La malattia non ha colore


L’assistenza medica ai migranti è un atto dovuto. Facilitare l’accesso al Servizio sanitario nazionale a chi rimane è la soluzione migliore. Tra l’altro, questa è anche la strada economicamente più conveniente.

La prima parte di questa nostra inchiesta (MC maggio 2016, pp. 60-63) terminava con una domanda: gli immigrati rappresentano un pericolo sanitario per noi? Per dare una risposta è necessario esaminare le caratteristiche di coloro che arrivano nel nostro paese, le loro condizioni di vita e di lavoro, la loro possibilità di accesso al nostro sistema sanitario.

All’arrivo in Italia

Considerando solo coloro che giungono in Italia dal Mediterraneo, in primis occorre conoscere quale sia la situazione sanitaria dei migranti quando vengono portati a bordo delle navi italiane che effettuano i salvataggi in mare. Al loro arrivo i migranti presentano soprattutto patologie legate al viaggio: infezioni respiratorie, ipotermia, ustioni, traumi, lesioni da decubito dovute alla impossibilità di movimento sui barconi, peggiorate da agenti chimici quali acqua salmastra o gasolio. Sovente ci sono patologie indotte o aggravate dalle condizioni di trasporto: tra queste le più pericolose sono quelle dovute a disidratazione, che provoca talora gravi casi d’insufficienza renale. Capita che approdino donne in stato di gravidanza o subito dopo avere partorito. Spesso si tratta  di donne vittime di stupri avvenuti nei lunghi periodi di detenzione in Libia, quindi con gravidanze forzate.

Tra le patologie più frequentemente riscontrate allo sbarco vi sono quelle dermatologiche come scabbia, foruncolosi, impetigine e quelle del sistema respiratorio, in particolare infezioni delle prime vie aeree, bronchiti e sindromi influenzali. I pochi casi di tubercolosi vengono individuati a bordo delle navi militari, che sono attrezzate con aree di isolamento, terapia intensiva e medici a bordo. Grazie alla stretta collaborazione tra ministero della Salute e Croce rossa italiana è possibile effettuare operazioni complesse per evacuare in sicurezza le persone che hanno necessità di cure immediate. Ad ogni sbarco sale a bordo personale sanitario e personale Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del ministero della Salute), che verificano le condizioni dei migranti prima che scendano a terra. Nel caso in cui ci sia un sospetto di malattia infettiva, il paziente viene isolato a bordo e vengono attivate immediatamente le procedure necessarie per diagnosticare il caso. Sulle nostre coste, la Croce rossa italiana assiste sistematicamente i migranti in arrivo dal 2011.

Nei Centri di prima accoglienza

Le condizioni dei migranti nei Centri di prima accoglienza presentano purtroppo notevoli criticità. Non esistono ancora collaudate procedure di rapida evacuazione dei richiedenti asilo altrove, in modo da offrire loro condizioni igieniche migliori. Secondo Medici senza frontiere (Msf), l’assistenza sanitaria in questi centri non è a carico del ministero della Salute, ma è gestita da enti privati. Senza un coordinamento efficace si verificano carenze che influiscono direttamente sulla salute dei pazienti, messa a rischio dalle condizioni di sovraffollamento e di promiscuità. Inoltre tra i migranti presenti nei Centri di prima accoglienza, ve ne sono molti che, avendo subito torture e altri traumi, presentano specifici quadri clinici psichiatrici come disturbo post-traumatico da stress, crisi d’ansia, depressione, disturbi di concentrazione e di memoria, tendenze suicide, per cui è indispensabile anche l’assistenza di tipo psichiatrico.

Migranti stabilizzati

Per quanto riguarda la salute degli immigrati presenti da tempo sul nostro territorio (o di altra nazione europea), bisogna considerare diversi fattori: quelli legati alle caratteristiche socioeconomiche dell’ambiente di vita e di lavoro, quelli individuali come lo stile di vita e gli eventuali comportamenti a rischio e infine la storia migratoria dei singoli individui (paese di origine, paese ospite, motivazione della migrazione, età all’arrivo, durata della permanenza nel paese ospite).

I problemi sanitari degli immigrati sono di tre tipi: di importazione, cioè quelli legati alle malattie endemiche nel paese di provenienza o alle caratteristiche genetiche (come la tubercolosi, alcuni tumori di origine infettiva e l’anemia mediterranea); di sradicamento, presenti soprattutto tra gli immigrati recenti e in particolare tra quelli forzati a causa di guerre e di persecuzioni e che coinvolgono in particolare la sfera psichica e mentale; quelli connessi con i fenomeni di acculturazione e di possibile emarginazione sociale.

Il processo di acculturazione comporta un adattamento degli immigrati agli stili di vita del paese ospite, che può però avere un effetto negativo sui comportamenti a rischio per la salute (fumo, alcolismo, tossicodipendenza, alimentazione scorretta). Peraltro esso porta alla conoscenza dei servizi sanitari di assistenza primaria e diagnosi precoce e ne favorisce l’accesso. L’acquisizione di comportamenti insalubri, quando avviene, si verifica in tempi più o meno rapidi, a seconda della storia migratoria (età all’arrivo, essendo più probabile tra i più giovani, cultura d’origine, livello d’istruzione individuale). Ci sono poi tutti gli svantaggi degli ambienti di vita e di lavoro, con tutte le forme di rischio per la salute tipiche delle fasce socio-economiche più svantaggiate anche tra la popolazione ospite (precarietà abitativa, sovraffollamento, scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro, alimentazione carente, disagio psicologico, difficoltà di accesso ai servizi socio-sanitari). Gran parte delle disuguaglianze di salute degli immigrati è legata alle loro condizioni socio-economiche, al livello d’istruzione e alla loro distribuzione per area di residenza.

Secondo le indagini svolte dall’Istat ogni 5 anni e in particolare quella pubblicata nel 2014, lo stato di salute percepito dai cittadini stranieri è di livello inferiore per quelli che risiedono nel Mezzogiorno, rispetto a quelli che vivono al Nord o in Centro Italia. Questo vale soprattutto per quanto riguarda lo stato mentale degli stranieri residenti nel Sud, che presentano punteggi medi inferiori a quelli riportati dal resto della popolazione straniera.

Per chi ha conseguito solo la licenza elementare, le condizioni di benessere fisico, mentale e psicologico generalmente presentano valori inferiori alla media, specialmente per i meno giovani.

Inoltre possono incidere negativamente sulla salute degli immigrati i fenomeni di discriminazione razziale, le barriere linguistiche e culturali e i vincoli giuridici, in particolare per le persone provenienti dai paesi in via di sviluppo e per quelle prive di regolare permesso di soggiorno.

Migranti economici

Generalmente coloro che emigrano volontariamente (i migranti economici), scelgono di farlo essendo in buona salute, pertanto risultano mediamente più sani dei loro coetanei che non emigrano e di quelli della popolazione ospite. Si parla di effetto migrante sano, che non interessa invece i migranti forzati e i ricongiungimenti familiari. Dopo un po’ di tempo dall’arrivo, i migranti economici tendono a perdere il loro vantaggio in salute, per via dell’acquisizione di comportamenti a rischio e delle condizioni di vita e di lavoro, fino a giungere all’effetto «migrante esausto». Si osserva inoltre che spesso gli immigrati in cattivo stato di salute decidono di tornare nel loro paese d’origine per ragioni affettive o perché lì trovano un maggiore supporto familiare e sociale necessario a gestire la malattia che nel paese ospite.

Servizi sanitari e barriere

Nei primi tempi, i migranti presentano solitamente un quadro caratterizzato da eventuali malattie di importazione (che però hanno un peso ridotto sul carico complessivo di malattia) e soprattutto da problemi di salute tipici dei giovani adulti, in particolare quelli legati all’area materno-infantile per le donne e a quella traumatologica per gli uomini. Con l’invecchiamento compaiono invece tutti i problemi di morbosità cronica correlati al disagio sociale. In Italia le popolazioni con storie migratorie meno recenti, come quelle del Nord Africa, potrebbero cominciare a presentare patologie di tipo cronico, mentre i migranti dai paesi slavi, arrivati dopo, presentano ancora la prima categoria di problemi di salute.

Le potenziali barriere all’utilizzo dei servizi sanitari da parte degli immigrati sono numerose e classificabili in tre gruppi: i fattori individuali, come cultura e credenze d’origine, il livello d’istruzione, lo stato socio-economico, il sostegno sociale e familiare; le barriere rappresentate dalle caratteristiche logistiche e organizzative della specifica struttura sanitaria, a cui l’immigrato dovrebbe rivolgersi; le barriere di sistema, legate all’organizzazione e alle modalità dell’intera offerta sanitaria del paese ospite.

Il Parlamento europeo, con le risoluzioni 2010/2089 dell’8 febbraio 2011 e 2010/2276 del 9 marzo 2011, ha ribadito che gli immigrati devono essere compresi tra i gruppi a rischio di disuguaglianze sanitarie e ha invitato gli stati membri a mettere in atto interventi volti a ridurre al minimo il rischio di disparità nell’accesso alle cure, indipendentemente dal fatto che si tratti di persone regolarmente presenti o meno.

Una questione di codici

Secondo la Legge 40/1998, art. 33, in Italia è previsto l’accesso all’assistenza anche agli stranieri irregolari, a fronte di una compartecipazione alla spesa sanitaria (ticket) uguale a quella dei cittadini italiani. Tutte le persone presenti sul territorio italiano hanno infatti diritto alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, e ai programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva, con specifico riguardo a tutela della gravidanza e della mateenità, alla salute del minore, alle vaccinazioni, alla profilassi internazionale e alla profilassi, diagnosi e cura delle malattie infettive. In particolare è previsto che gli extra-comunitari senza regolare permesso di soggiorno possano richiedere uno specifico codice sanitario (codice Stp, «Straniero temporaneamente presente»), che non prevede segnalazione alle autorità giudiziarie e sostituisce l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale (Ssn). I cittadini comunitari non iscrivibili al Ssn perché privi dei necessari requisiti di residenza e di reddito, presenti sul nostro territorio da almeno tre mesi in maniera continuativa sono invece assistibili mediante il codice Eni («Europeo non iscrivibile»).

Purtroppo l’attuazione della normativa vigente risente di una forte variabilità territoriale, che ha portato la Conferenza stato-regioni ad approvare nel 2011 il documento «Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle regioni e province autonome italiane» per uniformare le modalità di offerta di assistenza.

Poiché le prestazioni rivolte a Stp o Eni avvengono dietro pagamento di un ticket (tranne quelle di primo livello, urgenze, gravidanza, patologie esenti, ecc.), gli immigrati in gravi difficoltà economiche spesso rinunciano all’assistenza o si rivolgono a reti di assistenza parallela, presso il qualificato terzo settore, oppure, con rischi maggiori ed esiti incerti, presso la propria comunità. Per ovviare a ciò, il cittadino con codice Stp privo di risorse economiche può chiedere, a seguito di una sua dichiarazione, il codice X01, che vale solo per la specifica prestazione effettuata e va emesso di volta in volta.

Rinunce e difficoltà

Nonostante il divieto di segnalazione della condizione di irregolarità del paziente alle autorità competenti (salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, come per i cittadini italiani), molti immigrati (circa 1/3 degli intervistati in un’indagine condotta in vari paesi europei tra cui l’Italia) riferiscono di avere comunque timore di denuncia e di rinunciare perciò all’assistenza. Cinque su mille intervistati hanno riferito di avere rinunciato al ricovero ospedaliero, pur avendone avuto bisogno, perché impossibilitati a farlo, con una incidenza doppia nel Mezzogiorno.

Inoltre le difficoltà linguistiche possono costituire un grosso ostacolo all’accesso al servizio sanitario per gli immigrati. Il 13,8% di loro ha infatti dichiarato di avere difficoltà nello spiegare al medico i sintomi della propria malattia, il 14,9% a capire ciò che il medico dice.

Il 12,9% ha riferito di avere avuto difficoltà nello svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie per accedere alle prestazioni mediche. Il 16% degli stranieri dichiara di avere difficoltà ad effettuare visite ed esami medici per incompatibilità con gli orari di lavoro.

Per quanto riguarda gli atteggiamenti discriminatori, che possono condizionare l’accesso alle cure, il 2,7% degli stranieri ha dichiarato di avere subito discriminazioni in quanto tali, quando ha usufruito di prestazioni sanitarie.

Secondo i dati degli oncologi, gli immigrati che muoiono di tumore sono il 20% in più degli italiani con la stessa patologia tumorale, al punto che per favorire l’accesso alla diagnosi precoce è stata attivata la prima campagna di sensibilizzazione delle persone immigrate denominata «La lotta al cancro non ha colore», promossa da Aiom («Associazione italiana oncologia medica») e Fondazione Insieme contro il cancro. Secondo una ricerca della Caritas, il 36% delle immigrate non si è mai sottoposta a un Pap-test per il tumore della cervice uterina, il 54% delle cinesi non sa cosa sia una mammografia e la metà delle donne ucraine, filippine e latino-americane lamenta difficoltà nell’accesso al Servizio sanitario nazionale.

Le difficoltà di accesso alle cure sono ancora maggiori per i detenuti stranieri, che costituiscono oltre un terzo della popolazione detenuta in Italia, spesso a causa di un difficile rapporto di fiducia con gli operatori sanitari del carcere e per scarsa informazione circa i propri diritti.

Recentemente l’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un report Cost of exclusion from healthcare: The case of migrants in an irregular situation («Costo dell’esclusione dal servizio sanitario: il caso degli immigrati irregolari»), uno studio condotto in Grecia, Germania e Svezia, che mostra come aprire le cure sanitarie anche agli irregolari consenta un risparmio fino al 16% rispetto alla cura di ictus e infarti e fino al 69% rispetto alla cura di bambini nati sottopeso. Se l’accesso alla medicina preventiva fosse uguale per tutti, ciò comporterebbe accessi ridotti al pronto soccorso (es. la Lombardia dà accesso alle cure agli immigrati solo attraverso il pronto soccorso) e costi minori di gestione di una patologia conclamata e più complessa da trattare. Molti pazienti del Nord Africa scoprono di essere affetti da diabete solo al pronto soccorso, quando i sintomi sono gravi, mentre basterebbe un semplice esame del sangue preventivo periodico.

