Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




Disinformazione, misteri e leggende

testo di Sante Altizio |


Quando le notizie false possono renderci felici, e quando invece mancano le notizie vere, necessarie per fare giustizia. E poi un poema, che nasce da un viaggio e dai miti, che di notizia non hanno nulla.

Le fake news e la felicità

Il termine fake news è entrato prepotentemente nel nostro vocabolario quotidiano. Le notizie false, le «bufale», come spesso le definiamo, sono diventate, forse per la prima volta, oggetto di dibattito collettivo. E pensare che le notizie false, inventate, costruite artificialmente, appositamente messe in circolazione sono sempre esistite. E con tutta probabilità sempre esisteranno. Meglio, quindi, imparare a conviverci con serenità.

Fabio Paglieri, savonese, classe 1976, nonché ricercatore presso l’Istituto di scienze e tecnologia della cognizione del Cnr di Roma, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un piccolo divertentissimo saggio che meriterebbe quella che i social media manager più agguerriti chiamano «massima diffusione». Si intitola «La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale», 250 pagine di grande efficacia e di facile lettura anche per chi non ha sulle spalle studi di peso.

«Questo libro – scrive nella premessa l’autore – propone un radicale ribaltamento di prospettiva sul tema della disinformazione online: si invita infatti il lettore ad abbracciare una prospettiva di disinformazione felice. In analogia con la decrescita felice, si sta suggerendo che si possa vivere circondati di disinformazione, e al contempo trarne valore e benessere: essere felici, dunque, non a dispetto delle bufale, ma proprio grazie ad esse, sviluppando un rapporto più sano con la natura, la qualità e la quantità dell’informazione in cui siamo immersi».

La provocazione è forte. Il problema non sono le bufale, ma siamo noi. «Dobbiamo smetterla di pensare alle bufale come oggetti minacciosi che circolano là fuori, novelli squali bianchi nell’oceano digitale […]. Se di colpo producono disastri peggiori che in passato (tesi tutt’altro che dimostrata, per inciso), ciò dipende dagli atteggiamenti che tutti noi assumiamo o non assumiamo a fronte delle informazioni di cui ci nutriamo ogni giorno».

Quindi, se una notizia falsa circola, la colpa non è di chi ha fatto partire la giostra, ma nostra che ci saliamo senza farci qualche domanda basilare. Non che sia sempre facile, va detto, anzi. Per questo motivo la lettura del libro di Paglieri può essere di grande aiuto.

Verità e giustizia

Dalle notizie false, passiamo alle notizie che, per quanto drammatiche e vicine a noi, dimentichiamo con disarmante facilità.

Qualcuno ancora ricorda l’uccisione di Luca Attanasio, nostro ambasciatore nella Repubblica democratica del Congo, avvenuta a Goma il 22 febbraio di quest’anno. Aveva 44 anni e con lui sono stati uccisi Mustapha Milambo, suo autista, e il carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci appena trentenne.

Matteo Giusti, giornalista aretino, esperto d’Africa e da dieci anni collaboratore della rivista di geopolitica Limes, nel maggio scorso ha pubblicato con Castelvecchi «L’omicidio Attanasio. Morte di un ambasciatore».

Il libro di Giusti da un lato inquadra in modo efficace la situazione ormai strutturalmente caotica della Rdc, dall’altro rende il giusto tributo a un uomo che in quella terra stava lavorando con grande dedizione. Non è un caso se Attanasio è stato ucciso mentre accompagnava un convoglio di aiuti alimentari diretti verso la zona di confine tra Congo e Uganda.

Il lavoro sul campo fatto dall’autore permette di farsi un’idea piuttosto chiara di cosa è successo e perché, ma sarebbe riduttivo pensare a «Morte di un ambasciatore» come a un libro inchiesta. L’esigenza è più alta e traspare chiaramente: «È difficile capire quale possa essere il futuro del Kivu e dell’intero Congo – scrive nella prefazione Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace del 2018 e amico personale di Attanasio e della sua famiglia – […] In questa regione non potrà esserci un futuro di sviluppo senza la pace, e non ci sarà pace senza giustizia […]. Siamo certi che se domani nasceranno, emergeranno dei nuovi Luca Attanasio in Italia e in Congo, il cammino della pace sarà possibile […]. Il futuro ha sempre il volto delle azioni delle donne e degli uomini che malgrado le difficoltà si impegnano a scrivere le più belle pagine della loro storia, e della storia della comunità mondiale».

Il merito del libro di Giusti è la sua capacità di restituire la complessità di una situazione intricata prima di tutto a causa dei nuovi assetti geopolitici, del ruolo non marginale dell’occidente, della corsa alle terre rare e della difficoltà che abbiamo noi italiani di «fare nostre» le cose che succedono lontano dai nostri confini.

L’ipotesi che la morte del nostro ambasciatore, del carabiniere di scorta e dell’autista, sia il frutto di un rapimento finito male è forse la più accreditata e sensata, ma mancano risposte ufficiali. Risposte che difficilmente arriveranno. Quello che possiamo fare, però, è non dimenticare Luca Attanasio, «Un uomo – chiosa Giusti – che era andato nella Repubblica democratica del Congo per rappresentare l’Italia ed era diventato un simbolo di altruismo e generosità e che meriterebbe almeno verità e giustizia, due parole che in Congo hanno perso significato da tempo».

Meraviglia della natura

Restiamo in Africa, ma seguiamo un registro diverso: quello del racconto orale del mito. Lorenzo Allegrini è un giornalista di lungo corso, che ha girato il mondo.

La scorsa primavera è uscito il suo «La leggenda del Capo di Buona Speranza», pubblicato da Il Viandante. Il libro nasce da un viaggio fatto dallo scrittore marchigiano in Sudafrica, ed essendo Allegrini ormai un giornalista prestato tanto al teatro quanto alla poesia, il suo è a tutti gli effetti un poema, sia nella forma che nella sostanza.

Attinge ai miti africani ed europei, gioca con il conflitto perenne tra uomo e mare, culmina con il sanguinoso sbarco dei coloni olandesi. Utilizzando l’espediente del manoscritto ritrovato, ricostruisce il momento in cui prende corpo una delle meraviglie della natura: il Capo di Buona Speranza.

«La leggenda» è diventato un monologo teatrale godibilissimo nel quale l’autore mette sul palco un’energia rara. Seguitelo sul sito dell’Huffington Post dove tiene un blog dedicato alla poesia.

 

Sante Altizio




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi

 




Altrove in ogni dove

testo di Ugo Pozzoli |


Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.

«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.

«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.

«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.

Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.

L’altrove è lontano

Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.

«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.

L’altrove è qui

Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.

È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.

La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.

Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.

Non possiamo tacere

«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».

Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.

Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.

Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.

La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.

Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.

La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.

L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù.  L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.

YARA NARDI /ITALIAN RED CROSS – salvando un migrante in mare

Sognare l’Europa

Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.

Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Sognare missione Europa

Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.

Ugo Pozzoli

 * Regione Europa IMC

Senzatetto – Lisbona, Portogallo




Le molte facce della pandemia

testo di Rosanna Novara Topino |


Le chiusure (lockdown) e le misure contro la pandemia hanno comportato e comportano varie conseguenze negative sulla salute mentale. E su quella fisica, con controlli cancellati e cure rinviate.

Da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus – e ormai siamo alla soglia dei due anni -, veniamo quotidianamente informati sull’andamento dei contagi, dei ricoveri e dei decessi oltre che, negli ultimi otto mesi, delle vaccinazioni anti Covid-19. Siamo quindi portati a pensare che l’unico problema sanitario causato da questo virus sia quello della malattia. Ci sono però altri aspetti sanitari, di cui si parla meno, che sono la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel tentativo di contrastare la pandemia e che vanno presi in attenta considerazione, poiché rischiano di protrarsi più a lungo nel tempo della pandemia stessa e di avere gravi ripercussioni sulla società.

Il peggioramento della salute mentale

C’è stato e c’è tuttora un forte impatto del coronavirus sulla salute mentale, che si manifesta trasversalmente in diverse fasce d’età e che può sfociare in atti di autolesionismo fino al suicidio o in atti violenti verso altre persone.

Sebbene i dati a disposizione siano incompleti, la sensazione è che, a seguito della pandemia, i problemi legati alla salute mentale e il numero dei suicidi siano aumentati. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che la salute mentale è diventata un’emergenza gravissima. In particolare, il suicidio rappresenta un problema di sanità pubblica così rilevante che, nel 2020, l’Oms ha elaborato un documento sulla sua prevenzione rivolto ai professionisti dell’informazione, fornendo loro indicazioni sulle modalità per una corretta informazione, vista la loro potenziale influenza sul manifestarsi del fenomeno, soprattutto tra le persone più vulnerabili.

