Vince il profitto, perde la salute

Che cosa mangiamo? (2a puntata)

Il defoliante alla diossina usato durante la guerra del Vietnam; le banane trattate con un prodotto altamente cancerogeno; le vittime della Union Carbide che ancora attendono un risarcimento; le acque infestate da centinaia di sostanze nocive; le api impazzite. I disastri sono ovunque, perché i pesticidi usati dall’agricoltura industriale hanno ridotto la biodiversità e compromesso la catena alimentare. I danni prodotti pesano su tutta la collettività e sul nostro futuro.

Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.
L’inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d’inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell’ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell’ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l’eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l’uomo. L’uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un’agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell’agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell’iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch’essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici» , cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall’India e da alcuni paesi dell’America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.

L’avvelenamento del Sud del mondo

In linea di massima, l’80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l’agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l’80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l’uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l’analfabetismo, la mancanza totale d’informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.
Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l’uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall’Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smistamento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l’Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l’84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l’88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell’ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al milione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.

Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon

Emblematico è il caso dell’intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l’esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (Califoia) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l’immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in Califoia e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell’ambiente e capace di provocare inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l’uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all’Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni ‘70 e ‘80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell’Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). In un’intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni ‘60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni ‘70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d’irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell’impacchettamento delle banane. Inoltre venne contaminata l’acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l’acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d’intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa  produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente.

La strage di Bophal
(ma non furono i terroristi)

Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l’isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell’aria, a seguito di un’esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l’incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l’esplosione l’ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che foiscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pag. 25).
C’è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest’ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d’invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all’inquinamento di aria, acqua e suolo.

Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi

E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all’anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l’area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell’atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un’intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell’Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.

Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali

Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli Ogm, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l’uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all’erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell’erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell’agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.  
L’eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. Infatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l’agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all’impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetali coltivabili a qualche centinaio.

La biodiversità uccisa dall’agricoltura industriale

Purtroppo, l’agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l’agricoltura industriale porta all’estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell’industria chimica, anziché a quelle dell’ecosistema. Inoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell’insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l’intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l’utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l’infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?

Più pesticidi, più resistenza, più danni

La risposta sta nel fatto che l’insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d’individui, ma si tratta purtroppo d’individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d’insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l’agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d’insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.
Consideriamo poi che l’adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. Inoltre i predatori, divorando grandi quantità d’insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, man mano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un cloroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l’uomo è al vertice della catena alimentare.

La sperimentazione e la «dose letale 50»

Oltre a tutto ciò, l’agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d’acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L’impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l’acqua del suolo. L’irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un’agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo. 
C’è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L’EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull’uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l’ora. I partecipanti all’esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l’esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall’amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005, denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso. Tra le aziende, che commissionarono questi studi c’è la Bayer. In Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org), che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.
Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.

Senza pesticidi si può: la lotta biologica

Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l’uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all’uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitornidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitornidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell’artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l’ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all’allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B. impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T. harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.

Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio

E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un’indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L’impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d’intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all’effetto dei pesticidi si assomma quello dell’inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.                           •

Roberto Topino e Rosanna Novara




«Fanno 6 euro, pesticidi compresi»

Cosa mangiamo? (1a puntata)

È triste dirlo, ma circa la metà della frutta e un quarto della verdura in commercio sono contaminati. I pesticidi contenuti nei prodotti che consumiamo producono danni, anche molto gravi, alla nostra salute. Che fare? In primis, essere informati. E poi agire di conseguenza. Nella speranza che il futuro ci porti un’agricoltura più biologica e meno dominata dalle regole del mercato.

Stiamo facendo la spesa nel reparto ortofrutta di un grande ipermercato di Torino e, come tutti, facciamo il confronto tra i diversi prezzi. All’improvviso, la nostra attenzione viene attirata dai cartelli di certe varietà di frutta, tra cui due diversi tipi di banane, pompelmi, arance di Valencia, fichi, limoni. Nei cartelli in questione, oltre il prezzo, alla provenienza, al nome della varietà del frutto e al numero per la pesata leggiamo la frase: «Trattato con…», seguita da sigle come TBZ, E232, E904, oppure da nomi come  tiabendazolo, imazalil, ortofenilfenolo. Molto interessante… o inquietante, dipende dal punto di vista. Già perché queste sigle e questi nomi appartengono ad alcuni fra gli antiparassitari (in questo caso, fungicidi) comunemente usati in agricoltura. Diamo un’occhiata ai cartelli delle altre varietà di frutta e verdure, ma non troviamo altre indicazioni di questo tipo, tranne quelle ordinarie. In particolare non ci sono indicazioni sull’uso di antiparassitari per alcun prodotto di provenienza italiana, se non per i limoni. La domanda che ci sorge spontanea è: «Ma questi prodotti non sono trattati, o il trattamento non è dichiarato?».

Le analisi sui prodotti:
una conferma nero su bianco

Per provare a darci una risposta, abbiamo esaminato l’ultimo rapporto di Legambiente – Pesticidi nel piatto 2007 – relativo alle analisi condotte nelle varie regioni italiane su campioni di frutta e di verdura, da parte dei laboratori di Istituti zooprofilattici, di Arpa, di Direzioni generali Sanità, di presidi di prevenzione delle Asl. Questo rapporto si riferisce ai dati raccolti nel 2006 dalle analisi condotte su 10.493 campioni ortofrutticoli e sui loro derivati quali olio, vino, ecc. È anzitutto opportuno dire che i controlli sono stati eseguiti dalle varie regioni in modo disomogeneo, per quanto riguarda il numero delle analisi svolte, con regioni che ne hanno effettuato un elevato numero, come il Lazio (1256) o la Campania (706), altre con un numero di analisi intermedio come il Piemonte (450), altre ancora con poche analisi effettuate come la Valle d’Aosta (60) o addirittura nessuna, come il Molise. Ciò che risulta subito evidente dai risultati di queste analisi, nonché dal loro confronto con i dati dell’anno precedente, è che nelle regioni con un più elevato numero di controlli è più alto il numero dei campioni irregolari o regolari, ma multiresiduo, rispetto alle altre regioni, ma questo risultato è solo dovuto alla maggiore accuratezza dei controlli e non ad un maggiore uso di pesticidi. In queste analisi sono stati considerati irregolari i campioni con superamento dei limiti di legge per la concentrazione del residuo chimico o con presenza di pesticidi non autorizzati, mentre i campioni regolari multiresiduo sono quelli regolari per le concentrazioni o il tipo di pesticidi, ma con presenza di più residui contemporaneamente.
Dall’analisi dei dati 2007 osserviamo in primo luogo che, rispetto a quelli del 2006, c’è un lieve miglioramento per quanto riguarda il numero totale di analisi compiute e per il ritrovamento di campioni irregolari di verdura e di frutta, nonché di regolari multiresiduo, mentre nelle voci «derivati» e «varie» è aumentato leggermente il numero di campioni regolari con un solo residuo e di quelli multiresiduo. Sostanzialmente da questo insieme di dati emerge che la frutta presenta più residui di pesticidi della verdura; infatti solo la metà dei campioni di frutta è esente da fitofarmaci, mentre l’1,7% è risultata irregolare. Inoltre, se consideriamo in particolare qualche tipo di frutta di larghissimo consumo, come le mele, ci accorgiamo che solo il 39% è esente da pesticidi, il 30% ha più di un residuo e il 3,6% è irregolare. Del resto, anche in assenza di indicazioni sui pesticidi nel cartello, quante volte ci è capitato di vedere sulle mele (specialmente quelle rosse) una patina biancastra, polverosa e leggermente untuosa al tatto? Molto spesso, a conti fatti, tra i campioni regolari di frutta, ma multiresiduo ci sono casi sorprendenti, ad esempio: un campione di pere con 7 residui e di uno di fragole con 8, entrambi trovati in Sicilia. Per le verdure le cose vanno un poco meglio, perché la percentuale di campioni senza residui sale all’84,2%. È da notare che tra i derivati della frutta che risultano contaminati da residui di fitofarmaci, in percentuale del 20%, oltre ad olio e vino troviamo marmellate, miele, succhi di frutta ed omogeneizzati, cioè prodotti largamente consumati dai bambini.
I principi attivi più frequentemente ritrovati nei vari campioni, anche se non tutte le regioni hanno dichiarato i nomi dei fitofarmaci rinvenuti, sono: captano, carbofuran, chlorpirifos, cyprodinil, diclofluamide, dimetornato, ditiocarbammati, endosulfan, fenitrotion, guazatina, imazalil, malathion, metalaxil, procimidone, propargite, tiobendazolo, tolclofos-metile. Queste sostanze, a seconda del tipo, funzionano come anticrittogamici, insetticidi, fungicidi, molluschicidi, rodenticidi, acaricidi ed erbicidi e rientrano in un lunghissimo elenco di circa 70.000 prodotti chimici diversi presenti attualmente sul mercato, secondo i dati della Fao. Inoltre, sempre secondo questi dati, ogni anno sono immessi sul mercato circa 1.500 nuovi prodotti. Per quanto riguarda la classe chimica di appartenenza troviamo composti cloroderivati, organofosfati, carbammati e piretroidi. Le sostanze appena citate sono quelle attualmente e legalmente in uso, i cui limiti massimi di residui (LMR) nei prodotti alimentari sono regolati con una direttiva europea, che si traduce in decreto ministeriale. La normativa è aggiornata periodicamente, in seguito all’introduzione di nuovi principi attivi oppure alla scoperta di effetti dovuti all’utilizzo dei fitofarmaci o alla esposizione ai medesimi. Con periodicità quinquennale anche i prodotti già in commercio vengono rivalutati ed i dati tossicologici aggioati. Le strutture preposte alla registrazione dei fitofarmaci possono richiedere alle industrie produttrici i dati relativi a studi tossicologici, ecotossicologici e di destino ambientale. In Italia i residui dei pesticidi sui prodotti ortofrutticoli sono raffrontati con dei limiti di legge calcolati sulla pericolosità delle sostanze attive.
Donne e bambini
i soggetti più a rischio

Secondo i risultati delle ricerche condotte in numerose Università sui possibili effetti dei pesticidi sui bambini, tali limiti andrebbero però rivisti, poiché attualmente essi si riferiscono all’organismo umano maschio adulto, mentre è sicuramente necessario un adeguamento all’organismo di donne e di bambini. Ad esempio in alcuni studi su bambini sono stati evidenziati rischi di disfunzioni dell’apparato riproduttore come malformazioni del tratto urogenitale maschile, neoplasie del testicolo in età adolescenziale ed una diminuzione della qualità del seme. Queste patologie sembrano correlate all’esposizione a composti in grado di svolgere un’azione di disturbo di tipo ormonale, che può causare problemi di sviluppo. Composti di questo tipo vengono definiti Endocrine Disrupting Chemicals (EDC) e molti di loro sono pesticidi.
La ricerca condotta dalla professoressa Brenda Eskenazi dell’Università di Berkeley (Califoia) ha dimostrato che i neonati possono essere da 65 a 164 volte più sensibili ad alcuni antiparassitari come il Chlorpirifos o il Diazinon, rispetto agli adulti.
Anche i pediatri del Mount Sinai Hospital di New York hanno riscontrato una maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto agli adulti, con conseguenti danni non solo al sistema endocrino, ma anche a quello nervoso ed a quello immunitario. In particolare questi studiosi hanno raccolto prove che l’esposizione del feto agli antiparassitari organofosfati conduce alla nascita di bambini con una minore circonferenza cranica ed un rischio di deficit intellettivo.
Una conferma a questi dati si ha da uno studio condotto da Greenpeace India su 899 bambini delle regioni indiane a maggiore uso di pesticidi, cioè quelle dove sono presenti le piantagioni di cotone. I risultati ottenuti sono stati paragonati con quelli di bambini viventi in regioni non contaminate. I bambini, divisi in due gruppi di 4-5 anni e di 9-13 anni, presentavano tutti analoghe caratteristiche familiari ed ambientali in modo da evitare differenze dovute al trattamento, all’istruzione ed alle condizioni economiche, che avrebbero potuto influenzare il test. Il risultato ha dato un punteggio inferiore del 30% nel gruppo di 4-5 anni e del 21% tra quelli di 9-13 anni, rispettivamente, in un test di memoria nei bambini esposti ai pesticidi, rispetto ai controlli. I pesticidi più usati in queste regioni sono quelli organofoforici (in particolare methil-parathion e monocrotophos, classificati dall’OMS come estremamente dannosi), che agiscono sul sistema nervoso centrale, in quanto bloccano l’attività dell’acetilcolinesterasi, un enzima che inibisce l’attività dell’acetilcolina, uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso. Il blocco di questo enzima è di tale gravità che nei lavoratori, in cui si è verificata un’intossicazione acuta da pesticidi organofosfati, si sono avute convulsioni, problemi respiratori (in qualche caso mortali) oppure invalidità permanente, come nel caso della neuropatia ritardata, caratterizzata da paralisi flaccida della muscolatura degli arti inferiori, che insorge improvvisamente a 2-3 settimane di distanza dell’episodio acuto.
Studi svolti con procedimenti analoghi sia in Italia, in provincia di Siena, sia negli Stati Uniti dall’Università di Seattle, in cui sono stati analizzati campioni di urina di bambini esposti ai pesticidi organoclorurati hanno mostrato nel primo caso che le concentrazioni di metaboliti alchilsolfati era significativamente maggiore nei bambini, rispetto a quanto osservato in un precedente campione di adulti, abitanti nella stessa zona, anche se l’esposizione era da riferire più all’uso domestico di insetticidi che alla dieta; nel caso di Seattle si è scoperto che nei bambini, che consumavano abitualmente frutta e verdure biologiche, la concentrazione degli alchilsolfati era sei volte inferiore, rispetto a quella dei bambini alimentati convenzionalmente.
Dal momento che è ormai appurato che l’assunzione di pesticidi organofosfati per via diretta con l’alimentazione o indiretta, attraverso la placenta, può alterare lo sviluppo del sistema nervoso centrale, l’EPA (Environmental Protection Agency) ha messo in relazione il vertiginoso aumento delle patologie comportamentali, decisamente aumentate negli ultimi anni in USA, anche con l’aumento dell’assunzione di questi composti.
A seguito dei risultati di studi come quelli sopracitati, il National Research Council (NRC) dell’Accademia nazionale delle scienze di Washington suggerisce che le procedure per la valutazione del rischio sulla salute dei fitofarmaci siano condotte, prendendo come modello l’organismo di una bambina (per la maggiore sensibilità agli effetti dei pesticidi sugli organi riproduttivi) nella fascia d’età compresa tra 0 anni e la pubertà, cioè quella più sensibile.
La maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto all’organismo adulto è dovuta all’immaturità dell’azione disintossicante del fegato nella giovane età.

La questione
del «multiresiduo»

Un altro problema che si pone nella definizione dei limiti di legge per i pesticidi residui negli alimenti è quello del multiresiduo. Attualmente i limiti della dose di residuo sono calcolati sull’organismo adulto e per un singolo principio attivo, quindi questo modello non tiene conto dell’eventuale sinergismo di più composti. Tuttavia c’è un regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue, il 396/2005, secondo il quale si dovrebbe finalmente tenere conto del multiresiduo ed inoltre i limiti massimi dovranno essere uniformati in tutta l’Unione europea.
È importantissimo non sottovalutare i rischi associati all’uso di fungicidi, in particolare dei ditiocarbammati, come il mancozeb ed il maneb, considerati a bassa tossicità, perché tali composti vengono rapidamente metabolizzati nell’organismo e nell’ambiente, con la formazione di etilentiourea (ETU), un metabolita molto tossico, che ad alte dosi è teratogeno per il feto dei mammiferi ed inoltre è un potente tireostatico, cioè interferisce con lo sviluppo della tiroide e degli ormoni tiroidei, che sono importantissimi per la maturazione del cervello. Studi sperimentali sui roditori esposti ai ditiocarbammati hanno mostrato danni neurologici simili a quelli presenti nel morbo di Parkinson.
Tra i vari danni portati alla salute umana dai pesticidi ci sono poi quelli dei pesticidi ad azione ormonale, cioè quelli appartenenti alla categoria degli Endocrine Disrupting Chemicals (EDC), ai quali abbiamo già accennato prima, parlando degli studi compiuti sui bambini. Si tratta di composti in grado d’interferire con la normale regolazione ormonale di un organismo, secondo diversi meccanismi: alcuni sono in grado di formare un complesso ormone-recettore; altri interferiscono nei meccanismi di produzione o di eliminazione di un ormone; altri ancora stimolano la formazione di recettori di superficie per determinati ormoni; ci sono infine quelli che reagiscono direttamente o indirettamente con un ormone, alterandone la struttura o la sintesi. Di solito questi composti presentano un’elevata solubilità nei lipidi, quindi tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo degli esseri viventi, il che non comporta problemi fisiologici fino a quando non cominciano dei processi di mobilizzazione dei grassi, come avviene ad esempio nel momento della riproduzione. In questo caso tali sostanze vengono liberate dal tessuto adiposo e metabolizzate, con conseguente formazione di altri composti, che possono avere un’azione ormonale. Un altro aspetto fondamentale è l’accumulo di questi composti nei diversi livelli della catena alimentare (biomagnificazione o concentrazione attraverso la catena alimentare), per cui animali predatori, che si trovano al vertice di questa catena presentano la più alta concentrazione di composti lipofili. Tra questi organismi c’è anche l’uomo. Una delle classi di composti che meglio corrisponde a queste caratteristiche è quella dei pesticidi organoclorurati, cioè contenenti cloro, tra cui abbiamo i dicloro-difeniletani (Ddt, Dde, Ddd, ecc.), i cicloesani ed i ciclodieni. Molti di questi composti sono attualmente vietati o molto limitati nell’uso, ma continuano ad essere presenti nell’ambiente, perché accumulati negli esseri viventi grazie al processo di bioaccumulazione. Questo processo è favorito dalla presenza di atomi di alogeno (come il cloro) nella catena di idrocarburo (carbonio più idrogeno). Gli alogeni introdotti negli idrocarburi ne diminuiscono l’idrosolubilità e ne aumentano la liposolubilità. Ecco il motivo della loro presenza nel tessuto adiposo. Il capostipite di questi composti è l’insetticida Ddt o Dicloro-difenil-tricloroetano, una molecola caratterizzata da due anelli benzenici e da 5 atomi di cloro. A dimostrazione della potenzialità di questi composti si può citare l’incidente avvenuto nel 1980 nel lago Apopka in Florida, dove venne riversata dalla Tower Chemical Company, un’azienda produttrice di clorobenzilati, una miscela di dicolfolo, DDT e DDE. In seguito nella popolazione di alligatori del lago sono state evidenziate anomalie endocrine di vario tipo, tra cui emergevano la demasculinizzazione degli alligatori maschi e la superfemminilizzazione delle femmine, questo per via di una concentrazione di estrogeni doppia del normale in questi organismi. Pesticidi di questo tipo si comportano a tutti gli effetti come estrogeno-mimetici. La presenza di pesticidi organoclorurati è stata inoltre correlata alla diminuzione ed alla scomparsa di alcune specie di rane in parchi e riserve naturali in Canada.
A livello umano, questi pesticidi sono stati associati alla comparsa di patologie come l’endometriosi, che colpisce circa 80 milioni di donne al mondo, senza distinzioni etniche o sociali. Oltre a questo nelle donne causerebbero infertilità, aborti e parti prematuri, nonché malformazioni fetali. Analoghi problemi d’infertilità si sono sviluppati anche nell’uomo.
Uno degli aspetti più temibili di questi composti è la possibile associazione, come suggerito da alcuni recenti studi (anche se non tutti gli studiosi convergono su questo punto), tra i composti organoclorurati e l’insorgenza del cancro della mammella, una delle principali cause di morte per tumore nella donna, essendo le altre il carcinoma del polmone e del collo dell’utero (quest’ultimo ad eziologia virale, da Hpv). Il tumore della mammella esiste infatti in due varietà, estrogeno-dipendente ed estrogeno-indipendente; è chiaro che lo sviluppo del primo tipo è strettamente correlato alla presenza di estrogeni nell’organismo.
   
I pesticidi illegali

Finora ci siamo occupati quasi esclusivamente degli effetti di pesticidi legalmente in uso, ma non dobbiamo dimenticare che nell’ambiente sono ancora presenti (in parte per bioaccumulazione, in parte perché tuttora alcuni vengono adoperati nei paesi in via di sviluppo) dei pesticidi appartenenti ad un gruppo di composti definiti POP (Persistent Organic Pollutants). Tali composti sono stati messi al bando il 17 maggio 2004 dalla Convenzione di Stoccolma e sono: DDT, aldrina e dieldrina, clordano, endrina, toxaphene, eptacloro, PCB, murex, esaclorobenzene, diossine e furani. A parte diossine, furani e PCB, tutti gli altri sono pesticidi. La Convenzione di Stoccolma ne vieta la fabbricazione, l’impiego ed il commercio e prevede anche l’obbligo di allestire un inventario dei depositi di materiali contaminati da POP e di smaltie le scorie in modo ecologico. Nonostante queste restrizioni, il rapporto di Legambiente del 2004 mette in luce la presenza di DDT in Italia, specialmente in Emilia-Romagna, Liguria, Sardegna, Marche e Lazio. Ciò può essere dovuto al fatto che il DDT può viaggiare negli strati caldi dell’atmosfera, per condensare e precipitare a terra quando incontra aria più fredda, quindi non solo ha la capacità di persistere a lungo, ma anche di arrivare molto lontano dal luogo di utilizzo (nel mondo viene ancora adoperato nei paesi dove la malaria è endemica). Inoltre nelle serre e nei sistemi di coltivazione al chiuso si usa spesso terriccio, probabilmente contaminato, proveniente dai paesi dell’Est.

Che fare?

Toando al nostro dubbio iniziale sulla presenza o meno di residui di pesticidi sui prodotti ortofrutticoli, in assenza di indicazioni, è chiaro dai risultati dell’indagine di Legambiente che la metà della frutta ed un quarto della verdura risultano contaminati. Che fare quindi, dal momento che qualcosa bisogna pur mangiare? Senza farsi prendere dal panico, forse è sufficiente fare delle scelte ragionate al momento dell’acquisto, rivolgendosi il più possibile ai prodotti da agricoltura biologica, che sono sottoposti a maggiori controlli. Ormai in parecchi supermercati si trova l’angolo dedicato a questi prodotti. In loro mancanza, vale sempre il buon vecchio metodo del lavaggio molto accurato della verdura e della frutta. Quest’ultima poi andrebbe sempre sbucciata, magari asportando anche un po’ di polpa, dal momento che i pesticidi si concentrano nella buccia e nello strati immediatamente sottostante. Inoltre è sempre meglio leggere attentamente gli ingredienti e le informazioni riportati nell’etichetta dei cibi confezionati. Ove possibile poi, sarebbe opportuno servirsi dei prodotti del commercio equo e solidale, anche se in qualche caso possono essere più cari. Questo commercio può aiutare le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, paesi dove l’uso indiscriminato di pesticidi e lo sfruttamento delle multinazionali stanno causando delle gravi emergenze sociali.
(fine 1.a puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario

Alogeni: sono il fluoro, il cloro, il bromo, lo iodio e l’astato e sono gli elementi del VII gruppo del sistema periodico. Sono non-metalli, energici ossidanti e molto reattivi, che si combinano facilmente con gli elementi del I gruppo del sistema periodico (metalli), dando origine a dei sali.

Anticrittogamici: sostanze chimiche attive contro le crittogame parassite delle piante coltivate. Per crittogame si intendono le piante senza fiore, contrapposte alle piante fanerogame o con fiore. In agricoltura la lotta viene condotta quasi esclusivamente contro un tipo di crittogame, cioè i funghi e, a seconda dell’azione, gli anticrittogamici vengono definiti come fungicidi, quando uccidono i funghi; fungistatici, quando ne ostacolano lo sviluppo; antisporulanti, quando interferiscono con la sua moltiplicazione. Gli anticrittogamici si dividono inoltre in esofarmaci, se esercitano la loro azione sulla superficie dei vegetali ed in endofarmaci, se penetrano nei tessuti interni. Di solito i primi hanno un’azione preventiva e gli altri curativa, nei confronti delle infezioni. Infine gli anticrittogamici possono essere inorganici (a base di rame, di zolfo o di polisolfuri), oppure organici (carbammati, derivati del fenolo, dicarbossimidi, ammine, ammidi, diazine, eterociclici diversi, aloidrocarburi).

Azione detossicante del fegato: tra le sue molteplici attività, il fegato svolge la funzione detossicante, ovvero le sue cellule (epatociti) provvedono ad eliminare dal sangue le sostanze tossiche per l’organismo (tra cui ad es. l’alcornol etilico).

Composti inorganici: composti chimici privi di carbonio nella loro molecola, appartenenti al regno minerale.

Composti organici: composti chimici contenenti carbonio nella loro molecola e caratterizzanti la materia vivente.

Diserbanti o erbicidi: sostanze che distruggono le erbe infestanti o ne impediscono lo sviluppo in modo selettivo o non selettivo. L’azione fitotossica dei diserbanti può riguardare la struttura dei tessuti (causticazione, coagulazione del materiale cellulare, ecc.) o i meccanismi biologici del vegetale (alterazione del metabolismo di alcune sostanze, dei meccanismi ormonali, ecc.). Un erbicida può avere tempi di degradazione molto brevi, o permanere a lungo inalterato nel terreno, a seconda delle sue caratteristiche chimiche, fisiche, biologiche, nonché delle condizioni ambientali e delle caratteristiche del suolo. Ogni specie coltivata tollera la presenza di residui di ciascun diserbante solo se la concentrazione non supera un determinato valore, detto soglia di tollerabilità della specie verso un certo erbicida. I diserbanti sono classificati in: fenossiderivati, derivati degli ossiacidi aromatici o dell’acido ftalico, derivati degli acidi aromatici o dell’acido benzoico, derivati degli acidi grassi, nitroderivati o nitrocomposti, benzonitrili, carbammati, derivati dell’urea, ammidi, triazine o loro derivati, dipiridilici, diazine, piridine, pirimidine, derivati diversi.

Edc (Endocrine disrupting chemicals): composti chimici con azione di disturbo sul sistema endocrino, cioè sull’attività ormonale.

Endometriosi: patologia cronica femminile caratterizzata dall’anomala presenza di endometrio, cioè mucosa uterina, in altre sedi come ovaie, tube, peritoneo o intestino. Conseguenze di questa anomalia sono sanguinamenti interni, infiammazioni croniche, presenza di tessuto cicatriziale, aderenze ed infertilità. L’endometriosi è spesso dolorosa e può diventare invalidante.

Epa (Environmental protection agency): agenzia di protezione ambientale statunitense.

Fitofarmaci: composti chimici naturali o sintetici usati in agricoltura per combattere i parassiti e le malattie delle piante, per proteggere le colture da tutti gli agenti dannosi (non necessariamente parassiti, come erbe infestanti o alghe) e per il miglioramento della produttività. I fitofarmaci vengono distinti in varie classi: fisiofarmaci, usati per il controllo delle alterazioni fisiologiche da cause varie; fitoregolatori, capaci di modificare il normale sviluppo delle piante, in modo da ottenere rendimenti anomali, ma economicamente vantaggiosi, oltre che di controllare le alterazioni fisiologiche; fertilizzanti fogliari, impiegati per curare le malattie da carenze nutrizionali; erbicidi, per eliminare le erbe infestanti (vedi sopra); antiparassitari, per eliminare organismi vegetali o animali dannosi per le colture; anticrittogamici (vedi sopra).