La risposta

Alla luce di quanto visto finora possiamo rispondere alla domanda, da cui eravamo partiti, sulla possibilità che gli immigrati rappresentino un rischio per la nostra salute.

Ebbene, poiché molti immigrati tendono a vivere in comunità chiuse, già solo per questo raramente sono causa di epidemie nella popolazione autoctona. Le minoranze etniche non costituiscono un rischio rilevante per le comunità che le ospitano, in termini epidemiologici, ma eventualmente per i piccoli gruppi con cui hanno contatti regolari. È chiaro che la facilitazione del loro accesso al Servizio sanitario nazionale da un lato riduce notevolmente il rischio di diffusione delle malattie tra di loro e nella popolazione ospite e dall’altro riduce i costi sanitari della nazione d’accoglienza.

Rosanna Novara Topino
(seconda parte – fine)

 




Migranti nuovi untori


Tubercolosi, epatiti, scabbia, Hiv, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia. L’elenco delle patologie è lungo. Il quesito è: sono in aumento (anche) a causa dell’arrivo dei migranti? Cosa accadeva quando i migranti eravamo noi?

L’ultimo immigrato è sempre il peggiore. L’ondata di migranti che arriva sulle coste italiane e sui confini europei genera nelle popolazioni residenti mille preoccupazioni e spesso senso di rifiuto. Esattamente come accadde, tra la metà del XIX secolo e la metà del XX secolo, alle masse di emigranti che lasciarono l’Europa e l’Italia. Circa 25 milioni si sparsero in tutti i continenti e gli Stati Uniti, insieme a Argentina e Brasile, furono tra le mete principali, come si evince dai registri di Ellis Island, la piccola isola posta nella baia dell’Hudson davanti a New York, che, tra il 1892 ed il 1954, divenne il principale punto d’ingresso negli Usa. Qui i migranti venivano sottoposti a umilianti ispezioni mediche e poliziesche, prima di ottenere il visto d’ingresso nella nazione. Mentre fino al 1875 l’ingresso negli Usa era libero, successivamente furono poste restrizioni. Nel 1891 venne promulgato il Federal Act, che prevedeva l’esclusione degli «idioti», dei malati (soprattutto quelli contagiosi), dei poveri e di tutti quelli che potevano rappresentare un carico per la società. Non potevano inoltre entrare donne gravide non sposate (per timore che fossero prostitute), criminali, poligamici e lavoratori a contratto. A Ellis Island, dopo una prima rapida visita medica fatta in circa 6 secondi, in cui si controllava tra l’altro la presenza di tracoma con l’uso di uncini per rivoltare le palpebre, le persone giudicate non idonee venivano marchiate e fermate per ulteriori approfondimenti. Poteva seguire un periodo di ricovero più o meno lungo (la quarantena), oppure direttamente l’espulsione. In questo caso le navi, che avevano trasportato i migranti avevano l’obbligo di riportarli ai paesi d’origine. Chi superava la visita medica veniva poi sottoposto ad accertamenti per escludere pregressi guai giudiziari. In pratica gli accertamenti medici dovevano stabilire che chi entrava potesse aumentare validamente la forza lavoro necessaria al progresso della nazione e non fosse portatore di malattie contagiose pericolose per i residenti.

La stessa preoccupazione che, in questi anni, assale molti alla vista dei migranti che raggiungono l’Italia o altri paesi europei. Le domande a cui cercheremo di dare risposta sono dunque le seguenti: i migranti sono un pericolo per la nostra salute? Essi sono davvero portatori di malattie infettive, che potrebbero generare un’emergenza sanitaria per l’Italia e l’Europa? Le paure sono giustificate?

Paure e opportunismo politico

Nell’estate del 2015, alcuni comuni del savonese con giunte di centrodestra, tra cui Alassio, emisero ordinanze per impedire l’ingresso degli stranieri senza fissa dimora e privi di certificato medico attestante l’assenza di malattie infettive trasmissibili quali Hiv, tubercolosi, ebola, scabbia. Il Viminale chiese prontamente la revoca di tali provvedimenti. Per non parlare di quanto avvenne ad Asotthalom, un comune ungherese al confine con la Serbia, guidato da un sindaco appartenente a un partito di ultradestra, antisemita e anti Ue. Qui, l’estate scorsa, alle stazioni dei bus vennero affissi manifesti recanti avvisi e foto shoccanti, in cui si dichiarava che i migranti sono portatori di malattie infettive, per cui esisterebbe un reale pericolo di contagio, e si invitava a non toccare oggetti lasciati dai migranti senza guanti di protezione. In caso di contatto accidentale con tali oggetti e in presenza di sintomi come diarrea, vomito, esantemi cutanei, si raccomandava di contattare prontamente un medico. Oltre alle autorità municipali, tale avviso venne firmato anche da un rappresentante locale del governo di Budapest.

Le patologie

Leggendo il rapporto del 2014 dell’Ecdc (European Center for Disease Control) dal titolo «Valutazione del carico delle malattie infettive nella popolazione di immigrati nell’Unione Europea», ci si rende conto che, pur essendo presenti tra i migranti casi di malattie infettive, il maggiore pericolo che ne deriva per la nostra comunità è rappresentato dalla difficoltà di accesso alle cure per queste persone, con conseguente possibilità di contagio per patologie non curate. Questo rapporto ha preso in considerazione le più diffuse malattie infettive sia tra i migranti che nelle popolazioni ospitanti ed è basato sull’analisi di dati del sistema europeo di sorveglianza delle malattie infettive (European Surveillance System, Tessy), su una revisione della letteratura e su una indagine condotta da una rete di esperti selezionati in tutti i paesi Ue. In particolare il rapporto si è occupato di Hiv, tubercolosi, epatite B e C, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia, malaria e malattia di Chagas. Proviamo a dae un breve quadro.

Hiv – Tra il 2007 e il 2011, i migranti rappresentavano il 39% di tutti i casi di sieropositivi presenti sul territorio. In questo intervallo di tempo, l’incidenza di nuovi casi di Hiv è aumentata debolmente. Le popolazioni di migranti con maggiore incidenza sono state quelle latinoamericane e quelle dell’Europa centrale e dell’Est, mentre quelle dell’Africa subsahariana hanno dimostrato una diminuzione. Il 92% dei casi di Hiv tra i migranti è stato riscontrato negli stati dell’Europa occidentale e la maggior parte di essi riguardava persone provenienti dall’Africa subsahariana. Un elevato numero di casi di Hiv era dovuto a rapporti eterosessuali. Il modo predominante di trasmissione dell’Hiv tra i migranti tuttavia dipendeva dal paese d’origine. Per esempio, esiste un’alto numero di casi dovuti a rapporti omosessuali tra gli uomini latinoamericani. Il rapporto evidenzia inoltre che certe popolazioni di migranti sono a rischio di contrarre l’Hiv dopo il loro arrivo in Europa. Non si tratterebbe quindi di casi di «importazione», ma di migranti suscettibili a contrarre l’infezione una volta arrivati nell’Ue, probabilmente a causa di comportamenti a rischio e mancanza di modelli di prevenzione. La diagnosi tardiva di Hiv per i migranti è una questione chiave in alcuni paesi dell’Ue. Inoltre queste persone spesso presentano meno indicatori clinici e immunologici al momento della diagnosi, rispetto ai casi di Hiv europei. L’età media degli immigrati con sieropositività è di 32 anni. Circa il 35% degli immigrati Hiv positivi è di origine nigeriana, ma se si considera il tasso standardizzato (che tiene conto della distribuzione della popolazione per età, ndr) il paese di provenienza più rappresentato è il Camerun. Il 78% di nuove diagnosi in Italia riguarda stranieri irregolari. Le principali co-diagnosi registrate con la diagnosi di Hiv sono anemia, epatopatie, infezioni dell’apparato genitale e mutilazioni genitali femminili.

Tubercolosi – La maggioranza dei casi di tubercolosi (Tb) in Europa si riscontra tra le popolazioni native. Tuttavia questa patologia viene frequentemente riscontrata anche tra i migranti. La percentuale di casi di tubercolosi tra i migranti ha avuto un aumento dal 10% nel 2000 al 25% nel 2010. Vi sono però significative differenze nel numero di migranti colpiti, a seconda del paese ospitante. Nel 2011, nazioni come Cipro, Islanda, Olanda, Norvegia, Svezia e Regno Unito hanno registrato fino a più del 70% di casi di tubercolosi fra i migranti, mentre altri paesi hanno registrato pochi o nessun caso. Il picco di questa patologia si verifica per la classe di età 25-34 anni, la più rappresentata nei paesi ospitanti. Sicuramente, e questo riguarda tutte le patologie prese in esame, esiste un certo grado di sottonotifica della malattia e inoltre la frammentarietà dei dati varia tra i diversi gruppi etnici, per via della percentuale di immigrati irregolari nelle diverse comunità. Il rischio di sviluppare la tubercolosi è maggiore nei primi due anni dalla data di arrivo. I dati del Sistema di notifica italiano mostrano come fino al 2007 i casi di tubercolosi tra i migranti insorgevano prevalentemente entro i primi due anni di permanenza in Italia, mentre dal 2008 c’è stata un’inversione di tendenza, con un aumento dei casi insorti a cinque anni e oltre dall’arrivo. In generale, sebbene l’incidenza della tubercolosi sia diminuita negli ultimi anni, la popolazione immigrata presenta un rischio relativo di contrarre la malattia 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione italiana e a quella della maggior parte dei paesi europei.

Trattamento Tb – La proporzione di casi di Tb trattati con successo a 12 mesi dall’inizio della malattia risulta inferiore per i migranti rispetto ai nativi. In Italia i casi di tubercolosi tra gli immigrati sono aumentati considerevolmente, passando dal 10% delle notifiche nel 1995 al 58% nel 2012. Secondo i dati dell’Oms, nel 2014 in Italia sono stati notificati 3.600 casi di tubercolosi totali, con 290 decessi, di cui 31 pazienti Hiv positivi. Il tasso d’incidenza stimato è stato pari a 6 casi su 100.000 abitanti, valore che pone l’Italia tra i paesi a più bassa incidenza per la tubercolosi. Uno studio condotto sulla frequenza di nuovi casi di Tb nella popolazione straniera non ha registrato un aumento dei tassi di incidenza (il conteggio annuale dei nuovi casi di una determinata patologia, ndr) della patologia, indicando che l’aumento dei nuovi casi sarebbe da ascriversi alla crescita degli stranieri in Italia. Questo dato dovrebbe contribuire a ridimensionare la preoccupazione riguardante la diffusione della tubercolosi in forma epidemica. Tuttavia sono talora segnalate delle criticità nella gestione dei pazienti e nella loro accessibilità ai servizi socio sanitari. In particolare alcuni studi hanno evidenziato una perdita al follow up (i controlli medici successivi alle terapie, ndr) superiore tra gli stranieri che tra gli italiani. Inoltre, gli immigrati hanno spesso dimostrato una bassa adesione ai protocolli terapeutici sia per la loro elevata mobilità, sia per difficoltà di comunicazione con gli operatori sanitari. Le barriere culturali e linguistiche spesso giocano un ruolo particolarmente importante nei confronti di una patologia come la tubercolosi, che richiede trattamenti di lunga durata in soggetti spesso asintomatici. Ci sono poi gli immigrati irregolari, che possono sfuggire ai sistemi di sorveglianza per timore di essere espulsi. Tutto questo potrebbe provocare un incremento di forme resistenti ai farmaci, sul nostro territorio, del mycobacterium tuberculosis, il micobatterio della tubercolosi. In Europa i migranti colpiti da tubercolosi provengono soprattutto dall’Asia e dall’Africa, oltre che da altre regioni europee. In Italia, le nazioni di origine più rappresentate tra gli affetti da Tb sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio, Eritrea, Nigeria, Bangladesh e Romania. I dati a nostra disposizione dimostrano che la malattia colpisce i migranti a un’età inferiore rispetto a quella dei nativi, che la possibilità di contrarre forme di «Tb extrapolmonare» (che colpisce organi diversi, ndr) è doppia tra i migranti, mentre tra loro è meno comune la «Tb multi-resistente» (agli antibiotici, ndr).

Coinfezione Hiv/Tb – Ciò che è emerso dagli studi è che l’immigrato proveniente da paesi ad alta endemia di Tb e Hiv ha un elevato rischio di sviluppare una o entrambe le malattie, una volta giunto nel paese ospitante. La migrazione costituisce infatti di per sé un fattore di rischio per il cambiamento dello stile di vita a cui vanno incontro queste persone, caratterizzato da precarie condizioni socio economiche e sistemazione in luoghi spesso particolarmente sovraffollati e privi di ogni genere di comfort. L’attiva ricerca di nuovi farmaci per contrastare l’Hiv si contrappone all’innovazione di una terapia antitubercolare stabile da più di mezzo secolo. Inoltre l’infezione da Hiv rappresenta il maggiore fattore di rischio di sviluppo della tubercolosi in soggetti con Tb latente. Infatti il rischio di sviluppo della Tb è da 20 a 37 volte maggiore tra i sieropositivi, rispetto ai sieronegativi da Hiv. Si stima che più di un milione di persone nel mondo abbiano una coinfezione Hiv/Tb, soprattutto nell’Africa subsahariana e in Asia. I dati italiani dimostrano un’elevata cutipositività alla tubercolina (test atto a scoprire i soggetti infettati dal bacillo, ndr) tra gli immigrati al momento dell’arrivo nel nostro paese, indice di pregressa infezione. Sulla base di questi dati si può ipotizzare che lo sviluppo della malattia sia conseguenza, nella maggior parte dei casi, di riattivazione di pregresse infezioni allo stato latente. Dal momento che la maggior parte degli episodi di malattia si manifesta precocemente, si può ipotizzare il ruolo primario delle condizioni socio economiche dei migranti, particolarmente sfavorevoli nel primo periodo di migrazione.