Già nel 2014, l’Oms aveva dichiarato il suicidio come quindicesima causa di morte al mondo e la seconda tra 15-29 anni d’età. Quindi, il problema era già rilevante prima della comparsa del Covid-19, che lo ha esacerbato. Basta pensare a cosa è avvenuto nel 2020 in Giappone, dove sono morte suicide 20.919 persone, con un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente. Un numero molto elevato, se confrontato con quello dei decessi correlati al coronavirus nello stesso periodo, pari a 3.459. Il dato è ancora più angosciante, tenendo conto del fatto che di questi suicidi 479 sono stati di adolescenti, 140 in più dell’anno precedente.

In Italia, secondo l’Istat, il numero annuale di suicidi è di circa 4mila e questa è la seconda causa di morte nella fascia d’età sotto i 24 anni. Secondo diversi responsabili dei dipartimenti di salute mentale e dei centri di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, le pressioni psicologiche legate al Covid subite da bambini e adolescenti hanno causato un’impennata di ricoveri legati ad atti autolesionistici e a tentativi di suicidio. In particolare, dall’ottobre 2020 in questi centri si è registrato un aumento di ricoveri di questo tipo del 30% per ragazzi e bambini.

La Didattica a distanza (Dad) ha prodotto varie conseguenze negative sugli studenti. Foto Alexandra Koch – Pixabay.

I ragazzi e la scomparsa della socialità

I disturbi sono aumentati notevolmente a seguito dei lockdown, delle chiusure e restrizioni varie, dell’insegnamento a distanza (Dad), che hanno creato una grave crisi psicologica soprattutto, ma non solo, tra i giovani.

Accanto ai ricoveri per gesti autolesivi e tentativi di suicidio, sono in aumento anche quelli legati ai disturbi del comportamento alimentare, soprattutto tra le ragazzine e a episodi di aggressività nei ragazzi.

Durante i periodi di lockdown sono venute meno le occasioni di socialità, che sono indispensabili per tutti, dal momento che l’essere umano è un animale sociale. In particolare, bambini e adolescenti per la loro crescita necessitano della vicinanza dei loro pari, una volta superata l’età della più tenera infanzia, dove prevale il legame con i genitori. Il prolungato isolamento, la mancanza di attività sportiva o ludica e di attività musicali, quali partecipazioni a cori e orchestre, hanno appesantito ulteriormente il carico psicologico già molto negativo dovuto alla paura di ammalarsi, di perdere i propri cari o di essere veicolo per loro della malattia.

I ragazzi e lo stress da Dad

Per molti bambini e ragazzi la didattica a distanza si è rivelata una notevole fonte di stress, che ha acuito il loro disagio psicologico. Questo, tra l’altro, ha portato ai peggiori risultati di sempre dei test Invalsi di fine anno scolastico, oltre che al digital divide tra le famiglie degli alunni più benestanti e quelle più povere e a un aumento di dispersione scolastica, che è passata dal 13% pre pandemia al 25% durante la pandemia (con punte di abbandono di un alunno su tre nel Sud Italia).

A differenza di quanto avviene nelle persone adulte o anziane, per le quali il suicidio è molto spesso legato a forme di depressione, nei giovani esso rappresenta quasi sempre un modo eclatante di manifestare il proprio disagio, la rabbia e la frustrazione dettati dall’impulsività. Quest’ultima è anche un fattore biologico legato allo sviluppo del cervello. Nelle fasi precedenti la maturità cerebrale (raggiunta intorno ai 20-21 anni nelle ragazze e tra i 24-25 anni nei ragazzi), c’è un minore controllo della parte limbica della corteccia cerebrale, che presiede agli impulsi e alle emozioni. Questo comporta una prevalenza nei giovani dell’aspetto emotivo su quello razionale e spiega le grandi difficoltà incontrate da loro nell’affrontare le crisi legate alla pandemia.

Per prevenire queste reazioni giovanili, che possono diventare estremamente pericolose per la loro vita, è importantissimo l’aspetto della familiarità e della condivisione.

A volte fare qualcosa insieme come una passeggiata, un gioco o condividere un hobby dà migliori risultati di tanti discorsi. È fondamentale, da parte degli adulti, dedicare del tempo all’ascolto dei bambini e dei ragazzi, sia in famiglia sia in ambito scolastico ed extrascolastico. Per permettere ai ragazzi di recuperare le carenze accumulate con la didattica a distanza, sarebbe indispensabile farli affiancare da figure di supporto messe a disposizione dagli istituti scolastici, una volta tornati alle lezioni in presenza, in modo da dare loro ripetizioni in orario extracurricolare, senza aggravio economico per le famiglie.

Le conseguenze per adulti e anziani

Tra gli adulti e gli anziani, le persone che hanno scelto di suicidarsi durante la pandemia, lo hanno fatto molto spesso per motivi economici, per l’isolamento e per le pressioni psicologiche, a cui sono state sottoposte.

Per quanto riguarda i motivi economici, va detto che la crisi  esisteva già ben prima della pandemia, che però l’ha notevolmente acuita. Secondo l’Istat, in un anno in Italia sono stati persi 700mila posti di lavoro (da febbraio 2020 a luglio 2021) in coincidenza con la pandemia. Dall’inizio della pandemia sono numerosi gli imprenditori falliti e coloro che hanno perso il lavoro, tra cui molti adulti con figli a carico. Sicuramente le difficoltà economiche (molte famiglie si sono ritrovate in condizioni di sovraindebitamento) e l’incertezza del futuro hanno fatto cadere molte persone in depressione, talvolta con gravi conseguenze.

Per ovviare ai disagi psicologici legati alle chiusure sarebbe indispensabile creare una rete di ascolto e di supporto da parte delle istituzioni pubbliche, in grado di aiutare coloro che, pur avendone bisogno, non possono permettersi i costi di una psicoterapia.

Un altro grave impatto sulla psiche di molte persone è stato causato dall’isolamento conseguente ai lockdown, che ha verosimilmente contribuito al diffondersi di idee suicidarie in molti soggetti, specialmente quelli fragili. Molto spesso hanno fatto questa tragica scelta persone anziane, che temevano per la propria salute o quella del consorte, oppure che hanno dovuto trascorrere troppo tempo senza potere vedere i propri cari, magari rinchiusi in qualche Rsa, dove le visite dei parenti sono state a lungo impedite.

Secondo la Società italiana di gerontologia, in base ad un’analisi condotta su anziani ricoverati con Covid-19, anche senza arrivare al suicidio, l’isolamento è comunque causa di un aumento del rischio di mortalità. Addirittura, secondo questa analisi, la riduzione della durata della vita negli anziani è influenzata dall’isolamento e dalla solitudine a un livello simile a quello di chi fuma 15 sigarette al giorno e maggiore a quello di chi è obeso.

Le mascherine saranno compagne obbligatorie per lungo tempo. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Violenza domestica e femminicidi

Il distanziamento sociale ha avuto spesso come conseguenza un aumento del consumo di alcol e droghe (si è diffuso il fenomeno dello spaccio a domicilio), che si è spesso accompagnato a quello della violenza domestica. Quest’ultima ha portato a un aumento dei casi di femminicidio, quasi tutti in ambito familiare, durante la pandemia.

Secondo l’Istat, nel 2020 i casi di femminicidio sono stati il 50% di tutti i casi di omicidio durante i periodi di lockdown.

Va detto che le misure di quarantena collettiva sono spesso state associate anche in passato a un aumento del rischio di suicidio, come è avvenuto durante le epidemie Sars, Mers e spagnola. Inoltre, il personale medico e infermieristico, che svolse il servizio durante quelle epidemie, così come nella pandemia attuale, spesso è stato colpito da «disturbo da stress post traumatico» (Ptsd).

L’impatto della pandemia sulla salute mentale si è manifestato parallelamente su due piani: da un lato con l’esordio di problemi psicopatologici nuovi nella popolazione generale e dall’altro con l’aggravamento di condizioni patologiche preesistenti, che non è stato possibile seguire adeguatamente presso i servizi psichiatrici, che spesso hanno dovuto ridurre o sospendere l’erogazione delle cure, a causa dell’introduzione delle norme di contenimento del contagio. Per questo motivo molti pazienti con malattia psichiatrica preesistente alla pandemia non hanno potuto essere sottoposti alle normali visite di controllo e si è quindi assistito, nei primi mesi della pandemia, a un netto incremento degli scompensi psicopatologici «prevenibili».