Insetticidi: composti chimici in grado di eliminare gli insetti dannosi alle colture, alle derrate alimentari, agli animali domestici ed all’uomo. La loro tossicità, che può essere acuta o cronica, impone la necessità di stabilire i valori di ADI (acceptable daily intake) cioè le dosi giornaliere accettabili, che influenzano anche i valori limite dei residui di insetticidi ammessi per es. negli alimenti. Gli insetticidi sono classificati in:
• cloroderivati, cioè composti organici di sintesi, contenenti in prevalenza cloro, usati anche come anticrittogamici (cloropicrina). Sono distinti in derivati del difeniletano (DDT, DDD, ecc.), del cicloesano (esaclorocicloesano, lindano, ecc.), e ciclodienici (endosulfan, eptacloro, clordano, aldrin, dieldrin, ecc.);
• composti organofosforici: sono composti organici, contenenti fosforo, agenti in modo polivalente nei confronti degli insetti, degli acari e dei nematodi (vermi). Alcuni di questi sono usati per disinfestare le derrate alimentari o il terreno. Si distinguono in fosfati (dichlorvos), tiofosfati (paratione), ditiofosfati (dimetornato), fosfonati (trichlorphon), ditiofosfonati (fonophos);
• carbammati: composti di tipo alcaloide, distinti in monometilcarbammati (carbaryl, carbofuran) e dimetilcarbammati (isolan), usati come geodisinfestanti, disinfestanti del bestiame e delle abitazioni;
• piretroidi, neonicotinoidi, rotenoidi: insetticidi di origine vegetale, facilmente biodegradabili, ma che spesso presentano problemi di tossicità.

Metaboliti alchilfosfati: prodotti del metabolismo cellulare, costituiti da molecole di idrocarburi (carbonio e idrogeno) a catena aperta, con la presenza di atomi di fosforo.

Pesticidi: è un termine generico, che comprende gli anticrittogamici, i fitofarmaci, gli insetticidi, i diserbanti, ecc., cioè quei composti di origine per lo più sintetica, che vengono applicati sulle colture, sulle derrate alimentari o sul terreno per liberarli da infezioni o da infestazioni di vario genere.

Pop (Persistent organic pollutant): inquinante organico persistente nell’ambiente.
(a cura di R.Novara e R.Topino)

Roberto Topino e Rosanna Novara




Inceneritori: quale alternativa?

Una tematica che accende il dibattito

A seguito dell’articolo «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea» comparso sul numero di marzo, un lettore ben documentato chiama in causa gli autori. «Articolo fazioso, impostazione più ideologica che scientifica». È meglio la discarica o l’inceneritore? Gli articolisti rispondono.

Spettabile redazione,

ho letto con attenzione l’articolo sugli inceneritori, riportato sul numero di marzo di MC. Peccato per l’ambiguità con la quale è stato trattato l’argomento come risulta evidente fin dal titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea».
Al presente nessuno pensa agli inceneritori – non uso il termine termovalorizzatori, che non piace ai redattori del servizio – per «bruciare i rifiuti», bensì a impianti per eliminare la sola parte non riutilizzabile.
È pur vero che, qua e là, nell’ampio servizio, si ammette anche l’eventualità della destinazione all’incenerimento del Cdr (combustibile derivante dai rifiuti, meglio definibile frazione secca), ma l’insieme dell’articolo e dei numerosi riquadri, presenta gli inceneritori come distruttori di tutti i rifiuti, definiti «tal quale» e, di conseguenza, come produttori di velenosi inquinanti.
Mi è difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo. Lo stesso inceneritore di Brescia, non di ultima generazione, non brucia il «tal quale», ma rifiuti selezionati. L’inceneritore di Rho, più recente, risulta molto efficiente e con bassissime emissioni. L’inceneritore del Gerbido e gli altri allo studio in Italia dovrebbero essere non certo inferiori a quello di Rho e pertanto non quei mostri di inquinamento come nel servizio sono presentati.

È semplicemente faziosa l’affermazione di Paolo Moiola, posta come giudizio finale del servizio (pag. 60), che raccolta differenziata ed inceneritore sono antitetici.
È vero invece l’esatto contrario, poiché gli inceneritori presuppongono la raccolta differenziata in quanto rappresentano una delle fasi della stessa, insieme agli impianti di preselezione e trattamento, dopo la raccolta domiciliare delle frazioni divise.
Il servizio su MC, cercando di accreditarsi come scientifico, presenta un profluvio di dati scelti artatamente, ma che, se anche veri, nell’insieme dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema. Si tratta di una impostazione più ideologica che scientifica.
Senza addentrarmi troppo nella questione, faccio rilevare che l’incenerimento dei rifiuti è l’ultimo anello di una lunga catena e che se non si tiene conto di ciò che sta a monte, si rischia di sbagliare clamorosamente il giudizio.

Suonano quasi irrisorie le ultime 7 righe e mezzo dell’articolo, in un servizio di 8 (otto) pagine, nelle quali si fa un fiero riferimento a «nuovi stili di vita» per ridurre i rifiuti!
Certamente il nodo del problema sta proprio nello smodato e ottuso consumismo. Questo, oltre a mettere a disposizione una esagerata quantità di beni, con relativi rifiuti, si porta appresso modalità irrazionali, spesso senza senso, di confezionamento dei prodotti, da quelli alimentari a quelli di tutti gli altri generi. Non di rado il contenitore è più consistente del contenuto.
Allora una fondamentale questione riguarda la messa in circolo di materiali già in partenza definibili rifiuti. Una campagna seria contro gli inceneritori dovrebbe innanzitutto puntare a promuovere in tutti i modi consumi più sobri e nel proporre modalità diverse di imballaggio, attualmente oltremodo esagerate e impostate sul vuoto a perdere.
Questo è un problema affrontabile solo in sede politica. Soltanto leggi appropriate possono dare una svolta incisiva. Perché non imporre una tassa alla sorgente su certi contenitori, tale da rendere conveniente il loro riutilizzo, anziché il passaggio immediato ai rifiuti? Perché non il divieto, «tout court», dell’utilizzo di certe plastiche non riciclabili, di difficile combustione e producenti inquinanti micidiali, compresa la diossina?

È faticoso spendersi per cercare di ottenere modifiche del modo di progettare «le cose», del confezionarle, del trasportarle! Significa scontrarsi con l’inerzia e l’interesse del mondo industriale e commerciale. Si presenta un ulteriore ostacolo di non facile superamento: la modifica del comportamento di tanti ormai consolidati consumisti e, a seconda della latitudine, più o meno restii a sottostare alle regole della differenziazione dei rifiuti domestici.
In attesa di una rivoluzione copeicana di là da venire, che facciamo?
Topino e Novara sparano a zero sugli inceneritori ma, visto che la produzione dei rifiuti continua imperterrita, questi dove li mettiamo?
Con la raccolta differenziata si fa un passo nella direzione giusta, quindi è utile verificare a che punto siamo. Si va da un 10% nel Sud a un 25-30% al Nord. Sono pochi i comuni virtuosi che arrivano al 50%, quota in Italia ritenuta un buon obiettivo! Ci accontentiamo di ben poco se ci poniamo a confronto dei paesi del Nord Europa, in cui la percentuale raggiunge il 90% e dove sono usati gli inceneritori.
Quindi come sanno i redattori del servizio, fatta la raccolta differenziata, rimane una consistente quota di «indifferenziato» che va selezionata per separare l’umido, ancora in qualche modo riciclabile come «compost» e che se fosse avviato all’inceneritore lo metterebbe in crisi. Ciò che rimane, la «frazione secca», costituisce il 15-30% del totale, che va in qualche modo eliminata.
Se escludiamo aprioristicamente l’incenerimento, non rimane che la discarica! Questa è la preferenza che emerge evidente dal servizio.
Perché allora si tace delle discariche, ormai dappertutto strapiene e le cui collinette (non più tanto «ette») incominciano a modificare la «sky line» delle città? Per correttezza andrebbe detto quanto le discariche siano vere «bombe ecologiche», lasciate in eredità alle future generazioni, con tanto di problemi di inquinamento delle falde, caratteristici miasmi (il profumo città), ecc.

La maggior parte delle discariche ha accolto senza differenziazione tutti i tipi di rifiuti e, per non dovee aprire di nuove, obiettivo principale di tutto il ciclo della raccolta dei rifiuti differenziata, il poco spazio disponibile va utilizzato nel modo più intelligente possibile, riducendo al minimo il conferimento di materiale.
Risulta pertanto evidente quanto sia essenziale la raccolta differenziata, che andrebbe ben diversamente sostenuta, da quanto oggi facciano le amministrazioni comunali, ma anche quanto sia essenziale la combustione di ciò che non è riciclabile in alcun modo, ricavandone comunque ancora un po’ di energia elettrica e termica. Non è molto importante il valore economico di ciò che si ottiene, neppure in grado di portare in pareggio il bilancio, ma il fatto di ridurre al minimo i rifiuti irriciclabili, ovvero a meno della metà quel 15-30% di Cdr.
Finora si sono procrastinate le scelte, con il tipico vizio italiano, quando posti di fronte a problemi difficili, meglio dire, impopolari, ma ormai il problema non può più essere eluso.
Qualcuno mi saprebbe dire cosa ne faremmo delle «ecoballe» napoletane, se altri paesi europei non le accogliessero per incenerirle, facendosi pagare «il giusto» per il favore? E dei rifiuti industriali, di cui ogni tanto si ha notizia di clamorose «esportazioni» nei cosiddetti paesi poveri, con procedure sicuramente criminose e incivili?

Siamo di fronte a scelte né facili, né indolori, e nessuna entusiasmante. In attesa di incidere radicalmente sulla fonte della produzione dei rifiuti, per le quali, sì, occorre spendersi generosamente, la scelta è per il male minore.
Occorre una opinione pubblica ben informata e perciò mi permetto di richiamare chi si rivolge a dei lettori, al dovere di grande onestà intellettuale, al dovere di estrema correttezza. Non possono essere sottaciuti aspetti del problema che potrebbero condurre il lettore a conclusioni diverse da quelle auspicate dallo scrivente.
Diversamente siamo di fronte non a informazione, ma a un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento. «Missioni Consolata» non può essere luogo per simili comportamenti.
In attesa di una gradita risposta saluto cordialmente.

Piero Coletto
Rivoli (TO)

Gentile Sig. Coletto,

abbiamo letto la sua lettera di critica al nostro articolo sugli inceneritori. Nel mondo scientifico, la critica svolge la fondamentale funzione di obbligare gli studiosi a documentarsi a fondo prima di affermare qualsiasi concetto e, nel contempo, a cercare sempre nuove soluzioni per risolvere un problema. Tuttavia la critica, per essere costruttiva, deve sempre essere a sua volta supportata da un’accurata documentazione e non solo da opinioni personali.
Il «profluvio» di dati da noi prodotto per, come lei dice, accreditare come scientifico il nostro lavoro, ha lo scopo di evidenziare un aspetto inquietante degli inceneritori e cioè il loro impatto sulla salute umana e sull’ambiente in generale. Lei sostiene che «tali dati, anche se veri, dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema». Sicuramente ci sono altri aspetti del problema dello smaltimento dei rifiuti, tutti importanti e meritevoli di accuratissima disamina, ma quello dell’impatto sulla salute pubblica li supera tutti di gran lunga e chi opera nel settore sanitario ha in primo luogo il dovere di occuparsi per l’appunto di salute e di ciò che può nuocere alla medesima. Nella sua critica questo aspetto pare essere invece di secondaria importanza.

Per quanto riguarda poi la sua deduzione, secondo cui da questo articolo si evincerebbe la nostra preferenza per la discarica, vorremmo precisare che, sebbene essa non sia la soluzione ideale, è sempre meglio una discarica controllata, piuttosto che una discarica per rifiuti speciali (tossici), come è quella necessaria per lo smaltimento dei fanghi, delle ceneri e delle polveri derivanti dall’inceneritore. Non abbiamo tuttavia fatto alcun elogio per la discarica in nessuna parte dell’articolo.
Alcuni punti della sua lettera richiedono una risposta particolareggiata.
In primo luogo, lei contesta l’ambiguità del titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea». Il titolo non è ambiguo, è univoco: numerosi studi scientifici hanno dimostrato un aumento di malformazioni nei bambini e di tumori, nelle zone dove sono attivi gli inceneritori. Sono lavori dell’Istituto Oncologico Veneto per il rischio di sarcoma, dell’Università di Firenze per i linfomi non Hodgkin, di ricercatori ed epidemiologi di varie parti del mondo, per le malformazioni del palato (labbro leporino) e per l’endometriosi. In particolare lo studio realizzato nella regione Rhone Alpes (comprende i centri di Lione, Nimes e Montpellier) dell’Institut Européen des Genomutations ha constatato un numero considerevole di nascite di bambini malformati correlato alla presenza di inceneritori. Ricordiamo inoltre il recente studio dell’Associazione Cardiologi sul rischio micropolveri e sulla loro diretta responsabilità nella crescita di morti per infarto.

Di seguito lei scrive che le riesce difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché «sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo» e cita come esempio l’inceneritore di Brescia, anche se fonti verificabili (Il Gioale del 12 febbraio 2007) riferiscono che tutti i rifiuti di Brescia finiscono nel termovalorizzatore e, conseguentemente, la raccolta differenziata non ha più motivo di essere fatta. L’affermazione di Paolo Moiola, che lei definisce «semplicemente faziosa», secondo cui «raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici» risulta dimostrata dai fatti.
Dopo aver illustrato le sue considerazioni, lei indica l’incenerimento come il male minore; facciamo due conti: in base a studi condotti su un modeissimo inceneritore italiano, per ogni tonnellata di rifiuto incenerito si producono 7.600 nanogrammi di diossine, che si ritrovano nelle ceneri pesanti, 2.700 nanogrammi nelle ceneri leggere e 170 nanogrammi nei fumi: in totale per ogni tonnellata di rifiuto incenerito sono 10.470 i nanogrammi di diossine immesse nell’ambiente. Poiché in una tonnellata di attuali rifiuti urbani si trovano mediamente solo 2.700 nanogrammi di diossine, (valore in calo di pari passo alla minore immissione di diossine da attività umane inquinanti) l’affermazione che gli inceneritori sono macchine che, per ridurre i volumi di scarti non pericolosi, producono rifiuti (solidi ed aeriformi) pericolosi, è una affermazione assolutamente corretta. Questo conteggio riguarda la sola diossina, la cui quantità viene quadruplicata dall’inceneritore, ma bisogna sempre considerare anche tutti gli altri veleni, che abbiamo descritto dettagliatamente nell’articolo che lei contesta.

Tra gli inquinanti prodotti dall’incenerimento abbiamo ricordato le polveri sottili e vorremmo aggiungere una breve considerazione sui filtri anti-particolato (FAP), che degradano le polveri fini PM10 riducendone la presenza nelle emissioni (anche dei veicoli a motore).
Bisogna fare molta attenzione perché degradare non vuol dire far scomparire. È stato dimostrato che con il filtro anti-particolato le PM10 vengono combuste e diventano PM2,5 o PM1, che sono molto più pericolose.
Dato che in Italia la legge prevede il monitoraggio delle sole PM10, le aziende hanno trovato questo sistema (legale) che consiste nel trasformare i PM10 prodotti (sottoposti a controllo ambientale) in qualcosa di ancora più fine e pericoloso (che non è sottoposto a controllo).
La pubblica amministrazione dovrebbe prendere atto che la produzione di queste polveri ultra sottili (che prendono il nome di nanopolveri) è molto più nociva per le persone e di conseguenza dovrebbe prescrivere controlli più approfonditi.

È  quanto meno strano, poi, che lei si sia accorto solo delle ultime sette righe e mezzo su otto pagine, per quanto riguarda il monito a nuovi stili di vita perché, ad esempio, quanto lei suggerisce circa il pagamento di una tassa o di una cauzione sui contenitori, in modo da favorie il riutilizzo è stato ampiamente citato nel lavoro, così come il ricorso al riciclaggio.
Probabilmente la sua è stata una lettura un po’ frettolosa, altrimenti si potrebbe pensare, data l’acredine della sua lettera, che la critica al nostro lavoro sia stata dettata più da una forma di cointeressenza con la costruzione e/o la gestione degli inceneritori, che dalla reale ricerca della soluzione meno pericolosa e più idonea per il problema dei rifiuti.

Il nostro comportamento, che lei giudica «un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento», non è volto ad indottrinare i lettori (nel mondo scientifico si procede con dimostrazioni), ma a cercare di fare il possibile per lasciare ai nostri figli e alle generazioni future un mondo meno inquinato. Forse anche fare informazione può servire allo scopo, per cui, consci del fatto che quanto scriviamo può risultare sgradito a qualcuno, tuttavia riteniamo importante invitare i lettori a riflettere.
Infine, per quanto riguarda il suo richiamo «al dovere di grande onestà intellettuale e al dovere di estrema correttezza», le ricordiamo che i professionisti nel settore della salute rispondono al giuramento di Ippocrate, che prevede la tutela della persona e non degli interessi economici, in questo caso, dei costruttori degli inceneritori e dei loro «amici».
La ringraziamo, in ogni caso, per il suo interesse sull’argomento, che ci ha dato la possibilità di approfondire il discorso, in particolare sugli aspetti sanitari.
A disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti, porgiamo cordiali saluti.

Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Quello infide fibre d’amianto

Un problema grave, a lungo sottovalutato

Ne parlava anche Plinio il Vecchio, che lo chiamava «lino vivo». Ne scrisse
Marco Polo ne Il Milione.  Le proprietà dell’amianto sono note da tempo.  
Per questo è ovunque. Chi non conosce i tetti in «onduline» (Eteit)
o i pavimenti in «linoleum»? Senza dire degli utilizzi non immediatamente riconoscibili. Da anni, si è scoperto che l’amianto è molto pericoloso per la salute, essendo causa di neoplasie fatali. Per questo è stato messo
al bando in molti paesi, ma – considerata la sua diffusione e le lacune
normative – i suoi effetti si faranno sentire a lungo. E pesantemente.

In igiene industriale vengono considerate «fibre» tutte le particelle allungate, di tipo aghiforme, con un rapporto lunghezza/diametro almeno pari a 3:1, un diametro uguale o inferiore a 3µ e una lunghezza uguale o superiore a 5µ (micron; cfr. MC, febbraio 2007, Glossario). Per avere un’azione patogena le fibre devono essere respirabili, cioè devono essere in grado di giungere fino al comparto polmonare più profondo, quello alveolare. Solo le fibre con diametro inferiore a 3µ e con lunghezza non superiore a 200µ possono essere respirate.
Questi requisiti sono posseduti dalle fibre d’amianto, un materiale ampiamente usato in svariate produzioni industriali, proprio grazie alla sua struttura fibrosa. Infatti tale struttura si rivela indispensabile per certi tipi di lavorazioni. Ad esempio, nell’industria tessile non si potrebbe fare a meno di materiali in grado di essere filati, così come nell’industria dei materiali compositi, cioè quei prodotti in cui una componente solida particellare viene inglobata in una matrice amorfa resinosa, o di altra natura, per formare un complesso resistente. In particolare, in questo secondo tipo d’industria, i materiali fibrosi sono usati specialmente perché possiedono una superficie maggiore a parità di volume, rispetto alle particelle rotondeggianti, quindi offrono una maggiore possibilità d’interazione chimica e un contatto fisico più ampio con i componenti della matrice.
Per questo motivo l’amianto, formato da fibre dotate di elevata resistenza alla tensione, grande flessibilità, grande resistenza al calore e agli acidi, è stato ampiamente utilizzato nelle più diverse produzioni industriali, finché non è stato messo al bando in molte nazioni tra cui l’Italia, una volta provata la sua cancerogenicità.

L’amianto nella storia

L’utilizzo dell’amianto inizia in epoche lontane.
Per via della sua proprietà di poter essere filato e di resistere al fuoco, veniva utilizzato, ad esempio, per produrre tovaglie che venivano ripulite sulla fiamma, stoppini per le lampade e lenzuola per cremare i cadaveri.
Plinio il Vecchio lo chiamava «lino vivo», con riferimento alla facilità con cui poteva essere tessuto.
Grazie alla sua resistenza al fuoco, nel Medioevo fu associato con la salamandra e con questo nome Marco Polo, ne Il Milione, definì un minerale che veniva filato per fare delle stoffe, che non bruciavano se gettate nel fuoco.
Il nome commerciale salamandra venne dato ai primi materassi per termocoibentazione in amianto prodotti industrialmente.
La rivoluzione industriale iniziata con l’invenzione del telaio meccanico e, nella seconda metà del xix secolo, con l’utilizzo diffuso della macchina a vapore e dei processi di fusione dei metalli, determinò un forte aumento dell’impiego dell’amianto al fine di non disperdere il calore dei foi, delle caldaie e dei tubi per la distribuzione del vapore.
La produzione di amianto arrivò a superare i 5 milioni di tonnellate all’anno.
Sempre per via delle sue proprietà isolanti, l’amianto è stato utilizzato in Europa per produrre manufatti per l’edilizia come canne fumarie, tubi dell’acqua, tetti (ondulati di cemento-amianto), intercapedini (cartongesso), pavimenti (linoleum).
L’amianto è stato anche utilizzato, mescolato a caldo con il catrame, per impermeabilizzare i tetti piani.
Molto pericolosa è stata l’applicazione a spruzzo, al fine di ottenere uno strato isolante per pareti e soffitti. L’amianto in polvere veniva soffiato con l’aria compressa insieme a una colla liquida (tipo Vinavil). Inutile dire che la lavorazione sviluppava nubi di polvere, ma va anche detto che lo strato isolante così ottenuto non era compatto e, dove è stato applicato, può rilasciare ancora oggi grandi quantità di fibre di amianto nell’ambiente.
Sempre al fine di proteggere dal calore e insonorizzare, è stato fatto un largo uso di amianto anche nei mezzi di trasporto: lo troviamo nelle locomotive e nei vagoni dei treni, nelle intercapedini delle navi, nei ripari dei motori, nei freni e nelle frizioni degli autoveicoli.
Per quanto riguarda il settore ferroviario, basti pensare, ad esempio, che in una carrozza ferroviaria passeggeri potevano essere collocate anche 2 tonnellate di materiale coibente.
Proprio nel settore dei trasporti si concentra ben il 25% delle neoplasie da asbesto complessivamente indennizzate dall’Inail dal 2001 al 2005.
Ben sapendo che possono passare decine di anni dal momento dell’esposizione a rischio all’insorgenza di una neoplasia provocata dall’amianto, anche se questo pericoloso minerale è stato messo al bando, dovremo aspettarci numerosi casi di patologie neoplastiche almeno per altri venti anni.
Si mantiene infatti elevato, rispetto al complesso delle neoplasie professionali, il numero di quelle causate dall’asbesto, con oltre 400 casi/anno riconosciuti (1), il 75% dei quali sono casi di mesotelioma pleurico, che sono in costante aumento; infatti prima del 2000 i casi riscontrati erano circa 100 all’anno (2).
Anche l’asbestosi rimane una delle principali patologie polmonari di origine professionale: nel quinquennio 2001-2005 ne sono stati riconosciuti dall’Inail più di 1.300 casi, di cui il 25% diagnosticato nel settore trasporti (3).

L’amianto oggi

Nonostante la messa al bando in Italia nel 1992, il rischio amianto è ancora attuale, ad esempio, per gli operai impegnati nella manutenzione o nei lavori di bonifica.
Possiamo trovare amianto anche in oggetti di uso comune, tipo foi da cucina, asciugacapelli, stufe elettriche, assi per stirare, presine e guanti da foo.
Non dimentichiamo che tuttora in Russia, in Canada, in Cina e in altre parti del mondo, l’amianto viene ancora utilizzato e possiamo trovarlo in manufatti importati.
In Europa, alla fine degli anni Novanta, l’amianto è stato messo al bando; ma, mancando una normativa che ne imponesse la bonifica, lo possiamo trovare ancora oggi in gran quantità e in condizioni sempre peggiori per via del deterioramento causato dal tempo.
L’amianto è un rischio professionale e ambientale di proporzioni catastrofiche. I dati di cui la letteratura scientifica sanitaria dispone a livello mondiale riportano che l’amianto è stato responsabile di oltre 200.000 morti negli Stati Uniti, e si stima che procurerà altri milioni di morti in tutto il mondo (4).
È grave dover riscontrare che questa enorme tragedia era annunciata e poteva essere evitata, non utilizzando l’amianto.

È attorno a noi

I minerali di amianto vengono suddivisi in due grandi gruppi: il serpentino e gli anfiboli. C’è un solo tipo di amianto derivato da minerale di serpentino, il crisotilo, noto anche come amianto bianco. Gli anfiboli comprendono cinque tipi di amianto: amosite, crocidolite, tremolite, antofillite e actinolite. Due di questi sono le varietà di maggior valore commerciale: l’amosite, o amianto marrone, e la crocidolite, o amianto blu. Gli altri anfiboli sono di scarsa importanza commerciale. Indicazioni iniziali che il crisotilo potesse essere meno pericoloso di altri tipi di amianto non sono state confermate (5). Attualmente la maggioranza dei lavori scientifici dimostra che anche il crisotilo causa tumori, compresi il cancro polmonare e il mesotelioma (6). Anche il crisotilo canadese, privo di anfiboli, è associato a mesoteliomi (7).
Gli effetti sull’uomo sono conosciuti da quasi un secolo.
Negli anni Venti del secolo scorso si cominciarono a studiare gli effetti dell’amianto sull’organismo, evidenziando le situazioni di accumulo nei polmoni (asbestosi); nei decenni successivi si cominciarono ad osservare gli effetti neoplastici di queste fibre, dal carcinoma polmonare al mesotelioma pleurico e peritoneale, che possono colpire non soltanto i lavoratori, ma anche la restante popolazione, a causa della presenza di amianto anche negli ambienti estei alle industrie, ad esempio nelle città.
I temibili effetti sulla salute hanno determinato dapprima la messa al bando delle lavorazioni più inquinanti, per esempio la coibentazione a spruzzo, e dell’utilizzo dell’amianto nell’industria alimentare, dove serviva per filtrare il vino o per la cottura dei biscotti. Da non dimenticare che l’amianto è stato utilizzato anche nei filtri delle sigarette.
Come già accennato prima, l’amianto è stato messo al bando, ma rappresenta ancora oggi un rischio non solo per i lavoratori, ma anche per i cittadini.
In molti casi, quando si riscontra un tumore da amianto, non si riesce a individuare una causa di rischio legata al lavoro svolto.
È ormai ben noto che anche l’inalazione delle fibre di amianto presenti negli ambienti urbani può essere fatale a distanza di tempo.

Quante fibre di amianto
respiriamo al giorno?