Gonorrea e sifilide – I dati relativi ai migranti colpiti da queste due malattie veneree sono disponibili solo in poche nazioni europee e sono spesso incompleti. Facendo un confronto con i dati delle popolazioni autoctone, si osserva che, nel 2010, l’11% dei casi di gonorrea ha riguardato i migranti, contro il 50% dei casi nei nativi, mentre si sono riscontrati casi di sifilide nel 7,3% dei migranti e nel 55,4% dei nativi. Tra il 2000 ed il 2010, la percentuale di casi di gonorrea e sifilide tra i migranti è rimasta stabile. Tuttavia, per quanto riguarda la gonorrea, il rapporto maschi/femmine per i nativi colpiti dalla malattia è rimasta stabile, mentre per i migranti sono aumentati i casi di donne malate. I dati a disposizione suggeriscono che i migranti acquisiscono la gonorrea con i rapporti eterosessuali quattro volte più facilmente che con quelli omosessuali. La percentuale dei casi di gonorrea tra i «lavoratori del sesso» è decisamente superiore tra i migranti, che tra i nativi ed appare significativamente in aumento dal 2006. Per quanto riguarda la sifilide, essa viene contratta maggiormente con i rapporti eterosessuali dai migranti e con quelli omosessuali dai nativi.

Epatite B – Nel 2011, 18 nazioni europee hanno fornito dati relativi ai casi di epatite B tra i migranti per il 39,1% di tutti i casi riportati all’Ecdc. Di questi ultimi, più della metà, cioè il 52,6%, erano casi «importati». Il 6,3% di questi casi era di tipo acuto e l’81,5% di tipo cronico. I dati a disposizione dimostrano una prevalenza di casi di epatite B cronica tra i migranti, rispetto ai nativi. Inoltre si evince che la prevalenza dei casi di epatite è maggiore tra i migranti provenienti da paesi ad alta endemia come quelli dell’Europa dell’est, dell’Asia e dell’Africa subsahariana. Mentre i casi di epatite B tra gli europei si riscontrano più frequentemente in gruppi a rischio come gli omosessuali ed i consumatori di droghe per via endovenosa, i casi tra i migranti sono stati più frequentemente acquisiti nei paesi d’origine, spesso con trasmissione verticale madre-figlio.

Epatite C – Sebbene i dati a disposizione al riguardo siano molto frammentari, essi suggeriscono una prevalenza di infezioni croniche tra i migranti. I dati provenienti da Francia, Regno Unito, Spagna e Olanda suggeriscono una prevalenza dei casi di epatite C soprattutto tra i migranti provenienti da paesi in cui la malattia è endemica, rispetto alla popolazione totale. Al momento tuttavia i dati a disposizione sono insufficienti per valutare il trend.

Morbillo e rosolia – Dei 10.271 casi di morbillo riportati nel 2013 dal sistema Tessy, solo il 2,7% erano «importati» e lo 0,3% correlati a migranti. I dati a disposizione suggeriscono che i figli dei migranti si ammalano di morbillo più facilmente di quelli degli europei perché la loro copertura vaccinale è inadeguata.

Per quanto riguarda la rosolia, dei 201 casi riportati dal Tessy nel 2011, l‘8,5% è risultato di «importazione». Anche in questo caso il maggiore fattore di rischio è rappresentato dalla vaccinazione inadeguata tra i migranti, in particolare tra le migranti gravide.

Malaria – Il 99% dei casi di malaria riportati dai paesi europei sono di «importazione». I casi indigeni in Europa potrebbero essere dovuti alla presenza dei vettori della malattia e a favorevoli condizioni di trasmissione della medesima, combinate con l’arrivo e il rapido tu over dei lavoratori stagionali migranti da zone dove tale malattia è endemica. In una serie di studi, gli immigrati da poco tempo e quelli che periodicamente tornano nel loro paese d’origine rappresentano dal 5% all’81% del totale dei casi di malaria registrati in Europa. In particolare coloro che spesso tornano nel loro paese d’origine hanno dimostrato una maggiore suscettibilità all’acquisizione della malaria. Tra costoro, le persone più a rischio sono le donne gravide ed i bambini. Anche il paese d’origine influenza il profilo della malattia. La malaria dovuta al Plasmodium falciparum, ad esempio, si sviluppa principalmente in migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Malattia di Chagas – Nota anche come tripanosomiasi americana, è una parassitosi, causata dal protozoo Trypanosoma cruzi. I vettori sono insetti appartenenti alla sottoclasse delle cimici ematofaghe di generi diversi. È presente in Europa a seguito della migrazione da paesi latinoamericani, in cui è endemica. Sebbene la malattia non sia sistematicamente monitorata nelle nazioni europee, tuttavia il numero di casi è aumentato nell’ultimo decennio, al punto da destare preoccupazione. Spagna, Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Olanda sono le nazioni più colpite.

 

Ebola – Dato l’elevato grado di letalità di questo virus, che ha un periodo d’incubazione di 21 giorni e che, dopo avere provocato una malattia estremamente debilitante, uccide in pochi giorni e in considerazione della lunghezza temporale delle migrazioni, che normalmente durano mesi, è estremamente improbabile che qualche persona colpita riesca a raggiungere l’Europa. Infatti finora non sono stati segnalati casi di Ebola tra i migranti.

Dall’analisi dei dati dell’Ecdc risulta che i migranti normalmente non sono portatori di malattie esotiche, ma solitamente sono persone partite sane dai paesi d’origine, che però si trovano ad avere necessità di assistenza sanitaria per malattie dovute alle nuove condizioni esistenziali.

Da Manzoni ai giorni nostri

Fatte queste premesse, nella prossima puntata cercheremo, tra l’altro, di rispondere a un quesito che la quotidianità e certa politica ci propongono: gli immigrati sono i nuovi «untori» di manzoniana memoria?

Rosanna Novara Topino

(fine prima parte)




Non solo fumo

 


La cannabis, nella storia, ha sempre curato le malattie dell’uomo. Nell’era moderna è stata messa al bando, ma da alcuni anni le sue proprietà terapeutiche sono state rivalutate. E le leggi italiane iniziano ad adeguarsi.

La storia della cannabis o canapa (cannabis sativa) si intreccia con la storia dell’uomo, al punto tale che l’uso di questa pianta è più antico della scrittura. Le sue origini si collocano dopo l’ultima glaciazione nell’Asia centrale, da dove è riuscita a colonizzare tutto il pianeta. La canapa, coltivata in Asia da migliaia di anni è stata a lungo utilizzata nell’alimentazione e per ricavarne fibra tessile. La prima Bibbia a caratteri mobili venne stampata da Gutenberg su carta di canapa e lino.

Questa preziosa pianta è ben nota da migliaia di anni anche per le sue proprietà psicoattive e per le sue virtù terapeutiche. Per quanto riguarda queste ultime, la prima citazione dell’uso della cannabis a scopo terapeutico si trova in un testo tradizionale della medicina cinese, il Shen Nung Ben Ts’ao, che sarebbe stato composto nel 2.737 a.C. dal fondatore della scienza medica cinese, l’imperatore Shen Nung. Qui si trovano indicazioni sull’uso della pianta per la cura dei dolori di origine reumatica e gottosa, dei disturbi ginecologici e della malaria. I chirurghi cinesi impiegavano inoltre la cannabis come anestetico.

Oltre alla pianta della canapa, in Cina venivano utilizzati per scopi medici i suoi semi, come antiemetici, nelle intossicazioni e nei casi di dismenorrea, mentre l’olio e il succo da essa ricavati erano diffusamente utilizzati nella cura delle malattie della pelle, delle ulcere, delle ferite e della lebbra.

L’uso a scopo terapeutico della cannabis è riportato anche in diversi manuali di medicina ayurvedica, la medicina induista tradizionale. In India la cannabis era usata per stimolare l’appetito e per curare la lebbra.

Nell’antica Roma, la cannabis per uso medico venne introdotta nel primo secolo d.C. e le sue proprietà vennero descritte da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, da Dioscoride, scienziato e medico, nel suo De materia medica, e da Galeno, uno dei più importanti medici dell’epoca antica, che utilizzò questa pianta per il trattamento di varie patologie e che produsse la tintura galenica di canapa, la quale venne utilizzata per secoli in varie parti del mondo come analgesico e anestetico. Galeno descrisse le proprietà della cannabis e di oltre 600 tipi di piante e di altri rimedi naturali nel trattato De natura medica, che influenzò la medicina fino agli inizi del diciottesimo secolo.

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Fuori legge

Agli inizi del ventesimo secolo, diversi interessi economici come la produzione dei materiali sintetici derivati dal petrolio e lo sviluppo dei medicinali di sintesi, portarono all’introduzione negli stati occidentali di misure sempre più restrittive e orientate alla criminalizzazione della cannabis, vista solo come sostanza stupefacente. Questo determinò l’abbandono della canapa sia per la produzione di tessuti, che di rimedi farmacologici di origine naturale. Le coltivazioni di cannabis scomparvero in breve tempo e la pianta nel 1975 venne definitivamente messa al bando in tutte le sue varietà. Il clima di ostilità, che si sviluppò nel ventesimo secolo nei confronti della cannabis è ben rappresentato dal fatto che, negli Usa prima e nel resto del mondo occidentale poi, essa venne chiamata marijuana, termine che imita il vocabolo messicano marihuana, con cui viene designata la cannabis, usata come sostanza stupefacente in Messico. La demonizzazione della cannabis per molto tempo dissuase buona parte del mondo scientifico dalla conduzione di ricerche approfondite su di essa, dal momento che gli scienziati che se ne fossero occupati avrebbero rischiato la propria reputazione, per cui fino a metà del secolo scorso era ancora sconosciuto il suo principio attivo.

Finalmente un chimico organico israeliano, Raphael Mechoulam, ebbe il coraggio di intraprendere questo studio, e nel 1964 riuscì a isolare il principale principio attivo della cannabis, cioè il delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc), la sostanza con proprietà psicoattive. In seguito Mechoulam e la sua equipe riuscirono a isolare molte altre sostanze dalla cannabis, tra cui un altro componente cruciale, il cannabidiolo (Cbd), capace di modulare l’attività del tetraidrocannabinolo prolungandone l’azione e limitandone gli effetti collaterali. Questo non è il componente psicoattivo, ed è quindi senza effetti sul cervello. Questa sostanza ha una certa efficacia come anticonvulsivante, sedativo e analgesico, aiuta a contrastare il diabete, le infezioni batteriche e i tumori maligni, serve a proteggere i nervi e ha effetti documentati contro le psicosi e gli stati d’ansia. Oggi sono oltre 600 le sostanze derivate dalla cannabis e appartengono alle famiglie dei cannabinoidi, dei flavoni e dei terpeni.

Una foglia, molte proprietà

I cannabinoidi sono più di 60. Oltre ai due già citati, sono importanti: la tetraidrocannabivarina, che accelera il raggiungimento dello stato euforico, ma ne diminuisce di molto la durata e sembra utile per combattere il diabete di tipo II, oltre ad avere mostrato un effetto preventivo contro i tumori maligni; la cannabicromina, che sembra capace di combattere gli stati di depressione e le infiammazioni e ha mostrato un effetto inibitore nei tumori al seno e nella leucemia. L’industria farmaceutica ha prodotto diversi cannabinoidi sintetici, ma questi sembrano mostrare minore efficacia e maggiori effetti collaterali rispetto ai derivati naturali. L’equipe di studiosi israeliani, non solo riuscì a scoprire i principi attivi della cannabis, ma nel 1992 riuscì a isolare la sostanza prodotta dal corpo umano che si lega agli stessi recettori del tetraidrocannabinolo, a cui dette il nome di anandamide, dal termine sanscrito ananda, che significa «gioia suprema», il primo endocannabinoide scoperto.

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Leggeri effetti collaterali

In pratica il sistema degli endocannabinoidi regola l’assorbimento energetico del nostro organismo, il movimento dei nutrienti, il loro metabolismo e la loro conservazione. Gli endocannabinoidi regolano diverse funzioni del sistema nervoso, dell’apparato cardiovascolare, del sistema riproduttivo e del sistema immunitario. Inoltre essi aiutano il nostro sistema nervoso a comunicare, funzionando da messaggeri tra una cellula e l’altra.

Le sostanze ricavate dalla cannabis, in primis il delta-9-tetraidrocannabinolo, avendo la capacità di legarsi agli stessi recettori degli endocannabinoidi, possono risultare di estrema utilità nella cura di un numero importante di patologie, senza i pesanti effetti collaterali di molti farmaci di sintesi. Tra le patologie per le quali esistono evidenze incontrovertibili dell’efficacia dei derivati della cannabis ci sono il trattamento della nausea in chemioterapia e la stimolazione dell’appetito nei pazienti con sindrome da deperimento Aids-correlata.

Ci sono poi patologie per cui esistono promettenti evidenze preliminari di efficacia dei derivati della cannabis, per le quali sono necessarie sperimentazioni cliniche controllate, cioè: sclerosi multipla, terapia del dolore, sindrome di Gilles de la Tourette, glioblastoma, artrite reumatornide, glaucoma, epilessia, ictus e traumi cranici, prevenibili grazie agli effetti neuro protettivi e antiossidanti.

Infine c’è un gruppo di patologie per le quali esistono evidenze di efficacia meritevoli di ulteriori approfondimenti, che sono: lesioni midollari (paraplegia, tetraplegia), malattie neurodegenerative (distonie, Parkinson, corea di Huntington, Alzheimer), asma bronchiale, malattie autornimmuni e patologie infiammatorie croniche (lupus eritematoso, morbo di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi), sindromi ansioso-depressive e altre sindromi psichiatriche, patologie cardiovascolari, sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze, prurito intrattabile, tumori.