Tra le cause che hanno portato molte persone a un grave disagio psicologico, con possibilità di tendenze suicidarie, oltre al distanziamento sociale e, ovviamente, alla perdita dei propri cari, c’è stata la paura costante di contrarre il virus o l’averlo effettivamente contratto. La paura è stata peraltro enormemente alimentata da un’informazione mediatica, che troppo spesso ha esagerato, mandando in onda, a tutte le ore e per mesi, immagini di ambulanze, operatori sanitari in tuta integrale, bare accatastate: un insieme di cose che possono avere avuto un impatto pericoloso sulle persone più fragili.

I pazienti Covid e quelli non covid

Un analogo problema di visite di controllo posticipate o, peggio, di cure temporaneamente sospese in ossequio alle norme di contenimento del contagio ha riguardato sia i pazienti oncologici che quelli di altre categorie, tra cui i cardiopatici. A distanza di un anno dall’inizio della pandemia e precisamente ad aprile 2021, la Federazione di oncologi, cardiologi ed ematologi (Foce) ha consegnato al premier Draghi un documento di denuncia sui gravi disagi subiti dai pazienti da loro seguiti. Ci sono stati infatti moltissimi ritardi o cancellazioni di interventi chirurgici per tumore. È stata registrata una diminuzione dell’afflusso al pronto soccorso e alle unità intensive di cardiologia degli infartuati e sono stati ritardati o cancellati il 20-30% dei trattamenti oncologici.

Questi disagi hanno colpito 11 milioni tra pazienti oncologici, ematologici e cardiopatici. Inoltre, si sono verificati gravi ritardi anche per quanto riguarda lo screening annuale dei tumori, a cui afferiscono 5-6 milioni di persone. È evidente che la precedenza data alle cure dei malati di Covid causerà altre morti o l’aggravamento di patologie più facilmente trattabili, se diagnosticate tempestivamente. La stessa Foce ha reso noto che, da marzo a dicembre 2020, c’è stato un eccesso di mortalità generale nella popolazione del 21%, rispetto alla media dei cinque anni precedenti: 108.178 decessi in più. Di questi, il 69% era rappresentato da pazienti Covid, molti dei quali affetti da patologie cardiologiche o oncoematologiche, quindi a maggiore rischio di letalità da contagiati. Il restante 31%, però, era costituito da morti non Covid, deceduti per patologie in cui il fattore tempo gioca un ruolo determinante, come quelle cardiologiche e si è trattato di pazienti che non hanno ricevuto tempestivamente un’assistenza adeguata in occasione degli eventi acuti. Nei soli mesi di marzo e aprile 2020 ci sono stati 19mila morti in più delle attese, non legate alla Covid.

Se confrontata con le altre nazioni europee, l’Italia ha avuto, nello stesso periodo, il più alto numero di decessi per patologie non Covid, e questo dimostra che qualche errore di programmazione è stato fatto. Se, infatti, è necessario contrastare la pandemia, tuttavia non possono essere messe in secondo piano patologie altrettanto o più gravi. L’elevata mortalità dovuta a queste ultime è la logica conseguenza dei ritardi nella prevenzione, nella formulazione di una diagnosi, nella presa in carico e nell’attuazione di trattamenti salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che si è pensato di aumentare i posti letto per pazienti Covid a scapito dei posti letto riservati a pazienti di altre patologie, anziché aumentare il numero complessivo dei posti letto ospedalieri, con assunzione di ulteriore personale medico, tecnico e infermieristico.

Questo è il risultato dei tagli alla sanità pubblica fatti da governi di ogni colore politico che si sono succeduti alla guida del nostro paese negli ultimi anni.

Conseguenze sulla vista

Un’altra conseguenza dei lockdown legati alla pandemia è stato l’aumento della miopia, soprattutto tra i bambini e i giovani, dovuto alle molte ore passate ai videoterminali sia per le lezioni a distanza, sia per giocare o stare sui social, che per mesi hanno rappresentato la forma di comunicazione più utilizzata. Un recente studio pubblicato su Jama Oftalmology e condotto su 120mila tra bambini e ragazzi cinesi di età compresa tra 6-16 anni ha rilevato un aumento della miopia tre volte superiore da quando è iniziata la pandemia, rispetto agli anni precedenti.

Anche la vista degli adulti, con lo smart working ha subito dei contraccolpi, ma in questo caso, più che di aumento della miopia (lo sviluppo dell’apparato visivo è ormai completo nell’adulto) si può parlare di pseudo-miopia dovuta allo sforzo accomodativo, gestibile facendo delle pause di circa 20 minuti ogni due ore di lavoro.

Anche in ambito oculistico, in Italia la pandemia ha rallentato enormemente le visite di controllo, portando a liste d’attesa fino a tre anni, che impediscono l’accesso alle cure anche per patologie molto invalidanti come la cataratta e la maculopatia.

Rosanna Novara Topino




Disastro Afghanistan,

un istruttivo fallimento

testo di Francesco Gesualdi |


Prima una guerra assurda, cruenta e costosa, poi vent’anni di occupazione. Oggi, nel paese asiatico, siamo di nuovo al punto di partenza: i Talebani al potere. Con le stesse barbe e le stesse idee.

Ad agosto, l’Afghanistan è tornato alla ribalta della cronaca mondiale per la decisione degli Stati Uniti e dei loro alleati di abbandonare repentinamente il paese. Ritiro che ha coinciso con la ripresa del potere da parte dei Talebani (Taliban), la stessa formazione politica che governava nel 2001 quando gli americani invasero il paese asiatico. Invasione che poi si trasformò in un’occupazione durata venti anni, con la collaborazione di vari altri eserciti dell’alleanza Nato, compreso quello italiano.

La guerra in Afghanistan ha sorpreso l’opinione pubblica mondiale due volte: quando è iniziata e quando è finita: all’inizio perché non se ne capivano le ragioni; alla fine perché niente di quanto era stato dichiarato è stato realizzato. Era stato detto che l’obiettivo era stroncare il terrorismo, introdurre la democrazia e garantire i diritti delle donne. Ma il terrorismo ha continuato a colpire, mentre il paese è stato di nuovo consegnato nelle mani di coloro che si era detto di voler combattere perché nemici della democrazia e delle donne.

Il punto è che le guerre sono odiose per tutti, non solo per le popolazioni che le subiscono, ma anche per quelle dei paesi che le scatenano e ogni volta i potenti debbono farle digerire ai propri cittadini. Non di rado la strategia prescelta è il ricorso a motivazioni nobili che, con il tempo, però, si dimostrano fake news. Per questo i cittadini più critici non si fidano più delle notizie che ricevono e in occasione di ogni conflitto continuano a chiedersi se sia stata raccontata la verità o delle frottole. Un metodo infallibile per uscire dal dilemma non esiste, ma l’assunzione di un supplemento di informazioni è di fondamentale importanza, stando attenti ad approfondire almeno tre aspetti: gli antefatti, il contesto geopolitico, la realtà economica. Anche se va da sé che, sullo sfondo di ogni guerra, c’è sempre l’interesse per la vendita di armi da parte dell’industria bellica.

1979-1989: i russi e i mujhaidin

L’anno da cui conviene partire è il 1979, quando l’Unione Sovietica, a quel tempo nazione confinante, invase l’Afghanistan per sostenere un governo comunista intenzionato, fra l’altro, a imprimere una svolta laica al paese. Ma l’invasione provocò l’opposizione armata da parte di una molteplicità di gruppi locali,  tutti genericamente definiti mujahidin («combattenti»), in realtà tutti diversi l’uno dall’altro per etnia, appartenenza religiosa, impostazione politica.

In effetti, l’Afghanistan è una realtà complessa formata da una quindicina di etnie, in particolare Pashtun, Tajik, Uzbek, Hazara. E benché tutte siano di fede islamica, hanno modi diversi d’interpretare la tradizione e i testi sacri.