Viene spontaneo chiedersi: quanto amianto può essere pericoloso?
Studi condotti su diverse città italiane (Milano, Casale Monferrato, Brescia, Ancona, Bologna, Firenze), hanno evidenziato concentrazioni aerodisperse di amianto crisotilo comprese tra 0,1 e 2,6 fibre/litro. A Torino, per esempio, viene confermato da esperti del Politecnico e dell’Inail che la concentrazione media di amianto è di 1 fibra/litro. Per legge, il primo livello di allarme indicativo di una situazione di inquinamento è di 2 fibre/litro. Il livello stabilito dalle normative mette al riparo dal rischio di ammalarsi di asbestosi, ma gli studiosi concordano sul fatto che non evita il rischio cancerogeno.
Lo stato della Califoia ha cercato di dare un valore soglia e ha stabilito, come livello di rischio non significativo, il valore di 100 fibre al giorno di amianto crisotilo, che per essere correttamente misurato richiederebbe di avere a disposizione una tecnica strumentale e una procedura in grado di raggiungere un limite di rilevabilità pari a 0,005 fibre/litro (8).
Gli strumenti attualmente utilizzati non hanno una tale precisione, ma servono solo a misurare concentrazioni molto più elevate. Il limite di sensibilità degli apparecchi «a norma» si ferma a 0,4 fibre/litro per cui anche superando fino a 80 volte il livello stabilito dagli studiosi califoiani, i nostri rilevatori continuerebbero a segnare zero.
Ma quanto amianto respiriamo?
Con la presenza di una fibra/litro, ipotizzando un volume di aria respirata di 18 metri cubi al giorno, si può ritenere, con buona approssimazione, che un uomo respiri in un giorno 18.000 (diciottomila) fibre di amianto; questo valore viene definito «concentrazione di riferimento ambientale».

Dalla II Guerra mondiale
alle ricerche di oggi…

Circa 10 anni fa, il compianto prof. G. Scansetti (Dipartimento di traumatologia, ortopedia e medicina del lavoro dell’Università di Torino) in un articolo scientifico dal titolo «L’amianto ieri ed oggi» scriveva: «L’ultimo effetto largamente documentato, il più temibile anche per la restante popolazione, è stato il mesotelioma multiplo maligno, della pleura e del peritoneo. Se in ambito professionale nel nostro paese ci dobbiamo attendere effetti ormai soltanto riconducibili ad esposizioni “storiche”, la storia degli effetti sulla popolazione generale per la (bassa) contaminazione generale è tutta da scrivere» (9).
Il professore ricordava anche gli studi relativi al cancro polmonare associato all’esposizione all’amianto citando, tra l’altro, due lavori di uno studioso tedesco, Nordman (10), che nel 1941, con Sorge, diede anche la dimostrazione sperimentale (11).
Fra il 1943 e il 1944 un altro studio di Wedler citò anche «carcinomi pleurici» nelle sue statistiche, tedesche, sui tumori all’apparato respiratorio degli asbestosici (12).
Il prof. Scansetti ricordava anche un effetto negativo, non secondario, indotto, fra gli altri, dalle guerre: gli statunitensi e, più in generale, gli alleati non credettero a questi risultati dei tedeschi – pur giunti a loro conoscenza – perché sospettati di essere menzogne manipolate ad arte dal nemico: basti pensare ai lavori di coibentazione, con grande utilizzo di amianto, a bordo delle navi da guerra.
Le preoccupazioni di allora del prof. Scansetti trovano oggi riscontri precisi.
Il ministero della salute sottolinea che a differenza dell’asbestosi, per cui è necessaria un’esposizione intensa e prolungata, per il mesotelioma non è possibile stabilire una soglia di rischio, ossia un livello di esposizione così ridotto all’amianto, al di sotto del quale risulti innocuo. Il decorso della patologia tumorale è molto rapido e la sopravvivenza è in genere inferiore a un anno dalla prima diagnosi. Non sono state individuate terapie efficaci.
L’Università di Torino (Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Sezione di Anatomia Patologica) in un lavoro del 1997 dal titolo eloquente «Implicazioni medico-legali della diagnosi di mesotelioma» (F. Mollo, D. Bellis) riporta che: «È stato ripetutamente affermato che esposizioni molto lievi e brevi possono causare lo sviluppo del mesotelioma maligno (13,14,15). Ma in pratica la dose-soglia cumulativa (al di sotto della quale sia da escludere nel caso singolo la possibile azione carcinogenetica dell’amianto nei confronti del mesotelioma maligno) non è definita (16), e forse non è definibile».

L’Europa si muove

Il problema dell’amianto è ben conosciuto in Europa e l’Italia ha recentemente recepito la direttiva 2003/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 marzo 2003, che modifica la direttiva 83/477/CEE del Consiglio sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro. In un paragrafo della direttiva si ricorda che: «Non è stato ancora possibile determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l’amianto non comporta rischi di cancro». 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


(1) Rapporto annuale INAIL 2005
(2) Rapporto annuale INAIL 2000
(3) Dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro, Giugno 2006
(4) Sixth Collegium Ramazzini Statement (1999)
(5) UNEP, ILO, WHO, 1998
(6) Smith e Wright, 1996; Stayner, Dankovic e Lemen, 1996
(7) Frank, Dodson e Williams, 1998
(8) Fondazione Salvatore Maugeri, Concentrazione di riferimento ambientale dell’amianto crisotilo in aree urbane: l’esperienza della città di Pavia, IRCCS, Pavia 1997
(9) Fondazione Salvatore Maugeri, L’amianto ieri e oggi,  IRCCS, Pavia 1997
(10) Nordman M., Der Berufskrebs der Asbestarbeiter, Z. Krebsforsch, 1938; 47: 288-302
(11) Nordman M., Sorge A., Lungenkrebs durch Asbeststaub in Tierversuch, Z. Krebsforsch 1941; 51: 168-182
(12) Wedler H.W., Asbestose und Lungenkrebs, Dtsch. Med. Woch. 1943; 69: 575-576
(13) Bertazzi P.A., Piolatto G., Epidemiologia mondiale ed italiana, in Mesotelioma Maligno, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985, 18-31
(14) Scansetti G., Piolatto G., Pira E. Il Rischio da Amianto Oggi, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985
(15) De Vos Irvine H., Lamont D.W., Hole D.J., Gillis C.R., Asbestos and lung cancer in Glasgow and the West of Scotland. Br. J. Med., 1993; 306: 1503-1506
(16) Doll R., Peto J., Asbestos: Effects on Health of Exposure to Asbestos, London: Health and Safety Commission, HMSO, 1985

Il Glossario di «Nostra Madre Terra»

L’ABC DEL PROBLEMA 

Amianto: è stato abbondantemente usato nell’industria dall’inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni Settanta, dopodiché, data la sua pericolosità, è stato sempre meno utilizzato, fino alla totale messa al bando in alcuni paesi. In Italia è stato bandito dalla legge 257/92. Tra i suoi effetti patologici ricordiamo l’asbestosi, la formazione delle placche pleuriche e il mesotelioma pleurico e peritoneale.

Asbestosi: è la fibrosi polmonare da amianto, caratterizzata dalla formazione di granulomi, contenenti al centro una o più fibre di amianto, che appaiono rivestite da un’incrostazione ad astuccio, formata da proteine ad alto contenuto di ferro e calcio, provenienti dall’ospite. Queste strutture vengono chiamate anche «corpuscoli dell’asbesto» e possono essere reperite sia nel tessuto polmonare, che nell’escreato del paziente. La reazione infiammatoria, di cui la formazione dei granulomi è una parte, richiama la presenza dapprima di granulociti e poi di macrofagi e linfociti, cioè di globuli bianchi con funzione di difesa. In particolare i macrofagi esercitano un’azione di fagocitosi verso i corpuscoli dell’asbesto; tuttavia, poiché le dimensioni di tali corpuscoli vanno da 5µ a 100µ, quindi spesso sono al limite delle dimensioni del macrofago, la fagocitosi da parte di quest’ultimo risulta spesso incompleta. In molti casi, inoltre, il macrofago, che ha inglobato il corpuscolo, va in necrosi, perché al suo interno vengono liberati enzimi litici, quindi la cellula muore e il corpuscolo dell’asbesto può penetrare in un altro macrofago. All’accumulo dei macrofagi e alla loro necrosi si associano altre manifestazioni infiammatorie, tra cui reazioni vasculo-essudative e fibroblastiche, con produzione di sostanza fondamentale e di fibre (tipici materiali del tessuto connettivo), da cui la fibrosi.

Fagocitosi: attività esplicata principalmente dai macrofagi, ma anche da altri globuli bianchi, tra cui i granulociti, consistente nell’inglobare all’interno della cellula un corpo estraneo, grazie ad opportuni movimenti della membrana cellulare, che lo avvolge. Si forma così un vacuolo digestivo, all’interno del quale vengono riversati degli enzimi litici, da parte di organuli cellulari detti lisosomi. In tale modo il corpo estraneo viene quasi sempre digerito, tranne in casi particolari, come quello delle fibre di asbesto (vedi testo).

Fibroblasti: sono le cellule principali del tessuto connettivo, responsabili della produzione di fibre collagene ed elastiche, nonché della sostanza fondamentale, in cui le fibre sono immerse. Nel connettivo, le cellule sono distanziate tra loro e le fibre e la sostanza fondamentale si trovano negli spazi intercellulari. La maggiore o minore compattezza ed elasticità del tessuto sono date dalla quantità e qualità delle fibre, nonché dalle condizioni della sostanza fondamentale, che si presenta come un gel, la cui fluidità dipende dal rapporto tra acido ialuronico e acido condroitinsolforico, due mucopolisaccaridi di cui è costituita.

Fibrosi: abbondante produzione di fibre collagene, da parte dei fibroblasti (reazione fibroblastica), con funzione di riempimento di una lesione.

Granulociti: globuli bianchi ricchi di granulazioni, da cui il nome, capaci di movimenti ameboidi (assottigliamento della cellula e possibilità di strisciare), che consentono loro di fuoriuscire dai capillari sanguigni e raggiungere l’area d’infiammazione, dove esplicano anch’essi la funzione di fagocitosi, ma solo su particelle piccole come i batteri, a differenza dei macrofagi, che sono in grado d’inglobare anche cellule intere. I granulociti sono di tre tipi: neutrofili, eosinofili e basofili, a seconda del colore assunto dalle granulazioni, con le comuni colorazioni di laboratorio; il diverso colore corrisponde a vari tipi di enzimi contenuti nei granuli.

Granuloma: è una funzione infiammatoria cronica, circoscritta e caratterizzata da una reazione cellulare esuberante dovuta soprattutto a macrofagi, linfociti e plasmacellule. Rappresentano di solito la risposta del connettivo ad un processo infettivo specifico o comunque all’ingresso di un agente estraneo.

Linfociti: globuli bianchi responsabili della difesa di tipo specifico del sistema immunitario. Appartengono a due categorie: B e T. I linfociti B, una volta riconosciuto l’antigene estraneo, si attivano, si trasformano in plasmacellule e iniziano la produzione di anticorpi (o immunoglobuline), che vengono riversati nel sangue e vanno a legarsi in modo altamente specifico, secondo un meccanismo chiave-serratura, all’antigene, determinandone la distruzione mediante l’attivazione di un sistema enzimatico detto complemento, oppure la precipitazione e successiva eliminazione. I linfociti T hanno un’attività citotossica altamente specifica, per cui dopo avere riconosciuto l’antigene, si avvicinano alla cellula estranea e la uccidono (linfociti T killer), per rottura della membrana cellulare. I linfociti T sono particolarmente attivi nelle reazioni di rigetto, nei trapianti d’organo. La risposta specifica del sistema immunitario è più tardiva, rispetto a quella aspecifica, ma molto più efficace e duratura, grazie a particolari linfociti B e T, detti cellule «di memoria», che, una volta incontrato un certo antigene, non si attivano subito, ma ne registrano la presenza, per attivarsi poi in una seconda eventuale infezione.

Macrofagi: cellule con spiccata attività fagocitaria, responsabili della difesa di tipo aspecifico. Possono essere circolanti nel sangue (monociti, precursori inattivi) e fissi in molti tessuti (istiociti, attivi). Rappresentano uno dei più rapidi sistemi di difesa, seppure di tipo primitivo, del nostro organismo e la loro attività nei confronti di un qualsiasi agente estraneo è coadiuvante l’attività altamente specifica dei linfociti.

Mesotelioma pleurico e peritoneale: è una gravissima neoplasia maligna, che interessa la membrana sierosa di rivestimento del polmone (pleura) e il peritoneo, che riveste gli organi addominali. Le prime osservazioni di questi tumori risalgono all’inizio degli anni ‘30 nel Regno Unito. Nel 1964 l’Accademia delle Scienze di New York ha stabilito, per consenso unanime, il rapporto causale tra l’amianto ed il mesotelioma e successivamente è stata rilevata la maggiore pericolosità degli anfiboli, in particolare della crocidolite e della amosite. La messa al bando della crocidolite, la fibra più pericolosa, è avvenuta nel 1966 nel Regno Unito, nel 1970 in Australia, nel 1985 in Finlandia e nel 1986 in Italia, dove peraltro nel 1992 sono stati banditi tutti i tipi di amianto.

Placche pleuriche: ispessimenti a volte calcifici della membrana sierosa, che riveste il polmone.

Reazioni vasculo-essudative: edema e gonfiore presenti in zone infiammate.

(a cura di R.Topino e R.Novara)

Le coperture di Eteit
QUANDO SONO PERICOLOSE?

Non esiste una normativa che obblighi alla rimozione delle coperture in fibrocemento in buon stato di conservazione, ma il passare del tempo determina un progressivo deterioramento dei tetti con il rilascio nell’ambiente di fibre: in questi casi, quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture con altre senza amianto.
È l’esposizione agli agenti atmosferici che determina il progressivo degrado delle coperture per azione delle piogge acide, degli sbalzi termici, dell’erosione eolica e di microrganismi vegetali (muffe, licheni).
Per i motivi elencati, dopo anni dall’installazione, si possono determinare alterazioni corrosive superficiali con affioramento e rilascio delle fibre.
I principali indicatori utili per valutare lo stato di degrado delle coperture in cemento-amianto e conseguentemente l’aumento di rischio di rilascio di fibre, sono: la friabilità del materiale, lo stato della superficie con affioramenti di fibre e la formazione di muffe, la presenza di sfaldamenti, di crepe, di rotture e di materiale friabile o polverulento in corrispondenza di scoli d’acqua e grondaie.
Il segno più importante che dimostra la pericolosità del tetto è la presenza di materiale fibroso conglobato in piccole stalattiti in corrispondenza dei punti di gocciolamento.
In questi casi la dispersione di fibre è evidente e la bonifica è doverosa.

Roberto Topino e Rosanna Novara




Bruciare i rifiuti? Una pessima idea

L’imbroglio dei «termovalorizzatori»

In Italia l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è irrisorio. Forse anche per questa ragione si è inventata una scappatornia all’italiana: considerare come energia da fonte rinnovabile quella prodotta dagli inceneritori (termovalorizzatori).  Un falso, tra l’altro finanziato da un prelievo (il «Cip6») dalla bolletta elettrica di tutti noi.  I termovalorizzatori funzionano? Producono energia elettrica, ma a costi insostenibili, soprattutto per la salute dei cittadini.  Da ultimo, disincentivano la raccolta differenziata (che già è poco amata dagli italiani). A conti fatti, questa soluzione non funziona, in quanto produce più problemi di quanti ne risolva.

In Italia non si chiamano quasi mai «inceneritori» (sebbene lo siano a tutti gli effetti), ma «termovalorizzatori». Quest’ultimo termine indica che questi impianti non servono solo a bruciare i rifiuti, ma a produrre energia (che viene poi rivenduta allo Stato) oppure calore utilizzabile nel teleriscaldamento. Apparentemente sembrerebbero impianti vantaggiosi, invece non è proprio così, perché se tutti i rifiuti prodotti in Italia fossero destinati al termovalorizzatore e fosse ottimizzata al massimo la combustione, si arriverebbe ad ottenere energia elettrica solo per il 12% del fabbisogno nazionale per uso domestico. Per quanto riguarda invece il teleriscaldamento poi, questo è efficace solo entro 2,5 Km dall’impianto ed è possibile solo in edifici di nuova realizzazione. Attualmente in Italia la produzione di energia elettrica tramite incenerimento dei rifiuti è sovvenzionata indirettamente dallo stato, per sopperire alla sua antieconomicità ed il tutto avviene tramite il sistema detto Cip6 (vedi box). Infatti, questa modalità di produzione di energia è considerata impropriamente come «da fonte rinnovabile» alla stregua di idroelettrico, solare, eolico e geotermico. Pertanto chi gestisce l’inceneritore può vendere all’Enel l’energia che produce ad un costo circa triplo, rispetto a quello di chi produce energia a partire da metano, petrolio e carbone. L’Unione europea (Ue) ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo italiano per la produzione d’energia bruciando rifiuti inorganici, visti come «fonte rinnovabile». Nel 2003 il Commissario Ue per i trasporti e l’energia Loyola De Palacio, recentemente scomparsa, in risposta ad un’interrogazione dell’on. Monica Frassoni al Parlamento europeo, ribadì (20/11/2003, risposta E-2935/03 IT) il fermo «no» dell’Unione europea all’estensione del regime di sovvenzioni europee  per lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, previsto dalla Direttiva 2001/77, all’incenerimento delle parti non biodegradabili dei rifiuti. Queste le affermazioni testuali del Commissario all’energia: «La Commissione conferma che, ai sensi della definizione dell’art. 2, lettera b) della Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile. Il fatto che una legge nazionale (Legge 39 del 1/3/2002, art. 43) proponga d’includere, nell’atto del recepimento italiano della Direttiva 2001/77 (D.L. del 29/12/2003, n. 387) i «rifiuti tra le fonte energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ivi compresi i rifiuti non biodegradabili», rappresenta una palese violazione di quanto dettato dalla Direttiva europea. Esiste peraltro una contraddizione in questa Direttiva comunitaria, che autorizza l’Italia a considerare l’energia prodotta dalla quota non biodegradabile dei rifiuti nel complesso dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo del 25% del totale nel 2010; tale deroga è però stata attaccata nel 2006 in sede di Parlamento europeo coll’emendamento (art. 15 bis) alla legge comunitaria 2006.
C’è poi da considerare un altro aspetto, oltre a quello giuridico ed economico, dell’uso dei termovalorizzatori.

L’ambiguità dei «limiti di legge»

Qual è il loro impatto sulla salute pubblica? I termovalorizzatori possono operare solo se adeguatamente dotati di sistemi per l’abbattimento delle emissioni, in grado di garantire il rispetto dei limiti di legge. Attenzione, però, perché i limiti di legge, come tutti i limiti relativi a prestazioni tecnologiche, sono tarati sulla capacità di abbattimento dei fumi ottenibile con le attuali tecnologie. Infatti non serve imporre dei limiti oltre la capacità oggettiva di contenere l’inquinamento permessa dai sistemi attuali. Questo, però, significa che i «limiti di legge» non garantiscono un valore di inquinanti «sicuro» in base a studi medici ed epidemiologici sull’effetto degli inquinanti emessi. C’è poi da dire che i limiti di concentrazione degli inquinanti imposti dalla normativa sono riferiti al m3 di fumo emesso, mentre non viene detto nulla sull’emissione totale d’inquinanti, cioè al valore commisurato alla quantità di rifiuti bruciati. Praticamente vengono impostati come limiti di legge dei valori, che si riferiscono al «miglior impianto» attualmente realizzabile e non all’effettiva rischiosità dei vari inquinanti. Per capire meglio questo concetto ci viene in aiuto Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, primo ricercatore Igag/Cnr, che nel suo ultimo libro sostiene che le domande giuste da porre sarebbero: quanti picogrammi (miliardesimi di milligrammo) di diossina (vedi box) emette davvero un impianto? I valori foiti sono medi o minimi? Quante misurazioni sono effettuate in un anno?  È opportuno sapere che per i termovalorizzatori è previsto un solo controllo all’anno: per essere sicuri che l’impianto non sia nocivo è evidente che il monitoraggio dovrebbe essere continuo e non annuale e soprattutto non autocertificato.

Diossina per tutti

Attualmente le normative europee indicano che in un m3 di fumi non devono esserci più di 100 picogrammi di diossina. La sola considerazione che per le diossine si usa come unità di misura non il milligrammo, comunemente usato per le altre sostanze, ma il picogrammo   (10-12 g) è più che sufficiente a farci intuire il grado di pericolosità per la salute di queste sostanze. Del resto, a tale proposito, vale la pena di ricordare che le diossine sono le stesse sostanze responsabili delle terribili conseguenze dell’incidente occorso all’Icmesa di Seveso, o delle conseguenze dell’uso del tremendo «agente orange» (diossina appunto) usato nella guerra del Vietnam (vedi inserto). Tozzi fa poi un rapido calcolo per dimostrare a quale rischio potremmo essere esposti, vicino ad impianti «a norma di legge». Se la tecnologia attualmente disponibile non ci consente di rilevare la presenza di diossina al di sotto di un certo valore, ad esempio 50 pg/m3, entro comunque il limite di legge che è di 100 pg/m3, si rischia di non considerare affatto valori inferiori, ad esempio 40 pg/m3, di diossina emessa da un impianto e di valutare pertanto quest’ultimo come idoneo e rispettoso dei limiti di legge. Poiché però nell’aria che respiriamo normalmente, la quantità di diossina è di 0,05-0,5 pg/m3, allora 40 pg/m3 vogliono dire un quantitativo da 80 ad 800 volte superiore rispetto alla normale quantità. Quindi, solo perché non misurabile, ignoriamo tale quantitativo e le sue possibili conseguenze? Un inceneritore di media taglia, cioè da un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette circa 5 milioni di metri cubi di fumi. Se la quantità di diossina in essi contenuta fosse di 40 pg/m3, significherebbe che ogni giorno nell’atmosfera sarebbero dispersi 200 milioni di picogrammi di diossine. Poiché la dose massima tollerabile gioalmente da una persona adulta è di circa 150 pg, questa quantità sarebbe quindi quella tollerabile da un milione e mezzo di persone. Con un centinaio di inceneritori di questo tipo sul territorio nazionale si arriverebbe a 20 miliardi di picogrammi di diossina, cioè la massima dose tollerabile da 150 milioni di persone. E questo con impianti rigorosamente a norma di legge.
Non dimentichiamo che, per quanto riguarda la diossina, non è importante solo la sua quantità in un m3 d’aria, ma quanta effettivamente se ne deposita al suolo in un anno. Le diossine infatti sono un gruppo di composti ad elevato peso molecolare, quindi poco volatili. Sono inoltre solubili nei grassi, dove tendono ad accumularsi e non vengono smaltite dall’organismo umano, per il quale sono tossiche e cancerogene. Pertanto, anche un’esposizione a livelli minimi, ma prolungata nel tempo, può causare gravissimi danni alla salute sia umana, che animale.  È importante a tale proposito ricordare che presso i lavoratori dell’inceneritore di Cracovia è stata rilevata un’incidenza anormalmente alta di neoplasie polmonari e di accidenti cardiovascolari, nonché un’incidenza anomala di neoplasie, disturbi respiratori, patologie tiroidee e malformazioni fetali negli abitanti esposti. In Italia uno studio condotto negli anni 1986-2002 nel territorio di Campi (Fi) ha rilevato più del doppio di casi attesi per linfomi non Hodgkin e per sarcomi dei tessuti molli, tumori che la letteratura scientifica correla molto strettamente all’azione delle diossine. Studi giapponesi sottolineano che la maggiore fonte di diossina è rappresentata dagli inceneritori urbani ed inoltre è segnalata l’incidenza di morti infantili, malformazioni congenite e malformazioni della sfera riproduttiva fra gli abitanti vicini ad inceneritori anche di ultima generazione. Naturalmente gli inceneritori non sono gli unici impianti a rilasciare diossina, che è rilevabile normalmente presso altri impianti industriali, soprattutto acciaierie, oltre che nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e di carbone e nelle combustioni incontrollate (es. mini-incenerimento domestico).

Mercurio, cadmio, (…): di tutto, di più

I termovalorizzatori sono responsabili della diffusione di idrocarburi aromatici policiclici, di policlorobifenile (PCB), di metalli pesanti, quali piombo, zinco, rame, cromo, cadmio, arsenico, mercurio e di furani; inoltre, come qualsiasi processo di combustione, rilasciano nell’aria polveri sottili, la cui quantità emessa aumenta al crescere della temperatura (specialmente il particolato ultrafine PM<2,5). A proposito di mercurio, la maggioranza degli studiosi sostiene che è pressoché impossibile escogitare sistemi efficaci per abbattee con sicurezza l’emissione; ricordiamo che il mercurio provoca gravissimi danni al sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda le polveri fini PM2,5 e quelle ultrafini (da PM2,5 a PM0,1) di tipo inorganico, va innanzitutto detto che non esistono filtri efficaci, per cui un limite alla loro emissione non sarebbe attuabile al momento, se non vietando il funzionamento degli impianti di incenerimento. Le nanopolveri o particolato ultrafine, cioè quelle a PM<2,5, sono responsabili, secondo dati Oms del 2005, di un calo di vita medio di 8,6 mesi in Europa e di 9 mesi in Italia (morti cardiovascolari e respiratorie).
L’azione mutagena e cancerogena degli idrocarburi aromatici policiclici e del policlorobifenile è fin troppo nota, mentre per quanto riguarda il cadmio, questo ha mostrato un danno genotossico da stress ossidativi con accumulo nel sistema nervoso centrale, renale ed epatico e inoltre è causa di malformazioni fetali e cancerogenesi a carico di diversi tessuti.
Naturalmente nel corso degli ultimi vent’anni sono stati fatti molti passi avanti, nel tentativo di rimuovere i macroinquinanti derivanti dall’incenerimento e presenti nei fumi (ad es. ossido di carbonio, anidride carbonica, ossidi di azoto e gas acidi come l’anidride solforosa) e di abbattere le polveri. Si è così passati da sistemi di filtro come i cicloni ed i multicicloni,  con rendimenti massimi di captazione degli inquinanti rispettivamente del 70% e dell’85% ai filtri elettrostatici o filtri a manica, che hanno una resa fino al 99% ed oltre. Inoltre sono state sviluppate misure di contenimento preventivo delle emissioni, ottimizzando le caratteristiche costruttive dei foi e migliorando l’efficienza del processo di combustione. Questo risultato si è ottenuto attraverso temperature più alte, maggiori tempi di permanenza dei rifiuti in regime di alte turbolenze e grazie all’immissione di aria per garantire l’ossidazione completa dei prodotti di combustione. Però non va dimenticato che l’aumento della temperatura, se da un lato riduce la produzione di diossine, dall’altro aumenta quella degli ossidi di azoto, nonché delle nanopolveri, per cui diventa necessario trovare un compromesso.

Brescia: ma che bel premio!