Gli effetti collaterali sono gli stessi per tutti i farmaci a base di cannabinoidi e dipendono dalla dose e dalla condizione psicofisica del paziente, ma solitamente scompaiono nel giro di poche ore. Tra i più comuni ci sono le temporanee alterazioni dell’attività psichica (euforia, sedazione, ansia, alterata percezione del tempo, depressione, prestazioni cognitive diminuite) e motoria (debolezza muscolare), accelerazione della frequenza cardiaca, ipo salivazione, labile stabilità ortostatica. Non sono noti casi di morte riconducibili all’uso di cannabis.

Nuove leggi

Negli ultimi anni sono sempre di più i paesi che, mediante leggi meno restrittive, hanno consentito l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dalla cannabis. In Italia, il decreto Dm 18 aprile 2007, che prevedeva l’aggiornamento delle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope, ha stabilito l’inserimento nella sezione B della tabella Medicinali, di almeno tre sostanze derivanti dalla cannabis. Inoltre il Dm 23 gennaio 2013 ha disposto l’inclusione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture) nella sezione B. Questo significa che anche il medico di base può prescrivere cannabis e derivati per trattamenti domiciliari. I costi della cura non sono a carico del paziente, ma del sistema sanitario regionale, grazie a una legge regionale adottata da Sicilia, Abruzzo, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Lombardia e Piemonte, non ostacolata dal governo, che però ha ribadito che i farmaci in questione vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

View of a marijuana plant, part of the weed plantation with 18,000 plants who has been found in a forest, near the German border, in Reuver, The Netherlands, on August 26, 2014. The street value of 18,000 plants fluctuates around 20 million euros. AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN ***netherlands out*** / AFP / ANP / MARCEL VAN HOORN
AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN

Italia, un passo indietro

Esiste però un problema rappresentato dal fatto che l’utilizzo dei farmaci a base di cannabis e derivati è ancora particolarmente difficoltoso per la quasi totale assenza sul mercato italiano di prodotti registrati e materie prime. Finora, in Italia, un solo prodotto cioè il Sativex, ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio, ma è stato inserito in classe H, quindi è disponibile solo presso gli ospedali. Per tutti gli altri prodotti a base di cannabis e derivati, è necessario ricorrere all’importazione dall’estero. Tali prodotti possono essere utilizzati sul territorio nazionale importandoli direttamente, oppure acquistandoli tramite alcune aziende italiane, che sono state recentemente autorizzate al commercio all’ingrosso di preparazioni vegetali a base di cannabis. L’acquisto di medicinali registrati all’estero non deve gravare su fondi pubblici, tranne nel caso che l’acquisto venga richiesto da una struttura ospedaliera, per l’impiego in ambito ospedaliero.

La Regione Piemonte il 15 giugno 2015 ha però approvato la legge regionale n. 11, la quale prevede, rispetto alla normativa nazionale, che quando la terapia a base di medicinali cannabinoidi e preparazioni galeniche magistrali avviene in ambito domiciliare, la spesa per tale terapia sia a carico del servizio sanitario regionale. Questa legge definisce inoltre la possibilità di centralizzare acquisti, stoccaggio e distribuzione dei farmaci alle farmacie ospedaliere abilitate territoriali, dove il cittadino può accedere gratuitamente ai trattamenti prescritti, in modo da ridurre la spesa pubblica.

Per ridurre i costi dell’importazione dei farmaci cannabinoidi è stato approvato nel 2014 un progetto di produzione in Italia presso lo stabilimento farmaceutico militare toscano, ma al momento quest’ultimo non ha ancora reso disponibili questi farmaci.

Medicina sì, fumo no

In Italia oggi, il via libera alla cannabis per uso medico non significa libera coltivazione della pianta, né libero consumo con il fumo di preparazioni vegetali. Non va dimenticato che l’assunzione degli stessi principi attivi attraverso il fumo comporta un’assunzione di dosaggi non riproducibili e non prevedibili, poiché dipendenti da diverse variabili individuali e ambientali, senza alcun vantaggio terapeutico, ma con il rischio di una progressiva riduzione delle capacità cognitive e, negli adolescenti, di un’aumentata predisposizione all’insorgenza di malattie psichiatriche. Secondo recenti studi, la cannabis, se usata in questo delicato periodo, può alterare lo sviluppo cerebrale, riducendo la formazione di solchi e di circonvoluzioni della corteccia cerebrale e lo spessore di quest’ultima.

Rosanna Novara Topino

 




Nulla si salva Allattamento e seno femminile (seconda parte)

(Nulla?si?salva) … dall’inquinamento. Neppure il latte materno. Nel corpo umano entrano decine di composti estranei («xenobiotici») che producono gravi conseguenze, fin dalla gravidanza. Le statistiche fotografano una situazione preoccupante: in Italia il tasso di tumori infantili è quasi il doppio degli altri paesi europei.

 


Il modello di sviluppo della nostra società ha portato a
grandi vantaggi economici (per qualcuno), ma ha causato una tale dispersione
ambientale di contaminanti chimici che probabilmente non c’è più ecosistema al
mondo che non ne sia interessato. L’inquinamento ambientale è causa di
molteplici patologie, che interessano una parte rilevante della popolazione,
tra cui i bambini. Questi ultimi sono particolarmente vulnerabili; in
particolare, durante la fase dello sviluppo prenatale l’esposizione a sostanze
chimiche avviene attraverso il sangue placentare. Tuttavia è importante anche
quella postnatale, in cui i contaminanti chimici giungono al bambino attraverso
il latte materno, il latte artificiale e gli alimenti successivi. Si stima che
le sostanze chimiche (prodotte dall’uomo e disperse nella biosfera e nella
catena alimentare), rintracciabili nel corpo umano – sostanze dette «xenobiotici»,
composti estranei all’organismo -, siano oltre 300. Diversi xenobiotici sono
liposolubili e la loro presenza può essere rilevata e misurata in diverse
matrici biologiche come sangue, siero, urina, sperma, cordone ombelicale e
latte materno. La consapevolezza di potere trasmettere sostanze tossiche
(potenzialmente molto pericolose) al proprio figlio può indurre una madre a
sospendere l’allattamento. Si tratta però di una decisione sbagliata. È infatti
scientificamente provato da diversi studi che, pur in presenza di contaminanti
chimici, l’allattamento al seno è da preferirsi per diversi motivi all’uso del
latte artificiale. Innanzitutto il latte materno contiene sostanze protettive,
che aiutano lo sviluppo neuromotorio, cognitivo e del sistema immunitario e può
pertanto mitigare gli effetti avversi di una precedente esposizione in utero,
cosa che il latte artificiale non può fare. Quest’ultimo, inoltre, può essere
contaminato come e anche più del latte materno, visto che i latti in formula
vengono preparati a partire da latte vaccino, spesso fortemente contaminato da
inquinanti ambientali. Bisogna inoltre considerare che anche gli oggetti
utilizzati nell’allattamento artificiale come biberon, tettarelle, pellicole di
materiale plastico per la conservazione del latte in polvere possono rilasciare
sostanze chimiche tossiche per il bambino e, al rischio chimico, può
aggiungersi quello biologico, dal momento che possono essere presenti cariche
batteriche già in fase di produzione del latte artificiale, oppure durante la
sua ricostituzione per effetto di un’errata preparazione, manipolazione o
conservazione.

Tra i principali inquinanti, rintracciabili nelle
matrici biologiche (e quindi anche nel latte materno), ci sono metalli come il
mercurio, il piombo, il nichel, l’arsenico ed il cadmio ed inoltre benzene,
idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi, ritardanti di fiamma, diossine,
furani e policlorobifenili (Pcb). La maggior parte di questi inquinanti entra
nella catena alimentare, quindi sono assorbiti dal corpo umano attraverso i
cibi. Altre vie d’ingresso sono la pelle e il sistema respiratorio. La loro
pericolosità raggiunge l’apice quando riescono a contaminare le cellule
germinali che danno origine a ovociti e spermatozoi, perché in tal caso possono
interferire con la salute delle future generazioni e non solo del singolo
individuo. Vediamo quali sono le principali patologie causate dagli xenobiotici
succitati.

Per quanto riguarda i metalli pesanti, mercurio, piombo, arsenico e cadmio sono
cancerogeni, procancerogeni e tossici per il sistema nervoso, con effetti sullo
sviluppo cognitivo e sull’intelligenza. Il mercurio causò il famoso disastro di
Minamata in Giappone negli anni ’50. Venne rilasciato metilmercurio nelle acque
reflue dell’industria chimica Chisso Corporation. Esso contaminò pesci e
crostacei nella baia di Minamata (da cui prende il nome l’omonima sindrome),
entrando nella dieta delle gestanti. A seguito di ciò nacquero bimbi con
gravissime lesioni cerebrali e danni permanenti a vista, udito ed arti. La
principale fonte di mercurio è quindi l’alimentazione a base di pesce
contaminato.

Il piombo è classificato dalla Iarc  (Inteational Agency for Research on
Cancer
) come possibile cancerogeno (gruppo 2B) per l’uomo ed è inoltre
causa di una gravissima forma di anemia, il satuismo, oltre che di
ipertensione arteriosa e danno renale. Se assimilato in gravidanza, è associato
a lievi disturbi neurologici e comportamentali nell’infanzia. L’esposizione al piombo
può essere professionale (veici, batterie, esplosivi, costruzioni, miniere,
fonderie), domestica (ristrutturazioni, hobby come la colorazione dei soldatini
di piombo, uso di vecchio vasellame smaltato per alimenti), dovuta all’acqua
potabile trasportata in vecchie tubature di piombo oppure a vecchie otturazioni
dentarie a base di piombo.

L’arsenico può essere ingerito con acque di falda, dove
può trovarsi per cause naturali in quantità pericolose per la salute, oppure
per la presenza di pesticidi e fertilizzanti, che lo contengono. Anche il riso
coltivato in acqua contaminata può essere fonte di arsenico.

La fonte principale di cadmio è il fumo di sigaretta. I
metalli appena citati, se presenti nel sangue materno, possono attraversare la
placenta durante la gravidanza e danneggiare lo sviluppo del cervello in epoca
prenatale e nella prima infanzia. Il livello del mercurio nel cordone
ombelicale può essere 1,5 volte rispetto a quello nel sangue materno. La
contaminazione massima da metalli si ha alla nascita, poi i valori tendono a
diminuire, perché i metalli pesanti sono secreti solo in piccola quantità con
il latte materno, tanto che, con l’allattamento esclusivo al seno, nei primi 3
mesi i valori del mercurio nel sangue del neonato possono ridursi del 60%. Lo
stesso non avviene con i latti artificiali, che possono contenere quantità di
metalli pesanti superiori a quello materno già in partenza o per loro
ricostituzione con acqua contaminata, e che non offrono la stessa protezione di
quest’ultimo. È importante tenere presente che latti artificiali contaminati
con metalli pesanti sono stati trovati in Germania, Australia, Canada, Svezia e
Cina, mentre latte vaccino (con cui vengono preparati i latti artificiali)
contaminato è stato trovato in tutto il mondo.

Gli idrocarburi aromatici policiclici (Ipa), tra cui benzene, toluene,
benzo(a)pirene, naftalene, ecc. sono classificati dalla Iarc come cancerogeni
certi per l’uomo (classe 1). Essi sono sottoprodotti di combustioni incomplete,
tra 300°- 600° di temperatura, di materiale organico come sigarette, benzina,
cibo, rifiuti, quindi possono trovarsi nel fumo di sigaretta, nei cibi cotti
alla brace, nei gas di scarico degli autoveicoli, nel fumo dei caminetti, degli
inceneritori e di impianti industriali quali fonderie, acciaierie e
cementifici. Si trovano soprattutto nell’aria, ma anche in alcuni alimenti e
nelle fonti d’acqua (per caduta al suolo, dato che sono molecole pesanti),
quindi possono essere assimilati dal corpo attraverso la respirazione, la pelle
o per ingestione. Molti Ipa sono associati a danni al midollo osseo, ad
alterazioni ematiche, ad anomalie dello sviluppo fetale (ridotta crescita,
alterata formazione del sangue fetale, ritardata ossificazione), ad alterazioni
dello sperma, del sistema immunitario e a tumori, in primis leucemie. I bambini
possono essere esposti agli Ipa già in utero, attraverso la placenta e dopo la
nascita con il latte materno, con quello artificiale e con gli alimenti per
l’infanzia. Va tenuto presente che latti artificiali e prodotti per l’infanzia
possono arrivare a contenere Ipa in quantità 2-3 volte maggiore rispetto al
latte materno, senza fornire però analoga protezione. Molti Ipa si comportano
come interferenti endocrini, cioè possono interferire con il sistema endocrino
e quindi con gli ormoni responsabili dello sviluppo e di molte funzioni del
corpo, come il comportamento, la fertilità e la regolazione del metabolismo
cellulare.  Possono causare alterazioni
dell’apparato riproduttivo, con mascolinizzazioni delle femmine e
femminilizzazione dei maschi, alterazioni della pubertà, dei cicli mestruali e
della fertilità. Inoltre possono alterare lo sviluppo del cervello con
conseguenti problemi cognitivi, di apprendimento e difetti alla nascita. Gli
Ipa sono responsabili di varie forme di cancro, soprattutto degli organi
riproduttivi, ma non solo. Infine essi possono agire sulle cellule germinali,
compromettendo la salute delle generazioni future.