I Talebani e Bin Laden

È di questo periodo l’emergere di un gruppo che, vivendo il progetto di secolarizzazione perseguito dal governo filorusso come una forma di colonizzazione, virò verso un’interpretazione rigida dei precetti coranici, ormai caricati non solo di valore religioso ma anche politico, perché rivendicati come tratti essenziali dell’identità afghana. Il movimento, che era capeggiato dal Mullah Omar, prese il nome di Talebani (da «talib», studente in arabo, «taliban» significa due studenti), perché aveva fatto proseliti soprattutto fra i giovani afghani cresciuti nei campi profughi del Pakistan, che avevano trovato nelle scuole coraniche la sola possibilità d’istruzione. Ed è molto probabile che il nascente movimento dei Talebani abbia anche goduto di denaro elargito dagli Stati Uniti che, tramite la cosiddetta «Operazione ciclone», sostenevano la lotta dei mujahidin contro i sovietici. Soldi probabilmente goduti anche da Osama Bin Laden il quale, benché cittadino dell’Arabia Saudita, era corso in Afghanistan per combattere le truppe dell’Unione Sovietica viste come nemiche dell’Islam.

I russi se ne andarono nel 1989. Seguì un periodo di instabilità e di lotte intestine che si concluse nel 1996 con l’ascesa al governo dei Talebani che erano stati capaci di assicurarsi un buon appoggio popolare grazie alle alleanze con i capi locali e alla prospettiva di porre fine alla guerra per bande, alla corruzione e all’illegalità dilagante. Ma all’estero il governo dei Talebani non trovò uguale accoglienza a causa dei suoi metodi repressivi contro le donne e della sua politica decisamente contraria ai diritti umani.

Arrivarono gli attentati dell’11 settembre 2001 che procurarono la morte a quasi tremila persone. Attentati prontamente attribuiti a Bin Laden che, nonostante la vittoria sull’Unione Sovietica, era rimasto in Afghanistan per condurre una nuova lotta, questa volta contro l’Occidente, ritenuto anch’esso responsabile di comportamenti oltraggiosi nei confronti dell’Islam.

Non era passato neanche un mese dall’attacco alle Torri gemelle che le bombe americane già piovevano su Kabul. La colpa dei Talebani era di non aver consegnato Bin Laden, non si sa se per incapacità di catturarlo o per mancanza di volontà. In ogni caso, i politici statunitensi sostenevano che l’incursione contro l’Afghanistan sarebbe stata di breve durata. «Cinque giorni, cinque settimane, magari cinque mesi, non di più. Di certo non sarà una terza guerra mondiale», dichiarò solennemente l’allora ministro della difesa Donald Rumsfeld. In realtà, la cattura di Bin Laden avvenne in Pakistan dieci anni dopo, mentre l’occupazione dell’Afghanistan è durata venti. Errori di calcolo o utile catena di fallimenti funzionali a permettere agli Stati Uniti di rimanere in Afghanistan il più a lungo possibile? Solo i documenti segreti della Cia ci potrebbero dare le risposte, ma un’analisi della situazione geopolitica può aiutare.

Iran, Iraq e Siria

Studiando la carta geografica si nota che l’Afghanistan si trova nel cuore dell’Asia, al centro di un cerchio che in periferia comprende Russia e Cina, due superpotenze che prima della globalizzazione capitalistica erano considerate nemiche, poi solo concorrenti, ma pur sempre rivali. La possibilità di mantenere una presenza militare ravvicinata forniva agli Stati Uniti un vantaggio non trascurabile. Ma ciò che più contava per i contenziosi del tempo, è che l’Afghanistan si trova alle spalle dell’Iran, un paese che dopo la cacciata dello shah era stato inserito nella lista degli «stati canaglia» da parte degli Stati Uniti. E più avanti, verso il Golfo Persico, c’è l’Iraq, altro paese che gli Stati Uniti consideravano nemico. Messi assieme, Iran, Iraq e Siria, formavano quella che George Bush chiamava «l’asse del male», a suo dire un covo di terroristi che andava soppresso. Tuttavia, il paese verso il quale venne messa in atto la strategia più diretta fu l’Iraq. Inventandosi l’esistenza nel paese di armi di distruzione di massa, mai dimostrata, nel marzo 2003 gli Stati Uniti lo invasero facendo cadere Saddam Hussein e lo abbandonarono solo nel 2011, pur mantenendo un contingente di 2.500 marines col compito dichiarato di aiutare le forze locali a sconfiggere l’Isis.

Nello stesso anno in cui le truppe Usa abbandonavano l’Iraq, la Siria piombava in una guerra civile, ancora non conclusa, che in dieci anni ha prodotto 600mila morti e 12 milioni di sfollati di cui la metà rifugiati all’estero. Un vero e proprio inferno nel quale si sono inserite forze di ogni genere, interessate ad assumere il controllo di un pezzo di territorio o a utilizzare un terreno terzo per regolare conti in sospeso fra loro. Fra esse molti eserciti regolari compresi quelli russo, turco, statunitense, quest’ultimo con una presenza di 900 berretti verdi.

Quanto all’Iran, il terzo componente dell’asse del male, era un paese troppo grande e soprattutto troppo armato e organizzato per essere aggredito direttamente o per essere fatto implodere dall’interno. Ma l’idea di stringerlo a tenaglia fra tre paesi alleati degli Stati Uniti (Iraq, Afghanistan, Pakistan) deve essere stata seducente, quantunque l’arma più utilizzata per piegare l’Iran ai voleri delle potenze occidentali siano state le sanzioni economiche. E qui veniamo al terzo ambito d’indagine, quello economico, che va analizzato ogni volta che ci si trova di fronte a un conflitto armato.

Mappa dell’oleodotti TAPI

L’oleodotto Tapi

Al tempo in cui venne invaso, l’Afghanistan non presentava un grande interesse da un punto di vista economico. Paese montuoso di difficile accesso, la sua popolazione è dedita principalmente alla pastorizia e solo nelle zone meno aspre della parte occidentale pratica anche l’agricoltura (con una spiccata predilezione per la coltivazione del papavero da oppio). Si sapeva che nel suo sottosuolo era presente anche del gas, ma non in misura così cospicua da meritare l’esplorazione. Situazione ben diversa da quella dei paesi confinanti, in particolare l’Iran e il Turkmenistan che tutt’oggi si collocano rispettivamente al secondo e al sesto posto per riserve mondiali di gas naturale.

Ma il gas è vera ricchezza solo se si può fare arrivare ai paesi consumatori. Un problema sentito in particolare dal Turkmenistan, incastrato fra il Mar Caspio e le montagne. Per questo sul finire del secolo scorso il Turkmenistan aveva stretto un accordo con l’Afghanistan e il Pakistan per costruire un oleodotto, battezzato «Tapi» (dalle iniziali di Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che portasse il gas verso il Mare Arabico. E subito le imprese petrolifere di tutto il mondo avevano sgomitato fra loro per aggiudicarsi l’esecuzione dell’opera. Il match venne vinto da Unocal, un’impresa americana che però si ritirò quando cominciarono a moltiplicarsi gli attacchi terroristici che facevano puntare il dito contro il governo dei Talebani. La somma da investire era così alta che Unocal affermò di essere disposta a mettersi in gioco solo se l’Afghanistan avesse dato garanzia di stabilità. In un’audizione al Congresso dichiarò: «Il progetto esige finanziamenti internazionali, accordi fra governi e accordi fra governi e consorzio. Dunque, non potremo iniziare la costruzione dell’oleodotto finché l’Afghanistan non sarà amministrato da un governo riconosciuto internazionalmente». E a rassicurarla che il governo degli Stari Uniti aveva recepito il messaggio, nel settembre 2001, pochi giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, il portavoce del dipartimento governativo dell’energia dichiarava: «L’importanza dell’Afghanistan da un punto di vista energetico deriva dalla sua posizione geografica: è l’unico passaggio possibile per fare arrivare il gas dal Mar Caspio al Mare Arabico». In realtà anche l’Iran era un’opzione, almeno da un punto di vista geografico. Ma non lo era da un punto di vista politico, e l’unico modo per permettere alle multinazionali petrolifere americane di condurre i loro affari in Asia Centrale era l’addomesticamento dell’Afghanistan tramite la soppressione dei Talebani e l’instaurazione di un governo amico. Congetture? Può darsi. È un fatto, tuttavia, che nell’ottobre 2001 l’Afghanistan venne invaso, prima con sole bombe, poi anche con truppe, fino a raggiungere una presenza a terra di 110mila uomini nel 2011. Ma le cose non andarono per il verso voluto e l’oleodotto rimase congelato per una diecina di anni. Poi ripartì ma senza le multinazionali americane che, nel frattempo, avevano perso qualsiasi interesse per quell’area geografica. Per di più Unocal, la protagonista principale, era caduta in disgrazia. Travolta da un processo per violazione dei diritti umani a causa di una collaborazione con il regime militare del Myanmar, nel 2005 venne fagocitata da Chevron e scomparve per sempre.