Facciamo ora una considerazione a proposito del «miglior impianto», a cui si attiene la normativa vigente, in materia di limiti da non superare. Recentemente, cioè nell’ottobre 2006, l’impianto di termovalorizzazione di Brescia è stato proclamato «migliore impianto del mondo» dal Waste to Energy Research and Technology Council (Wtert), un organismo indipendente formato da tecnici e scienziati di tutto il mondo e promosso dalla Columbia University di New York. Lascia tuttavia perplessi il fatto che questo organismo annoveri tra gli enti finanziatori e sostenitori la Martin GmbH, che è tra i costruttori dell’inceneritore premiato. D’altro canto proprio questo impianto è stato oggetto di diverse procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la testimonianza del dottor Francesco Pansera, che parla di censura del dissenso tecnico a Brescia, nonché di soppressione delle verifiche e delle voci critiche, il sospetto che i premi dati a certi impianti non siano altro che subdole forme pubblicitarie diventa forte. Sul sito della Martin GmbH, raggiungibile da quello della Wtert, si legge poi che in Italia la Martin è partner della Technip, un’altra multinazionale, che sta già partecipando ad un piano del presidente Cuffaro per la costruzione e la gestione di inceneritori in Sicilia. Quindi per queste ditte l’Italia, cioè la nazione premiata, rappresenta un mercato in espansione, purché si neutralizzino le critiche e si ottenga il favore dell’opinione pubblica. Del resto in Italia i termovalorizzatori sono ancora poco diffusi, a differenza dell’Europa, dove sono attualmente attivi 304 impianti in 18 nazioni.
Bisogna tuttavia porsi una domanda: perché paesi come l’Olanda, la Germania e la Francia stanno perseguendo la politica di bruciare sempre meno rifiuti, per dismettere un giorno gli impianti esistenti? A tale proposito in queste nazioni sono attuate amplissime forme di raccolta differenziata e di riduzione alla fonte anche con leggi nazionali sul riutilizzo delle bottiglie di vetro e di plastica (ogni cittadino in pratica paga una cauzione sulle  bottiglie di plastica e di vetro, che gli verrà restituita con un bonus per il supermercato, quando riconsegnerà le bottiglie negli speciali spazi presso i centri commerciali). Inoltre in tali nazioni si stanno sempre più usando forme di energia alternativa, quali quella eolica e quella solare. Alla luce di tutte queste considerazioni, possiamo dedurre che la strada del termovalorizzatore non è certo quella ottimale per risolvere il problema dell’eliminazione dei rifiuti e quello della produzione di energia, tanto più che non solo non sappiamo con certezza quali sono le sostanze realmente immesse nell’atmosfera, ma a quanto pare non possiamo nemmeno fidarci troppo delle valutazioni d’impatto ambientale, che vengono effettuate. Pensiamo inoltre al fatto che l’energia che si ottiene dalla combustione di un oggetto è quasi sempre di gran lunga inferiore a quella impiegata per costruirlo. Per di più, per ricostruire lo stesso oggetto, è necessario sfruttare materie prime dell’ambiente (ad es. alberi nel caso della carta), che si sarebbero risparmiate con il riciclaggio.  Sicuramente è quindi fondamentale assumere nuovi stili di vita, che portino ad una riduzione dei rifiuti all’origine, ad un loro riutilizzo o al loro riciclaggio, dove possibile, in modo da limitare al minimo il conferimento in discarica o negli inceneritori già esistenti.  

Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario di «Nostra madre terra»

L’ABC DEL PROBLEMA


Cancerogeno: qualsiasi agente chimico, fisico o virale in grado d’indurre la comparsa di una forma di cancro.

Cicloni e multicicloni: si tratta di apparecchiature utilizzate per la separazione di particelle solide o liquide trascinate dai gas e per la separazione di particelle solide trascinate dai liquidi, sfruttando l’azione della forza centrifuga. I cicloni sono essenzialmente costituiti da recipienti cilindrici con una parte inferiore tronco-conica, nei quali viene introdotta tangenzialmente la corrente fluida da purificare, messa in movimento a grande velocità. Da un condotto centrale esce, verso l’alto, il fluido purificato, mentre nel fondo conico si raccolgono le particelle separate, la cui grandezza è di solito compresa fra 5 e 1.000 µm. Sono molto usati per eliminare le particelle dai fumi di scarico di industrie.

Composti organici ed inorganici: i primi sono composti contenenti atomi di carbonio (C) e costituenti tipici della materia vivente, mentre gli altri non contengono atomi di C e sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, presenti nel regno minerale.

Danno genotossico: danno al Dna, quindi analogo di mutazione (vedi: mutageno).

Filtri a manica: sono utilizzati per le separazioni solido-gas e sono costituiti essenzialmente da tubi di tela, all’interno dei quali arriva il gas da depurare; mentre quest’ultimo attraversa la superficie, il solido viene trattenuto. Costituiscono l’ultima fase del recupero dei solidi da gas e spesso sono montati a valle dei cicloni.

Filtri elettrostatici: sono anche detti elettrofiltri. Sono costituiti da un tubo a grande diametro e di estesa superficie, che rappresenta il condotto del fumo ed è collegato a terra e da un filo posto al centro del tubo, dal quale è isolato elettricamente. Il campo elettrostatico, che si genera tra questi due elementi, provoca una ionizzazione del gas; gli ioni negativi caricano le particelle solide e liquide, presenti nei fumi, che si raccolgono sulla superficie del condotto (elettropositivo), dal quale sono asportate. Sono usati per asportare polveri e nebbie, anche di dimensioni piccolissime.

Fonti di energia alternativa: idroelettrica, solare, eolica e geotermica. In questi casi l’energia elettrica viene ottenuta rispettivamente dalla trasformazione di energia idraulica, solare, cinetica derivante dalla forza del vento e dal calore della terra.

Furano: composto organico eterociclico dotato di caratteristiche aromatiche (cioè con formula di struttura ad anello, contenente legami semplici e doppi alternati). Dal tetraidrofurano vengono preparati l’esametilendiammina ed il nylon. Presenta reazioni di sostituzione elettrofila, che avvengono però in condizioni più blande, che negli altri composti aromatici.

Idrocarburi aromatici policiclici: sono idrocarburi derivati dal benzene, per condensazione di due o più anelli benzenici. Vengono estratti dal catrame di carbon fossile o dal petrolio. È nota la loro azione cancerogena. Tra i tumori più diffusi, da loro causati, ricordiamo il cancro del polmone. Nel fumo di sigaretta sono presenti questi idrocarburi, nonché ammine aromatiche.

Mutageno: qualsiasi composto in grado di provocare una mutazione del Dna cellulare. Le mutazioni vengono distinte in geniche, cromosomiche o genomiche a seconda che vengano colpiti uno o più geni, un cromosoma oppure più di un cromosoma, così da compromettere l’intero genoma. Se il genoma colpito appartiene ad una cellula della linea germinale (ovociti o spermatozoi), la mutazione verrà trasmessa alla discendenza, con conseguenze di maggiore o minore gravità, a seconda del danno genetico (es. malformazioni, aborti spontanei, ecc.) mentre una mutazione a carico del Dna di una cellula della linea somatica (cioè di tutte le cellule del corpo diverse da quelle germinali), può determinare la trasformazione della cellula in senso neoplastico.

Picogrammo: 10-12g = 10-9mg = 1/1.000.000.000 mg.

Policlorobifenili: sono composti organici aromatici clorurati, in cui degli atomi di cloro sostituiscono in varia percentuale gli atomi d’idrogeno di un bifenile. Sono stati ampiamente impiegati per vari usi, finché non ne è stata segnalata la tossicità, dovuta all’inquinamento delle falde acquifere.

Stress ossidativo: danno a varie strutture cellulari dovuto all’azione dei radicali liberi, molecole che hanno perso nei loro atomi un elettrone, nell’orbita estea. Queste molecole vengono prodotte nelle fasi intermedie del metabolismo cellulare e sono sostanze chimiche paragonabili ad un ossidante, che intacca le materie più diverse, tra cui il Dna cellulare, con rottura delle sue catene e quindi con effetto mutageno e cancerogeno. Il nostro organismo si difende dall’azione dei radicali liberi con dei sistemi enzimatici, come la superossido-dismutasi, e non enzimatici tra cui gli antiossidanti naturali delle cellule, come il glutatione, la metionina, la cisteina e le vitamine C ed E. Diversi fattori favoriscono la formazione dei radicali liberi tra cui il tabacco, per la presenza di idrocarburi aromatici policiclici e di ammine aromatiche, l’alcornol, l’assunzione di certi farmaci, l’esposizione a svariati composti chimici, le radiazioni ionizzanti ed i raggi ultravioletti.
(a cura di R.Topino e R.Novara)

Come funziona un termovalorizzatore

DAI RIFIUTI, ENERGIA E… (fumi, scorie, ceneri)


Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere sintetizzato in 7 fasi:

1) Arrivo dei rifiuti, che possono essere utilizzati come sono, il cosiddetto «tal quale», oppure provenire da impianti di selezione, per la produzione della frazione combustibile o Cdr (combustibile derivante dai rifiuti), previa separazione degli inerti (metalli, minerali, ecc.). Confrontando la resa di un impianto, che brucia il «tal quale», con uno che brucia il Cdr, si stima che il rendimento del primo sia di 250 Kwh/tonnellata, mentre quello del secondo sia di 800 Kwh/tonnellata, quindi la combustione del Cdr dà sicuramente una resa migliore. Prima di venire bruciati, i rifiuti sono stoccati in un’area dell’impianto dotata di un sistema di aspirazione, per evitare la dispersione dei cattivi odori.

2) Combustione: mediante griglie mobili i rifiuti vengono portati in foo e bruciati a circa 1.000° C, in presenza di aria forzata, per migliorare la combustione con continuo apporto di ossigeno.

3) Produzione di vapore: il calore derivante dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per portare ad ebollizione l’acqua di una caldaia posta a valle del bruciatore.

4) Produzione di energia elettrica: il vapore generato mette in moto una turbina, che accoppiata ad un motoriduttore e ad un alternatore, trasforma l’energia termica in elettrica.

5) Estrazione delle scorie: le componenti incombuste dei rifiuti vengono raccolte e smaltite in discarica. Nel caso dell’uso del Cdr si ottiene un abbattimento della produzione di scorie.

6) Trattamento dei fumi: i fumi derivanti dalla combustione vengono filtrati con un sistema multistadio (filtri elettrostatici o filtri a manica), per la riduzione degli agenti inquinanti sia aeriformi che corpuscolati; la loro temperatura viene inoltre abbassata a 140°C mediante acqua di raffreddamento, che necessita poi di depurazione.

7) Smaltimento delle ceneri: le ceneri derivanti dalla combustione sono normalmente classificate come rifiuti speciali non pericolosi e conferite in discarica. Nel caso della combustione del «tal quale» rappresentano circa il 30% del peso iniziale, mentre nel caso della combustione del Cdr rappresentano circa il 70%. Le polveri fini, classificate come rifiuti speciali pericolosi, rappresentano circa il 4% del peso iniziale. Entrambi i tipi di polveri sono smaltite in discariche per rifiuti speciali.

Il caso Torino

«VOGLIAMO INCENTIVI»

A seguito dell’emendamento al decreto legge sugli «obblighi comunitari», deciso dal Consiglio dei ministri il 27 dicembre 2006 e formalizzato a gennaio 2007, che in pratica ha ristretto l’ambito d’applicazione del sistema «CIP6» (gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e assimilate, pagati come sovrapprezzo nelle bollette energetiche dai cittadini italiani), sia nella giunta comunale torinese che in quella della provincia di Torino c’è stata aria di bufera, perché sostanzialmente è stato colpito dal provvedimento il progetto di costruzione del termovalorizzatore del Gerbido. A seguito di questo emendamento, l’incentivo sarà limitato ai termovalorizzatori già esistenti ed operativi, ma non a quelli «già autorizzati» e di cui è già stata o sarà avviata la realizzazione, come appunto nel caso di quello del Gerbido.
La reazione del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta, si è tradotta in un appello bipartisan per tentare di ottenere, da parte del governo, una deroga a beneficio degli impianti già autorizzati. Secondo Saitta, senza tale deroga i costi della costruzione e del funzionamento del termovalorizzatore ricadranno sulle spalle dei cittadini, sotto forma di un vertiginoso aumento della tassa rifiuti.
Ma quanto verrebbe a costare la sola costruzione del termovalorizzatore? Ebbene, il costo dell’impianto è stimato in 260 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 90 milioni di euro per le spese connesse, più 20 milioni di compensazioni, per un totale di 370 milioni di euro. La gara d’appalto dovrebbe essere avviata nel gennaio 2008, mentre l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2011.
E quanto costa smaltire i rifiuti con il termovalorizzatore, oppure in discarica? Per quanto riguarda i costi dello smaltimento con il termovalorizzatore, questi varieranno a seconda della disponibilità dei contributi. In particolare dovrebbero essere di 120-125 euro per tonnellata a incentivi zero, mentre potrebbero scendere a 90-95 euro con incentivi al 40% ed a 80 euro con la totalità dei contributi; il conferimento in discarica costa attualmente circa 123 euro a tonnellata.
L’atteggiamento di chi vorrebbe questi incentivi è in linea con le direttive europee? La risposta, come abbiamo cercato di spiegare nell’articolo, è «no».

Roberto Topino
Rosanna Novara

Il caso della provincia autonoma

DOVE VOLA LA FARFALLA TRENTINA?


«Il bosco, la casa dei trentini», così recitava uno slogan della Provincia Autonoma di Trento. Sul turismo della natura il Trentino ha fondato le proprie fortune. Eppure, qualcosa sta cambiando e non in meglio. L’idea dell’inceneritore di Trento risale al 2001 e dovrebbe trovare realizzazione attraverso la «Trentino Servizi» spa. La società è partecipata al 20% dalla Asm di Brescia, proprietaria del famoso inceneritore, il quale, tra l’altro, ha prodotto questa grave conseguenza: «Brescia è ai primi posti tra le province lombarde per quantità pro capite di produzione di rifiuti, e agli ultimi per raccolta differenziata» (cfr. quotidiano L’Adige, 2 settembre 2002). Proprio un bell’esempio da seguire! Ma l’inceneritore non è tutto. Le cosiddette (e famigerate) «grandi opere» stanno per sbarcare anche nelle province di Trento e Bolzano. In primis, il progetto Alta velocità/capacità (Tav/Tac) da Verona a Monaco con un tunnel di 56 Km (da Fortezza ad Innsbruck) sotto il Brennero. Nel numero di dicembre 2006 de «Il Trentino», la rivista della Provincia di Trento, le pagine conclusive erano dedicate a «come sarà il Trentino tra 30 anni». Leggiamo qualche passo: «Tra trent’anni per il Trentino continueranno a transitare, assieme alle persone, anche le merci. Lo faranno soprattutto via treno, sui quattro (notare: 4!) binari della nuova ferrovia del Brennero e attraverso il grande tunnel sotto le Alpi. L’autostrada del Brennero sarà riservata alle auto (…)». A parte il fatto di non considerare per nulla la possibile (ed auspicabile) opposizione della gente, sembra che l’analisi costi-benefici sia stata fatta ignorando i primi (più che certi) ed esaltando i secondi (più che dubbi). A parte i 25 anni di lavori, l’ambiente naturale sconvolto, il paesaggio deturpato, il traffico, il rumore, le polveri, a parte tutto questo ci sarà anche il conto: l’Alta velocità è un buco finanziario senza fine, che dovrà essere colmato con soldi pubblici (si sa: al contrario dei profitti, i costi sono sempre collettivi…) per generazioni.
Continuiamo a leggere: «Tra trent’anni “Benessere” sarà la parola d’ordine. (…) Il riciclaggio dei rifiuti sarà un’abitudine normale, e l’inceneritore si avvierà alla chiusura». Ancora gli «esercizi di futurologia» de «Il Trentino» (così sono chiamati) nascono con importanti errori concettuali: in primo luogo, ignorano che già oggi la prospettiva più virtuosa è quella denominata «rifiuti zero»; in secondo luogo, non considerano che raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici, dato che la prima riduce la quantità di rifiuti prodotti, mentre il secondo ha bisogno di rifiuti per esistere e funzionare.
Insomma, gli amministratori trentini volevano infondere ottimismo nelle «magnifiche sorti e progressive», ma hanno ottenuto l’effetto opposto: uno scenario orwelliano. Quasi non bastasse, alcune settimane fa sono uscite delle statistiche sul «consumo di suolo» (cfr. L’Adige, 2 febbraio). Ebbene, il Trentino, negli ultimi anni,  ha cementificato come mai nella sua storia. Una terra di boschi e montagne, laghi e castelli, meli e vigneti rischia di soccombere davanti a progetti di sviluppo insensato ed anacronistico. Da trentino (sono di Rovereto) vedere la mia terra offesa da tangenziali, bretelle, viadotti, autostrade, funivie e in futuro forse anche da superferrovie, megatunnel, termovalorizzatori, aeroporti tra le montagne, mi produce un’enorme tristezza e rabbia. Ma voglio pensare in positivo. Per secoli i trentini e gli altornatesini (sudtirolesi) hanno saputo difendere la loro terra. Speriamo che si sveglino dall’attuale torpore e tornino in sé. Perché, come scriveva Tom Benetollo, «arrendersi al presente è il modo peggiore di costruire il futuro».

Paolo Moiola


Siti internet: www.pattomutuosoccorso.org
E-mail: noinceneritorenotav@gmail.com,
noeurotunnelnotavbz@libero.it

Fonti

I testi: M.Tozzi, L’Italia a secco, Rizzoli Editore, 2006

I siti Web:
• http://www.beppegrillo.it – blog del 1/12/06 e 15/12/06: – «Le emissioni degli inceneritori: danno biologico» in «Termovalorizzatori nella piana fiorentina: le ragioni del sì, le ragioni del no», di M. Gulisano, La Piana, Metropoli; – lettera del dr. Francesco Pansera al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, dr. F. Abruzzo, del 30/10/2006
•http://www.ecoage.com/ambiente/rifiuti/termovalorizzatore.asp: Termovalorizzazione: di cosa si tratta?
• http://www.altreconomia.it: il termovalorizzatore Silla 2 di Milano
• http://www.rifiuti.it: Riciclaggio e recupero di rifiuti plastici in Svizzera
•http://www.rifiutilab.it/_downloads/Conferenza_Trento3doc.pdf: Inceneritore ed altri sistemi di trattamento termico dei rifiuti urbani: esperienze svizzere
•http://www.comune.firenze.it/comune/organi/q4/informa/giugno02/02.pdf: Termovalorizzatore: pro e contro
• http://www.isolapossibile.it/article.php3?id_article=1484: Regione Campania, emergenza rifiuti: storia di un disastro sanitario ed ambientale annunciato
• http://lists.peacelink.it/pace/msg12369.html: Proposta di cornordinamento a sostegno delle vittime della diossina in Vietnam

Roberto Topino e Rosanna Novara




Tira proprio una brutta aria

Gli inquinanti atmosferici assediano le città

Benzene, polveri sottili, ozono. Si tratta di nomi ormai entrati nel linguaggio comune, ma senza che la loro conoscenza producesse effetti positivi. Sono soltanto aumentate le diatribe e lo scaricabarile delle responsabilità. Qual è il peso del traffico automobilistico nell’inquinamento? Le marmitte catalitiche servono? La benzina «verde» è efficace? Un’analisi competente che evidenzia la gravità
di un problema la cui soluzione pare lontana. E non soltanto per colpa delle istituzioni pubbliche…

La qualità dell’aria è certamente uno dei requisiti essenziali per la nostra salute e per il nostro benessere. Purtroppo gli inquinanti atmosferici, soprattutto nei grandi centri urbani, rappresentano una grave minaccia alla salute.
Secondo una recente valutazione della «Organizzazione mondiale della sanità» (World Health Organization, Who), il peso delle patologie correlate agli inquinanti atmosferici è di circa di 2.000.000 di morti premature per anno, a livello mondiale.
Questa valutazione tiene conto sia dell’inquinamento degli spazi aperti, che di quello degli ambienti confinati, dove ha un peso rilevante l’utilizzo di combustibili solidi, come il carbone ed il legname.
L’Oms ha perciò predisposto delle linee guida, per ridurre l’impatto sulla salute da parte degli inquinanti atmosferici.
Sulla base di queste indicazioni, in Italia, il Decreto ministeriale (Dm) n° 60 del 2 aprile 2002 ha recepito le direttive comunitarie (1999/30/CE e 2000/69/CE) conceenti i valori limite di qualità dell’aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, il materiale particolato (PM10), il piombo, il benzene ed il monossido di carbonio.

Dalla «super» alla «verde»: dal piombo al benzene

Bisogna fare una breve digressione sugli scarichi dei motori a combustione intea e sulle marmitte catalitiche.
In passato la benzina «super» conteneva un additivo antidetonante (la cui funzione è quella di rallentare la velocità di esplosione della benzina migliorando l’efficienza del motore) a base di piombo tetraetile, il quale, avendo effetti negativi sul sistema nervoso, è stato tolto e sostituito da altri composti tra cui il benzene.
La nuova benzina senza piombo è stata definita «verde» (i manifesti pubblicitari rappresentavano un passeggino vicino ad un’automobile), dimenticando o trascurando gli effetti del benzene in essa contenuto, noto per i gravissimi danni emato-midollari, con un meccanismo di azione molto simile a quello delle radiazioni ionizzanti, tanto che viene anche definito tossico radiomimetico.
Il benzene (detto anche benzolo) è stato spesso impiegato nell’industria, per le sue proprietà di solvente, nel periodo antecedente alla legge 5 marzo1963, che ne ha vietato l’uso.
L’entrata in vigore del Dm n. 60 del 2002 ha stabilito il valore limite per la protezione della salute umana di 5 µg/m3 (microgrammi al metro cubo), valore da raggiungere entro il primo gennaio 2010. Il Dm n. 60 prevede anche un margine di tolleranza di 5 µg/m3 (che riporta il valore limite a 10 µg/m3) fino al 31 dicembre 2005. Dal primo gennaio 2006, e successivamente ogni 12 mesi, il valore è ridotto secondo una percentuale costante per raggiungere lo 0% di tolleranza al primo gennaio 2010.
Se la benzina rossa aveva il difetto di contenere alte percentuali di piombo, la benzina cosiddetta verde ha il limite di contenere percentuali non indifferenti di benzene: dalla tossicità del piombo si è passati alla cancerogenicità del benzene.
Secondo recenti stime dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’U.S. Environmental Protection Agency, l’esposizione «a vita» di una popolazione a concentrazioni di 1 µg/m3 di benzene provoca 4-10 casi aggiuntivi di leucemia ogni milione di persone.
Ma quanto benzene c’è nella benzina «verde»? Appena è entrata in commercio si diceva che il benzene era presente nella concentrazione del 5%, tale percentuale è stata successivamente ridotta.
In Italia, la legge n. 413/1997 ha stabilito che il contenuto di benzene nelle benzine non deve superare l’1% in volume; ciò significa che facendo un pieno di 50 litri si carica circa mezzo litro di benzene!
Il benzene è un liquido incolore dal caratteristico odore aromatico pungente che diventa irritante a concentrazioni elevate. La soglia di concentrazione per la percezione olfattiva è di 5 mg/m3 (Air Quality Guidelines for Europe, Who 1987).
L’odore del benzene ricorda quello della vernice fresca e quello dello smalto per le unghie: quando un veicolo catalizzato parte si sente chiaramente tale odore, che permane fino a quando il sistema (catalizzatore, motore) non ha raggiunto le temperature di esercizio (per la marmitta è di circa 800°C). Ne deriva che le emissioni inquinanti, per i primi 4/5 km e con una temperatura estea di 20°C, sono paragonabili a quelle di una vettura non catalizzata. Con temperature estee inferiori a 20°C e con ingorghi di traffico l’inquinamento è ancora maggiore.

Le auto catalitiche: è questa la soluzione?

Uno studio della Stazione sperimentale combustibili di Milano ha dimostrato che una vettura non catalizzata, che procede in condizioni di scorrevolezza di traffico a velocità costante, emette una quantità di inquinanti inferiore ad una vettura catalitica costretta a procedere con marce ridotte e con continue soste e partenze, come avviene regolarmente in molte città italiane.
Quando in città si sente l’odore caratteristico del benzene, vuol dire che la sua concentrazione è superiore a 5 mg/m3, mentre la soglia di pericolo è di 5 µg/m3, cioè un valore inferiore di 1.000 volte.
Già a questo punto è chiaro che i blocchi alla circolazione attuati in varie città italiane serviranno a ben poco per tutelare la salute delle persone, perché tutte le vetture a benzina, in situazioni di traffico intenso e per tratti di pochi chilometri, emettono grandi quantità di inquinanti.
Un altro inquinante, che è oggetto di attenzione, è il biossido di azoto, che fa parte dei cosiddetti gas nitrosi, che si formano per combinazione dell’azoto con l’ossigeno.
Il traffico veicolare è responsabile di circa la metà degli ossidi di azoto presenti, l’altra metà è dovuta alle combustioni di tutti i tipi, dai riscaldamenti domestici alle industrie, tenendo presente che, in genere, più è alta la temperatura di combustione e maggiore è l’emissione di ossidi di azoto.
Il biossido di azoto ha un importante ruolo nel processo di formazione dell’ozono. Anche il biossido di zolfo o anidride solforosa è irritante per le vie respiratorie e può essere causa di bronchiti croniche anche invalidanti.
L’emissione di biossido di zolfo deriva dal riscaldamento domestico a gasolio, dai motori Diesel, dagli impianti per la produzione di energia e, in generale, dalla combustione di carbone, gasolio ed oli combustibili contenenti zolfo.
Il biossido di zolfo può anche dare origine ad acido solforico ed è responsabile della formazione delle piogge acide che hanno effetti negativi sull’ecosistema, sui monumenti e, non dimentichiamolo, sui manufatti di cemento amianto, corrodendo la matrice cementizia e liberando le fibre di amianto.
Negli ultimi anni l’emissione di biossido di zolfo nelle aree urbane è stata ridotta grazie al miglioramento della qualità dei combustibili, riducendo la concentrazione di zolfo.
Il terzo componente nocivo per l’apparato respiratorio è l’ozono, che può essere di origine naturale, ma è anche legato alle attività produttive. Quando le percentuali presenti nell’aria che respiriamo aumentano, l’ozono diventa un inquinante pericoloso per la nostra salute. L’ozono è un gas tossico e l’esercizio fisico svolto all’aperto in coincidenza con elevate concentrazioni di ozono nell’atmosfera può essere veramente dannoso.
Due parole sul monossido di carbonio, che è dovuto alla combustione incompleta dei carburanti utilizzati per il movimento degli autoveicoli.
Il monossido di carbonio è pericoloso perché non ha odore. L’inalazione di monossido di carbonio provoca vari disturbi (mal di testa, affanno, vertigini, nausea, disturbi visivi), che spesso non vengono correlati a tale composto proprio per la sua insidiosa assenza di odore.
Non dimentichiamo che, in ambienti chiusi, il monossido di carbonio può provocare la morte.

Le polveri sottili: un aumento irrefrenabile?

Ci sono poi le polveri sottili (PM10) definite anche «particolato», che includono tutte quelle particelle solide o liquide, che possono trovarsi disperse nell’aria, come la fuliggine, il piombo, il nichel, i solfati, la polvere, la cenere e anche sostanze naturali come il polline. Le polveri più inquinanti sono quelle emesse da sorgenti quali: industrie, centrali termoelettriche, cantieri e autoveicoli. Il particolato si può anche formare tramite la condensazione in microgocce di inquinanti quali l’anidride solforosa, gli ossidi di azoto ed alcuni composti organici volatili come gli idrocarburi policiclici aromatici. La loro pericolosità è quindi dovuta alle sostanze di cui sono composte e a ciò che trasportano.
Con la sigla PM10 si definisce il particolato caratterizzato da una dimensione inferiore ai 10µm, che ha la caratteristica di poter raggiungere direttamente gli alveoli polmonari.
Esistono particelle ancora più fini, le PM2,5, che sono gli inquinanti più dannosi per la salute dell’uomo; posizionandosi direttamente sulla mucosa dell’albero respiratorio e sugli alveoli, infatti, queste piccolissime polveri possono causare disturbi dell’apparato respiratorio, dalle semplici irritazioni alle più gravi patologie, cancro compreso.
Nel caso del particolato, il pericolo non è solo dovuto alla dimensione delle particelle, ma anche e soprattutto al tipo di sostanze in esse contenute.
A Milano, per esempio, le polveri sono molto più ricche di amianto rispetto a Roma (in media, 10 volte di più) e ciò le rende molto più pericolose rispetto ad altre di pari dimensioni, ma contenenti una minor percentuale di questo minerale. L’amianto, infatti, è una delle sostanze più pericolose presenti nelle città industrializzate.