I pesticidi organoclorurati, tra cui il Ddt ed i loro metaboliti come l’esaclorobenzene
sono stati tra i primi residui chimici trovati nel latte materno, dove si
accumulano con estrema facilità, grazie alla loro lipofilia e al loro lungo
tempo di dimezzamento dovuto alla difficoltà di metabolizzarli e di eliminarli.
Pur essendo stati banditi in tutto il mondo dalla Convenzione di Stoccolma
sugli inquinanti organici persistenti (Pops o Persistent organic pollutants)
del 2004, essi sono ancora presenti in esseri umani e animali, sebbene in
diminuzione rispetto al passato. Anch’essi possono agire come interferenti
endocrini, sono cancerogeni e, in caso d’intossicazione acuta, possono causare
depressione respiratoria e del sistema nervoso, provocando la morte. La loro
concentrazione è superiore nel latte materno, rispetto ai latti artificiali e
altri alimenti.

Un discorso approfondito meritano diossine, furani e Pcb, per la loro estrema
pericolosità oltre che per la loro grande lipofilia e facilità di reperimento
nel latte materno.

Le diossine sono un gruppo di 210 composti organici
eterociclici, in cui sono sempre presenti carbonio, idrogeno, ossigeno e cloro.
La sostanza più tossica conosciuta è la Tcdd o
2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, detta «diossina di Seveso», in quanto liberata
nell’aria dal reattore della multinazionale svizzera la Roche nell’incidente
del 6 maggio 1976. La nube tossica che si formò determinò danni acuti e cronici
alle persone esposte. Recentemente sono stati pubblicati dati secondo cui i
figli di madri coinvolte nella loro infanzia in questo incidente presentano
alla nascita alterazioni della funzione tiroidea statisticamente significative.
Poiché questi neonati non sono stati direttamente esposti alla fuoriuscita di
diossina, ciò significa che le conseguenze hanno colpito la generazione
successiva  a quella esposta e sono
tuttora riscontrabili, a distanza di oltre 30 anni dall’incidente1. Sono molecole
particolarmente stabili e persistenti nell’ambiente con tempi di dimezzamento
variabili a seconda della molecola e a seconda della matrice esaminata; la Tcdd
si dimezza tra 7-10 anni nel corpo umano, mentre persiste nel sottosuolo fino a
100 anni. Sono sostanze insolubili in acqua, ma estremamente lipofile e
soggette a bioaccumulo e biomagnificazione, quindi si concentrano negli
organismi viventi in misura molto superiore a quella dell’ambiente circostante.
Esse vengono assunte dall’uomo per oltre il 90% attraverso l’alimentazione,
soprattutto con latte, carne, uova e formaggi. Queste molecole fanno parte degli
inquinanti organici persistenti banditi dalla Convenzione di Stoccolma. Le
diossine sono sottoprodotti involontari dei processi di combustione e si
formano a particolari temperature ed in presenza di cloro. In Italia le loro
fonti principali sono le combustioni industriali (64%), di cui oltre la metà
(37%) sono rappresentate dall’incenerimento di rifiuti solidi urbani. I Pcb o
policlorobifenili sono invece molecole prodotte volontariamente dall’uomo ed
usate sia in dispositivi elettrici, materiali plastici, tappeti, tessuti,
mobili come ritardanti di fiamma sia come antiparassitari fino al 1985, quando
sono stati banditi2. La tossicità di diossine, furani e Pcb è tale che
viene misurata in picogrammi (pg), cioè miliardesimi di milligrammo. Queste
molecole presentano una grande affinità per il recettore AhR (Aryl
Hydrocarbon Receptor
) largamente diffuso sia nelle cellule umane che in
quelle di vertebrati marini, terrestri ed aviari. Il recettore AhR sembra avere
un ruolo chiave per il normale sviluppo del sistema immunitario, vascolare,
emopoietico ed endocrino ed è coinvolto in molteplici funzioni cellulari
(proliferazione, differenziazione, morte cellulare programmata) e nella
regolazione del ritmo sonno-veglia. L’esposizione a queste molecole è correlata
allo sviluppo di tumori (linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone,
colon), a disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo
cerebrale, endocrinopatie (soprattutto diabete e malattie della tiroide),
disturbi polmonari, danni metabolici (aumento di colesterolo e trigliceridi),
epatici, cutanei e deficit del sistema immunitario. Inoltre l’esposizione pre e
postnatale può comportare ritardi nella crescita del feto e del neonato.

Poiché gli inquinanti descritti sono liposolubili, essendo il latte particolarmente
ricco di grassi, quello materno rappresenta un mezzo particolarmente idoneo per
la valutazione dell’inquinamento «in vivo», permettendo di stimare
l’esposizione presente e pregressa di una popolazione. Grazie alle misure di prevenzione
attuate in seguito alla Convenzione di Stoccolma è stata documentata in molti
paesi europei una diminuzione della presenza di diossine e simili nel latte
materno. Tuttavia i valori restano elevati, rispetto alla raccomandazione
dell’Oms, secondo cui non si dovrebbero superare assunzioni di diossina oltre i
2 pg/Kg di peso corporeo al giorno, quindi un uomo di 70 Kg dovrebbe assumee
al massimo 140 pg al giorno. Sono state eseguite analisi del latte materno su
puerpere di diversi paesi del mondo, abitanti sia in aree altamente
industrializzate, che rurali: in Germania sono state rilevate concentrazioni di
diossine/furani e Pcb tra 3,01-78,7 pg Teq3/g di grasso con valore medio pari a 27,27 pg; a Tokyo
il valore medio nel latte materno della concentrazione di queste molecole è
stato di 25,6 pg/g di grasso; in Cina è stato in media di 5,42 pg/g (range
2,59-9,92). Il latte prelevato nelle aree industriali è risultato sempre più
contaminato che nelle aree rurali.

Appare evidente l’assoluta necessità di monitorare
sistematicamente la situazione delle aree critiche del nostro paese,
soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia ha un incremento annuo dei
tumori infantili del 2% (circa il doppio degli altri paesi europei). Il fatto
che finora questo biomonitoraggio in Italia non sia mai stato effettuato sembra
non essere casuale, viste le attuali politiche di incenerimento e combustione
di biomasse e di rifiuti.

È fondamentale inoltre che le persone siano informate su
questi fatti, soprattutto chi ha figli. In Italia invece quasi non si parla di
latte materno contaminato.

Una società come la nostra, che non si preoccupa delle
ricadute sull’infanzia del proprio modello di sviluppo è, a dir poco,
dissennata.

Rosanna
Novara Topino

Note

1 – Queste molecole sono divise in due famiglie, cioè Pcdd (policloro-dibenzo-p-diossine) e Pcdf
(policloro-dibenzo-furani) e le diverse molecole appartenenti alle due famiglie
vengono definite «congeneri» (75 diossine e 135 furani).

2 – Sono 209 congeneri, di cui 12 molto affini alle diossine, detti perciò «dioxin-like».

3 – Con Teq si indica la «tossicità equivalente» dei diversi congeneri, paragonata a quella della Tcdd, la più
pericolosa, che per convenzione vale 1, mentre quella di tutti gli altri
congeneri è sempre inferiore a 1 ed è data dalla somma dei prodotti tra i
fattori di tossicità dei singoli congeneri per la loro concentrazione nelle
matrici in esame.

Italia: pochi dati  (e preoccupanti)

In Italia non sono mai stati fatti studi sistematici sul latte materno, ma sono disponibili solo dati relativi a due donne residenti
presso l’inceneritore di Montale (Pt), a tre presso l’Ilva di Taranto e ad una
presso l’area della dismessa Caffaro, industria produttrice di Pcb di Brescia*.
Queste persone si sono sottoposte spontaneamente alle indagini. Nei due casi di
Montale i valori riscontrati variavano tra 3,984-5,507 teq pg/g di grasso per
diossine/furani e tra 9,485-10,621 Teq pg/g di grasso per diossine/furani/Pcb.
A Taranto sono stati trovati valori di Teq diossine/furani/Pcb  di 31,37 pg, 26,18 pg e 29,40 pg/g di grasso.
A Brescia nell’unico campione esaminato sono stati rilevati ben 147 pg/g di grasso.

Poiché la componente grassa del latte materno è il 4%,
la dose di queste molecole introdotta quotidianamente da un bimbo di 5 Kg, che
assuma 800-1000 ml di latte al giorno varia da 80-90 a 500-600 fino a 1000 pg
di Teq al giorno, a seconda che abbiamo 3, 15 o 30 Teq pg/g di grasso. Nel caso
di Brescia si arriva a 6000 pg! Ricordiamo che la dose giornaliera raccomandata
dall’Oms è di 140 pg per un uomo adulto di 70 Kg.

* Dati della dottoressa Patrizia Gentilini, medico Isde («Associazione
medici per l’ambiente», www.isde.it).

 Rosanna Novara Topino



Latte materno (1)

Mi è capitato di sentire affermare da qualcuna
delle mie allieve, durante una lezione di anatomia e fisiologia della mammella,
che se avessero avuto un figlio non avrebbero mai voluto allattarlo.
Incuriosita, ne ho chiesto il motivo, che per lo più è risultato essere di
carattere estetico: la paura di perdere la linea. In alcuni casi ho invece
constatato qualche opposizione di tipo psicologico. In verità, allattare un
figlio al seno non solo è naturale, ma è il modo normale di nutrire un neonato
per un appartenente alla classe dei mammiferi, quale è l’essere umano. Eppure
l’idea dell’allattamento al seno non è così universalmente accettata. Del resto
basta dare un’occhiata alle riviste o alle trasmissioni in cui si parla di
qualche stella o stellina dello spettacolo appena diventata mamma, per
osservare che la donna in questione, a poca distanza dal parto, ha in genere
miracolosamente riacquistato un fisico da modella, viene fotografata a spasso
con il bebè, quasi mai però
nell’atteggiamento di allattarlo al seno. Anche alle bambine viene inculcata
l’idea che l’allattamento del neonato è qualcosa che passa attraverso un
biberon. Si pensi a tutti quei bambolotti-neonato muniti di corredino e
immancabile biberon con finto latte a scomparsa, per simulae lo svuotamento.
Per non parlare delle pubblicità di tettarelle, poppatorni di ogni forma,
scaldabiberon e di tutto quanto serve per l’allattamento artificiale, che fino
a qualche anno fa potevamo vedere ovunque. Da qualche tempo questa pubblicità
in Italia è quasi scomparsa, perché, nel 2011, è stata emanata una norma1 che vieta di pubblicizzare qualsiasi sostitutivo del
latte materno adatto all’utilizzo al di sotto dei 6 mesi d’età, limita la
pubblicità del latte di proseguimento o di altri alimenti per lattanti e prevede
sanzioni per le violazioni. La norma fa seguito ad altri due decreti
ministeriali del 2005 e del 2009, che avevano avvicinato la normativa italiana2, senza però prevedere sanzioni per le violazioni, a
quella degli altri paesi, aderenti al «Codice internazionale sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno». Quest’ultimo fu approvato
nel 1981 dall’Assemblea mondiale della salute (Ams) e in seguito fu
aggiornato con alcune risoluzioni. Tale codice venne fatto proprio dall’Unicef,
per cui spesso se ne parla come del Codice Oms/Unicef. Lo scopo del Codice è
quello di proteggere l’allattamento al seno dalla concorrenza dei sostituti del
latte materno e dall’enorme giro d’affari delle multinazionali produttrici sia
dei latti in formula e degli alimenti per l’infanzia, che degli oggetti in uso
per l’allattamento artificiale. Nonostante a tale codice abbiano formalmente
aderito anche le multinazionali suddette (e anzi abbiano partecipato
attivamente con i loro rappresentanti alla sua stesura, in modo da difendere il
più possibile il loro giro d’affari), e nonostante molti paesi aderenti abbiano
legiferato in maniera più o meno aderente a esso, il marketing del latte
artificiale e di tutto ciò che l’accompagna è sicuramente uno dei fattori che
contribuisce a mantenere i tassi di allattamento al seno inferiori a quelli
raccomandati dall’Oms. Secondo quest’ultima, l’allattamento al seno dovrebbe
essere esclusivo per i primi sei mesi di vita (a richiesta del bebé e senza
orari prefissati), dopodiché è raccomandato che venga protratto fino a due
anni, contemporaneamente all’assunzione di alimentazione complementare. La
realtà dei fatti è invece ben diversa e con conseguenze spesso tragiche,
soprattutto nei paesi del Sud del mondo, dove le tecniche di marketing
delle multinazionali produttrici di latti in formula, Nestlè in testa, sono
particolarmente aggressive e consistono solitamente in iniziali foiture
gratuite di tali latti ai presidi ospedalieri, che li distribuiscono alle
neomamme per indue la dipendenza.