Largo a Cina e Russia

Del resto con la crisi climatica ormai conclamata, il futuro dei combustibili fossili ha i giorni contati mentre altri minerali stanno assumendo importanza.  Fra questi il rame, il litio, le terre rare, di cui l’Afghanistan sembra avere riserve importanti. Ma dopo 20 anni di occupazione militare, che in soldi è costata varie migliaia di miliardi di dollari (5.400 solo agli Stati Uniti), e in vite umane è costata la perdita di 47mila civili e 125mila soldati, di cui 6.300 americani, gli Stati Uniti hanno deciso che era meglio ritirarsi dall’Afghanistan e accettare che altri, magari la Cina o la Russia, traggano vantaggio da tali ricchezze.

La dimostrazione che, dove non può la morale, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

 




Il mare (Es 14,1-15,21)

testo di Angelo Fracchia |


All’inizio del quattordicesimo capitolo del libro dell’Esodo troviamo il popolo ebraico in una situazione scomodissima: durante la tragica notte in cui sono morti i primogeniti egiziani e si è celebrata la prima pasqua, tutti sono partiti per fuggire dalla «terra di schiavitù». Tutti: uomini, donne, bambini, anziani, bestiame… non può certo trattarsi di una carovana veloce. Sappiamo soltanto che, dopo quella che potrebbe sembrare una peregrinazione senza meta (Es 14,2-3), il popolo si trova stretto tra due minacce: davanti il mare, alle spalle il faraone, che si è pentito di averli lasciati partire e ha deciso di inseguirli per ricondurli in schiavitù o sterminarli.

Non sembra esserci via di scampo.

Senza scampo?

Conosciamo bene questa pagina, che si risolverà con l’apertura delle acque del mare da parte di Mosè, con il popolo che attraversa i suoi fondali all’asciutto e con l’esercito egizio che, mentre insegue, viene travolto dalle acque che tornano al loro posto.

È una scena grandiosa, epica, anche crudele, che non a caso conclude quasi sempre le presentazioni «cinematografiche» della vicenda di Mosè.

Il fatto però che, giunti a questo punto della vicenda, il libro dell’Esodo non sia ancora arrivato a metà, suggerisce che il ragionamento biblico è probabilmente più complesso e meno superficiale, e prende in considerazione che la libertà miracolosamente donata non è e non può essere l’ultima parola.

Ma su questo torneremo più avanti. Intanto leggiamo come avviene l’evento poderoso.

Che cosa accadde davvero?

Tanto poderoso e solenne che non può che far sorgere la domanda su che cosa sia davvero, storicamente, accaduto.

Davvero possono essere fuggite dall’Egitto e aver peregrinato nel deserto per quaranta anni seicentomila persone (Es 12,37: e senza contare i bambini)?

Facile per gli archeologi far notare che avrebbero dovuto lasciare qualche traccia in una terra che, con la poca pioggia che riceve, cancella solo molto lentamente i segni di ciò che subisce.

Davvero possono essersi aperte le acque di un mare profondo, per far passare un intero, numeroso (e lento) popolo, mentre l’esercito che lo inseguiva vi moriva? C’è chi giustamente segnala che quello che noi traduciamo come «Mar Rosso» è in ebraico «Mare delle canne», il che farebbe pensare piuttosto a qualche acquitrino poco profondo.

Non sarebbe impossibile immaginare, a quel punto, che il «forte vento da oriente» (Es 14,21) possa essere lo khamsin, una specie di scirocco caldo e secco che in Egitto si alza tra marzo e giugno. In questo caso, però, a essere poco probabile è l’annegamento dell’esercito egiziano.

Come succede per il percorso esatto seguito dagli ebrei nel deserto e nel Sinai, o per la localizzazione precisa del Sinai stesso, dobbiamo accontentarci di ipotesi, alcune delle quali più convincenti, ma che devono essere tutte subordinate alla convinzione che, per chi ha scritto il libro, non era importante cosa era accaduto storicamente e come, ma il senso della vicenda.

A questo punto, possiamo anche continuare a leggere ipotesi e argomentazioni (alcune molto interessanti), ma sapendo che, per interpretare correttamente il libro, dobbiamo fare attenzione a ben altro.

L’ora decisiva

Il libro dell’Esodo racconta questa vicenda come centrale per il popolo d’Israele, ma non la narra al solo scopo di far conoscere a Israele il suo passato, piuttosto per mostrare che la dinamica di quello che avvenne nell’uscita dall’Egitto è vera sempre, nella vita di ogni credente. Verrebbe da pensare, addirittura, che sia una dinamica vera non solo per i credenti nel Dio biblico, ma per chiunque si fidi di qualcuno o qualcosa.

Il popolo ebreo ha assistito, dapprima quasi da spettatore, alle vicende di Mosè. Certo, era dalla sua parte, non era un pubblico neutrale, però sostanzialmente non aveva neppure offerto a Mosè un grande sostegno.

Nella notte di pasqua aveva, invece, dovuto prendere una decisione. Dapprima più «leggera», radunandosi a celebrare la pasqua spargendo il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte, denunciandosi così come quegli schiavi che si stavano preparando ad abbandonare il paese. E poi una più «pesante», con la scelta di partire, di abbandonare la «casa di schiavitù».

Ognuna di queste scelte richiede fiducia, non alla cieca, ma sulla base dell’affidabilità divina, «dimostrata» dalle decisioni precedenti. Ogni scelta, però, non diventa materiale di «prova», ma solo conferma di un’affidabilità. Non si esce mai dalla fiducia, fino alla fine. Anzi, pare che ogni scelta di fidarsi rilanci verso un’altra ancora più grande.

Fino a quella definitiva, decisiva. Perché quella parola che invitava a fidarsi chiede di entrare nel mare. Che si è aperto, è vero, ma quanto può essere affidabile o pericoloso?

Mare, mondo del caos

Aggiungiamoci ancora che, per il mondo semita in genere, il mare è il mondo del caos, del disordine, del male, della morte. Secondo la tradizione ebraica Dio, nella creazione, mette ordine, divide le acque tra di loro, e poi dalla terra (Gen 1,6-10).

Nella struttura ideale ebraica, riprendendo antiche costruzioni mentali sumere, chi divide garantisce la vita. Anche nell’organizzazione del popolo ebraico, Israele è separato dalle genti, e al suo interno una tribù, quella di Levi, è distinta dalle altre (non possiede terra) e una delle sue famiglie (quella dei discendenti di Aronne) è ulteriormente separata allo scopo di servire con il sacerdozio.

Ma il mare è il luogo in cui non si possono tracciare confini, righe, divisioni. Ecco perché è sempre stato ritenuto il luogo più minaccioso tra tutti quelli naturali.

E Dio chiede di entrarvi, di addentrarsi in ciò che più si teme, nella paura anche irrazionale. Non offre garanzie, assicurazioni. C’è solo una parola a chiamare alla libertà al di là del mare.

 Fidarsi

Arriva un momento in cui la chiamata al bene, alla vita, sembra assumere la forma di ciò che la nega: sarà il matrimonio per due innamorati, la consacrazione per altri, ma anche la scelta definitiva e irrevocabile in una professione, e altro ancora, saranno tutte quelle sfide e scelte che ognuno di noi conosce e che a volte sfuggono persino a chi ci è vicino.

Su tutto ciò, Esodo ribadisce in modo netto che ci sarà bisogno di dare fiducia a ciò che (e a chi) ci promette vita. Non abbiamo garanzie o assicurazioni. E questa certezza, che già non sarebbe poco, si accompagna al chiarimento di altre coordinate che parlano di che cosa succede al credente di ogni tempo quando si avventura nella relazione con Dio, ma in fondo spiegano anche che cosa accade a chiunque si fidi.

Fidarsi resta l’avventura più straordinaria e umanizzante delle vicende di tutti.

Il senso della pasqua

Proviamo a mettere un po’ in ordine queste coordinate, così come scaturiscono dal racconto.