Quando un guaio tira l’altro

A tal proposito, tornando all’effetto delle piogge acide, queste corrodono la matrice cementizia dei manufatti di eternit (cemento-amianto), liberando le fibre di amianto, che possono raggiungere i nostri polmoni.
La quantità di tetti di eternit presenti sul territorio è ancora notevole ed il rischio per i cittadini di contrarre tumori da amianto è tutt’altro che trascurabile.
Con buona approssimazione, si può affermare che soltanto un terzo dei mesoteliomi (tumori da amianto) è correlabile con attività lavorative a contatto con l’amianto; tutti gli altri casi sono dovuti ad esposizioni a rischio di tipo extra-lavorativo.
Un’altra sostanza dannosa, presente sotto forma di polvere fine, è il carbone, che ha la capacità di legarsi ad altre sostanze chimiche veicolandole fino nei nostri polmoni.
Va detto che i veicoli a benzina emettono quantità trascurabili di polveri sottili e non esistono per loro limiti riguardanti le emissioni di PM10.
I veicoli a benzina emettono però altri inquinanti: in primo luogo il benzene, del quale abbiamo parlato in precedenza.
I veicoli meno inquinanti in assoluto sono quelli alimentati a gas (metano o gpl) e quelli elettrici, anche se l’elettricità è prodotta con il petrolio e quindi il problema viene solo spostato.
Altre sostanze che si presentano sotto forma di polveri sottili sono dovute ai lavori nei cantieri, all’usura del manto stradale, delle gomme, dei freni e delle frizioni.
Le polveri sottili, in quanto tali, si depositano al suolo e vengono sollevate dal vento e dal passaggio dei veicoli: si giunge al paradosso che anche se fosse consentita solo la circolazione delle carrozze trainate da cavalli, verrebbero comunque sollevate polveri sottili.
Che fare? Per quanto riguarda la benzina ed il gasolio, alcuni studiosi sostengono che la cosa più stupida che si può fare è bruciare il petrolio, dato che esso è una fonte esauribile e non rinnovabile. Il petrolio viene però utilizzato anche per la produzione di moltissimi manufatti, che pertanto in sua mancanza dovranno essere realizzati con altri materiali.
Bisognerebbe trovare altri sistemi di produzione di energia; in Brasile, per esempio, molti veicoli, anche prodotti da industrie italiane, viaggiano ad alcornol (che è un ottimo propellente non inquinante).
Per le polveri sottili, ha dato ottimi risultati il lavaggio delle strade che, se praticato in modo costante, consente di abbattere in modo sensibile la percentuale di inquinanti dispersi nell’aria. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

SUV? NO, GRAZIE!

«La moda dei Suv sta prepotentemente affermandosi anche in Italia. Già diffusi negli Usa da molti anni sono noti per essere autovetture gigantesche, pesanti, voraci di energia e in genere specchio di un atteggiamento arrogante ed aggressivo verso il prossimo e l’ambiente. Essi non hanno nulla a che vedere con le vere e più spartane auto fuoristrada utili a chi lavora su terreni accidentati: si tratta invece di auto di gran lusso, il più delle volte sempre lucide e che non vedranno mai uno schizzo di fango o l’ammaccatura di un sassetto, usate semmai per salire sui marciapiedi di città e pavoneggiarsi davanti a bar e discoteche. In genere pesano 2,5 tonnellate (oltre il doppio di un’auto normale), sono più lunghe e più larghe, occupano quindi più spazio richiedendo parcheggi e strade più grandi. Consumano circa il doppio di un’utilitaria».

Fonte: Luca Mercalli – Chiara Sas­so, Le mucche non mangiano cemento, Edizioni Socie­tà Mete­o­ro­logica Subalpina, To­rino 2004; pagina 180.

SOLO CONOSCENDO POSSIAMO AGIRE

Un vecchio detto ammonisce che non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli. Dovremmo quindi riuscire a mantenerla vivibile per le generazioni future, non contaminata da sostanze capaci di mettere in serio pericolo la salute e la vita nostre e di chi verrà dopo di noi. Per fare questo è però necessario innanzitutto prendere coscienza di quali sono i problemi, che affliggono l’ambiente in cui viviamo, cioè le varie forme d’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, che spesso sono il risultato di svariate attività industriali, ma anche delle nostre abitudini di vita, non sempre corrette, o di forme di gestione della cosa pubblica poco oculate e non lungimiranti. Solo così, con la conoscenza di ciò che può minacciare la nostra salute, si può pensare alle possibili soluzioni per risolvere i problemi ambientali ed acquisire la convinzione che ciascuno di noi, modificando un poco le proprie abitudini, può contribuire al miglioramento dell’ambiente in cui vive, e più in generale del nostro pianeta.

In questa rubrica, ben conosciuta dai lettori di MC, verranno di volta in volta trattate le problematiche ambientali che ci riguardano più da vicino, con una particolare attenzione alle patologie che da loro possono derivare.

Roberto Topino
Rosanna Novara

IL GLOSSARIO DI «NOSTRA MADRE TERRA»

L’ABC DEL PROBLEMA

Amianto (o asbesto) – È il nome che si dà a molti silicati, che si presentano in fibre più o meno flessibili, che possono essere tessute. I più importanti tipi sono l’amianto crisotilo o asbesto vero e proprio, costituito da serpentino a fibre lunghe biancastre o verde-grigiastro; l’amianto anfibolo, costituito da actinoto, anfibolite e tremolite; l’amianto azzurro o crocidolite, contenente anche sodio e ferro. È insolubile, inodore, resistente al calore, alle azioni meccaniche e chimiche, per cui in passato ha trovato largo impiego nell’industria e nell’edilizia. Purtroppo esso ha un elevato potere cancerogeno, riconosciuto dall’Oms negli anni ‘80, per cui in Italia, a partire dal 1994, la legge ne vieta l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione. L’amianto è responsabile dell’insorgenza di asbestosi e di gravi forme di tumore come il mesotelioma pleurico e peritoneale ed il carcinoma polmonare.

Benzene (o benzolo) – È un liquido incolore, facilmente infiammabile, presente nella benzina verde. Si tratta di una sostanza tossica, di cui è accertato il potere cancerogeno. La prolungata permanenza in ambienti contenenti benzene provoca nausea, anemia ed, in alcuni casi, leucemia. È un idrocarburo ciclico, cioè è formato da un anello formato da 6 atomi di carbonio legati tra loro (oltre che con l’idrogeno), per mezzo di legami alternatamente singoli e doppi. È in pratica il capostipite degli idrocarburi aromatici. Nell’ambiente viene rilasciato, oltre che dalla combustione e dall’evaporazione delle benzine, anche dalle perdite di prodotti petroliferi nello stoccaggio e nel trasporto; inoltre, viene liberato con l’impiego di determinate pitture, nel lavaggio a secco e nella produzione di polietilene. Oltre agli effetti patologici sull’uomo e sugli animali, sono stati osservati danni alle piantagioni di cotone ed alle colture di fiori, in particolare di azalee e di orchidee.

Biossido d’azoto (NO2) – Questo, come altri ossidi di azoto, deriva dalla combustione ad elevata temperatura di gasolio, carbone o gas naturale nelle centrali elettriche. Inoltre gli ossidi di azoto, tra cui il biossido, derivano anche dalla produzione di fertilizzanti chimici. I loro effetti principali sono i disturbi respiratori, le piogge acide, la corrosione di metalli, l’effetto serra, la diminuzione dello strato d’ozono.

Biossido di zolfo (anidride solforosa, SO2): così come il triossido di zolfo SO3 è prodotto durante la raffinazione del petrolio,  le lavorazioni metallurgiche del rame e del piombo e la  produzione dell’acido solforico. La loro presenza nell’aria determina un aumento delle infezioni per via respiratoria, delle malattie cardiache e la corrosione di materiali a seguito della formazione di piogge acide.

GPL – È l’acronimo di «gas petrolifero liquefatto».

Leucemie – Si tratta di un gruppo di tumori maligni del sangue derivanti dai precursori dei leucociti (globuli bianchi) circolanti e tissutali. Esse rappresentano circa il 3% del totale dell’incidenza mondiale del cancro e sono, di solito, distinte sia in base al tipo cellulare d’origine (linfociti, mielociti, monociti), sia dal loro andamento clinico-patologico (forma acuta, subacuta, cronica). Nei bambini al di sotto dei 15 anni d’età, la leucemia è la forma di cancro più comune.

Linfomi – Si tratta di un gruppo piuttosto eterogeneo di tumori, tra cui i più noti sono quello di Hodgkin, i non-Hodgkin ed il linfoma di Burkitt. L’incidenza di queste forme di tumore è aumentata nei paesi occidentali a partire dal 1960, soprattutto tra le popolazioni con elevato livello socio-economico. Anche le leucemie appartengono a questa famiglia, mentre non tutti i linfomi sono leucemie, essendo molti di loro dei tumori solidi.

Materiale particolato (PM10 e PM2,5) – La definizione più corretta per queste forme d’inquinamento è quella di «particelle totali sospese» o PTS. Tali particelle vengono distinte in polveri inalabili o PM10, cioè con diametro inferiore a 10 µm, capaci di penetrare tutto il tratto superiore dell’apparato respiratorio fino ai bronchi e in polveri respirabili o PM2,5, cioè con un diametro inferiore a 2,5 µm, che possono penetrare tutto l’albero respiratorio fino agli alveoli polmonari. La loro liberazione nell’ambiente è dovuta a molteplici attività quali la combustione nelle centrali termiche, negli inceneritori dei rifiuti e negli impianti di riscaldamento domestici, l’attività dei cementifici, delle acciaierie, delle industrie vetraria e tessile e delle raffinerie di petrolio. I loro effetti principali sono le irritazioni polmonari, l’insorgenza di bronchiti, di enfisemi e di tumori maligni.

Mesotelioma pleurico e peritoneale – Questa forma di tumore maligno colpisce quasi esclusivamente la pleura ed il peritoneo ed è noto che si tratta della conseguenza di un’esposizione  ambientale o professionale all’asbesto. Queste forme tumorali hanno un lunghissimo periodo di latenza (circa 30 anni) ed un esito quasi sempre mortale. L’incidenza di questi tumori è in aumento in modo preoccupante, soprattutto nei paesi occidentali. Si può, tuttavia, attendere un aumento di questi casi anche nei paesi in via di sviluppo, dove purtroppo trovano tuttora largo impiego manufatti contenenti amianto, come l’eternit, già banditi nei paesi più sviluppati.

Micron – È la millesima parte del millimetro, cioè 0,001 mm. Viene identificato con la lettera greca µ, la quale viene utilizzata anche davanti ad altre unità di misura (per esempio: 1µg = 0,001 grammi).

Monossido di carbonio (CO) ed anidride carbonica (CO2) – Derivano dalla combustione incompleta della benzina, dalle emissioni dell’industria chimica e dall’incenerimento dei rifiuti solidi. Come effetti, il primo riduce la capacità del sangue di trasportare ossigeno, mentre l’anidride carbonica è la principale responsabile dell’effetto serra.

Ozono (O3) – È un gas bluastro dal caratteristico odore pungente, instabile anche a temperatura ordinaria, per cui tende a trasformarsi in ossigeno. Nell’atmosfera si trova solo in piccola quantità. Si forma dall’ossigeno per azione delle scariche elettriche e, per mezzo di reazioni fotochimiche, dagli ossidi d’azoto provenienti dagli scarichi dei motori a combustione intea e delle centrali termoelettriche. L’ozono danneggia i vegetali e molti materiali, tra cui gomme e tessuti; nell’uomo e negli animali provoca bronchiti ed attacchi d’asma. Esso contribuisce inoltre alla formazione della piogge acide e delle cappe di smog.

Piogge acide – Sono precipitazioni atmosferiche caratterizzate da un elevato tenore di acidità, a causa dell’aumento del consumo dei combustibili. Normalmente la pioggia è leggermente acida, con pH 5,6 circa, poiché reagisce con l’anidride carbonica e contiene acido carbonico. Attualmente, in molte zone del mondo e soprattutto nei paesi industrializzati, i dati relativi al pH delle precipitazioni sono molto inferiori alla norma; ad esempio nell’Europa continentale essi sono scesi a pH 4,1. Piogge con pH così basso danneggiano fortemente le foreste ed avvelenano le acque dei laghi e dei fiumi, con gravi conseguenze per la fauna. Tra i principali responsabili della formazione delle piogge acide c’è il biossido di zolfo o anidride solforosa, che reagisce con l’aria umida, ossidandosi e trasformandosi poi in acido solforico. Il meccanismo di formazione delle piogge acide è accelerato dall’inquinamento atmosferico globale, perché le particelle metalliche presenti nell’atmosfera (soprattutto ferro e manganese) catalizzano la reazione di acidificazione, così come l’ozono, il perossido d’idrogeno, l’ammoniaca e gli ossidi di azoto, questi ultimi emessi dalle centrali termoelettriche e dagli scarichi delle automobili.

Radiomimetico – Composto o sostanza con effetti sugli esseri viventi analoghi a quelli di una sostanza radioattiva, cioè effetti mutageni (che provocano mutazioni nel DNA), cancerogeni (che provocano il cancro)  e teratogeni (che provocano malformazioni fetali).

(a cura di R.Topino e R.Novara)

(*) Dott. Roberto Topino
Laureato in medicina e chirurgia, specialista in medicina del lavoro, si occupa di patologie legate all’attività lavorativa da circa trent’anni.
È stato cornordinatore della sezione tutela della salute dei lavoratori dell’Asl di Rivoli (Torino).
Dal 1992 esegue accertamenti e revisioni di malattie professionali presso l’Inail di Torino.

Dr.ssa Rosanna Novara
Ha una laurea in scienze biologiche e un dottorato di ricerca in oncologia.
Ha svolto attività di ricerca presso il dipartimento di scienze biomediche ed oncologia umana – sezione di anatomia ed istologia patologica dell’Università di Torino.
Attualmente è docente di anatomia e di fisiologia in una scuola di formazione professionale.

Roberto Topino e Rosanna Novara




Una sola madre terra Homo “turisticus” responsabile(2)

Per proteggere le risorse ambientali, contribuire al reddito e al benessere delle comunità locali, offrire ai turisti un’esperienza di qualità, il turismo deve essere «sostenibile» e «responsabile». E si può! Molti individui, associazioni e operatori turistici ci stanno provando e con buoni risultati.

Responsabile, sostenibile, sociale, consapevole, ecologico, ambientale, etico: sono gli aggettivi in base ai quali un numero sempre crescente di turisti sceglie il proprio viaggio in Italia e all’estero.
Ben 15 mila sono infatti gli italiani che nel 2003 hanno scelto viaggi responsabili verso i paesi del Sud del mondo, 200 mila quelli che hanno preferito un turismo sostenibile nel nostro paese, e si stima che il loro numero crescerà del 30-40% all’anno.
Anche le organizzazioni inteazionali guardano con attenzione questo fenomeno. Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, agenzia dell’Onu, l’essere «sostenibile» significa che deve proteggere le risorse ambientali, contribuire al reddito e al benessere delle comunità locali, offrire ai turisti un’esperienza di qualità. Vediamo in dettaglio cosa può comportare essere turisti responsabili nel Sud del mondo.

VILLAGGI: «CLASSICI» O RESPONSABILI?
Anche le agenzie, organizzazioni e associazioni che offrono un modo di viaggiare diverso dai tour organizzati sono sempre più numerose. Partite qualche anno fa in un silenzio generale, con l’obiettivo di permettere al turista una conoscenza reale del luogo visitato, fuori dai circuiti dei grandi alberghi, villaggi turistici e resort uguali ovunque, oggi in Italia se ne contano circa 80.
Di fronte a operatori turistici «classici», secondo i quali un turismo di massa crea comunque lavoro, benessere e occasioni di sviluppo, i fautori del «responsabile» sostengono che se il turismo non è certamente la causa di tutti i mali dei paesi poveri, non ne è neppure la soluzione. E denunciano l’impatto spesso devastante delle masse di turisti sui paesi ospitanti, con le inevitabili conseguenze ambientali, sociali, culturali e sanitarie, riconosciute anche dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp).
E intanto, lentamente, anche i grandi operatori turistici italiani e inteazionali iniziano ad affrontare l’argomento, anche se in maniera ancora molto limitata. Segnali concreti sono presenti ad esempio nella lotta contro la pedofilia associata al turismo, oppure nello sviluppo dell’ecoturismo.

«TEMPO LIBERO» NON È «RIPOSO DEI VALORI»
Le prime critiche e denunce al turismo «classico» arrivano soprattutto dalle chiese a partire dal 1967. Specialmente nel Sud del mondo, in numerose conferenze ecclesiali si denuncia l’imperialismo economico del Nord, si discute il ruolo delle multinazionali del settore, si solleva la questione del turismo sessuale.
Lo scopo è quello di stimolare una consapevolezza globale sull’impatto del turismo. «Il modo in cui il turismo è organizzato è neocolonialismo. Voi avete diritto allo svago e il denaro per concedervelo, noi no. E la nostra dipendenza economica da questa risorsa fa sì che i turisti debbano essere trattati come dèi» è l’amaro commento del padre indiano Desmond De Souza.
Proprio a partire dall’India, in pochi anni nel Sud e Nord del mondo prende forma un movimento di attenzione e critica al turismo, che si traduce in reti di associazioni e organizzazioni non governative operanti nel campo del turismo responsabile, ma anche in centri di ricerca, singoli intellettuali, attivisti, scrittori e giornalisti. Nel 1995 a Lanzarote, nelle Canarie, si tiene la Conferenza mondiale sul turismo sostenibile, promossa, tra gli altri, dall’Unesco e dall’Unep (United Nations Environment Programme), durante la quale viene approvata la Carta del turismo sostenibile.
Anche in Italia prende vita un forum nazionale di attenzione al turismo. Dal 1996, l’incontro tra associazioni e Ong (come Icei, Mlal e Aspac), organizzazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf e Cts), associazione delle imprese turistiche aderenti alla Lega delle cornoperative (Ancst), Associazione consumatori utenti, Ecpat, giornale di strada Terre di Mezzo… porta a due grossi risultati: la sottoscrizione nel 1997 della Carta di identità per viaggi sostenibili e la fondazione, nel 1998, di Aitr-Associazione italiana turismo responsabile. Nata con l’appoggio ufficiale del Dipartimento del turismo della Presidenza del consiglio dei ministri, l’Aitr ha per scopo la diffusione e realizzazione dei principi contenuti nella Carta; oggi, è formata da 50 associazioni no profit che si occupano a diverso titolo di turismo (vedi bibliografia).
Al fianco di questo movimento, anche il Vaticano si dimostra attento alle problematiche sollevate, tanto che il 9 giugno 2001, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo, papa Giovanni Paolo ii invita tutti i credenti a riflettere sugli aspetti positivi e negativi del turismo, affinché «nessuno cada nella tentazione di fare del tempo libero un tempo di riposo dei valori».

SOSTENIBILE ED ETICO
Nel tempo, grazie anche alla presenza attiva delle organizzazioni non governative, i viaggi di turismo responsabile hanno subito un’evoluzione, puntando su obiettivi sempre più complessi. Nati come occasione per permettere a soci, amici, finanziatori o semplici curiosi, una conoscenza «reale» e problematica dei paesi in cui le Ong operano, negli anni sono diventati un’occasione per visitare i progetti di cooperazione internazionale delle Ong stesse e per conoscere i volontari e le popolazioni locali che beneficiano del progetto, fino a rappresentare una vera e propria occasione di sviluppo per le zone interessate.
Secondo Alfredo Somoza, presidente di Aitr, gli aggettivi chiave di questo modo di viaggiare sono due: sostenibile ed etico. Sostenibile, ossia in grado di favorire un contatto con il territorio e con la società ospitante, avendo cura delle implicazioni ambientali, economiche, sociali e culturali; che rivaluta i ritmi lenti, il confronto e il dialogo con la diversità e che vuole essere anche segnale concreto di aiuto allo sviluppo.
Etico: perché non fa finta di non vedere le violazioni dei diritti dell’uomo e dei popoli; anzi, ha il coraggio di denunciarle. Un esempio: la campagna di boicottaggio al turismo in Birmania, lanciata da Aitr, perché le infrastrutture turistiche del paese asiatico sono state costruite sul lavoro forzato e sono gestite prevalentemente da una narco-dittatura.
Il turismo sostenibile o responsabile richiede quindi il rispetto e la valorizzazione delle culture locali e soluzioni rispettose dell’ambiente, ad esempio, per i trasporti, per i flussi di energia e di materia, per gestire i rifiuti, per minimizzare l’inquinamento atmosferico, del suolo e delle acque, ma anche l’inquinamento sonoro e luminoso.
Il turismo responsabile, inoltre, richiede che siano scoraggiate le attività turistiche, ricreative e sportive dannose per l’ambiente, che si riducano gli sprechi e certi consumi, anche nel rispetto della dignità dei lavoratori. Il contatto con la comunità locale e il contributo al loro sviluppo passa attraverso le scelte di tutti i giorni.
Privilegiare dove possibile bus o treni per gli spostamenti interni, scegliere innanzitutto ristoranti e piccoli hotel a gestione familiare per pasti e peottamenti, essere ospiti nelle sedi di Ong, di missioni e, se possibile, presso famiglie locali, contribuisce a rendere il turista consapevole: di sé e delle proprie azioni, della realtà dei paesi visitati, della possibilità di scegliere un modo di viaggiare che anziché allontanare e distruggere, avvicini e costruisca.

I PROTAGONISTI
Diversamente da qualche anno fa, quando i primi turisti responsabili erano soprattutto persone socialmente impegnate e frequentatori delle botteghe del commercio equo e solidale, oggi i viaggiatori «consapevoli» appartengono a qualunque gruppo sociale e professionale.
Impiegati, professori, architetti, operai, si avvicinano con le aspettative e le esigenze più diverse. Sicuramente il gruppo che parte per un viaggio di questo tipo desidera creare un affiatamento interno che favorisca anche le relazioni con la comunità ospitante.
L’accompagnatore del viaggio non è, quindi, solo una guida turistica, ma diventa un animatore socioculturale e un mediatore fra culture diverse. Sicuramente conosce il paese visitato, ne parla la lingua, magari c’è già vissuto, in molti casi vi risiede (fatto che contribuisce anche ad aumentare la percentuale della quota del viaggio che rimane in loco). Può essere un volontario dell’associazione che organizza il viaggio in partenza dall’Italia oppure del progetto nel paese visitato, o ancora un riferimento locale, con un’opportuna formazione a questo tipo di turismo.
Un ruolo centrale è assunto dalle comunità locali: le associazioni che organizzano viaggi responsabili tendono a rivolgersi a comunità o strutture del luogo di destinazione, con le quali esiste un rapporto di collaborazione o conoscenza reciproca, consolidata nel tempo, e che quindi garantisca una coerenza di valori e livelli minimi di qualità dei servizi offerti.
Contemporaneamente la stessa comunità deve sentirsi parte attiva del progetto, libera di esprimere e risolvere i propri problemi. Molti dei partners dei viaggi di turismo responsabile sono inoltre fornitori di materie prime per il commercio equo e solidale e usufruiscono di crediti della finanza etica per sviluppare le loro iniziative.
A chi sceglie questo tipo di viaggi è richiesto di essere «responsabile» ancor prima di partire. Il gruppo di turisti, l’accompagnatore, l’organizzatore del viaggio, uno o più esperti del paese e i responsabili dei progetti che verranno visitati partecipano infatti a una riunione preparatoria. Ci si incontra, si conosce il paese da visitare, si presentano i progetti che saranno visitati… insomma, il viaggio comincia già in Italia!
Durante la riunione viene consegnata ai partecipanti una scheda con il prezzo trasparente, che evidenzia la percentuale del prezzo finale che rimane alle comunità locali o comunque nel paese di destinazione. La quota che rimane in loco (vitto e alloggio, trasporti locali, accompagnatore, quota progetto, formazione) si aggira sul 35%, che sale oltre il 40% se l’accompagnatore è locale.
Una percentuale della quota di viaggio, che può essere una quota fissa o variabile tra il 2% e il 5%, è destinata a finanziare un progetto nato in loco e gestito direttamente dalla comunità, progetto generalmente visitato durante il viaggio. Può trattarsi di una casa per ragazzi di strada, progetti di aiuto ad anziani e ammalati o di sostegno agli indios, microcrediti per le donne dei villaggi, prevenzione e controllo dell’Aids… (vedi riquadro Brasile).

IL TURISTA CRITICO
Il rischio della classica formula «tutto compreso» è che, dopo il viaggio, si torni a casa… «niente capito». Secondo Vittorio Kulczycki, «il problema è che un certo tipo di turismo ha trasformato il tempo libero, che è un bene sociale, in un bene di consumo».
Il turista che visita paesi del Sud non può più essere solo uno spensierato vacanziero, ma può diventare testimone di una realtà non sempre facile e né bella da vedere. I viaggi di turismo responsabile possono quindi rappresentare una duplice opportunità: una vera occasione di sviluppo per i paesi del Sud del mondo e un mezzo per rendere i turisti occidentali più responsabili nei confronti dei paesi poveri anche al ritorno dal viaggio, nella propria vita quotidiana.
Come è avvenuto per il commercio equo e solidale, fa notare Duccio Canestrini, oggi il consumatore-turista è sempre più consapevole di ciò che si «nasconde» dietro al prodotto «pacchetto viaggio» e, cosa importante, ha la possibilità di scegliere: «Se qualcosa cambierà in maniera rilevante, sarà grazie a una domanda dal basso».

BOX 1

BRASILE: villaggio, viaggio-avventura, o turismo responsabile?

TURISMO CLASSICO DA VILLAGGIO
«La vacanza è tua. Il lavoro è nostro. Al nostro villaggio c’è un intero staff a tua disposizione. Puoi vivere con loro una giornata ricca di emozioni, ma quando lo desideri scompaiono del tutto, lasciandoti in totale tranquillità»…
«Dolce come le melodie d’amore della bossanova. Dolce come i budini di cocco e manioca o come le batidas di maracujá, il frutto della passione… Fate quello che volete, ma per una volta lasciate che il vostro tempo sia veramente, arditamente dolce».
• Sistemazione: villaggio in posizione splendida, direttamente su una lunga e bellissima spiaggia di sabbia fine. Ambiente naturale lussureggiante e atmosfera suggestiva. Camera con servizi situata in palazzine di quattro camere. Veranda, balcone, aria condizionata, telefono, frigorifero, cassetta di sicurezza. Corrente elettrica 220 V.
• Servizi e strutture: area spettacoli, discoteca, sala Tv (Rai Inteational), piscina con acqua dolce, infermeria, area giochi per bambini, lavanderia, boutique, noleggio auto, cambio valuta.
• Attività sportive: canoa, bodysurf, beach volley (2 campi), calcetto (1 campo in erba), beach soccer (1 campo), tiro con l’arco, tennis (2 campi polivalenti), ginnastica acquatica, aerobica.