Secondo l’Oms e l’Unicef, nei paesi a basso
reddito ogni anno muore circa un milione e mezzo di bambini per non essere
stati allattati al seno. L’alimentazione artificiale dei neonati infatti
comporta due tipi di problemi. Innanzitutto l’alto costo dei latti in formula
non può essere sostenuto dalle madri, che – dopo avere provato il latte in
omaggio – si ritrovano ad avere perso il proprio (la mancata suzione al seno
riduce progressivamente la montata lattea fino ad azzerarla) e ad essere
costrette a proseguire con l’allattamento artificiale. L’unica soluzione
trovata da queste madri per fare fronte alla spesa ingente è quella di diluire
il latte fino a compromettee il valore nutritivo, quindi il neonato diventa
progressivamente denutrito, con possibili danni neurologici e rischio di morte.
L’altro grave problema è rappresentato dalla carenza di igiene nella pulizia
dei biberon, oppure dall’uso di acqua contaminata per la diluizione del latte,
fattori che possono scatenare gravissime infezioni gastrointestinali, spesso
letali. A queste si possono aggiungere altrettanto gravi infezioni respiratorie
e otiti, per il mancato sviluppo del sistema immunitario poiché il latte in
formula, a differenza di quello materno, non apporta anticorpi. I vari tipi di
latte artificiale, per quanto reclamizzati come umanizzati, mateizzati, ecc.,
non potranno mai essere nemmeno lontanamente paragonabili al latte materno, che
è una sostanza viva, derivante direttamente dal sangue ed è altamente «specie-specifico»
(quindi diverso da specie a specie di mammiferi). Nel latte materno si trovano
numerosi componenti presenti in bassa concentrazione, che non sono strettamente
correlati all’aumento ponderale del bambino, ma al corretto e normale sviluppo
del suo apparato digerente, di quello immunitario e del sistema nervoso. Solo
il latte umano contiene elementi specie-specifici che sono necessari al momento
della nascita per la normale colonizzazione batterica del tratto
gastro-intestinale del neonato (come l’immunoglobulina A secretoria o SIgA, la
lattornalbumina ed oltre 100 tipi di oligosaccaridi). Vi sono poi elementi che
promuovono la maturazione dell’apparato digerente e ne riducono la permeabilità
(nucleotidi, oligosaccaridi, fattori di crescita e la lattoferrina). Inoltre la
SIgA, la lattoferrina, la lattornalbumina e gli oligosaccaridi – insieme con il
lisozima, gli acidi grassi ed i leucociti – combattono le infezioni e le
infiammazioni. Infine i nucleotidi, i fattori di crescita, la SIgA e gli ormoni
favoriscono e modulano lo sviluppo del sistema immunitario del bambino.
Inoltre, il «colostro», cioè la prima secrezione mammaria prodotta nei primi
due giorni di puerperio in quantità variabile tra 70 e 200 cc. e con
composizione nettamente diversa da quella del latte, è di fondamentale
importanza per il neonato perché la sua composizione facilita notevolmente il
passaggio dalla nutrizione placentare a quella attraverso l’intestino. Esso
inoltre contiene enzimi capaci di iniziare la digestione delle proteine, dei
grassi e degli zuccheri, oltre a discrete quantità di anticorpi e di vitamina
A, B6 e C ed ha un maggiore contenuto di proteine e minore di zuccheri e di
grassi rispetto al latte (nel quale si trasformerà successivamente). In realtà,
l’allattamento al seno è vantaggioso tanto per il bambino, che per la mamma.
Tra i vantaggi per il bimbo ci sono: una migliore conformazione della bocca;
una minore probabilità di contrarre gastroenteriti (o di contrae di minore
gravità); protezione da infezioni come polmoniti, otiti, infezioni urinarie e
da Haemophilus influenzae; una minore probabilità di sviluppare
allergie; un miglioramento della vista e dello sviluppo psicomotorio; un
miglioramento dello sviluppo intestinale con minore rischio di occlusioni; una
protezione da malattie croniche, come il diabete di tipo 1, la cistite
ulcerativa ed il morbo di Crohn; una minore probabilità di ammalarsi di diabete
di tipo 2 e di obesità nell’adolescenza o nella vita adulta. Per quanto
riguarda la mamma i vantaggi sono: ripresa dal parto, con ritorno dell’utero
alla conformazione e alle dimensioni normali, più rapida; riduzione delle
perdite ematiche e corretto bilanciamento del ferro; prolungamento del periodo
di infertilità dopo il parto; recupero del peso-forma dopo la gravidanza;
riduzione del rischio di cancro alla mammella prima della menopausa e di cancro
all’ovaio; riduzione del rischio di osternoporosi. Inoltre il latte artificiale
può essere contaminato anche prima di aprire la confezione, è costoso e non è
mai a «chilometri zero». Esattamente il contrario del latte materno. Un altro
aspetto importantissimo dell’allattamento al seno è la sua capacità di favorire
al meglio il rapporto madre-figlio e di rispondere alle esigenze affettive del
bambino. È quindi evidente quanto sia importante promuovere l’allattamento al
seno e quanto sia importante l’istituzione delle «banche del latte», presso gli
ospedali, in modo che possano essere nutriti con latte umano anche quei bambini
le cui madri non possono allattare. In natura peraltro la percentuale di donne
che, dopo il parto, non producono per nulla latte è bassissima e si attesta
intorno all’1%, per lo più per insufficienza delle ghiandole mammarie o per
problemi tiroidei non curati. È altrettanto evidente che il consumo di latte
artificiale dovrebbe essere molto inferiore a livello mondiale rispetto a
quello effettivo e che il numero delle mamme che effettuano con successo
l’allattamento al seno – almeno per il periodo minimo indicato dall’Oms (6
mesi) – dovrebbe essere molto più elevato.

In Italia, secondo un’indagine Istat del
2004-2005 le donne che avevano allattato i figli al seno nei cinque anni
precedenti la pubblicazione dell’indagine erano state l‘81,1% delle neomamme.
La durata media del periodo di allattamento era salita da 6,2 mesi nel
1999-2000 a 7,3 mesi al momento della pubblicazione. Il 64,5% delle donne
aveva, per un certo periodo, allattato al seno in modo esclusivo o
predominante. L’Italia insulare è quella con il minore numero di donne che
allattano (74,2%) e quella in cui lo fanno per minore tempo (solo il 26,6%
aveva allattato per più di 6 mesi). Nel Nord Est si rilevano le quote più
elevate di mamme che allattano (86,1%) e che lo fanno per 7 mesi o più (36,8%).
Tra i maggiori ostacoli all’allattamento al seno c’è un’eccessiva
medicalizzazione del parto e dei primi giorni dopo la nascita del piccolo, che
non sempre viene attaccato al seno subito dopo la nascita. Inoltre c’è
l’aumento numerico dei parti cesarei. Risultano invece essere di grande aiuto
per un buon esito dell’allattamento al seno i corsi di preparazione al parto,
così come anche i pediatri. Per promuovere l’allattamento al seno, nel 1992 è
stato lanciato a livello internazionale dall’Oms e dall’Unicef il progetto Baby
friendly hospital iniziative
, recepito da alcune regioni italiane, per
attuare l’osservanza del Codice nei reparti ospedalieri.

Ancora prima della stesura del Codice sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno era già attiva l’Ibfan (Inteational
Baby Food Action Network
), cioè la «Rete internazionale di azione per
l’alimentazione infantile», per il controllo delle attività di mercato delle
principali compagnie produttrici di sostituti del latte materno (di biberon,
tettarelle, ecc.). Dal 1981 tale rete si è impegnata in un attento controllo
delle violazioni del Codice, anche grazie alle segnalazioni dei singoli
cittadini, pubblicando periodicamente rapporti dal titolo «Il Codice violato»,
la cui stesura è possibile grazie all’attività di Ibfan Italia
(www.ibfanitalia.org), un’associazione di volontariato costituita ufficialmente
nel 2005, ma già operante in modo informale dalla metà degli anni ’90. Le
strategie di mercato messe in atto dai produttori, che a parole rispettano il
Codice, ma lo violano continuamente, sono molteplici. Alle compagnie
produttrici è proibito contattare direttamente le neomamme in ospedale (anche
se in passato, soprattutto nei paesi più poveri, è capitato che qualche loro
operatore si sia intrufolato in ospedale, travestito da infermiere, per
avvicinare più facilmente le mamme). Esse aggirano l’ostacolo donando ad ogni
puerpera una valigetta contenente campioni di tisane (ma non di latte in
polvere, poiché questa pratica è proibita in Italia) e di prodotti per l’igiene
del piccolo, riviste per genitori piene di pubblicità, libri ricchi di consigli
e ricette per lo svezzamento, ma che di solito presentano al fondo svariate
pagine pubblicitarie, qualche pannolino, un succhiotto, talvolta un diario su
cui annotare tutti gli eventi della giornata del piccolo. Tra le prede più
ambite dai produttori ci sono gli operatori sanitari, perché è chiaro che un
tipo di latte consigliato da un medico, da un’ostetrica o il cui nome sia
scritto (come prodotto consigliato al momento del bisogno) nel libretto della
salute del bambino che viene consegnato ai genitori al momento della dimissione
dall’ospedale vale ben più di tante pubblicità su riviste o in televisione.
Oltre a fornire gli operatori sanitari di gadget di ogni tipo (penne,
ricettari, calendari, blocchetti per appunti, materiale illustrativo, ecc.)
recanti il logo del produttore, spesso le aziende produttrici sponsorizzano
convegni, pagano iscrizioni ai congressi e permanenze in lussuosi alberghi in
amene località turistiche, per pediatri ed altri specialisti del settore. Come
minimo ci si deve aspettare che le prescrizioni ed i consigli degli specialisti
alle neomamme siano oltremodo favorevoli per tali aziende. Poiché la legge
italiana proibisce la pubblicità del latte in formula per neonati, cioè del
tipo 1, una strategia utilizzata dai produttori è quella di vendere i latti di
proseguimento con la stessa confezione del tipo 1 (cambiandone magari solo il
colore), in modo da fae comunque pubblicità (rischiando però di generare
pericolose confusioni in un acquirente distratto). I tipi di latte artificiale
variano infatti per composizione: i latti a mezza crema, per i primi 3 mesi
contengono 10-12 gr. di grassi per 100 gr. di polvere, mentre quelli interi, da
usare dopo il terzo mese, contengono 16-28 gr. di grassi. Altra strategia di
mercato è quella di evidenziare in etichetta che il latte in questione è
addizionato di prebiotici, probiotici, acidi grassi omega3, vitamine, ecc.,
magnificandone le capacità di favorire lo sviluppo cerebrale, di migliorare la
vista e quant’altro. Tali caratteristiche sono naturalmente presenti e con
molto altro ancora nel latte materno, che fa molto di più, ma questo non è
detto dalla pubblicità, anche se 
attualmente sulle confezioni deve essere scritto che, laddove è
possibile, è da preferirsi l’allattamento al seno. C’è inoltre un nutrito
mercato di prodotti per aumentare la quantità di latte materno e migliorae la
qualità. Apparentemente si tratta di prodotti favorevoli all’allattamento al
seno, ma in realtà insinuano nella mamma il dubbio che il suo latte non sia più
in grado di nutrire al meglio il bambino, inducendola a passare più o meno
rapidamente al latte artificiale. Le violazioni al Codice si rilevano molto
spesso anche nei punti vendita, dove facilmente si trovano sconti, promozioni,
regali omaggio per i vari tipi di latte, oltre che su biberon e tettarelle.
Quando tali promozioni riguardano il latte di tipo 1 non solo è violato il
Codice, ma anche la legge italiana3. Il decreto in questione proibisce la pubblicità e la promozione
del latte per lattanti, cioè il tipo 1 e ne vieta l’offerta di campioni o
qualsiasi altro espediente promozionale, che possa indurre a passare
dall’allattamento al seno a quello artificiale. In realtà spesso gli sconti e
le promozioni riguardano proprio questo tipo di latte. Nel caso capitasse di
osservare queste e altre infrazioni è possibile e doveroso fare una
segnalazione all’Ibfan, oppure ai Nas («Nucleo antisofisticazioni e sanità» dei
carabinieri).

Il mestiere del genitore è il più difficile
del mondo dato che i bimbi nascono senza il libretto d’istruzioni.
Un’informazione alternativa al battage pubblicitario è fondamentale per
i genitori, i quali innanzitutto non dovrebbero mai dimenticare che la natura
ci ha ampiamente foiti di quanto serve per allevare i nostri piccoli e sono
rari i casi in cui non sia possibile farvi ricorso.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




Animal Sapiens


È opinione radicata che l’uomo abbia il diritto di sfruttare gli animali a proprio piacimento. Essi vengono così utilizzati per la nostra alimentazione, per esperimenti scientifici, per produzioni industriali. L’evoluzione è una piramide con l’uomo al vertice? Secondo recenti studi non è proprio così…

L’uomo si è sempre sentito superiore al resto del regno animale, a cui pure appartiene. E ciò per diverse prerogative che finora pensavamo fossero soltanto nostre. Ad esempio: il culto dei morti, la capacità di pianificazione, l’uso del linguaggio, l’utilizzo di strumenti. Oggi però i risultati di numerose ricerche e osservazioni sull’intelligenza e sul comportamento degli animali non umani stanno dando risultati sorprendenti. Che dire dell’osservazione che anche gli elefanti, pur non seppellendo i loro morti, indugiano parecchio, toccano e sollevano con la proboscide le ossa dei loro simili, quando le incontrano sul loro cammino? Per non parlare dell’abilità e intelligenza dimostrata da un polpo nello stappare un contenitore in vetro allo scopo di infilarcisi dentro o di quella dei corvi che, per spezzare il guscio delle noci, di cui si vogliono cibare, si appostano nei pressi di un semaforo, lasciandole cadere a terra, per farle rompere dalle auto in partenza e poi andare a recuperae il contenuto, quando la strada sia libera; o degli scimpanzé e dei cani, che hanno dimostrato di comprendere almeno in parte il nostro linguaggio. Eppure la nostra tendenza a sentirci superiori è ben radicata, come se l’Homo sapiens fosse l’apice del processo evolutivo. Grazie a questa ipotetica posizione apicale l’uomo si sente in diritto di sfruttare il resto del creato a proprio piacimento.

L’enciclica Laudato si’ rompe la visione antropocentrica

Cosa ci fa pensare di avere tale diritto? La risposta più ovvia è la presunzione che una maggiore evoluzione rispetto alle altre specie (nella nostra mente lo specismo e il razzismo spesso vanno di pari passo) ci dia il diritto di sfruttare gli animali considerati inferiori. Questa idea è già presente nella Bibbia (Genesi, 1:26, 1:28, 9:2), in cui si dice che gli animali saranno ridotti a subire il «dominio» e il «giogo» degli esseri umani e ad avee «timore» e «spavento». Anche Aristotele elaborò una scala naturae nel suo trattato Politica, mettendo al vertice gli esseri umani maschi e liberi, seguiti dalle donne, dagli schiavi e dagli animali non umani. E filosofi come Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Descartes e Kant hanno contribuito anch’essi a diffondere questo genere di idee. Fortunatamente con la sua enciclica Laudato si’, papa Francesco ha ribaltato questa visione antropocentrica, esortando al rispetto non solo di tutti gli uomini, ma anche di tutti gli altri esseri viventi. Ecco qualche esempio tratto dallo scritto del papa: «[…] dal prelievo incontrollato delle risorse ittiche, che provoca diminuzioni drastiche di alcune specie […]» (Ls,40); «oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature» (Ls,67); «Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone» (Ls,92).