  1. a) Attraversare, non aggirare. Il mare che ci sfida, che ci minaccia, che pare negare la promessa, può essere vinto soltanto attraversandolo. Non aggirandolo, evitandolo, venendo miracolosamente attratti da un’altra parte. L’abisso si vince guardandolo negli occhi. Gesù verrà liberato dalla morte morendo.
  2. b) Chiamata e relazione. Si può decidere di attraversare questo mare solo perché chiamati da una voce a passare all’altra sponda. Non è frutto di calcolo (nessuna delle questioni importanti della nostra vita può essere semplicemente calcolata, esigono tutte che ci fidiamo), ma neppure di solo senso del dovere. C’è una relazione personale alla base. Chi si sposa, non lo fa per difendere il matrimonio, ma per amare quella persona lì; il genitore che si sacrifica in un lavoro lontano da casa, non lo fa perché è doveroso mantenere i figli, ma perché quei figli hanno dei nomi e delle storie. Non è la mappa a portare al di là del mare, è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» a invitare a fidarsi e a passare di là.
  3. c) La salvezza, la libertà, la vita, non consistono nel tornare indietro. Tornare indietro è la tentazione del popolo nel deserto, ed è molto spesso la nostra tentazione: quella di voltare le spalle alla meta, di vivere di nostalgia e di rimpianti. La vita autentica non sta nel passato, ma può essere raggiunta solo andando avanti, procedendo. Il passato può essere conferma di affidabilità di chi chiama o consapevolezza di schiavitù, ma non può tornare.
  4. d) Davanti c’è una promessa. Non una garanzia, un progetto, ma una parola personale che chiama. Il futuro resta incerto e ambiguo, ma non lo vivremo da soli.
  5. e) Una bozza, non un progetto definitivo. Nulla è già inserito in un piano dettagliato. Anche nella storia religiosa spesso lo si è immaginato, sognato. Le apocalissi ritenevano che Dio avesse già deciso tutto il piano del suo intervento. Nel percorso di Esodo, però, tanti passaggi sembrano casuali, imprevisti e imprevedibili. Ma tutti si svolgono alla presenza di Dio, che non ha progettato tutto, eppure garantisce che non abbandonerà nessuno. Già all’inizio della storia, quando Mosè aveva chiesto a Dio di presentarsi, non aveva risposto con una definizione o un progetto, ma con l’assicurazione che non sarebbe sparito (Es 3,14).
  6. f) Un paradosso: scelta di amore e libertà. Questo pone il credente nel Dio della Bibbia in una posizione apparentemente paradossale. La storia non è già scritta, Dio non l’ha già in mano e non conosce il futuro. Se così fosse, l’uomo non sarebbe libero. Una delle caratteristiche costanti di tutta la Bibbia (e tantissimo di Esodo), invece, è che Dio ricerca la relazione con l’uomo, una relazione di affetto e libera. Quindi, una relazione che esige la piena libertà dell’altro. Non può esistere affetto senza libertà: anche chi vorrebbe legare l’amato per non farlo andar via, in realtà vorrebbe che l’amato, pur potendosene andare, non lo voglia fare. Dio è così, rispetta la libertà umana e quindi non sa che cosa risponderà l’uomo.

Un «senso» da scoprire

Dio ha tutto in mano e rende pieno di senso il percorso di ogni uomo; ma, nello stesso tempo, decide di ritrarsi, per lasciare piena libertà a ogni singolo essere umano. In tal modo, Dio perde la possibilità di indirizzare la storia su binari sensati. Questo, di cui spesso ci lamentiamo («Oh, se solo Dio punisse i malvagi! Ma perché permette tutto questo?»), è il segreto della piena libertà e dignità nostra. Dio non ci tratta da bambini piccoli, ma da adulti che possono responsabilmente e autonomamente decidere. Ciò restituisce alle vicende storiche tutta la loro incertezza.

No, non tutto è sensato, nella grande storia dell’umanità e nella nostra personale, ma Dio promette che tutto verrà raccolto, alla fine, in un grande quadro di senso e di vita piena.

Per una volta, lasciamo che a chiudere la riflessione sul passaggio del mare siano le parole di un bravo biblista, Paolo De Benedetti, parole pesate e precisissime, che già hanno ispirato molto di quello che c’è scritto in queste pagine: «Il senso dell’Esodo è che la terra promessa c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato».

Angelo Fracchia
(Esodo 08 – continua)




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Zizoti di Zechi, martire per amore

testo di Gigi Anataloni |


Il 1° ottobre 1921, padre Luigi Graiff (detto Zizoti [Gigiotti] in famiglia) nasce a Romeno, in Trentino, da Fiorenzo (detto Zechi) e Giuseppina Deromedis. Dal 1927 al 1934 frequenta le scuole elementari al paese. Conosce i Missionari della Consolata e, nell’ottobre del 1934, entra nel seminario minore di Favria Canavese, vicino a Torino, per gli studi ginnasiali (medie più 1ª e 2ª liceo di oggi, ndr). Qui frequenta i primi tre anni di ginnasio e poi la quarta e la quinta a Varallo Sesia (Vc). Il 15 agosto del 1939 veste l’abito chiericale per mano di monsignor Carlo Re e nell’ottobre comincia i tre anni di liceo.

Sono anni duri, gli anni del secondo conflitto mondiale. Il cibo è scarso anche nell’Istituto e i giovani chierici liceali ne soffrono. Nel giugno del 1941 Luigi completa a fatica la seconda liceo perché sempre malaticcio. Le vacanze estive lo rimettono un po’ in sesto, ma alla fine della terza il suo fisico è minato: ha contratto la tubercolosi. Passa quindi lunghi mesi, che diventateranno anni, nel sanatorio di Arco (Tn).

Come hai vissuto quel lungo periodo di malattia?

A luglio del 1943 erano già cinque mesi che mi trovavo in sanatorio e scrissi una lettera ai superiori a Torino. «Qui mi hanno voluto il Signore e la Madonna, e qui sono venuto compiendo con amore e volentieri questo sacrificio che mi costò assai. Finora nella mia vita non m’era successo mai niente, e appunto per questo m’attendevo qualche prova dal Signore. È venuta e l’ho benedetta. Sono pienamente rassegnato alla santa Volontà di Dio. Le sue vie sono mirabili se saprò uniformare la mia alla Sua santa Volontà. Il mio morale è molto alto e forte, e quando mi sopraggiungono le ore tristi, melanconiche cerco di scacciarle come tentazioni, perché potrebbero nuocermi. Finora tutto bene. Sono sempre contento e allegro. La ricordo giornalmente nelle mie preghiere. Le chiedo un memento nella santa Messa».

Una volta guarito, sei tornato in seminario?

È stata lunga guarire, ma nell’ottobre del ‘46 ho iniziato gli studi teologici alla Certosa di Pesio dove gli studenti erano stati trasferiti dopo che la Casa Madre e il seminario a Torino erano stati bombardati e non erano ancora agibili. Nel 1948, sempre in Certosa, ho fatto l’anno di noviziato e poi i primi voti religiosi il 1° ottobre 1949, giorno del mio 28° compleanno. In seguito, c’è stata un’accelerazione, e in pochi mesi ho completato tutti i passi necessari, ricevuto gli ordini minori e il diaconato, e il 18 dicembre di quell’anno sono stato ordinato sacerdote. Ricordo che, poco prima dell’ordinazione, scrissi una lettera al padre Gaudenzio Barlassina, superiore generale, ringraziandolo per la sua vicinanza e chiedendogli preghiere affinché «il profumo della mia vita fosse motivo di gioia per la Chiesa di Cristo».

Sei partito subito per le missioni?

Praticamente sì. Ho dovuto passare ancora un annetto a completare i miei studi teologici e nel marzo del 1951 sono partito da Venezia in nave per il Kenya, destinato alla diocesi di Nyeri. Prima nella missione di Gatanga e poi, dal 1954 al 1960, a Mugoiri. Sono stati anni bellissimi, di piena immersione nella realtà del popolo kikuyu.

Mentre costruivo la chiesa di Mugoiri si rinsaldava nella fede una comunità cristiana molto vivace, nonostante le tante difficoltà di quegli anni di rivolta anticoloniale (e a volte anche anticristiana) dei Mau Mau, di cui i Kikuyu erano i principali protagonisti.

Sei rimasto dieci anni di fila in Kenya, ma non facevate mai le vacanze in Italia?

Un tempo, quando si partiva, lo si faceva per la vita, anche perché i viaggi non erano facili. Invece noi potevamo già tornare per tre mesi ogni cinque anni. Quando sono tornato in Italia nel 1961, però, mi sono dovuto fermare per circa due anni, perché la mia salute non era delle migliori. Sono stato a Rovereto, nel seminario, sia per dare una mano, che, soprattutto per rimettermi in sesto. Però la nostalgia dell’Africa era troppo forte, tanto più che ero ben cosciente che il mio vescovo a Nyeri, monsignor Carlo Cavallera, era impaziente di aprire nuove missioni nel Nord della sua enorme diocesi, dove ai missionari era stato impedito di entrare fino ad allora.

