non avendo la guerriglia, vive altre forme di violenza: in famiglia, nella coppia, nelle scuole, al lavoro.

La via della convivenza, della fraternità e della comunione è una via che tutti dovremmo seguire, perché, quando perdoniamo, portiamo benefici a noi stessi prima ancora che alla persona che ci ha offesi.

I benefici del perdono non rimangono confinati nell’interiorità, ma hanno ripercussioni dirette anche sullo stato fisico di ciascuno. Papa Francesco dice che “il perdono è fonte di gioia, di salute, e chi non perdona si ammala fisicamente e mentalmente”. Oggi è noto che chi non perdona ha una maggiore tendenza ad ammalarsi.

Quando lo facciamo, interrompiamo questo ciclo. È un processo di guarigione personale e, a poco a poco, della società».

Il perdono evangelizza

Durante la pandemia il gruppo ha dovuto interrompere i corsi, perché la metodologia di Espere richiede la presenza fisica dei partecipanti. Padre Albino progetta di riprendere quest’anno, dopo l’estate.

Lui considera le Espere uno strumento privilegiato di evangelizzazione che l’Imc può utilizzare con frutto anche in Europa.

«Il perdono dei peccati è nel mandato missionario che Gesù dà agli apostoli. Fa parte della missione della Chiesa. E sarebbe una povertà se lo limitassimo al sacramento della Confessione.

Il perdono è un elemento della spiritualità umana. È un tema che sta acquisendo sempre più importanza anche in scienze come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la biomedicina.

In questo momento abbiamo una guerra fratricida in Ucraina, nel mezzo dell’Europa. Ma tutto il mondo è assetato di processi di perdono e riconciliazione.

Tutti i conflitti, tutte le guerre esistono perché le persone, i gruppi, i capi delle nazioni, i Paesi, si lasciano intossicare dal veleno di rancori e risentimenti storici che li fanno degenerare nella violenza. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Russia di Putin: in questo momento la capitale mondiale del risentimento e dell’odio.

Mi chiedo: quale futuro sarà possibile, dopo questa guerra, in quei paesi? Saranno nemici per sempre, in una sorta di guerra fredda perenne e di pace marcia?

In Europa, con tutti i problemi che ho già sottolineato, abbiamo più che mai bisogno di mediatori, di operatori di pace. E i missionari dovrebbero essere specialisti in questo. Mediatori di conflitti, facilitatori di comunione.

Quali altre vie di missione può percorrere l’Imc in Europa?».

Missionari sulla soglia

Padre Albino, durante la nostra intervista ci ricorda il Progetto missionario che l’Imc ha scritto nel 2021 durante la Conferenza della Regione Europa: «È un progetto che ci invita ad approfondire il “cosa”, il “come” e il “dove” della nostra missione in questo continente. Il tutto, ovviamente, tenendo conto di chi sono i missionari delle nostre quasi 40 presenze europee. Le nostre comunità, colorate con le tonalità dell’interculturalità, rappresentano un valore aggiunto in un’Europa dove i temi dell’accoglienza, dell’unità nella diversità e, più in generale, della fraternità vengono minacciati ogni giorno di più.

Mi piace quando il Progetto missionario chiede a noi missionari in Europa di essere persone che stanno “sulla soglia”, capaci di leggere la complessità della realtà, disponibili ad abitare le periferie esistenziali e antropologiche, ad andare dove altri non vogliono o non possono, chiamati a “prenderci cura” del creato, della giustizia, della pace e della riconciliazione, consapevoli che è questo che ci rende missionari».

Europa, luogo di missione

«Non è una novità che l’Europa sia oggi un innegabile campo di missione – aggiunge ancora padre Albino -. Il nostro istituto ha fatto scelte teoriche e missionarie molto attraenti: lavorare nelle periferie esistenziali, con gli immigrati e i rifugiati, dentro una società edonistica, individualista e consumistica.

Ma ho l’impressione che ci manchino alcuni strumenti per lavorare in una prospettiva veramente missionaria. La società cambia velocemente, e i missionari non sempre si preparano per accompagnare il cambiamento.

È necessario sintonizzarsi con un mondo segnato dalla massificazione delle tecnologie, dalla pluralità di voci e pensieri potenziati dalle reti sociali, dalle fake news, dall’intelligenza artificiale.

Di fronte a queste realtà, la reazione più immediata di molti di noi può essere quella di chiudersi e dire: “Se la realtà è così, peggio per la realtà!”. E allora, rimanendo fuori, il Vangelo cessa di avere la possibilità di essere lievito nella pasta, nella società.

Per questo, penso e sostengo che dobbiamo migliorare i nostri metodi. Sì, perché molte volte individuiamo le cause missionarie ma poi non definiamo il metodo: il come, con quali strumenti, definendo il processo.

Posso dire che il successo di Espere nel mondo deriva proprio da questo: aver trovato una metodologia efficace, un processo con dei passi da seguire e un risultato da presentare.

E questo dovrebbe essere trasversale a tutte le cause, i progetti e gli impegni missionari in una realtà e in un continente missionariamente impegnativo come l’Europa.

L’evangelizzazione qui non sembra facile, ma credo che, nella fede in Cristo e nella potenza del nostro carisma allamaniano e consolatino, è possibile».

Luca Lorusso


Le scuole di perdono e riconciliazione

Le Scuole del perdono e della riconciliazione (Espere, Escuelas de Perdón y Reconciliación) sono un percorso pensato per aiutare persone offese da diversi tipi di violenza a guarire le ferite, trasformare la memoria, generare pratiche riparatrici e ritrovare la fiducia. Sono improntate a una metodologia pedagogica esperienziale e ludica che attiva nei partecipanti un processo personale di perdono e riconciliazione che permette loro di identificare e alleviare le conseguenze delle violenze subite nella vita e di ristabilire dei legami sani con se stessi e con la comunità, generando coesione sociale.

Il programma Espere ha una durata di 96 ore suddivise in dodici moduli, e si sviluppa in due fasi: quella dedicata al perdono e quella dedicata alla riconciliazione. I gruppi sono composti normalmente da 15-21 persone.

Le Espere, ideate da padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata colombiano, attuale presidente della Fundación para la Reconciliación nata il 13 marzo 2003, si sono diffuse in 19 paesi e hanno lavorato con più di 2 milioni di persone.

Negli anni, hanno ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco per l’educazione alla pace nel 2006.

L.L.

fundacionparalareconciliacion.org


ARCHIVIO MC SU ESPERE:

– Paolo Moiola, Contro l’odio la scommessa del perdono, MC agosto 2018, pag 51.
– G. Testa, P. Farinella, L. Narváez, M. Nosengo, Ricordare con occhi differenti, Dossier MC, gennaio 2008.

SU ZAMBUJAL:

– Domenic Cusmano, C’era una volta il campo degli ulivi, MC giugno 2017, p. 63.
– Mário Linhares, Insieme a Zambujal, MC giugno 2009, p. 42