È sufficiente osservare i molti modi in cui l’uomo sfrutta gli animali – per le nostre esigenze alimentari, per la produzione di capi d’abbigliamento, per la sperimentazione scientifica, per una serie di attività illegali (dalle scommesse sulle corse clandestine di cavalli alle lotte tra cani e tra galli) -, per comprendere il monito dell’enciclica e i numeri dell’ecatombe.

Cae e allevamenti-lager

Nei paesi ricchi il consumo di carne è cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni ’40 in Italia il consumo procapite annuo era di circa 8 kg, negli anni ’60, in pieno boom economico salì a 50 kg e alla fine del secolo scorso arrivò a 80 kg. Negli Stati Uniti d’America è giunto addirittura a 120 kg. Il consumo di carne, essendo un simbolo di benessere raggiunto, sta inoltre aumentando moltissimo anche nei paesi emergenti. Peraltro le fonti scientifiche raccomandano di consumare non più di 30 Kg di carne all’anno. Nel Sud del mondo invece si sta ben al di sotto di questa soglia, con punte estreme come il Bangladesh (non più di 4 kg procapite annuo) ed il Burundi (5 kg).

La produzione di carne richiede, per i vari processi che portano al prodotto finale, una superficie di terra coltivabile pari a 16 volte quella necessaria per produrre legumi e altre proteine vegetali (con conseguente deforestazione di diverse aree, soprattutto nel Sud del mondo). È quindi chiaro che l’elevato consumo di carne non è estendibile a tutti gli abitanti del pianeta per mancanza di terreno sufficiente.

Un’altra ingiustizia è rappresentata dal trattamento riservato agli animali da macello. Basta pensare all’importazione di animali vivi: quelli di grossa taglia vengono fatti spostare utilizzando mezzi di coercizione come pungoli elettrificati e bastoni, fonti di terrore e sofferenza; gli animali di piccola taglia, dopo essere stati presi per le zampe o le orecchie, vengono stipati in gabbie riempite a forza, per fae stare il maggior numero possibile; gli animali con difficoltà di deambulazione, dovuta al peso raggiunto o a eventi patologici, vengono trascinati senza pietà.

La sempre più elevata specializzazione zootecnica, che per aumentare la produzione di carne e di latte ricorre alle biotecnologie e all’ingegneria genetica, ha portato alla selezione di razze iperproduttive. Ad esempio: le bovine frisone Holstein, che producono più di 100 quintali di latte all’anno, i polli da carne ad accrescimento accelerato, i tacchini dalla abnorme massa muscolare, il suino Landrace, che popola la stragrande maggioranza degli allevamenti intensivi del Nord Italia. Tutto questo però si accompagna spesso alla comparsa di patologie degenerative, che possono portare a gravissime infermità e/o morte dell’animale per lo più per infarto. Che dire poi delle galline ovaiole, stipate in allevamenti, dove la luce è sempre accesa (perché stimola la produzione di uova) e private di parte del becco, per impedire loro di ferirsi reciprocamente, dal momento che la cattività in condizioni di grave disagio ne aumenta l’aggressività? E dei bovini e dei suini negli allevamenti intensivi, costretti in spazi talmente esigui da non potersi girare e che non vedono mai un prato e la luce del sole dalla nascita fino alla morte?

Anche Valium e Prozac

Non si salvano dalla produzione di razze con caratteristiche particolari nemmeno gli animali da compagnia. Ad esempio sono molto ricercate le razze canine i cui esemplari sembrano perennemente cuccioli, con il muso schiacciato e grandi occhi sporgenti, che ricordano i lineamenti di un bimbo e suscitano più tenerezza. Così ci sono razze come il carlino originario della Cina o il bulldog francese nei quali il muso schiacciato provoca gravi problemi respiratori. Inoltre, per selezionare razze dai tratti infantili (il mantenimento dei tratti infantili negli adulti è detto neotenia) spesso ci si trova con animali da compagnia emotivamente immaturi, che presentano una versione canina delle nostre nevrosi. Naturalmente l’industria farmaceutica ha subito colto la palla al balzo ed ha messo in commercio confezioni veterinarie di Valium e di Prozac per animali ansiosi, depressi e ossessivo-compulsivi.

Penne e pellicce

Oltre agli animali vittime della nostra tavola, ci sono quelli vittime della moda, utilizzati per la produzione di pellicce e di capi d’abbigliamento con parti in pelliccia o di capi in vera piuma. Ogni anno milioni di oche e di anatre vengono allevate per l’industria della moda e le penne vengono loro strappate fino a quattro volte all’anno, senza alcun tipo di sedazione. Si stima inoltre che siano almeno 70 milioni gli animali allevati in tutto il mondo per la loro pelliccia. Si tratta soprattutto di visoni, cani-procione, conigli, ermellini, volpi, zibellini, scoiattoli, ma anche agnellini, cani e gatti. L’85% della produzione mondiale di pellicce deriva da animali provenienti da allevamenti intensivi che si trovano soprattutto in Europa, Cina, Stati Uniti, Canada e Russia. In Europa sono già diversi i paesi, che vietano l’allevamento per la produzione di pellicce, ad esempio l’Olanda, l’Austria, la Danimarca (solo per le volpi), Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia, Slovenia, Croazia e Bosnia.

In Italia, al contrario, gli allevamenti stanno aumentando. In particolare quelli di visoni attualmente sono circa venti, dislocati in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Abruzzo e complessivamente detengono circa 200.000 animali. Negli allevamenti gli animali sono detenuti in condizioni di privazioni estreme, che li portano spesso a comportamenti autolesionistici, nonché a episodi di cannibalismo e di infanticidio. Nel 2001, il Comitato Scientifico della Commissione Ue aveva denunciato gli allevamenti di animali da pelliccia come gravemente lesivi del benessere animale, ma da allora poco o nulla è cambiato. La situazione è ancora peggiore nei paesi extracomunitari come la Cina, dove non c’è la minima regolamentazione a tutela degli animali. Non è certo migliore il destino degli animali da pelliccia catturati in natura (si stima almeno 10 milioni ogni anno). Le normative inteazionali prevedono che la loro morte sia esente da crudeltà, ma sono solo parole. La caccia infatti riesce a eludere ogni controllo e colpisce spesso specie protette. Le vittime restano immobilizzate nelle trappole per ore o giorni e la loro morte sopraggiunge dopo una lunga agonia. Gli animali da pelliccia vengono solitamente portati nei mercati all’ingrosso, dove le grandi compagnie acquistano le pelli. Gli animali vengono storditi a colpi di bastone o schiacciati violentemente a terra e la scuoiatura avviene quando molti sono ancora coscienti. Nel 2004 in Italia sono state bandite le pelli di cani e di gatti e nel 2009 il divieto è stato esteso a tutta l’Europa.

Oltre alle crudeltà inflitte agli animali, la produzione di pellicce ha un impatto sul cambiamento climatico circa 14 volte superiore a quello per la produzione di analoga quantità di pile, di cotone, di acrilico e di poliestere. Per produrre 1 kg di pelliccia di visone sono necessarie 11,4 pelli e poiché un visone consuma circa 50 kg di cibo nella sua vita, sono necessari 563 kg di cibo per produrre un solo chilogrammo di pelliccia. Si stima che la pelliccia abbia un impatto sull’ambiente da 2 a 28 volte quello dei prodotti tessili alternativi, compresi quelli sintetici.

Animali per la ricerca

Un destino non meno crudele è quello degli animali utilizzati nelle sperimentazioni scientifiche, soprattutto topi, ratti, conigli, ma anche marmotte, gatti, cani e scimpanzé. Certamente i modelli animali sono indispensabili in alcune fasi della ricerca (altrimenti bisognerebbe sperimentare direttamente sull’uomo, sinistro ricordo di quanto avveniva nei lager nazisti), ma non sempre i risultati ottenuti da queste ricerche sono applicabili all’uomo. Quanto più il modello animale utilizzato è filogeneticamente distante dall’uomo, tanto meno sono attendibili i risultati ottenuti. Ad esempio, se si sperimenta sullo scimpanzé, si ottengono risultati applicabili all’uomo mentre la sperimentazione su animali molto diversi come il coniglio può portare a gravissimi errori di valutazione, come nel caso del Talidomide, farmaco tristemente famoso per avere superato tutti i test di tossicità nel coniglio e avere causato la nascita di moltissimi bimbi focomelici negli anni ’60, in quanto somministrato come ansiolitico durante la gravidanza. Eppure animali come topi, ratti e conigli vengono utilizzati in quantità industriale nella sperimentazione scientifica. Attualmente si cerca di utilizzare gli animali da laboratorio secondo il criterio della riduzione al minimo della sofferenza, ma nella storia della scienza non è sempre stato così. Un aspetto decisamente raccapricciante è che questi animali vengono acquistati in quantità sempre superiore alle necessità della ricerca. Una volta terminata quest’ultima, gli animali in eccedenza vengono eliminati senza tanti problemi: una parte viene utilizzata come cibo per serpenti o gufi nei giardini zoologici, ma la maggior parte viene cremata. La ragione principale dell’ingente surplus di topi da laboratorio è stata l’esplosione della ricerca, iniziata negli anni ’90, sugli animali geneticamente modificati (Gm), che nel 90% degli studi impiega topi (perché, sebbene il cammino dell’evoluzione che ha portato a uomini e topi si sia divaricato 60 milioni di anni fa, il 99,9% dei geni murini ha un omologo umano conosciuto, anche se distribuiti su un diverso numero di cromosomi). Come Descartes, che considerava gli animali semplicemente dei robot, incapaci di provare sentimenti, empatia e dolore, negli Stati Uniti d’America il Congresso non considera animali il 90-95% di quelli utilizzati per la ricerca, per cui questi non ricadono sotto la tutela della legge per la protezione degli animali. Le giustificazioni per la sperimentazione animale sostanzialmente poggiano sul concetto che l’organismo dal cervello più potente ha il diritto di condurre studi su creature con capacità mentali meno sviluppate. In genere però cadiamo nell’errore di considerare facoltà psichiche superiori negli animali quelle che più somigliano alle nostre, mentre una facoltà psichica è tanto superiore quanto più permette a chi la possiede di adattarsi al proprio ambiente e alle proprie esigenze.

Animali trafficati

Ciò che è ancora più riprovevole è l’impiego di animali opportunamente selezionati, per combattimenti e corse clandestine e non, che sono alla base di un ingente giro d’affari per la criminalità organizzata. I traffici legati allo sfruttamento illegale degli animali è variegato. Si va dal bracconaggio e dalla cattura di esemplari rari e protetti per rivenderli clandestinamente (traffico di animali esotici) o per ucciderli e rivendere loro parti (traffico dell’avorio e delle pellicce di tigri, leopardi, ecc.) ai macelli clandestini, alle lotte tra galli in America e quelle nostrane tra cani. Per queste ultime vengono selezionati animali sottoposti a incredibili vessazioni, in modo da forgiae il carattere e portare la loro aggressività all’eccesso. L’addestramento di cani di certe razze in modo da renderli particolarmente aggressivi per i combattimenti, oltre a stravolgere completamente il carattere degli animali, comporta anche un grave pericolo per la popolazione in generale, come dimostrato dalle aggressioni, sempre più frequenti, di cani «pericolosi» a persone.

I traffici illeciti di avorio e di pellicce pregiate stanno portando a rischio estinzione diverse specie come il rinoceronte nero (Diceros bicois, ridotto a meno del 10% dalla fine del secolo scorso nell’Africa subsahariana), le tigri (Panthera tigris, la cui popolazione si è ridotta del 95% dal 1900 ad oggi) e gli elefanti (Loxodonta africana). Secondo uno studio del 2014, la popolazione di questo animale è scesa tra il 2009 e il 2014 del 60% in Tanzania e quasi del 50% in Mozambico, per cui, se la caccia illegale proseguirà con il ritmo attuale, l’elefante africano potrebbe estinguersi in un decennio (National Geographic, giugno 2015).

Corse clandestine e canili

Ci sono poi le corse clandestine di cavalli, che si svolgono di notte in tratti di strada o di autostrada, eludendo i controlli delle forze dell’ordine ed utilizzando animali drogati. C’è il racket dei canili e ci sono le cupole del bestiame. C’è il traffico di cuccioli, portati via dalle loro mamme molto prima dello svezzamento, fatti viaggiare in condizioni così drammatiche da pregiudicarne spesso la sopravvivenza e venduti senza le vaccinazioni di legge. Va ricordato che, nel nostro sistema giuridico, soltanto il 1 agosto 2004 è entrata in vigore la nuova legge contro il maltrattamento degli animali e le corse clandestine (Legge 189/04).

Per quanto riguarda le corse clandestine di cavalli, in Italia in 15 anni sono state denunciate 3.321 persone e 1.228 cavalli sono stati sequestrati (Rapporto Zoomafia Lav, 2014). Il doping non è solo circoscritto alle corse clandestine, ma spesso interessa anche le corse ufficiali e sono circa 180 all’anno i cavalli dopati, che corrono in gare ufficiali.

Un vero affare per trafficanti e faccendieri è il business del randagismo, che garantisce agli sfruttatori dei cani randagi introiti da centinaia di milioni di euro l’anno, per via delle convenzioni con amministrazioni locali compiacenti. I canili sono spesso strutture fatiscenti, veri e propri lager, in cui gli animali non ricevono nemmeno lo stretto indispensabile per vivere, tant’è che spesso soccombono e le loro carcasse restano tra i sopravvissuti o vengono nascoste in congelatori. Solo nel 2013 sono state sequestrate 11 strutture, per un totale di 1.700 cani. Abbandonare un cane non comporta solo un immenso dolore per l’animale, ma favorisce la criminalità.