Chiesa di Mugoiri

Ci vuoi spiegare meglio?

Certo. La diocesi di Nyeri è stata la prima a essere fondata dai Missionari della Consolata, già nel 1905. Aveva un’estensione enorme. Con la diocesi di Meru, che sarebbe stata separata da essa nel 1926, copriva un’area che andava dal Lago Rodolfo (oggi Turkana) fino ai confini con la Somalia e da un centinaio di chilometri a Nord di Nairobi fino all’Etiopia, un territorio più grande dell’Italia. Ma fino a dopo la Seconda guerra mondiale, tutta la zona poco più a Nord dell’equatore e a Est verso la Somalia era stata off limits per i missionari cattolici. Gli inglesi, allora colonizzatori, non la consideravano sicura e, tenendo conto che gli abitanti erano solo poche decine di migliaia, e tutti pastori nomadi, ritenevano che non fosse il caso di disturbare i musulmani e i pochi protestanti che erano già là (dove gli inglesi avevano aperto degli uffici governativi) ed erano considerati più che sufficienti per i bisogni religiosi di quella gente.

Ma monsignor Cavallera non era dello stesso parere. Sapeva che in quelle zone c’erano anche delle piccolissime comunità cattoliche e poi non poteva ignorare un così vasto territorio affidato alle sue cure pastorali. Per questo, fin dai primi anni Cinquanta, aveva fatto avventurosi viaggi per visitare tutti i centri dove gli inglesi avevano uffici governativi, da Wajir a Moyale, da Laisamis a Loyangallani, da Baragoi a Marsabit. Si era reso conto che sì, protestanti e musulmani si occupavano di religione, ma niente di più. Poi la gente non era affatto musulmana o protestante, ma la maggior parte era di religione tradizionale. In più non desiderava predicatori o imam ma molto di più scuole per i propri figli, centri di salute, progetti di sviluppo, acqua, cibo sicuro e pace. Così il vescovo aveva mosso mari e monti, con la tenacia di cui era capace, fino a ottenere dall’autorità coloniale il permesso di aprire missioni nel Nord, nel Marsabit e nel Samburu.

E qui vieni tu

Già. Monsignore era uno che non si risparmiava, ma era anche molto esigente con gli altri. Se mandava un missionario a iniziare una nuova missione (ed entro il 1964, anno in cui Marsabit è diventata diocesi, ne aveva iniziate ben 14), voleva che le cose fossero fatte «bene e subito», non dopo anni. Non importava se quella era una mission impossible dato che sul posto non c’era nulla e si doveva far venire il cemento da centinaia di chilometri, scavare pozzi per avere l’acqua, raccogliere le pietre per le fondamenta, trovare la sabbia per fare i blocchi, tagliare la legna per avere assi e travi, dormire con un occhio aperto per via degli animali (iene, leoni, elefanti e serpenti) che di notte entravano nel campo, creare piste e strade, attraversare pericolosi fiumi stagionali. Così lui mi ha chiamato, perché mi aveva visto costruire la chiesa di Mugoiri e aveva capito che ero di poche parole ma mi sapevo arrangiare.

La missuione di Laisamis

Da dove hai cominciato?

Nell’agosto del 1963 mi ha mandato a fondare la missione di Laisamis, tra i pastori rendille, più o meno a metà strada tra Isiolo e Marsabit. L’anno dopo, ho aiutato anche per le prime costruzioni della nuova missione di Archer’s Post tra i Samburu, circa 125 km più a Sud. A Laisamis sono rimasto dieci anni. L’inizio è stato davvero duro. Quando sono arrivato non c’era nulla. I serpenti erano i padroni assoluti. Mi attendeva un lavoro immane. Ho misurato allora a lunghi passi l’area della futura missione, mi sono rimboccato le maniche e, con l’aiuto di alcuni volenterosi del luogo, ho cominciato a rimuovere le pietre. E poi è venuto tutto il resto del lavoro. Scuola (che serviva anche da chiesa), dormitori per gli studenti e dispensario (che sarebbe diventato poi un vero ospedale) sono state le prime costruzioni che ho fatto. Entro il 1965 sono riuscito a costruire anche una casetta per me.

Cos’è che ti ha provato di più?

La solitudine. È vero che il lavoro non mancava e attorno c’era la gente del villaggio, i bambini della scuola, i maestri e gli infermieri, ma, come missionario, ero solo. E alcune volte la solitudine diventava intollerabile, come è successo nel luglio 1964 dopo che il villaggio e la missione erano stati fatti bersaglio di un attacco notturno degli Shifta, quando ho mandato questo messaggio via radio a Nyeri: «Io sto male, ho bisogno che venga subito qualcuno». Un mio confratello, mio grande amico, ha subito accolto l’appello e quando, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto Laisamis sull’imbrunire, dal poggio della missione gli ho gridato: «Te l’ho fatta». Non ero ammalato, avevo solo bisogno di compagnia.

Ovvio che poi c’erano altre difficoltà. Una delle più grandi era quella degli Shifta, banditi di origine somala che terrorizzavano la popolazione razziando il bestiame e uccidendo indiscriminatamente. Quando hanno attaccato Laisamis, hanno fatto scappare tutta la gente, terrorizzata dalla loro violenza. Sono stato l’unico a rimanere, anche se da solo. Vani sono poi stati i miei appelli affinché la gente tornasse. È stata solo la fame e la mancanza di pascoli che li ha convinti a ristabilirsi attorno alla missione, dove, grazie al fiume stagionale, avevano cibo e acqua per il loro bestiame.

Monsignor Carlo Cavallera e padre Luigi Graiff

Intanto nel 1964 Marsabit era diventata diocesi, staccandosi da Nyeri, anche se le strutture erano minime e il vescovo viveva sotto una tenda.

Il vescovo, sostenuto dall’arrivo di nuovi missionari – nel 1968 sarebbe arrivato anche un mio compaesano, padre Aldo Giuliani, che era entrato in seminario dopo avere partecipato alla mia ordinazione sacerdotale – continuava nel suo impegno per aprire e rafforzare nuove missioni. Nel 1965 ha iniziato la missione di Loyangallani, al Lago Rodolfo, e lo ha fatto con un maestro e un catechista, dopo che lì, il 19 novembre 1965, era stato brutalmente ucciso dagli Shifta il padre Michele Stallone. Così nel 1973 ha mandato me in quell’oasi verde sulle sponde pietrose del lago, dove a pochi chilometri di distanza, a Komote, viveva la piccola comunità dei pescatori Ol Molo che avrebbe subito rubato il mio cuore. Avviata Loyangallani, nel 1979 il vescovo mi ha spostato a South Horr con il compito particolare di curare le due comunità di Tuum e Parkàti che erano state iniziate pochi anni prima da padre Giuseppe Polet.

Ma non era troppo pericoloso spingersi in quelle aree così remote?

Tuum e Parkàti sono, ancora oggi, due punti che trovi a fatica sulle carte geografiche. Tuum è in una valle sul versante Ovest del monte Nyiro, il monte sacro dei Samburu, all’opposto di South Horr, mentre Parkàti si trova a una ventina di chilometri più a Nord verso il lago, in un territorio caldissimo, la Suguta Valley. Grazie alla presenza di sorgenti d’acqua, erano quasi delle oasi adatte per costruire una scuola e un centro di salute per i nomadi che là vivevano.

Lì, ancora tren’anni prima, sospinti dalla fame, abusivamente, i Turkana erano entrati nella terra dei Samburu. Erano file di donne, uomini, vecchi e bambini che, per le piste sassose e polverose, preceduti dai loro armenti e da qualche asinello carico di pentolini, pelli e stracci, curvi e tristi, fuggivano dalla fame.

Inizialmente erano poche migliaia, ma quando sono arrivato a South Horr, la loro presenza contava ormai più di 30mila persone. Poco a poco, i Turkana si erano impadroniti della lunga striscia di territorio situata a Ovest dell’orrida e scoscesa valle di Suguta, una terra tristemente nota per le frequenti scorrerie dei banditi Ngorokos, e quindi poco frequentata dai Samburu.

Chiesetta di Parkati

Chi sono gli Ngorokos?

Erano una banda di predoni, composta prevalentemente da Turkana, ma anche da altri gruppi etnici. Si ritiene che a loro si fossero uniti anche degli ex militari ugandesi di Idi Amin, defenestrato nel 1979. Avevano armi sofisticate e si sospettava che qualcuno dall’esterno li manovrasse e comunque comprasse il bestiame da loro rubato, che andava poi a finire nei macelli di Nairobi. Attivi fin dagli anni Sessanta, hanno fatto pesanti incursioni nei villaggi dei Samburu e dei Rendille, che hanno poi cercato vendetta attaccando i Turkana, aumentando così i conflitti intertribali.