VIAGGIO AVVENTURA
«La foresta tropicale è vita allo stato puro, gioia, libertà. Non si può inventare la miseria nella terra dell’opulenza, non si può creare il nulla in nome del progresso, il vero progresso è nella salvezza della foresta, la vera ricchezza è nell’umida, sensuale e feconda ombra della selva, generatrice di vita e di speranza».
• Programma: dopo un lungo volo atterreremo a Rio de Janeiro, da dove, dopo aver visitato alcuni luoghi caratteristici della città e il famoso Orto botanico, ci spingeremo con mezzi a nolo lungo le catene montuose che costeggiano l’Atlantico per raggiungere il Parco nazionale di Itatiaia e la Riserva naturale di Poço das Antas… Effettueremo varie escursioni all’interno di queste interessantissime zone forestali e in particolare nella Riserva di Poço das Antas, dove sopravvivono gli ultimi esemplari in libertà di una delle più rare scimmie dell’America Meridionale… Durante questo percorso fluviale ci fermeremo spesso nei villaggi rivieraschi per intraprendere, con guide locali, delle escursioni a piedi o in canoa nella selva, alla scoperta di un mondo unico e straordinariamente ricco di ogni forma di vita…

TURISMO RESPONSABILE O SOSTENIBILE
«Il cuore dell’esperienza è rappresentato dall’incontro e dalla conoscenza: conoscenza reale del paese nella sua complessità, con i suoi problemi e le speranze della gente»… «Con i suoi mille volti e culture, il Brasile è il paese dalle emozioni forti: a bellezze naturali ineguagliabili si uniscono contrasti sociali esplosivi».
• Programma: l’arrivo è previsto a Recife, dove si visiterà il centro storico, con numerosi canali e ponti in riva al mare, di stile coloniale… Da Recife si raggiungerà in pullman Tremembé, villaggio di pescatori a 200 Km da Fortaleza, dove, ospiti dell’omonima associazione, si passeranno 4 giorni immersi nella quiete, con incontri coi pescatori che c’introdurranno al loro lavoro e ad altre attività dell’associazione; visite alla cittadina, uscite in barca e momenti di relax sulle spiagge incontaminate. Con un volo interno ci si trasferirà a Manaus, in Amazzonia, e da qui a Silves, dove si passeranno 5 giorni all’Aldeia dos Lagos, il primo centro di turismo responsabile dell’Amazzonia, sede di un progetto di conservazione dell’ambiente naturale e miglioramento delle condizioni della popolazione, attraverso il reddito prodotto dal turismo. Escursioni a piedi e in barca nella foresta. Ci si trasferirà a Rio de Janeiro, dove si avrà modo di apprezzae le bellezze turistiche e di scoprire anche un’altra Rio, fatta di problemi e di contraddizioni: visite nella periferia della città, per conoscere il lavoro dell’azienda agricola, il centro di formazione per gli adolescenti e la casa-famiglia che accoglie educatori, popolazione locale, minori e visitatori.
• Il viaggio prevede una giornata preliminare di formazione individuale e collettiva.
Fonte: CISV, Solidarietà in viaggio.

BOX 2

Rispetto: mai viaggiare senza

1) Il paese che ti consigliamo di visitare è quello in cui si protegge il patrimonio naturale e si rispettano i diritti umani.
2) Prima di partire, informati su usi, costumi, e problematiche socio-culturali.
3) Una volta scelta la destinazione, spostati con i mezzi che inquinano meno l’ambiente.
4) Gli animali non suonano il clacson e non ascoltano MP3: cerca di non disturbarli con rumori inutili.
5) Lascia a casa le tue abitudini: toerai più ricco con le usanze di un’altra cultura.
6) È meglio partire fuori stagione: affollamenti e file possono rovinare l’ambiente… e anche la tua vacanza.
7) Approfitta dei servizi locali: contribuirai al benessere e allo sviluppo della gente del posto.
8) Viaggia in piccoli gruppi: consumerai meno e rispetterai le comunità visitate.
9) Piante e animali rari stanno bene dove stanno. Non contribuire al traffico illecito di specie protette.
10) Visita i parchi nazionali, le riserve, i santuari: esistono anche grazie ai tuoi biglietti d’ingresso.
Fonte: Campagna CTS – Centro Turistico Studentesco e Giovanile

BOX 3

Per tutti i gusti

Cta Volontari per lo sviluppo è un’associazione di uomini e donne che da anni operano nel settore della solidarietà internazionale e che, come professionisti del turismo, lavorano esclusivamente nell’organizzazione di viaggi di turismo responsabile. Tante sono le modalità offerte per andare a conoscere realtà fatte di uomini, natura, cultura, storia, architettura, arte e artigianato.
Turismo comunitario. Percorsi in cui il turista è ospite di famiglie o di altri nuclei sociali e trascorre la maggior parte del tempo con le persone del posto, condividendone stili e tempi di vita, partecipando talvolta alle attività quotidiane e facendo escursioni in località interessanti dal punto di vista naturalistico, socio-culturale o storico.
Tour di conoscenza. Itinerari che toccano diverse località di uno stesso paese, alla scoperta degli aspetti storici, delle bellezze naturali e soprattutto delle tradizioni dei loro abitanti; una particolare attenzione viene data all’organizzazione di incontri con realtà artigianali collegate alla rete dell’economia solidale e con esponenti della cooperazione internazionale.
Campi di lavoro. Soggiorni che prevedono l’attività volontaria del turista e il suo coinvolgimento nei progetti di sviluppo dell’economia o della qualità della vita locali.
Fonte: Cta Volontari per lo sviluppo

BOX 4

Voglia di lentezza

«Un Paese straniero ti scava dentro l’animo, ma questo avviene solo gradualmente, con i tempi del nostro orologio biologico. Per capire ed entrare in una situazione bisogna appassionarsi ad essa, ma bisogna darsi il tempo perché questo avvenga» (Renzo Garrone).
«Purtroppo, proponiamo solo 15 giorni, perché altrimenti non ce la faremmo a riempire il viaggio. In questi 15 giorni, comunque Ram tocca solo tre/quattro destinazioni approfondite, piuttosto che 10 “mordi e fuggi”. Il tempo a disposizione è determinante per entrare nel ritmo del luogo di destinazione, pena lo smarrimento di qualità e di senso. Ti chiediamo di arrivare a questo appuntamento, per quanto possibile, con un atteggiamento di apertura. Lascia a casa il consumismo che ti obbliga a macinare un’attrazione dietro l’altra: certi tempi apparentemente “morti” dei nostri circuiti non sono dovuti a carenza di organizzazione, sono invece intenzionali, affinché lo “spirito” della realtà del luogo possa imporsi, far breccia, penetrare in noi piano piano».
dal sito di Ram: www.associazioneram.it

BOX 5

Ricordando lo Tsunami

…In conclusione.
1) Il turismo può portare benessere a patto che sia rispettoso e giusto e che il denaro rimanga nelle tasche della (povera) gente del luogo, piuttosto che in quelle di spregiudicati mediatori, indigeni o forestieri che siano.
2) Prima di esortare noi clienti a comprare i loro pacchetti viaggio, i tour operator siano trasparenti nel loro operato, elaborino una responsabilità d’impresa, promuovano un turismo ambientalmente e socialmente sostenibile, contribuiscano allo sviluppo.
3) È auspicabile che il turismo internazionale sia sempre più motivato e sempre meno «vacanza», non perché nella vacanza vi sia qualche cosa che non va, ne abbiamo tutti bisogno, ma fare vacanza in oasi di lusso circondate dalla miseria non è una bella idea.
4) Dopo lo tsunami: sarebbe interessante che le comunità locali avessero la possibilità di governare la ricostruzione, nella promozione di un turismo sostenibile, basato sull’ospitalità di villaggio. Perché, in quanto abitanti di luoghi veri, e non soltanto di destinazioni, possano essere protagonisti della rigenerazione e del ripensamento della loro capacità di ospitare.
Fonte: Duccio Canestrini,
www.homoturisticus.com

Silvia Battaglia




Una sola madre terra I disastri dell’homo turisticus

Il turismo è la prima attività economica a livello mondiale. Sembrerebbe una buona cosa, ma la realtà è diversa e quasi sempre misconosciuta, specie nei paesi del Sud. Escludendo le forme più infami, il turismo, come oggi è concepito, produce disastri rilevanti. Sull’ambiente e popolazioni locali. Leggere per credere…
(Prima parte)

Paradisi tropicali, natura selvaggia, spiagge incontaminate, avventura, popoli gentili e ospitali, con il ritmo nel sangue, il sorriso sul volto, voglia di vivere e dignità della propria condizione. Come resistere ad una vacanza che promette questo ed altro?
Per molte persone il costo economico di un viaggio in qualche paese esotico è sempre più alla portata del proprio portafoglio. Ma ci sono altri «costi», dei quali nessuna agenzia, nessuna pubblicità o rivista specializzata ci avvisa al momento della partenza.

HOMO TURISTICUS

Nomadi, marinai, mercanti, pellegrini… L’uomo ha viaggiato da sempre, motivato innanzitutto dalla necessità. Solo in tempi recenti si comincia a viaggiare «per piacere», grazie alla disponibilità di mezzi, per curiosità culturale, ma anche per una sorta di «dovere» che ci obbliga, periodicamente, a lasciare il lavoro e la casa per «andare in vacanza». Il turismo diventa un fenomeno di massa e, come dice Duccio Canestrini, nasce l’«homo turisticus», che con relativa disponibilità di denaro parte verso luoghi lontani da casa per tornare presto alla routine quotidiana. Proprio perché la visita fa parte delle sue vacanze e non della sua vita professionale, il turista «è un visitatore frettoloso che preferisce i monumenti agli esseri umani», sostiene Tzvetan Todorov. La conoscenza dei costumi umani, infatti, richiede tempo, e l’incontro con «l’altro» rischia di mettere in gioco la nostra vita quotidiana, di mettere in discussione le nostre motivazioni e la nostra stessa identità. Senza contare che, anche se l’atto stesso di viaggiare provoca un senso di benessere fisico e mentale, nello spostamento è insita una sensazione di spaesamento e distacco.
Di tutto ciò l’industria turistica è ben consapevole e non esita a ricreare un modello di vita del tutto simile a quello appena lasciato. Stesso cibo, stesso ambiente, stessi ritmi di vita, stessa lingua e stessi compagni. Con la conseguenza di svuotare il viaggio dalla componente esperienziale che ha sempre avuto: conoscere meglio gli altri e se stessi. Il risultato è che viaggiamo sempre di più, ma di nuovo vediamo ben poco. «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» recita un proverbio africano. E sembrano lontane anche le parole di Marcel Proust: «Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».
In effetti il termine turismo deriva dal francese «tour», cioè giro, percorso, viaggio, ma può essere fatto risalire a una parola ebraica, tora, che significa studio, conoscenza, ricerca.

UN’ESPANSIONE
PER POCHI PRIVILEGIATI

Lo sviluppo del turismo ha rappresentato uno dei grandi fenomeni economici e culturali degli ultimi venti anni, un vero indice della globalizzazione. Attualmente il turismo è considerato la principale attività economica a livello mondiale. Alle soglie del 2000 ha prodotto 455 miliardi di dollari di fatturato, e impiegato il 7% dei lavoratori mondiali. Gli arrivi inteazionali, ossia il numero di arrivi di persone residenti in un altro paese, sono passati dai 69 milioni del 1960 ai 700 milioni del 2000, con stime che si avvicinano ad 1,6 miliardi per il 2020.
Oggi il turismo può essere considerato come una vera e propria serie di industrie collegate: compagnie aeree, catene alberghiere, ristorazione, tour operator, agenzie di viaggio, guide, trasporti, assicurazioni, artigianato, gestione dei beni culturali e ambientali, ecc. Come altri settori produttivi del mercato globale, anche il turismo sta diventando sempre più concentrato. Nel 1998, le prime 10 compagnie aeree mondiali incameravano ben due terzi dei profitti prodotti da tutte le aziende associate all’Air Transport Association. Nel 1999, le prime cinque catene alberghiere gestivano circa il 14% delle camere d’albergo del mondo, e nel 2000 quattro tour operator europei monopolizzavano quasi 50 milioni di turisti.
Se nel 2003 il turismo internazionale ha attraversato un anno particolarmente difficile, segnato dall’inizio della guerra in Iraq, dalla Sars e da un’economia nel complesso debole, nel 2004 l’andamento è stato invece molto positivo, con una conclusione però tragica dovuta allo tsunami asiatico. Complessivamente si è raggiunto un record assoluto: 760 milioni di arrivi, con una crescita particolarmente forte in Asia, nel Pacifico e in Medio Oriente.
Nonostante questi numeri, il fenomeno turistico riguarda una piccola fetta privilegiata della popolazione mondiale. Quasi l’80% dei turisti inteazionali proviene infatti dall’Europa e dalle Americhe, mentre solo il 15% giunge dall’Asia orientale e dal Pacifico e il 5% da Africa, Medio Oriente e Asia meridionale. In totale, gli arrivi di turisti inteazionali rappresentano solo il 3,5% della popolazione mondiale.

IL PACCHETTO E’ TUTTO INCLUSO

A prima vista, per i paesi in via di sviluppo il turismo sembra presentare ovvi benefici: ingresso di valuta pregiata, incremento del gettito fiscale, creazione di posti di lavoro, opportunità di una formazione professionale, costruzione di infrastrutture utili anche in altri settori (strade, acquedotti, aeroporti), ecc.
La situazione non è in realtà così rosea. Le imprese turistiche che conseguono profitti positivi sono generalmente quelle capaci di affrontare bassi costi in tutte le fasi della vacanza, dal viaggio aereo, all’alloggio, ristorazione, trasporti, servizi in loco, che costituiscono il cosiddetto pacchetto «tutto incluso».
Ecco anche perché, come si accennava in precedenza, il mercato turistico è nel complesso caratterizzato da forti concentrazioni. La conseguenza è che la percentuale di spesa del turista a vantaggio di operatori nel paese di destinazione è molto bassa (per esempio, circa il 20% in Gambia, contro il 60% in Spagna), e riguarda soprattutto beni «superflui» e di basso costo, come artigianato locale e taxi. Non è un caso che in Africa, Asia del Sud e Medio Oriente la maggior parte degli alberghi sia di proprietà estera, e che solo una minima parte degli arrivi nei paesi in via di sviluppo avvenga tramite compagnie dei paesi stessi: nel caso del Kenya, ritenuto particolarmente positivo, soltanto l’11% degli arrivi avviene con la Kenyan Airways.
Inoltre, per incrementare uno sviluppo turistico che verrà poi gestito principalmente da multinazionali estere, spesso i governi utilizzano denaro pubblico per finanziare la costruzione di infrastrutture, provocando tagli a sanità, scuola, agricoltura.

PIÙ POSTI DI LAVORO?

Anche la creazione di posti di lavoro non sempre raggiunge le speranze attese. Mentre i ruoli di direzione sono tutti ricoperti da stranieri, la manodopera locale rimane generalmente priva di formazione, è relegata ai ruoli più bassi ed è spesso sottopagata e sfruttata. Baristi, camerieri, portieri, portabagagli di un hotel a 4 o 5 stelle possono avere un salario mensile inferiore al costo di una camera per una notte. Ma il settore turistico esercita un grande fascino sui giovani del luogo, che abbandonano le campagne, si spostano nelle zone turistiche, riempiono quartieri poveri e degradati che circondano alberghi lussuosi e attendono di essere chiamati per un lavoro stagionale e vulnerabile.
C’è chi sostiene che per un popolo povero un salario basso e precario sia meglio di niente. Dipende però dalle alternative possibili. Spesso il governo, per incrementare il turismo, priva la popolazione locale della terra o la distrugge per costruire villaggi turistici e complessi alberghieri, centri commerciali o campi da golf. Contadini, allevatori e pescatori vengono quindi letteralmente sfrattati e trasformati in disoccupati. Ecco perché, secondo molti studiosi, il turismo distrugge posti di lavoro. A questo si aggiunge anche la tendenza delle strutture alberghiere a privilegiare beni esteri anziché locali. Spesso il cibo è infatti importato, anche a causa di una distorta informazione e sensibilità del turista, che ritiene scadenti gli alimenti locali.
Quando poi il turismo rappresenta l’unica risorsa di un paese, per di più dipendente da clienti di paesi del Nord, basta poco per mandare a picco il fatturato dell’industria turistica per una o più stagioni. Periodi di recessione nei paesi di provenienza dei turisti, periodi di instabilità politica e crisi inteazionali, problemi sanitari locali, guerriglia, campagne di stampa che deviano i flussi turistici verso altre destinazioni. Il paradosso è che le mete più ambite dagli operatori turistici sono quelle politicamente più stabili, stabilità che nei paesi in via di sviluppo è spesso ottenuta a spese della democrazia, tramite dittature e regimi militari. Il che ci pone di fronte ad una domanda: è giusto fare turismo in paesi nei quali i diritti umani non sono rispettati?

PISCINE O FORESTE DI MANGROVIE?

Il turismo è generalmente concepito come alternativa soft allo sviluppo industriale. Interessato alla conservazione e valorizzazione di ambienti, culture, monumenti, siti archeologici, giardini e parchi naturali, di fatto in diversi casi ha spinto alcuni governi ad attuare politiche di protezione di habitat e di specie a rischio di estinzione, utilizzando anche finanziamenti inteazionali. In molti altri casi, invece, il desiderio di profitti sempre maggiori ha portato a consumare, logorare e distruggere proprio quelle risorse da cui lo stesso turismo dipende. Anche se basato spesso sulle risorse ambientali e le bellezze naturali, quando diventa di massa il turismo inquina e danneggia proprio l’ambiente che lo sostiene.
Strutture e infrastrutture per alberghi, alloggi e servizi, che deturpano il paesaggio, occupano suolo e distruggono habitat naturali; distruzione delle mangrovie, tipica vegetazione della costa tropicale, e dei banchi di corallo; deforestazione, con la conseguente scomparsa o il drastico ridimensionamento di fauna e flora locale; desertificazione; essiccamento dei fiumi per il prelievo di acqua; inquinamento delle acque dovuto ad acque reflue non o mal depurate, ma anche a perdite di petrolio e sottoprodotti della benzina scaricati dalle barche. È il risultato di un turismo di massa incontrollato, il cui impatto è ancora più distruttivo nelle terre vergini, il cui ecosistema viene sconvolto irreparabilmente.
In generale i turisti possono essere considerati come abitanti che si vanno ad aggiungere alla popolazione residente. Questo implica che lo stesso territorio deve supportare un maggiore livello di consumi (acqua, energia, cibo, ecc.) e smaltire più emissioni e rifiuti. A tutto ciò si sommano però le abitudini che molti turisti pretendono di conservare anche a migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese: riscaldamento, condizionatori, piscine sfruttano risorse naturali e inquinano. Le stesse attività dei turisti sul suolo e sulla vegetazione, sull’ecosistema marino e costiero, su foreste, parchi e dune comportano gravi danni: gli sport nautici, ad esempio, provocano danni irreversibili nei laghi; alle Isole Mauritius le barriere di corallo, indispensabili per l’equilibrio ecologico marino, sono già state erose per l’80%.
Quella del turismo rischia quindi di diventare, a suo modo, un’industria che sfrutta il territorio quanto quella mineraria o quella manifatturiera. E il rischio non sta solo nella scomparsa di risorse naturali, ma anche nella difficoltà di riconvertire intere aree ad altri usi (es. agricoli) nel caso di una recessione del settore turistico.
C’è infine un ulteriore elemento che generalmente non consideriamo ma che rappresenta il responsabile della maggior parte degli impatti ambientali associati al turismo a lunga distanza: il trasporto, che è la fonte di emissione di gas serra in maggior aumento nel mondo. Ogni volta che ci spostiamo, in automobile, in pullman o in aereo, consumiamo litri di benzina e liberiamo in atmosfera diversi metri cubi di anidride carbonica, la principale causa del cambiamento del clima e dei conseguenti fenomeni estremi come alluvioni, siccità, desertificazione, aumento del livello dei mari. Se siamo noi del nord del mondo a girare «in lungo e in largo» per piacere, saranno proprio le popolazioni del sud ad essere le più colpite dai cambiamenti climatici. In particolare, più del 90% dell’anidride carbonica emessa in un tipico viaggio turistico è dovuta al solo trasporto aereo.

UN NUOVO COLONIALISMO:
VILLAGGI TURISTICI E SESSO

Occidentali serviti e adagiati nel lusso, popolazione locale che spesso subisce un peggioramento delle proprie condizioni di vita per la presenza dei turisti. Un esempio fra tanti: l’enorme consumo di acqua negli alberghi, per docce, piscine, giardini e campi da golf provoca sia una fortissima riduzione delle scorte a disposizione sia il razionamento dell’acqua potabile per la popolazione locale. In molti casi non è più possibile coltivare e la popolazione rurale è costretta ad abbandonare la campagna. Il rischio, e in molti casi la realtà, di una relazione superficiale, distaccata e frettolosa tra il turista e la gente del luogo, è che si riproponga un modello di rapporti tipico del colonialismo. Il mancato incontro tra culture trova il suo apice e simbolo nei villaggi turistici, i resort. Di origine militare, il villaggio turistico riproduce il comfort, la sicurezza, gli stili e ritmi di vita occidentali in ambienti diversi e ostili: una sorta di prigione, uguale in tutto il mondo, dalla quale il turista non può uscire se non accompagnato, e nella quale la gente locale non può entrare, se non per lavorarci. Persino papa Giovanni Paolo ii, in occasione della xxii Giornata mondiale del turismo (9 giugno 2001), espresse forti critiche in merito.
Spesso la sola presenza di turisti rappresenta un’inevitabile fonte di frustrazione: i giovani locali soprattutto, di fronte ad un’evidente diversità nel tenore di vita e nei comportamenti, sono tentati da atteggiamenti di imitazione e avvertono maggiormente non solo la propria condizione, ma anche le limitazioni e le esclusioni imposte dalla presenza dei turisti, come ad esempio il non poter accedere a spiagge divenute di proprietà privata degli alberghi. La conseguenza è il trasferimento di valori, di modelli di consumo e comportamenti occidentali, che possono modificare la struttura sociale della popolazione, trasformandola da rurale a urbana, alterando i ruoli all’interno della comunità, dei rapporti familiari e tra i due sessi, provocando la crisi e spesso l’abbandono dei valori tradizionali e spingendo i più emarginati verso i limiti della legalità.
Tutto ciò è aggravato da comportamenti irrispettosi, impensabili in patria, che spesso i turisti in vacanza hanno nei confronti delle popolazioni locali e dettati dal meccanismo del «tanto qui chi mi conosce?».
I casi più gravi sfociano nel turismo sessuale. Secondo i dati, il turismo internazionale è considerato il massimo responsabile degli oltre due milioni di bambini costretti a prostituirsi: di questi 500.000 vivono in Brasile e il resto soprattutto nell’Asia meridionale e orientale (Thailandia, Filippine), dove migliaia di famiglie, spinte dalla miseria e spesso tratte in inganno, cedono i propri figli a un giro d’affari che si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari, e i cui «clienti» provengono dai paesi più ricchi della Terra, come Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia, Regno Unito.

CHE ATTORI
QUEI… «SELVAGGI»

Molto spesso l’incontro tra il turista e la gente del luogo si riduce a fenomeni di folklore. Ne sono un esempio i trekking tribali nella foresta o nel deserto, che possono durare da un pomeriggio a più giorni, organizzati da agenzie turistiche che pubblicizzano il «buon selvaggio» e la «natura incontaminata». Generalmente le visite sono così frettolose che è impossibile qualsiasi forma di scambio con i locali. Secondo Cohen, i gruppi tribali hanno ormai imparato a recitare la loro parte, e sanno quando rimanere immobili di fronte ai flash. Poiché gran parte dei guadagni di un pacchetto di trekking va alla guida e all’agenzia, nascono attività «complementari» come la vendita di manufatti artigianali, l’elemosina, o il farsi pagare per essere fotografati. Quando i villaggi tribali non si adeguano all’invasione del turismo, e coraggiosamente resistono rifiutando di vendere la loro cultura, capita che le agenzie ricorrano a veri e propri attori: raramente il turista si accorge della differenza o «fa finta di non accorgersene».
Quando popolazioni che hanno un forte radicamento dei valori tradizionali nella comunità locale riescono a sviluppare un rapporto equilibrato con il turismo, questo può invece rappresentare un’occasione di valorizzazione delle culture locali. Basti pensare ai kuna di Panama, una piccola popolazione indigena che è riuscita a mantenere il controllo della produzione e della commercializzazione di un prodotto artistico-artigianale come le molas, stoffe colorate sovrapposte lavorate dalle donne della comunità, delle quali sono riusciti a conservare anche i significati spirituali più profondi.