Fino a che punto i Turkana erano responsabili delle scorrerie operate dagli Ngorokos?

La risposta non è facile. Se da una parte è vero che nella banda erano attivi molti elementi della loro tribù, dall’altra è anche vero che i Turkana detestavano cordialmente quegli assassini, chiedendo al governo e persino a noi missionari le armi necessarie per combatterli. E avevano le loro buone ragioni. Quando gli Ngorokos preparavano una razzia contro i Samburu, non trovavano di meglio che allenarsi assaltando le manyatte dei Turkana, violentando donne e ragazze e uccidendo quanti opponevano resistenza. Quando poi compivano le loro razzie nei territori dei Samburu o dei Rendille, chi ne andava di mezzo erano ancora i Turkana perché ritenuti responsabili dell’accaduto. Nel 1975, la conca di Parkàti è stata spettatrice di una di queste feroci rappresaglie: quattordici fra vecchi, donne e bambini, sono stati trucidati dai Rendille, e 7mila i capi di bestiame (capre, asini e cammelli) razziati.

E voi siete andati di proposito a costruire una missione proprio là?

Proprio così. Abbiamo voluto impiantare a Parkàti una piccola stazione di missione perché il sorgere di un abitato stabile avrebbe garantito protezione e tranquillità alla gente, e la presenza di missionari, disposti a servire indistintamente i due gruppi, avrebbe contribuito a placarli e conciliarli. Con la missione, poi, si sarebbe dovuta aprire anche una strada che avrebbe apportato non pochi benefici: dall’intervento tempestivo delle forze dell’ordine in caso di necessità; al trasporto di acqua e generi alimentari, soprattutto nei periodi di siccità; alla rapidità di spostamento anche per la popolazione e il bestiame.

È stato padre Polet che ha convinto il governo ad aprire una strada tra le rocce, guadagnandosi così la totale fiducia della gente, e poi ha costruito un dispensario, aule scolastiche, dormitorio e casette per i maestri. Nel 1977 era spuntata anche la cappella, umile ma funzionale, e, infine la casetta per il missionario. Nella valle dell’inferno era nata la missione di Parkàti. Ogni fine settimana, da South Horr, andavo là e a Tuum.

Cos’è successo all’inizio del 1981?

La situazione era molto tesa. Le razzie degli Ngorokos erano continue e stavano diventando sempre più forti e più crudeli. Prima di Natale, gli altri missionari mi avevano sconsigliato di andare troppo spesso a Parkàti, ma avevo risposto che, se veramente avessero voluto uccidermi, avrebbero potuto farlo già tante altre volte. Solo poche settimane prima, ad esempio, avevano assalito la bottega di Parkàti mentre io ero lì a vedere tutto a circa cento metri di distanza. Scherzando, i miei confratelli mi dicevano che ero il cappellano degli Ngorokos  e, prima o dopo, li avrei convertiti tutti. Anche alcuni dei miei cristiani mi avevano sconsigliato di andare, ma un po’ celiando, un po’ sul serio, avevo risposto loro: «Cosa debbo farci dal momento che la mia tomba è là?».

E così ti sei preparato al safari.

Il 9 gennaio, era venerdì, al mattino presto sono andato alla missione di Baragoi per acquistare farina e zucchero da portare a Parkàti. A padre Pietro Davoli e suor Cristiana Sestero, che mi pregavano di non andare laggiù perché ormai erano scappati quasi tutti a causa degli Ngorokos, ho risposto: «Anzitutto, faccio solo il mio dovere; in secondo luogo, vi sono ancora i bambini della scuola e i pochi vecchi che non sono riusciti a fuggire; se non porto loro un po’ di farina, che cosa mangeranno? Non posso lasciarli morire di fame. D’altronde, se il Signore mi chiama, sono pronto».

Lo stesso giorno, passato a South Horr e caricato tutto il necessario, sono partito per Parkàti e, passando per Tuum, mi sono fermato a visitare la famiglia di Veronica che aveva cura della chiesetta quando io ero assente. Vedendo un calendario sulla parete della capanna, mi è venuto di dire: «Sapete? Morirò il giorno 10 gennaio». Poi ho consegnato a Veronica una busta: «Qui c’è qualche shellino, dopo la mia morte fatemi dire delle messe». Prima di partire le ho anche dato quaranta metri di cotonata blu per fare dieci divise per i bambini della scuola, chiedendole di tenerne da parte una misura grande per avvolgervi il mio cadavere. Perplessa e un po’ spaventata, mi ha domandato: «Padre, perché parli così oggi?». Sono rimasto zitto per un po’, poi, ridendo, le ho detto: «Veronica, tieni d’occhio il sacchetto del denaro, non voglio morire con quello come Giuda». Li ho salutati e sono poi arrivato a Parkàti, dove mi sono fermato tutto il sabato.

E sei partito per tornare a Tuum.

Domenica mattina, l’11 gennaio verso le 6 e mezza, sono partito per Tuum dove, come al solito, mi aspettavano per la santa Messa. Mi accompagnava il catechista Patrick, Peter Areman (un giovane diciottenne) e quattro ragazzi che dovevano andare a scuola a South Horr. Il viaggio è stato senza intoppi fin quasi a metà del percorso. A una dozzina di chilometri da Tuum, improvvisamente si è parata davanti a noi una ciurma urlante di uomini armati. Erano più di duecento. Avevano panghe (coltellacci), lance, fucili e anche mitra. Ho capito immediatamente il pericolo e ho tentato di invertire la marcia, ma una raffica ha bloccato la Land Rover. Non c’era più scampo. Eravamo accerchiati. Sceso di corsa, sono andato dietro per aprire il portellone della Land Rover e far uscire i ragazzi. «Non ci resta che inginocchiarci, pregare e morire», ho detto loro. Speravo proprio che si limitassero a derubarci.

Croce posta sul luogo uccisione padre Graiff a Parkati, con padre Pietro Davoli e padre Cornelio Dalzocchio

È l’11 gennaio, solennità del Battesimo del Signore. Padre Zizoti, riceve il battesimo per la Vita.

Funerali di p Graiff .

Una fucilata alla testa lo fa cadere nelle braccia del catechista. Anche Peter e Lothuru Lomakar, uno degli studenti, sono brutalmente ammazzati. Il catechista Patrick, tra le botte, riesce a parlare con gli assalitori, riconoscendone alcuni. Supplica e ottiene di avere salva la vita, per sé e i ragazzi superstiti. È percosso e spogliato. Gli dicono di avvertire la missione. Riesce a spostare il corpo di padre Graiff a circa due metri dalla macchina che è stata incendiata. Il corpo però subisce gravi lesioni perché i banditi infieriscono su di lui, denudandolo e strappandogli il cuore e le viscere, quasi applicando antichi e brutali rituali per rubargli lo spirito di uomo coraggioso. Patrick risale con grande difficoltà fino a Tuum ad avvisare. Di qui due giovani partono immediatamente con una lettera per padre Cornelio Dalzocchio a South Horr e, attraversando la montagna del Nyiro, giungono alla missione verso le cinque del pomeriggio. Dolore e sbigottimento. Partono subito in quattro, con la Land Rover: padre Dalzocchio, don Tibaldi, suor Floremilia e suor Assunta. Quando, in piena notte, giungono sul luogo dell’eccidio, una scena raccapricciante si presenta ai loro occhi: tre corpi nudi, orrendamente feriti e crivellati di proiettili, bruciati e tumefatti, giacciono sul terreno accanto alla carcassa della Land Rover.

Raccolgono i resti, li trasportano al centro di Maralal, a oltre 200 chilometri di distanza, dove, oltre alla missione, c’è anche il posto di polizia. Espletate le formalità burocratiche e ottenuto il permesso di sepoltura, il giorno dopo hanno luogo i funerali, celebrati da mons. Carlo Cavallera e da tutti i missionari della diocesi. Il pianto dei missionari, degli africani e in particolare dei nomadi è immenso.

Padre Luigi è ora sepolto nel cimitero della missione di Maralal, accanto alle spoglie di padre Michele Stallone, ucciso a Loyangallani il 18 novembre 1965 e di padre Luigi Andeni, ucciso ad Archer’s Post il 15 settembre 1998.

Gigi Anataloni

Maralal Mission cemetery