ANDANDO…
«A QUEL PAESE»


Da più di venti anni le agenzie di viaggio «classiche» sono state affiancate da altre che propongono un modo di viaggiare diverso. Non più hotel a 4 o 5 stelle, villaggi e club riservati, ma un viaggio in mezzo alla gente del luogo, sfruttando le loro stesse strutture o quasi. Viaggi che all’avventura (che spesso significa semplicemente fare ciò che i locali fanno quotidianamente per vivere) uniscono un rapporto nuovo tra viaggiatore e popolazione locale. Insomma, viaggi che si pongono il problema di «come andarci a quel paese»! Cosa significa fare turismo «alternativo»? Come fare un turismo che porti vero sviluppo nei paesi del Sud del mondo?
(Fine prima parte – continua)

BOX 1

La psicologia del turista

Una recente ricerca realizzata in Inghilterra ha individuato 4 tipi di turisti: i turisti di massa organizzati (coloro che comprano solo viaggi «tutto organizzato»); il turista di massa individuale (è più libero e autonomo dal gruppo, ma stabilisce rigorosamente prima della partenza l’intero svolgimento del viaggio); l’esploratore (cerca accuratamente itinerari poco frequentati o insoliti da fare da solo o in piccoli gruppi, per questo spende molto di più dei precedenti); infine il cosiddetto vagabondo (evita qualsiasi organizzazione turistica e cerca contatti diretti con la realtà locale, decide alla giornata dove recarsi durante il viaggio).
Ma la molla che porta a decidere la destinazione e il tipo di viaggio rimane sempre quello che i sociologi chiamano la «giustificazione» sociale, cioè l’accettazione nel proprio contesto sociale dell’azione che sta per compiere. Un operaio, che fino a qualche anno fa, se fosse andato a fare le vacanze alle Seychelles sarebbe stato guardato con sospetto o diffidenza, oggi non può fare a meno, «socialmente» parlando, di recarsi appunto nell’Oceano Indiano per trascorrere la luna di miele. (…)
Il turismo internazionale è sempre di più la valvola di sfogo per milioni di persone che si sentono «strette» nelle società di cui fanno parte, dove tutto è organizzato e tenuto sotto controllo, dove l’emozione è programmata e arginata. Per contro, l’immagine che le popolazioni dei paesi scelti dai turisti si fanno, è che tutti gli occidentali sono ricchi sfondati, non lavorano molto, amano dissipare i soldi, si vestono in modo indescrivibile e non conoscono alcun tipo di codice morale di comportamento.
Da: «Viaggiare ad occhi aperti», Icei

Box 2

Quando si scatta una foto…

Una delle principali attività che caratterizzano il turista è quella del fotografare. Le proiezioni di diapositive al ritorno dai viaggi sono ormai diventate un rito a cui i viaggiatori e gli amici dei viaggiatori si sottopongono inevitabilmente.
Quante volte abbiamo parlato, dialogato, con quelli che contraddittoriamente vengono chiamati «soggetti» delle fotografie, mentre invece ne sono gli oggetti. Forse, e mi metto tra coloro che hanno scattato molte foto nei loro viaggi, ci accorgeremmo che in molti casi quelle persone non le abbiamo neppure salutate, non ne conosciamo il nome, figuriamoci la storia.
Ci si presenta in un villaggio, in un’abitazione, a una cerimonia nascosti dietro le nostre macchine fotografiche e si scatta. E ciò che vediamo lo pensiamo già in funzione dell’immagine che vorremmo trae. Per questo scegliamo l’obbiettivo adatto e l’angolatura migliore. Là dietro, in fondo alla figura nel mirino, l’individuo inquadrato diventa un’immagine dell’individuo. Perde la sua personalità per acquistare quella che il fotografo intende assegnargli: mistico, esotico, pittoresco, selvaggio.
Questo approccio fotografico finisce per spersonalizzare inevitabilmente il rapporto tra fotografo e fotografato, innescando spesso dinamiche di tipo commerciale (i nativi che chiedono soldi per essere fotografati) che suscitano talvolta sentimenti di indignazione nei turisti.
Fotografare qualcuno o qualcosa significa reputarlo interessante, magari bello, non «normale». Ecco il problema di fondo: scegliendo un individuo come soggetto della nostra fotografia lo allontaniamo inevitabilmente da noi e lo trasformiamo in simbolo. Ne esaltiamo le differenze, stendendo un velo sulle similitudini. Più è diverso, più ci sembra interessante…
La lentezza, abolita dalla maggior parte dei programmi di viaggio, potrebbe divenire un valore se vissuta come mezzo per approfondire l’incontro, per diluire almeno un po’ la distanza esistente tra turista e nativo. Ad essere vissuta come valore del turista è invece la corsa a vedere quanto più possibile, a fare un elenco di luoghi più che a gustarli e a conoscerli. Basta passarci poche ore per dire di «esserci stati».
In ogni caso la fotografia diventa una compensazione alla brevità del viaggio: fisso un’immagine e poi me la rivivo a casa. Dall’altro si trasforma in un inevitabile strumento creatore di barriere.
Visto che le sensazioni prodotte dalla visione di una diapositiva non possono essere paragonate a quelle vissute nella realtà visitata, la mia modesta proposta a chi davvero vuole diventare «turista responsabile» (e anche a chi propone viaggi di questo tipo) è di provare a lasciare a casa la macchina fotografica e a rallentare il proprio viaggio. Non credo che questo basti a risolvere il dilemma etico del turista, ma forse qualcosa può cambiare. La realtà va osservata per ore, giorni, settimane, non a 1/125 di secondo e allora le persone possono vivere come tali e non come soggetti da inquadrare.
Da: Marco Aime, in «Solidarietà in viaggio»

BOX 3

Sarebbe bene sapere che…

Vacanze last minute, corse su internet alla ricerca delle tariffe aeree d’occasione. Ma cliccando su www.chooseclimate.org, con due click sulla mappa si può scoprire il vero costo di qualunque volo. «Se state cercando lidi caldi, sappiate che volare è uno dei modi più rapidi ed economici per cuocere il pianeta». Le emissioni di anidride carbonica, ossidi di azoto e vapor d’acqua degli aerei contribuiscono infatti in modo sostanziale all’aumento dell’effetto serra e quindi ai cambiamenti climatici. Per andare e tornare da Londra a New York ogni passeggero consuma circa 700 kg di carburante, 10 volte circa il proprio peso.
Fonte: Manuale delle Impronte Ecologiche, Edizioni Ambiente, 2002

«Noi Karen abbiamo protetto la nostra terra ricca di foreste per rispetto dei nostri antenati e dei nostri figli. Forse, se avessimo abbattuto le foreste, rovinato la terra e costruito una grande città come Bangkok, ora non correremo il rischio di essere sfrattati».
Fonte: Pwo Karen, Thailandia, citato in «L’arte del viaggio» di Michela Bianchi

I «consumatori» del turismo spesso portano con sé le proprie abitudini di vita e le proprie aspettative, che si tratti di docce calde o sciacquoni o di campi da golf ben innaffiati. Sull’Himalaya, permettere ai turisti di fare la doccia spesso significa utilizzare la legna e quindi accelerare la deforestazione. Alle Hawaii e alle Barbados è stato scoperto che ogni turista usa dalle 6 alle 10 volte la quantità d’acqua e di elettricità utilizzata dagli abitanti locali. A Goa gli abitanti dei villaggi costretti a recarsi a piedi ai pozzi sono dovuti restare a guardare mentre venivano costruite attraverso la loro terra le tubature che avrebbero portato l’acqua a un nuovo hotel di lusso. Negli ultimi dieci anni, il golf, a causa della sua fame di terreni, acqua e diserbanti, si è rivelato una delle attività più distruttive, tanto che in alcune zone del Sudest asiatico sono scoppiate delle vere e proprie «guerre del golf» (…) Per tenere in funzione un campo da golf occorre la stessa quantità d’acqua necessaria ai bisogni di un intero villaggio di alcune migliaia di persone. Si calcola che il consumo medio pro-capite d’acqua di un indigeno in Africa è di 10-15 litri al giorno; il turista ne consuma 300.
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti ambientali»

In un articolo uscito qualche anno fa sul South China Moing di Hong Kong, così veniva descritta la situazione di uno dei «paradisi» delle vacanze più gettonato, l’isola di Bali in Indonesia: «Gli abitanti si lamentano per la discriminazione che l’industria turistica esercita nei loro confronti, non possono sedersi sulla spiaggia di un grande albergo (buona parte del litorale), che subito arriva qualcuno che minaccia di chiamare la polizia. Alla gente del posto, poi, si proibisce di pescare, di organizzare giochi o cerimonie religiose perché, dicono i proprietari degli alberghi, potrebbero disturbare i turisti». A proposito di alberghi: «Sono numerosissimi – scrive il Moing – e la rete fognaria è assolutamente inadeguata, con effetti disastrosi sull’ecosistema della barriera corallina. Campi da golf e piscine consumano enormi quantità di acqua (500 litri al giorno per ogni stanza di albergo), mettendo in crisi il sistema di coltivazione del riso».
Fonte: Solidarietà in viaggio, voce «Impatti sociali»

Bibliografia essenziale:

• Solidarietà in viaggio. Alla scoperta della «Carta d’identità» per Viaggi Sostenibili, Roberto Varone, Cisv, Aitr, Cmsr, Icei e Mlal
• State of the World ’02. Stato del pianeta e sostenibilità, a cura di Gianfranco Bologna, Ed. Ambiente, 2002
• Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Duccio Canestrini, Feltrinelli, 2003
• Trekking tribale, di Marco Cordero, in Volontari per lo Sviluppo, agosto/settembre 2001
• Tourism Highlights, Edition 2004, Wto, World Tourism Barometer, Wto, Vol.3, No.1, January 2005

Siti internet:
www.world-tourism.org
www.tourismconce.org.uk
www.homoturisticus.com (a cura di Duccio Canestrini)

Silvia Battaglia




GLI OGM (2) Sfameremo il mondo con il cibo di Frankestein?

La «biodiversità» è in grave pericolo anche a causa delle biotecnologie e dei prodotti geneticamente modificati. Le multinazionali si appropriano
di organismi viventi e di saperi del Sud del mondo (è la pratica della «biopirateria») e li brevettano per fae commercio e profitti. Nell’Unione europea oggi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti Ogm. Allo stesso tempo, la Commissione Ue ha ceduto alle pressioni dell’industria togliendo la moratoria sull’importazione degli Ogm (come il mais dolce «Bt11»). Sarebbe meglio decidere: prima il business o prima le persone? (Seconda parte)

«Attualmente il 95% del nostro fabbisogno alimentare è legato a 30 piante, e tre quarti della nostra dieta si fondano su 8 colture. Il re dei Boscimani, in Sud Africa, pranza con 85 tipi di verdure selvatiche. E noi? I nostri supermercati moltiplicano le confezioni e le cosmesi di prodotti, e spacciano la “diversità ottica” per “diversità biologica”. L’uomo dei paesi industrializzati acquista involucri diversi e mangia le stesse cose» (1).
Giorgio Celli visualizza così una delle conseguenze dell’industria agroalimentare: la perdita di biodiversità, destinata ad acutizzarsi con l’introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura. Soddisfatti l’occhio e lo stomaco, ci siamo «dimenticati» di porre l’attenzione al modo in cui è stato ottenuto il cibo di cui ci nutriamo.

BIODIVERSITÀ: LA DIVERSITÀ BIOLOGICA

Per biodiversità, ossia «diversità biologica, diversità della vita», si intende sia la ricca varietà delle forme viventi che popolano il nostro pianeta sia gli ecosistemi in cui le diverse specie sono inserite.
Secondo le stime, il numero di specie viventi è compreso tra 3,6 e 100 milioni. Attualmente si conoscono circa 3.000 specie di batteri, 260.000 piante vascolari, 70.000 funghi, 500.000 virus, 45.000 vertebrati e 950.000 insetti.
L’uomo rappresenta solo una delle milioni di specie esistenti, ma l’industria agroalimentare e biotech considera tutte le altre come semplici fonti di materia prima e di profitto. Al di là degli aspetti etici e del rispetto per tutte le forme viventi, preoccuparsi esclusivamente delle specie vegetali e animali considerate «utili» all’uomo può risultare molto rischioso. Ad esempio, microbi apparentemente insignificanti giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento di processi ecologici che permettono la vita di tutte le specie, compresa la nostra. Eppure, evidenzia Vandana Shiva, non esiste alcun movimento di opinione per la loro tutela e protezione, come c’è invece per salvare la tigre o l’elefante.
Ogni anno si estinguono circa 27.000 specie, mille volte di più di quanto avverrebbe senza il contributo umano. «L’uomo – continua la scienziata indiana – almeno nei paesi occidentali, pensa infatti di occupare il vertice della piramide della vita, anziché considerarsi un semplice tassello nel complesso teatro biologico del pianeta, dove il grande dipende dal piccolo e dove l’estinzione di una specie significa non solo perdere quella specie, ma anche creare una situazione di pericolo per le altre». Per fare un esempio, quando scompare una pianta, con lei si estinguono da 20 a 40 specie animali. Un metro cubo di terreno estratto da una faggeta in Danimarca e analizzato in laboratorio, ha rivelato la presenza di 50.000 anellidi, 50.000 fra insetti e acari, 12 milioni di nematodi. Un grammo dello stesso campione conteneva 30.000 protozoi, 50.000 alghe, 400.000 funghi e miliardi di cellule batteriche. Batteri, funghi e protozoi dell’intestino di molti animali svolgono funzioni fondamentali per la digestione: senza questi organismi microscopici i cosiddetti animali superiori non potrebbero esistere. L’ignoranza umana sulle funzioni ecologiche delle specie viventi non può quindi essere il pretesto per manipolarle a piacimento, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e, dunque, sull’uomo.
La distruzione della biodiversità è stata sicuramente accelerata dalla globalizzazione: centinaia di migliaia di ettari di foreste e terre agricole sono convertite in monocolture industriali, ossia in distese di territorio coltivate ad un’unica coltura, scalzando e distruggendo, quindi, la diversità biologica. Ad esempio, rispetto ad una foresta pluviale ricca di specie, che sostiene gli ecosistemi e i cicli ecologici, la concezione dominante privilegia le monocolture, come quella dell’eucalipto, utile all’industria della carta e della polpa di legno. Mantenute grazie all’uso intensivo di fertilizzanti chimici, energia e acqua, le monocolture distruggono la biodiversità e consumano più risorse naturali. Per fare un altro esempio, in India le varietà indigene di grano richiedono 300 mm d’acqua, mentre le varietà dell’agricoltura industriale ne usano circa 900.
Avendo come obiettivo la selezione di piante con una presunta maggiore produttività, l’estensione delle coltivazioni Ogm su tutto il pianeta rientra quindi perfettamente in questa tendenza alla monocoltura ed anzi la incentiva.

DIVERSITÀ CULTURALE

Quando i modelli di produzione e consumo della popolazione ricca del pianeta contribuiscono all’erosione della biodiversità, compromettono la possibilità dei poveri del Sud del mondo di mangiare e curarsi: per loro la biodiversità si traduce, infatti, in sopravvivenza umana.
«Per il cibo e le medicine, per l’energia e le fibre, per i cerimoniali e l’artigianato, i poveri dipendono proprio dall’abbondanza delle risorse biologiche, dalla conoscenza e dall’esperienza accumulata nel tempo sulla biodiversità – dichiara Vandana Shiva -. Tre miliardi di persone, cioè il 60% della popolazione mondiale, utilizzano le medicine tradizionali per il trattamento delle malattie». In India e in Cina l’80-90% di queste cure si basa sulla conoscenza dei principi attivi delle piante: il solo erbario officinale cinese utilizza circa 5.000 specie vegetali. In Kenya, il 40% dei principi curativi vegetali viene estratto dalle piante delle foreste native. Gli stessi chinino e morfina sono prodotti di origine vegetale: negli Usa il 40% delle prescrizioni mediche dipende ancora da principi attivi ricavati dalle risorse naturali. Anche la popolazione che vive nel mondo industrializzato ha bisogno della biodiversità per la propria economia: dal cibo, al petrolio e al carbone, al cemento, tutta l’economia dipende dalle risorse biologiche.
«Se si fa una valutazione in termini di biodiversità anziché di capitali finanziari, il Sud del mondo è ricchissimo, mentre il Nord è povero. Al contrario, il Nord ha accumulato benessere esercitando il controllo sulle risorse biologiche del Sud». Con l’avvento degli Ogm tale controllo è incrementato ed è destinato ad aumentare.

IL MITO (FALSO) DI SFAMARE IL MONDO

I fautori degli Ogm affermano che lo sviluppo delle colture transgeniche è essenziale per sfamare la crescente popolazione mondiale e per abbassare i prezzi delle derrate alimentari. Qualsiasi rischio derivante dalla tecnologia agroalimentare di ultima generazione, sostengono, non può essere paragonato ai benefici apportati da maggiore quantità di cibo a prezzo più basso (2).
Chi si oppone alle biotecnologie, offre, però, diverse argomentazioni. Innanzitutto, spiega Greenpeace, «l’insicurezza alimentare – come elegantemente viene oggi definita la fame – non si caratterizza per l’insufficiente disponibilità di alimenti, ma per la squilibrata distribuzione dei redditi e l’iniquo accesso alle risorse produttive, che rendono precario l’accesso al cibo. La produzione odiea di alimenti a livello mondiale è tale da soddisfare il consumo umano per un valore medio pari a 2.800 calorie pro capite al giorno, a fronte di 2.500 calorie ritenute la soglia media per un’alimentazione adeguata». In linea con questo punto di vista, l’economista indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel nel 1998, afferma che «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare. Non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare».
In Argentina, secondo produttore mondiale di colture geneticamente modificate e unico paese in via di sviluppo che coltiva piante transgeniche su larga scala, gli Ogm hanno concentrato la ricchezza e gli introiti nelle mani di poche aziende, contribuendo all’ulteriore impoverimento dei piccoli agricoltori. «La causa principale della fame risiede in problemi di natura sociale e politica, e puri strumenti tecnologici, quali sono gli Ogm, non offrono soluzione a questi problemi. Sono troppo costosi per i contadini e non sono appropriati per il consumo locale, tanto che le colture Gm, come mais, soia, colza e cotone, vengono esportate e utilizzate soprattutto come alimento per il bestiame.
I dati mostrano, inoltre, come i raccolti transgenici stiano soppiantando alimenti che popolazioni di culture diverse usano da sempre. «L’industria si sta concentrando su raccolti non alimentari, come il tabacco e il cotone, e sulla soia che, prima d’ora, rappresentava un alimento base solo nell’Asia dell’est – incalza Vandana Shiva -. Tabacco, cotone e soia non sono alimenti base e non sfameranno gli affamati». Semmai, preoccupazioni sulla produttività dei terreni agricoli provengono dai crescenti fenomeni di desertificazione che, negli ultimi 50 anni, hanno interessato l’85% circa della superficie agricola mondiale: erosione, salinizzazione, compattamento, impoverimento dei nutrienti, inquinamenti di vario tipo.
Molta enfasi è stata data al cosiddetto Golden rice, ossia riso Gm alle popolazioni con carenza di vitamina A. Tuttavia, affinché sia fonte di vitamine per chi se ne ciba, la dieta deve contenere quantità sufficienti anche di grassi e proteine, situazione evidentemente non realistica.

IL MITO DEGLI ALTI RENDIMENTI

Il bihmal è un albero diffuso nella regione dell’Himalaya. Si tratta di una pianta «polivalente»: le foglie offrono nutrimento agli animali d’allevamento durante la stagione secca, i rami foiscono fibre per la fabbricazione di corde, combustibile per cucinare e sostanze detergenti per i capelli. Per gli esperti dell’agricoltura industriale sarebbe da eliminare, per incrementare la resa delle colture. Molte varietà agricole sono state ingegnerizzate per ottenere maggiori rendimenti in termini di chicchi, ossia solo di una parte del raccolto effettivo: la paglia idonea a nutrire il bestiame e il suolo viene invece prodotta in quantità modeste.
Ciò che si ottiene con gli Ogm è quindi un aumento del prodotto su cui c’è interesse commerciale, a spese della componente utile per gli animali, i suoli e per l’economia locale. Secondo alcuni esperti, prima fra tutti Vandana Shiva, «l’ingegneria genetica porta in realtà ad una diminuzione complessiva della produzione».
Piantare una sola coltura sull’intera superficie di un campo, come prescrive la tecnica della monocoltura, ovviamente ne accresce il rendimento; piantare diverse colture intercalate comporterà una resa minore per ognuna di esse, ma una più elevata produzione totale di cibo. «Il mito degli alti rendimenti degli Ogm è fondato sul confronto con le grandi monocolture industriali anziché con l’agricoltura biologica, che è la vera alternativa», conclude Vandana Shiva.
Se vogliamo eliminare fame e povertà è necessario conservare la diversità, biologica e culturale.

BREVETTI E BIOPIRATERIA

L’ingegneria genetica ha aperto la strada ai brevetti sulla vita, il primo dei quali è stato concesso nel 1980 alla General Electric per un batterio modificato geneticamente. Negli ultimi anni, con l’introduzione sul mercato di piante transgeniche e di organismi misti, come ad esempio il maiale serbatornio di organi da trapiantare su esseri umani, la richiesta di brevetti per vegetali ed animali ha subito un’accelerazione. All’Ufficio europeo brevetti (Epo) di Monaco sono state presentate più di 15.000 richieste di brevetti nel campo dell’ingegneria.
I sostenitori della brevettabilità degli organismi viventi affermano che la concessione del brevetto consente, al mondo scientifico ed industriale, di accedere ad informazioni importanti da utilizzare per migliorare il benessere umano.
Tuttavia, chi si oppone alla brevettabilità adduce differenti motivazioni, sostenendo che la «libertà di ricerca» viene scambiata con la «libertà di vendere». Innanzitutto, un organismo vivente non può essere considerato propriamente un’invenzione umana. «I geni non sono creati dagli ingegneri genetici che, semplicemente, li spostano da una parte all’altra – come ha sottolineato un gruppo di scienziati inglesi -. Se questo principio fosse stato applicato alla chimica, sarebbero stati brevettati anche gli elementi» (3).
I brevetti rappresentano inoltre un incentivo commerciale allo sviluppo di organismi geneticamente modificati: avendo generalmente una validità compresa tra 17 e 20 anni, esso garantisce al suo possessore i diritti esclusivi per sfruttare l’invenzione a fini commerciali. Infatti, dichiara Greenpeace, nel caso delle colture geneticamente modificate gli agricoltori devono per esempio pagare un diritto sul brevetto, delle royalties per l’uso dei semi ingegnerizzati, nonché le sementi stesse prodotte dalle piante ingegnerizzate per tutta la durata del brevetto.
I potenziali profitti derivanti dalla brevettabilità incoraggiano quindi le multinazionali a ricercare per il mondo i geni che potrebbero avere applicazioni proficue dal punto di vista commerciale. Come si è visto in precedenza, una delle ricchezze peculiari dei paesi del Terzo mondo è rappresentata proprio dalla diversità genetica: nelle foreste pluviali del Sud vive più della metà delle specie animali e vegetali del mondo. I ricercatori vengono quindi inviati in queste zone per scovare organismi o piante di valore, riportano in laboratorio i campioni, e da questi vengono isolati i principi attivi o le sequenze geniche che saranno brevettate come «proprie» invenzioni.
Come denuncia Greenpeace, l’accordo TRIPs sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade related aspect on intellectual property rights), iniziativa di una coalizione di multinazionali, non impone né che le compagnie biotech chiedano un permesso prima di accedere alle risorse biologiche, né che i proprietari dei brevetti condividano i benefici con le popolazioni che da un lato abitano le terre da cui hanno origine i geni, e che dall’altro hanno mantenuto e sviluppato la biodiversità nel corso di migliaia di anni. Anzi, in molti casi, le comunità devono pagare alle multinazionali i diritti per usare qualcosa che precedentemente era parte integrante della loro civiltà.
In India, l’albero di Neem rappresenta un classico esempio: utilizzato per migliaia di anni grazie alle sue proprietà antibatteriche ed insetticide, proprio su queste caratteristiche le multinazionali occidentali hanno ottenuto dozzine di brevetti.
Un rapporto commissionato da Christian Aid ha valutato che la biopirateria sta drenando risorse dal Terzo mondo per un valore equivalente a 45 miliardi di dollari all’anno.

IL CONSUMATORE PRIGIONIERO

«Nell’era della comunicazione – spiega Giorgio Celli – si è verificata, su una materia universale e tanto delicata come quella degli alimenti, un’imperdonabile omissione di comunicazione». Nell’era della democrazia, i cibi transgenici sono stati immessi sul mercato prima ancora che i consumatori potessero capire di cosa si trattasse. Nell’era della libertà, il cittadino non ha potuto scegliere se acquistare o meno prodotti Ogm, semplicemente perché non è stato informato che essi erano già presenti in commercio.
Nell’Unione europea, il 18 aprile 2004, sono entrati finalmente in vigore i nuovi regolamenti europei sull’etichettatura di alimenti e mangimi geneticamente modificati e sulla tracciabilità degli Ogm. Ora tutti i prodotti contenenti ingredienti o derivati da un ingrediente che contiene più dello 0,9% di Ogm dovranno essere etichettati con la dicitura «questo prodotto contiene Ogm» oppure «questo prodotto deriva da Ogm».
L’etichettatura sarà richiesta anche per i prodotti in cui il Dna degli Ogm non può più essere identificato nel prodotto finale, come oli vegetali, amidi, zuccheri, ecc., finora esclusi dall’obbligo di etichettatura. Anche mangimi e additivi dovranno finalmente essere etichettati; basti pensare che i mangimi per gli allevamenti zootecnici (pollame, suini, bovini, pesci), costituiscono l’80% degli Ogm che entrano in Europa da oltreoceano. Secondo la Fao, nei paesi industrializzati il 70% della produzione dei cereali, ed in particolare della soia, viene infatti dirottato verso l’alimentazione zootecnica.
Anche se ancora lacunosi su alcuni aspetti, i nuovi regolamenti rappresentano attualmente le misure più rigide sull’etichettatura degli Ogm su scala mondiale, e dimostrano una certa attenzione nei confronti dei consumatori. Dati resi noti nel novembre 2003 dal Censis nell’ambito delle indagini condotte dal Monitor Biomedico, svelano infatti che il 57,3% degli italiani si dichiara favorevole agli interventi di ingegneria genetica se finalizzata alla prevenzione delle malattie. Ma la situazione si ribalta quando si parla di alimentazione: il 56,6% del campione è contrario e il 30,6% è favorevole. In seguito alla pressione dei consumatori, dettaglianti e grandi compagnie del settore hanno cominciato a puntare sugli alimenti non Gm. I primi sono stati Nestlè, Unilever e Cadbury nel 1999. Nello stesso anno la Monsanto ha addirittura deciso di eliminare per quanto possibile l’impiego di soia e mais transgenici dalla propria mensa aziendale!

DILEMMI E VINCOLI DEGLI SCIENZIATI

Secondo molti studiosi, non essendo ancora in grado di padroneggiare le nuove biotecnologie, l’unico atteggiamento razionale è quello di adottare il principio di precauzione, e quindi proporre controlli rigorosi alla sperimentazione e una moratoria sulle fasi successive. Il commercio dovrebbe essere guidato dal sapere scientifico, non il contrario.
Tuttavia, mentre da un lato gran parte dei biologi favorevoli agli Ogm lavora grazie a finanziamenti privati, dall’altro le risorse economiche pubbliche sono sempre minori. Il rischio che ne deriva è che sparisca una comunità scientifica indipendente, oltre che interdisciplinare. Dice Vandana Shiva: «I costruttori di refrigeratori non sono esperti dei danni prodotti alla fascia di ozono e i produttori di automobili non sono esperti di cambiamenti climatici, così come i genetisti non sono competenti di bioinquinamento».
La protezione della biodiversità richiede alcune radicali modifiche nel nostro modo di pensare, nei nostri modelli di produzione e consumo e nelle nostre politiche. E l’Occidente industrializzato dovrà attuare dei cambiamenti ancora più radicali. «La lezione da imparare – secondo Vandana Shiva – è la cooperazione, non la concorrenza: il grande dipende dal piccolo e non può sopravvivere se lo stermina».
(Seconda parte – fine)

(1) G. Celli, N. Marmiroli, I. Verga, I semi della discordia. Biotecnologie, agricoltura e ambiente, in bibliografia
(2) Worldwatch Institute, State of the World 2004. Consumi, in bibliografia
(3) Dalton H. et al, Patent threat to research, Nature 1997.

BOX 1

L’APPELLO DI GREENPEACE: «Entra in azione!»

I consumatori hanno un grande potere, quello di fare in modo che i supermercati, i ristoranti, gli alimenti che quotidianamente vengono acquistati, rimangano NON Ogm. Adesso che nuove norme sull’etichettatura, maggiormente restrittive, sono entrate in vigore (a partire dal 18 aprile 2004), con il tuo aiuto possiamo trovare i prodotti contenenti Ogm, identificarli, evitarli e mostrarli a tutti i consumatori. Alcune aziende proveranno ad introdurre prodotti etichettati Ogm nei mercati europei. Più persone rifiuteranno questi prodotti, più facile sarà salvaguardare il nostro diritto di dire NO agli Ogm.

Informa altri consumatori
Stampa il nostro volantino informativo e fallo leggere alla tua famiglia, agli amici, ai vicini di casa. Se è possibile lasciane alcune copie in negozi, ristoranti o dal tuo medico.

Diventa un Detective di Ogm
Ogni volta che vai a fare la spesa, guarda attentamente la lista degli ingredienti. Se trovi un prodotto etichettato Ogm, prendi nota dei dettagli del prodotto, del produttore, del nome e dell’indirizzo del supermercato, della data in cui hai trovato il prodotto in questione e dell’ingrediente Ogm segnalato sull’etichetta. Informa il Responsabile della Campagna Ogm di Greenpeace e, se possibile, fai una foto del prodotto (in particolare dell’etichetta) e carica la tua foto sul nostro sito. Apprezziamo molto il tuo supporto perché è essenziale per mantenere informati i consumatori in tutta Europa.

Restituzione – sostituzione – rimborso
Se senza saperlo compri un prodotto etichettato Ogm, dovresti riportarlo indietro al supermercato dove lo hai comprato e richiedere la sostituzione di questo con uno NON Ogm. Porta anche i tuoi amici a fare la stessa cosa. Perché non ci andate tutti insieme per dare più forza alle vostre idee? Più siete meglio è!

Protesta contro i cibi Ogm
Manda una lettera di protesta al tuo supermercato o all’azienda produttrice del prodotto Ogm per chiedere cibi NON Ogm. Perché non scrivi una lettera anche ai giornali locali e non incoraggi una discussione a livello locale?

Se vuoi puoi accedere al sito di Greenpeace Inteational dove puoi anche trovare le ultime notizie su come i consumatori stanno lottando a livello europeo per il proprio diritto di dire NO agli alimenti Ogm.

Fonte: www.greenpeace.it

BOX 2

La nuova normativa: i pro e i contro

• Pro. Nuova soglia dello 0,9% per ogni ingrediente.
La soglia massima, definita come «presenza accidentale o tecnicamente inevitabile», sotto la quale non vi è alcun obbligo di etichettatura, ha subito una modifica più di forma che di sostanza: è passata dall’1% allo 0,9%. Tale soglia fa riferimento a ogni singolo ingrediente usato nel prodotto e non alla massa o volume totale; questo significa, per fare un esempio, che se la lecitina di soia contenuta in una tavoletta di cioccolato deriva da materia prima transgenica per più dello 0,9%, dovrà essere etichettata anche se la lecitina è solo l’1% del totale degli ingredienti. È importante notare che questa soglia è applicabile soltanto a quei produttori che possono dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure per evitare tale contaminazione.

• Pro. Controllo del processo.
Fino a oggi non dovevano essere etichettati quei prodotti contenenti ingredienti di provenienza transgenica nei quali, a seguito del processo di lavorazione, non erano più rintracciabili Dna o proteine transgeniche (come ad esempio oli, amido o glucosio), anche se provenienti al 100% da materie prime transgeniche. Grazie alle pressioni dei consumatori, volte a una maggiore trasparenza e informazione, con le nuove norme non sarà più così e anche questi prodotti dovranno essere etichettati se derivanti da materie prime transgeniche.

• Pro. Mangimi, transgenici o no?
Si stima che circa il 90% degli Ogm importati in Europa siano utilizzati nella mangimistica animale e nella produzione di oli e amidi. Finalmente, grazie ai nuovi regolamenti, si comincia a porre rimedio all’assoluta mancanza di regole in questo settore per ciò che riguarda l’utilizzo di Ogm: i mangimi dovranno essere etichettati rispettando la stessa soglia degli ingredienti alimentari, 0,9%.

• Contro. Senza etichetta i prodotti derivati da animali nutriti con Ogm.
Purtroppo, vanno segnalate ancora gravi carenze. A cominciare dai prodotti derivati da animali nutriti con Ogm, tuttora non soggetti all’obbligo di etichettatura. Parliamo di uova, carne, latticini, per i quali i produttori non sono obbligati a specificare in etichetta se gli animali dai quali provengono sono stati nutriti o meno con mangimi transgenici. Anche per questo motivo Greenpeace ha scelto di continuare a informare i consumatori attraverso la guida «Come difendersi dagli Ogm», contenente notizie sull’origine dei prodotti in commercio ottenuti o meno da animali nutriti con Ogm. Le liste di prodotti che Greenpeace propone (www.greenpeace.it) sono realizzate in base alle dichiarazioni scritte ricevute dalle aziende alimentari. Queste liste non comprendono tutti i prodotti disponibili sul mercato italiano, e poiché il mercato muta costantemente, le liste sono aggiornate periodicamente.

• Contro. Ogm non autorizzati.
Altro punto dolente delle nuove regole riguarda la tolleranza, fino a un massimo dello 0,5%, concessa per quegli Ogm non ancora autorizzati che arrivano comunque sul mercato europeo. Tale soglia scadrà automaticamente dopo 3 anni; a partire dalla scadenza, è tolleranza zero per gli Ogm non autorizzati.

Fonte: www.greenpeace.it

Silvia Battaglia




GLI OGM (1)”Metti un gene nelle fragole”

Piante resistenti a climi avversi, prodotti che non marciscono, frutti senza semi, miglioramenti qualitativi e quantitativi… i risultati dell’ingegneria genetica sembrano entusiasmanti, ma i lati oscuri della medaglia sono tanti, a cominciare dagli impatti sulla salute umana e sull’ambiente. Per questo scienziati
ed organizzazioni inteazionali chiedono l’adozione di un «principio di precauzione», che però pare soccombere davanti alle regole del profitto dettate dalle multinazionali e dai loro potenti sponsors. (Prima parte)

Miglioramento genetico delle piante, sviluppo agricolo sostenibile, salvaguardia delle risorse naturali, contributo significativo a soddisfare la crescente domanda mondiale di derrate alimentari, miglioramento della qualità, della sicurezza e del valore nutrizionale degli alimenti (1): questi gli scopi della biotecnologia applicata al settore agricolo-alimentare secondo i fautori degli Organismi geneticamente modificati (Ogm o Gmo, dall’inglese Genetic modified organisms); miti da sfatare, al contrario, per gli oppositori.
Su quali termini, concetti e fatti si basa il dibattito sugli Organismi geneticamente modificati? La controversia coinvolge esclusivamente conoscenze scientifiche, oppure è strettamente connessa anche ad aspetti economici e commerciali non sufficientemente dichiarati? La complessità dell’argomento è un limite oppure un’opportunità utilizzata come pretesto per un’informazione parziale, o addirittura assente, nei confronti del cittadino- consumatore?

COSA SONO GLI OGM
Il termine «biotecnologia» deriva dalla congiunzione di biologia, intesa come studio degli esseri viventi e delle leggi che li governano, e tecnologia, intesa come studio dei processi e delle apparecchiature necessarie a produrre determinati beni e servizi.
Con biotecnologia si indica qualsiasi processo produttivo che preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule, o loro prodotti. Le sue origini sono molto antiche: basti pensare alle tecnologie fermentative applicate nella produzione di alimenti (ad esempio, del vino e della birra) e alle tecniche di selezione e reincrocio utilizzate in agricoltura e zootecnia. Solo negli ultimi decenni l’aumento delle conoscenze scientifiche e il progresso tecnologico hanno fatto intravedere nuovi orizzonti sperimentali e applicativi, in particolare nel campo della medicina, del disinquinamento ambientale e dell’agricoltura. Tecniche di ingegneria genetica quali la ricombinazione del Dna, la fusione di cellule animali e vegetali, l’introduzione diretta di Dna in una cellula, costituiscono le basi delle biotecnologie avanzate.
Gli organismi transgenici o, più propriamente, gli Organismi geneticamente modificati sono appunto gli animali, i vegetali, i miceti, i lieviti e i batteri nel cui genoma viene incorporato artificialmente un gene estraneo, chiamato transgene.
In campo agricolo, lo scopo è quello di inserire, nel Dna della pianta che si vuole modificare, uno o più caratteri (geni) che conferiscano alla pianta modificata le caratteristiche desiderate. Tali geni possono essere ottenuti da altre piante, da microrganismi oppure anche da animali: le tecniche di ingegneria genetica rendono cioè possibili incroci che sono impossibili in natura. Ne è un esempio la nota introduzione di geni di pesci (passera di mare) nelle fragole per aumentae la conservabilità, in base all’assunto che il gene che consente al pesce di sopravvivere in acque ghiacciate conserverebbe le fragole.
Un Ogm è «un organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura mediante incrocio o ricombinazione genetica naturale» (D.Lgs. 3.3.93, n.92). Se l’organismo transgenico è fertile, il gene estraneo potrà essere trasmesso alle successive generazioni, dando origine ad una «linea di organismi geneticamente modificati».
Attualmente sul mercato sono presenti soprattutto varietà Ogm di mais, soia, colza, pomodoro, cotone, patata, zucca e tabacco. Le principali modificazioni genetiche già in commercio o in fase di sperimentazione riguardano la resistenza agli erbicidi e ai parassiti, il controllo della fioritura della pianta, la produzione di frutti senza semi, la resistenza a stress (al freddo, alla siccità, alla salinità del terreno, ecc.), la ritardata marcescenza.
Le ragioni addotte per la diffusione degli Ogm in agricoltura sono essenzialmente due:
• aumenterebbero la produzione del raccolto, contribuendo così alla sicurezza alimentare;
• ridurrebbero l’uso delle sostanze chimiche, contribuendo così alla protezione ambientale.

L’INVASIONE SILENZIOSA
Secondo il rapporto del Servizio internazionale per l’acquisizione delle applicazioni agrobiotecnologiche (Isaaa), le coltivazioni di piante geneticamente modificate (Gm) aumentano in tutto il mondo, con una superficie complessiva pari a 67,7 milioni di ettari e con una crescita, nel 2003, pari al 15% rispetto al 2002. Aumentano le colture Gm anche in Europa, in particolare in Romania, Bulgaria, Spagna.
Gli agricoltori che nel 2003 hanno utilizzato sementi geneticamente modificate sono diventati 7 milioni, un milione in più rispetto al 2002, e la maggior parte di essi (l’85%) vive in paesi in via di sviluppo; proprio in questi paesi si trova quasi un terzo della superficie mondiale coltivata con piante Gm, rispetto al 25% circa registrato nel 2002. Brasile e Sudafrica si sono aggiunti ai principali coltivatori di prodotti agricoli gm, ossia Stati Uniti, Argentina, Canada e Cina. Gli altri 4 paesi che coltivano superfici geneticamente modificate superiori ai 50.000 ettari sono Australia, India, Romania e Uruguay.
Nei paesi dell’Unione europea, invece, dopo una rapida crescita e raggiunto il massimo nel 1997, i rilasci di Ogm si stanno rapidamente contraendo. Le sperimentazioni sono state infatti scoraggiate dalla moratoria e dalla regolamentazione imposte su scala europea, e hanno subito un declino rilevante soprattutto in Francia e in Italia, i due paesi nei quali si erano più concentrate (rispettivamente il 29% e il 16% del totale europeo). Le diverse specie interessate, più di 70, riguardano principalmente le colture industriali quali mais, colza, barbabietola e patata (2).
Essendo una tecnologia coperta da brevetto, gli Ogm sono monopolizzati da un numero estremamente ridotto di multinazionali. La maggior parte del mercato delle sementi e dei prodotti fitosanitari è controllato da tre colossi: la Monsanto (gruppo Pharmacia), la Syngenta (già Novartis), e Aventis (creato dalla Hoechst e dalla Rhone-Poulenc e acquisito dalla Bayer nell’ottobre 2001 (3).

ALLERGIE ED ALTRI
IMPATTI SULLA SALUTE

Il dibattito affrontato dai media sugli Ogm riguarda soprattutto i possibili effetti sulla salute dei consumatori. I sostenitori degli alimenti Gm dichiarano che l’introduzione di cibi manipolati nella nostra dieta non possa causare rischi di nuove allergie. Come esempio, viene spesso citata l’introduzione del gene di banana nel pomodoro.
Secondo l’associazione Greenpeace, da sempre contraria all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura, i biotecnologi omettono di precisare che l’esempio riportato considera cibi consumati abitualmente. «L’ingegneria genetica, però, riguarda spesso geni, e dunque proteine, che non fanno parte del consumo alimentare tradizionale: i rischi non sono prevedibili se il gene “trapiantato”, ad esempio nel grano, con cui facciamo pane, pasta ecc., proviene da uno scorpione o da una petunia o da altri organismi finora mai utilizzati nell’alimentazione».
La società Pioneer, prima compagnia mondiale nella produzione di semi, ha prodotto una soia più ricca di metionina (amminoacido essenziale che il nostro organismo non sa produrre) grazie ad un gene proveniente dalla noce brasiliana nota per la sua forte potenzialità allergenica (cioè molte persone sono allergiche a questo alimento). Test indiretti di laboratorio, finalizzati proprio a valutare la possibile insorgenza di nuove allergie, avevano dato tutti esito negativo. Un test allergologico ha invece dimostrato che persone allergiche alla noce brasiliana, ma non alla soia normale, erano allergiche anche alla soia manipolata della Pioneer, la cui commercializzazione è stata bloccata in extremis. Il problema è che la maggior parte degli Organismi geneticamente modificati può essere sottoposta solo a test di tipo indiretto, la cui affidabilità è messa in discussione.
Inoltre, negli Ogm viene inserito un gene resistente agli antibiotici, definito «marcatore», che permette di identificare le cellule in cui è riuscito il «trapianto» dei geni; successivamente esso non svolge più alcuna funzione, ma la sua eliminazione sarebbe troppo costosa e difficile.
Ecco perché c’è chi teme che la resistenza agli antibiotici possa trasferirsi all’uomo, rendendo inefficaci gli antibiotici comunemente assunti. Anche se il problema sembra superabile con nuove tecnologie che non prevedono l’utilizzo di geni marcatori, non ci si può non chiedere come mai, nonostante una tale eventualità, sia stata consentita la commercializzazione di tali prodotti. L’impatto sulla salute, tuttavia, non è il solo aspetto preoccupante che riguarda la diffusione degli Ogm.

I GENI COME
VITI E BULLONI

Se i fautori degli ogm sostengono che da sempre l’uomo ha modificato le piante, i critici ribattono che non tutte le modifiche sono equivalenti dal punto di vista ecologico e non tutte hanno impatti analoghi. I biotecnologi hanno dato infatti origine a nuovi organismi nati dall’ibridazione di specie diverse, che mai si sarebbero incrociati in natura.
«L’assunto è che una caratteristica possa essere trasferita da una specie all’altra semplicemente spostando un gene. In realtà, spostando geni da una specie all’altra produrremo effetti imprevedibili», dichiara Brian Goodwin, uno dei maggiori teorici della biologia. Mentre i sostenitori dell’ingegneria genetica dichiarano che questa tecnica è più precisa e prevedibile rispetto ai metodi tradizionali di ibridazione, la nota fisica indiana Vandana Shiva, insieme ad altri scienziati più cauti sull’argomento, pone l’accento sul fatto che «indipendentemente da come il transgene viene introdotto, c’è una totale impossibilità di prevedere quale sarà l’esatta collocazione del gene nel cromosoma», e continua affermando che «il luogo comune secondo cui l’ingegneria genetica è precisa e prevedibile è falso. Di fatto, non si tratta di vera ingegneria». Inoltre sottolinea come la selezione tradizionale non prevede affatto il trasferimento di geni da batteri e animali alle piante, ma incrocia «il riso con il riso e il grano con il grano».
Anche se molti scienziati iniziano a vedere i geni non più come semplici viti e bulloni di una macchina, che possono essere spostati o riordinati a piacere, proprio questa visione è invece la base fondante delle nuove biotecnologie, della nuova industria delle scienze della vita e del nuovo commercio genetico.

IL PRINCIPIO
DI PRECAUZIONE

Come ricorda il biologo Giuseppe Barbiero dell’Università di Torino, la comparsa degli ogm ha accelerato significativamente il processo di selezione naturale, in quanto si svolge in un periodo di tempo molto ridotto e in condizioni del tutto differenti rispetto alla selezione artificiale utilizzata tradizionalmente in agricoltura e zootecnia. La comunità scientifica sembra oggi riconoscere che è necessario approfondire le conoscenze prima di commercializzare gli Ogm, per evitare una sorta di esperimento globale su scala planetaria. Non sono pochi, infatti, gli esperti che ritengono insufficienti le attuali conoscenze scientifiche sull’argomento.
Ci troviamo cioè in «condizioni di ignoranza», di fronte a fenomeni complessi e non prevedibili come quelli biologici, in presenza del rischio reale di commettere errori gravi da cui non si può tornare indietro e, soprattutto, in una situazione in cui nessuno sa come eventualmente correggere gli errori: in questo contesto dovrebbe valere il «principio di precauzione», ossia un approccio prudente al problema (4). Per questa ragione l’etichettatura dei prodotti agrobiotecnologici, il rispetto dei protocolli di sicurezza, l’adozione di particolari cautele finalizzate a non compromettere l’equilibrio ecologico danneggiando la biodiversità sono alcune delle misure che dovrebbero essere considerate sempre necessarie, in quanto, in caso di errore, è più facile risalire alle cause e porvi rimedio in tempi ragionevoli. «Tuttavia – continua Barbiero – anche il rispetto più rigoroso dei protocolli di sicurezza non ci garantisce contro il rischio intrinseco delle nuove biotecnologie, dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza riguardo la fisiologia del genoma. Siamo allora di fronte a un nodo ineludibile: la comunità scientifica deve dare segni di disponibilità e rimettere in discussione l’intera filiera che dalla ricerca porta alla commercializzazione dei prodotti delle nuove biotecnologie».
La necessità di adottare il principio di precauzione non è evidente solo alla luce delle possibili conseguenze sulla salute umana, ma anche dei potenziali, e in alcuni casi già effettivi, impatti sull’ambiente.

AGRICOLTURA BIOLOGICA O
RIVOLUZIONE «GENETICA»?

In molti sostengono che l’incremento dei raccolti registrato negli ultimi 50 anni, con la cosiddetta «rivoluzione verde», non sia dovuta ad una migliore gestione delle risorse locali, bensì all’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, all’allevamento industriale di animali, e ad altre pratiche di agricoltura intensiva che hanno generato importanti conseguenze per l’uomo e per l’ambiente.
Oggi, le stesse aziende che si sono procurate una pessima fama con l’utilizzo di sostanze chimiche nelle produzioni agroalimentari, stanno proponendo una nuova «soluzione»: la cosiddetta «rivoluzione genetica», ossia l’utilizzo di semi modificati geneticamente, che ridurrebbe la dipendenza dai dannosi pesticidi di loro stessa produzione.
La maggior parte degli Ogm viene prodotta con caratteristiche che li rendano resistenti agli erbicidi; anziché comportare una diminuzione dell’uso degli erbicidi stessi, alcune stime dimostrano che ciò implica invece un aumento dell’utilizzo di tali sostanze.
Secondo Greenpeace, «che il meccanismo serva a far vendere più erbicidi lo prova il fatto che negli Usa le sementi transgeniche vengono vendute con un contratto, nel quale si stabilisce che gli agricoltori che utilizzano erbicidi che non siano della ditta produttrice della semente manipolata, possono essere perseguiti legalmente. Lo stesso contratto vieta agli agricoltori di conservare i semi provenienti dal raccolto per riseminarli l’anno successivo».
Ad esempio, la soia manipolata della Monsanto resiste a dosi massicce di Roundup, un erbicida prodotto dalla Monsanto stessa. In generale, una coltivazione di piante Gm di questo tipo può essere trattata con l’erbicida a dosi tali da uccidere le piante infestanti: sopravviverà soltanto la pianta Gm che è resistente. «Che poi – puntualizza Greenpeace – essa possa contenere dosi più o meno elevate di veleni chimici, è un fatto che non preoccupa l’industria chimica».
Tra gli «effetti collaterali», secondo i critici, anche lo sviluppo sia delle cosiddette «super-erbacce», in grado di invadere le altre specie presenti e causa di un ulteriore utilizzo degli erbicidi stessi, sia di «insetti super-infestanti».
L’utilizzo di prodotti chimici si estenderà inoltre in aree del mondo in cui attualmente non si fa uso di tali sostanze.
Alcune piante sono modificate geneticamente, invece, per produrre da sole i propri pesticidi: ciò provocherebbe fenomeni di resistenza a tali sostanze col conseguente aumento del loro utilizzo. Senza contare che l’inserimento di una tossina in una pianta rischierebbe di aumentare la tossicità della stessa e la sua diffusione nell’ecosistema.
«Ad oggi – continua Greenpeace – ciò che l’ingegneria genetica ci nega è la scelta delle tecniche genuine dell’agricoltura sostenibile sviluppate dalla modea agricoltura biologica. Ingegneria genetica e agricoltura biologica sono incompatibili».

IL BIO-INQUINAMENTO
L’agricoltura si caratterizza per la complessità di saperi, tecniche e coltivazioni evoluti con le caratteristiche dei territori e delle popolazioni che li abitano: si è così sviluppata una moltitudine di sistemi agrari complessi e diversificati, da cui si sono sviluppate specifiche culture alimentari e gastronomiche.
Questa diversità è oggi a rischio: come evidenzia Greenpeace, la dispersione nell’aria del polline, il trasferimento dei transgeni dalle colture Gm alle erbe spontanee, la dormienza dei semi che li può portare a germinare a distanza di qualche stagione, l’alterazione dei microrganismi del suolo, possono rappresentare un pericoloso mezzo di dispersione degli Ogm e di inquinamento genetico. Una volta rilasciato in natura, un nuovo organismo creato dall’ingegneria genetica potrebbe essere in grado di interagire con altre forme di vita, riprodursi, trasferire le sue caratteristiche e mutare in risposta alle sollecitazioni ambientali. Addirittura «è possibile che colture trasformate per produrre farmaci o altri composti di interesse industriale possano fecondare piante destinate all’alimentazione umana, con l’inevitabile risultato di trovare nuove sostanze chimiche nella catena alimentare umana» (5).
A tutt’oggi non è infatti possibile prevedere le conseguenze dell’immissione di Ogm in un ecosistema. L’elemento preoccupante è che il materiale genetico possa trasferirsi da un organismo all’altro al di fuori del controllo umano. Ad esempio, è stato verificato che i geni «trapiantati» possono velocemente passare dalla colza Gm a piante affini, infestanti e non. Ricerche condotte in Germania hanno mostrato che il gene per la resistenza al glufosinato può trasferirsi, mediante il polline, in piante distanti 200 metri e dati più recenti indicano che l’inquinamento genetico può avvenire anche a distanze maggiori. La commercializzazione di mosche, zanzare e vermi, ingegnerizzati in laboratorio per diversi scopi, porterebbe ad una loro rapida diffusione nell’ambiente.
L’evidenza ha dimostrato l’alta frequenza ed entità delle contaminazioni non solo in campo aperto, ma anche nelle fasi di stoccaggio e trasporto. «Le attuali strategie di contenimento genetico non possono funzionare in modo affidabile in campo aperto. Possiamo ragionevolmente attenderci che gli agricoltori ripuliscano meticolosamente i propri macchinari agricoli, tanto da rimuovere tutti i semi geneticamente modificati?» (6).
«Poiché il bioinquinamento si verifica quando gli Ogm non sono confinati in ambiente chiuso, gli scettici degli Ogm vorrebbero sospendere i test sul campo e le coltivazioni Gm, non le medicine ottenute tra le mura di un laboratorio», chiarisce Vandana Shiva (7).
(Fine prima parte – continua)

BOX 1 Le iniziative anti OGM di regioni e comuni

• Il 13 ottobre 2003, in seguito alla semina illegale di mais Ogm nel comune di Sant’Elpidio a Mare (AP), la regione Marche ha avviato le operazioni di smaltimento dell’intero raccolto.
• Nell’aprile del 2003, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso delle multinazionali di produttori e importatori di Ogm che chiedevano di sospendere la circolare del ministero delle politiche agricole e forestali che vietava la produzione e commercializzazione di sementi, soia e mais che anche accidentalmente contenessero Ogm.
• La regione Friuli ha proposto nel giugno 2002 la creazione di una macro-regione europea «Ogm-free».
• Nel luglio 2003 la regione Piemonte ha disposto la distruzione di 381 ettari di mais geneticamente modificato con un’ordinanza del presidente. Respinto il ricorso al Tar della multinazionale Pioneer, la regione ha provveduto al rimborso degli agricoltori coinvolti nella vicenda.
• La regione Campania ha approvato una legge (n. 15 del 24 novembre 2001) per la quale «i prodotti contenenti organismi geneticamente modificati non devono essere somministrati nelle attività di ristorazione collettiva riguardanti le forme scolastiche e prescolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura della regione Campania appartenenti alle Aziende sanitarie locali e alle Aziende ospedaliere, ai comuni, alle province, alla regione, agli altri enti pubblici ed ai soggetti privati convenzionati».
• La regione Veneto con la legge regionale n. 6 del 1° marzo 2002 «tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e promuove tutte le azioni necessarie a prevenire i possibili rischi alla salute umana derivanti dal consumo di alimenti contenenti organismi geneticamente modificati (Ogm) o prodotti derivati da Ogm».
• La regione Liguria con legge regionale n. 13 del 19 marzo 2002 impone il «divieto di introduzione di organismi geneticamente modificati sia vegetali che animali, in particolare in agricoltura e allevamento, compresi gli allevamenti ittici e le attività di trasformazione dei prodotti».
• La regione Basilicata ha emanato una legge (n. 18 del 20 maggio 2002) in cui è fatto divieto di coltivazione in pieno campo di piante transgeniche.
• La regione Abruzzo ha disposto con la legge regionale n. 6 del 16 marzo 2001 che il principio di precauzione sia applicato «nelle decisioni che riguardano l’uso per qualunque fine di organismi geneticamente modificati o di prodotti da essi derivati».

Intanto, dall’agosto del 1999, sono state 445 le amministrazioni italiane che hanno deliberato contro l’introduzione di ogm sul proprio territorio. Dal primo comune dichiaratosi «anti-transgenico», Bubbio, in provincia di Asti, all’ultimo in ordine di tempo, Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi.
Per poter piantare il cartello con il logo di «Comune Ogm Free» le amministrazioni devono prima deliberare il loro impegno a tenere lontani dal proprio territorio gli organismi geneticamente modificati, impedendo le coltivazioni e le sperimentazioni agricole.

Fonti: www.legambiente.com; www.comuniantitransgenici.org

BOX 2 la chiesa e gli OGM…

La chiesa deve prendere coraggio e restare coerente con la sua morale per dichiarare inaccettabili gli Ogm. Lo chiede padre Alex Zanotelli sull’ultimo numero della rivista Nigrizia. Zanotelli teme che il Vaticano possa cedere alle pressioni americane in questa materia e chiede ai teologi, ai missionari, agli episcopati del Terzo mondo di farsi sentire con decisione sull’argomento per evitare che la chiesa usi due pesi e due misure nella morale che riguarda la manipolazione della vita. «Già la scorsa estate – scrive padre Alex – sono rimasto di stucco nel leggere sulla Stampa l’intervista del card. Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, sulla possibilità di usare cibi geneticamente modificati per risolvere il problema della fame. In molti hanno reagito all’intervista – ordini religiosi e istituti missionari soprattutto. Anche per questo, credo, il cardinale ha convocato, il 10-11 novembre scorso, 67 esperti per avere più pareri sugli organismi geneticamente modificati. Il fatto è che gli esperti scelti erano quasi tutti favorevoli agli Ogm. Non a caso uno dei convocati, Dorine Stabinsky, americana, ha parlato di “squilibrio”».

Dello stesso parere due gesuiti che operano in Zambia, Peter Henriot e Roland Lesseps, i quali hanno rimarcato: «Gli Ogm non possono trovare riscontro nell’insegnamento della dottrina sociale della chiesa, perché non rispettano né i diritti umani né l’ordine della creazione». Netta anche la reazione dei missionari italiani (Conferenza degli istituti missionari d’Italia, Cimi). Si noti che alla conferenza in Vaticano non c’era nessun rappresentante degli episcopati del Sud del mondo. Mentre sappiamo che gli episcopati sudafricano, brasiliano, filippino e zambiano si sono espressi negativamente sugli Ogm.
Sulla questione, critico anche l’intervento di padre Giulio Albanese, comboniano, direttore dell’agenzia Misna. E anche l’opinione di don Albino Bizzotto (Beati i costruttori di pace), Lidia Menapace e Francesco Iannuzzelli (Peacelink) che, sulla questione Ogm, hanno inviato una lettera aperta a mons. Martino.

Fonti: Ettore Colombo, www.vita.it (08/01/2004); www.oneworld.net. (02/04/2004)

Silvia Battaglia