Per concludere, torniamo al punto da cui eravamo partiti: il processo dell’evoluzione. Gli studi più recenti hanno indicato che il risultato dell’evoluzione è più simile a un albero ramificato, di cui noi occupiamo soltanto uno dei rami, piuttosto che ad una piramide con noi al vertice.

Rosanna Novara Topino




La condizione degli anziani: abusi silenziosi

Nelle nostre società
si parla molto di abusi sui minori e sulle donne, ma poco di quelli nei
confronti degli anziani. Si tratta di abusi fisici, psicologici e finanziari che
occorre affrontare, considerato il numero delle persone con età avanzata in
costante crescita.

I progressi della medicina hanno portato a un aumento della durata della
vita e all’incremento della popolazione anziana, soprattutto delle persone
ultraottantenni. Nella società attuale l’allungamento della vita non va però di
pari passo con la qualità dell’esistenza e, tra i molteplici problemi che
questa situazione pone, uno in particolare, quello degli abusi, è ancora
relativamente poco conosciuto, ma in continua crescita.

Le tre categorie principali di abuso sugli anziani sono:
quello domestico (nell’abitazione dell’anziano o in quella del caregiver, cioè del/della
badante, la persona che si prende cura dell’anziano), quello istituzionale
(nelle case di riposo e nelle residenze assistenziali) e quello auto-inflitto
(comportamento autolesivo, tipico degli anziani con difficoltà cognitive e in
stato di abbandono).

In Europa si stima che siano 37 milioni gli anziani che
hanno subito qualche forma di abuso. Di questi, circa 29 milioni hanno subito
maltrattamenti fisici, 6 milioni abusi finanziari, un milione abusi sessuali.
Si stima che circa 2.500 persone all’anno muoiano per mano dei familiari, come
conseguenza delle vessazioni subite. Molto spesso abusi finanziari, fisici e
psicologici sono perpetrati contemporaneamente. In un’indagine condotta in
Francia, Italia, Spagna, Belgio, in cui sono stati esaminati 1.000 casi per
paese, il 20% degli anziani intervistati ha ammesso di essere stato vittima o
testimone di truffe, compiute da familiari o da estranei. È stato rilevato
infatti che spesso gruppi organizzati di criminali si installano nel vicinato
di persone anziane, che vivono sole. Le persone più facilmente vittime di abusi
fisici e/o psicologici sono donne (75%), generalmente anziane (79 anni e
oltre). Secondo l’Eurostat, nel 2050 la popolazione europea sarà costituita al
30% da over 65, ma al momento le istituzioni europee e nazionali non sono
ancora pronte a contrastare il fenomeno degli abusi su di essi e sui non
autosufficienti.

Rispetto alla violenza sui minori e sulle donne, di
violenza sugli anziani si sente parlare relativamente poco da parte dei media,
eppure gli studi condotti a livello internazionale dimostrano il costante
aumento del fenomeno.

In
famiglia e in ricovero

Il primo articolo su questo argomento apparve
sul British
Medical Joual nel 1975 e,
all’inizio degli anni ’80 venne definita una sindrome ben precisa, detta Elderly abuse syndrome ovvero «sindrome da abuso sull’anziano».
Questo tema venne trattato nel 2002, nell’ambito del primo Rapporto mondiale su
violenza e salute, dell’Organizzazione mondiale della sanità, presentato
durante la seconda «Assemblea mondiale sull’invecchiamento», tenutasi a Madrid.
Tale rapporto, basato su studi condotti a livello globale nei venti anni
precedenti, rivelò che gli abusi contro gli anziani sono estremamente diffusi,
ma che di solito non vengono denunciati e che comportano pesanti costi
finanziari e umani. I pochi studi demografici su cui è basato il rapporto
indicano che il 4-6% della popolazione anziana mondiale subisce abusi
all’interno della propria abitazione e che nei 2/3 dei casi gli abusatori sono
membri della famiglia, in particolare coniugi o figli. Secondo altri studi
sugli anziani condotti in Australia, Canada e Regno Unito, la percentuale degli
anziani che hanno subito abusi va dal 3% al 10%. Secondo il National Elder Abuse Incidence Study (Neias) condotto in Usa tra il 1986 e il
1996, l’incremento dei casi di prevaricazione riferiti dai servizi statali è
stato del 150%, ma si stima che i casi occulti siano cinque volte quelli
denunciati. Le violenze possono essere sia fisiche che psicologiche, ma possono
anche prendere la forma di sfruttamento economico, abbandono, disattenzione
(denutrizione, disidratazione, scarsa igiene, indumenti indecorosi). Purtroppo
molti casi non vengono alla luce perché spesso le vittime hanno un rapporto di
dipendenza con l’abusatore, per cui esse temono, denunciandolo, di subire
ulteriori vessazioni. A volte gli abusati sono anziani con turbe cognitive o
psichiatriche, incapaci di descrivere la condizione in cui si trovano. È chiaro
che i casi di violenza di cui si è a conoscenza sono solo la punta di un
iceberg e che i valori in nostro possesso sono ampiamente sottostimati.

Recentemente, in Italia sono venuti alla
luce casi di maltrattamento di anziani in alcuni istituti di ricovero, che
spesso hanno portato all’arresto di operatori socio-sanitari, di infermieri,
talvolta di medici. Tuttavia è altrettanto difficile conoscere l’incidenza del
maltrattamento degli anziani in queste strutture, sia per la reticenza dei loro
gestori, sia per il silenzio degli anziani ricoverati, che temono ritorsioni e
che spesso non hanno un adeguato sostegno familiare. Nell’unico rigoroso studio
a nostra disposizione sono stati intervistati 577 tra infermieri e assistenti
di 31 case di riposo del New Hampshire (Usa). Ebbene, il 36% degli intervistati
ha riferito di avere assistito all’abuso fisico sugli anziani ricoverati,
mentre l’81% ha assistito a casi di abuso psicologico.

In Italia, il fenomeno dell’abuso sugli
anziani è un problema sottovalutato sia per carenza di dati, che indicano una
quota di abusi intorno al 9% (anche qui un valore quasi certamente
sottostimato, dati i molti casi non denunciati), sia per la mancanza di una
specifica legislazione in merito.

Per definire un caso di abuso su persona
anziana, in Italia si fa riferimento ai seguenti articoli del Codice penale:
art. 570, sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare; art. 571,
sull’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; art. 572, sui
maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; art. 591, sull’abbandono di
persone minori o incapaci; art. 643, sulla circonvenzione di persone incapaci (vedi box).

Abusatori
e abusati

Secondo il già citato Neias relativo agli
Usa, le categorie di anziani più a rischio di abusi sono le donne, gli ultraottantenni
e gli anziani con fragilità mentale e/o fisica. Secondo questo studio, per
quanto riguarda l’abuso psicologico, il 75% delle anziane vittime sono donne,
che salgono al 92% per quanto concee l’abuso finanziario. Inoltre i 2/3 dei
casi di autolesionismo denunciati sono di donne. Nella valutazione di questi
dati bisogna peraltro tenere in considerazione il fatto che la vita media della
donna è superiore a quella dell’uomo, pertanto, nella popolazione anziana, le
donne sono prevalenti. Gli ultraottantenni subiscono abuso nel 52% dei casi
(abuso fisico, psicologico, finanziario) e nel 45% dei casi sono vittime di
autolesionismo. Inoltre questo studio ha evidenziato che 3 su 4 anziani con
fragilità fisica e/o mentale sono vittime d’abuso o di disattenzione.

I perpetratori d’abuso sugli anziani sono
equamente distribuiti in entrambi i generi, sebbene vi sia una prevalenza dei
casi di disattenzione tra le donne, mentre le altre forme d’abuso sono
maggiormente commesse da uomini. Solitamente gli abusatori sono più giovani
delle loro vittime (65% sono sotto i 60 anni). In particolare, coloro che
commettono un abuso finanziario sono per il 45% al di sotto dei 40 anni. Nel
90% dei casi, abusatori e abusati sono parenti tra loro e i coniugi delle
vittime sono tra i più numerosi perpetratori di abuso domestico, sia per via di
una pregressa abitudine alla violenza domestica, sia, talvolta, per
l’appartenenza a credi religiosi, che non rispettano la parità tra i sessi e
che giustificano le prevaricazioni degli uomini sulle donne.

Talvolta gli abusatori dipendono
economicamente dalle vittime.

Nella prevenzione dei casi di abuso sugli
anziani è fondamentale il ruolo del medico, che ha sia un obbligo di
segnalazione dei casi d’abuso previsto dal Codice penale, sia un obbligo
dettato dal Codice di deontologia medica, il cui art. 29 dice che «il medico
deve contribuire a proteggere il minore, l’anziano e il disabile, in
particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, in cui
vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero
sia sede di maltrattamenti, violenze o abusi sessuali…». È altrettanto
importante il ruolo assunto dagli operatori sanitari e dagli assistenti
sociali. Queste figure, più facilmente di altre, dato il contatto diretto con
gli anziani e il loro nucleo familiare, possono mettere a fuoco la presenza di
fattori di rischio di abuso (vedi box). In
particolare, possono sottoporre gli anziani e i loro familiari a un’intervista
(svolta separatamente) con domande mirate a ottenere informazioni sulle
vessazioni subite o sul potenziale rischio di subirle. Nel caso del medico e
degli operatori sanitari è possibile rilevare, mediante esame fisico, la
presenza di segni riconducibili a forme di abuso. È inoltre fondamentale da
parte del medico verificare se vi siano nell’anziano dei problemi cognitivi o
psichiatrici, dal momento che questi, più di altri fattori, espongono a rischio
di abuso. È importante individuare anche eventuali fattori protettivi, che
possono essere individuali, come una buona condizione psicofisica e
socioeconomica, nonché essere di genere maschile; oppure possono essere di tipo
relazionale come fare parte di un’ampia rete sociale, con legami forti, che
limita il rischio di abbandono; oppure fattori protettivi legati all’ambiente,
come l’istituzione da parte della comunità di organizzazioni che sopperiscano
alle necessità dell’anziano e del suo caregiver. Nella
prevenzione degli abusi sugli anziani, oltre al ruolo svolto dal personale
sanitario, è importante quello svolto dagli operatori del diritto, mediante
l’applicazione di misure più efficaci come politiche governative e attenzione
legislativa incentrate sull’anziano, in aggiunta alle misure attualmente
presenti. Del resto, l’abuso sugli anziani rappresenta una violazione dei
diritti umani, nel momento in cui si verifichi la privazione della possibilità
di vivere in maniera degna e indipendente e di partecipare alla vita sociale e
culturale, principio che rappresenta un diritto fondamentale, sancito dall’art.
25 della Carta dei diritti dell’Unione europea.

Un
anziano «vale»

La prevenzione degli abusi sugli anziani è
molto importante, viste anche le conseguenze che essi possono avere. Gli abusi
infatti possono comportare costi sociali diretti e indiretti. Tra i primi vanno
annoverate le procedure di giustizia penale, l’assistenza ospedaliera, i
programmi di prevenzione, di educazione e di ricerca. Tra quelli indiretti ci
sono una ridotta produttività, la minore qualità della vita, le sofferenze emotive,
la perdita di fiducia e autostima, l’invalidità e i decessi prematuri, la
dipendenza da alcolici e farmaci, i disordini cronici dell’alimentazione, le
tendenze suicide.

Un ruolo fondamentale nella prevenzione degli
abusi agli anziani lo svolgono gli attori impegnati, tanto a scuola quanto in
famiglia, nell’educazione dei giovani, poiché l’abuso nasce soprattutto dalla
mancanza di consapevolezza del valore che l’anziano rappresenta. Purtroppo in
una società edonista come quella occidentale, in cui l’apparire conta più
dell’essere e si assiste a forme di smodata competizione, per raggiungere
livelli di carriera e di successo sempre maggiori, la figura dell’anziano,
lungi dall’essere considerata la depositaria di saggezza tipica del nostro
passato (o delle culture orientali), viene vista come quella di un perdente, di
una persona non più in grado di produrre e di conseguenza un peso per la società,
dalla quale viene via via emarginato. Sebbene gli anziani, specialmente i
nonni, rappresentino sempre più un pilastro per le loro famiglie sia di tipo
economico (il 10% dei nuclei famigliari sono sostenuti economicamente dai
nonni), che per l’accudimento dei nipoti, quando i genitori lavorano entrambi
(nel 30% dei casi i nonni badano ai nipoti), non appena cessano di svolgere
questi ruoli, con l’avanzare degli anni, essi in molti casi si trasformano in
un peso per i loro familiari. È a questo punto che si insinua il rischio di
abusi e di vessazioni o semplicemente la mancanza di rispetto. Tale esempio
rappresenta un messaggio molto negativo per i giovani della famiglia che,
divenuti adulti, potranno trasformarsi più facilmente in nuovi abusatori di
anziani.

Rosanna Novara
Topino


L’abuso
sugli anziani:

I
fattori di rischio

Fattori legati alla
persona anziana
: decadimento cognitivo, problemi comportamentali,
dipendenza da sostanze, malattie psichiatriche o problemi psicologici,
dipendenza funzionale, fragilità o salute cagionevole, basso reddito e/o
patrimonio limitato o inesistente, trauma o abuso pregresso, appartenenza a una
minoranza etnica, appartenenza al genere femminile.

Fattori legati al
perpetratore dell’abuso
: badante sottoposto a carico eccessivo di lavoro e
stress, malattie psichiatriche, problemi psicologici, dipendenza da sostanze.

Fattori legati alle
relazioni interpersonali
: disarmonia familiare, relazioni scarse o
conflittuali.

Fattori legati
all’ambiente
: scarso supporto sociale, coabitazione in condizioni di
disagio socio/economico o con persone che presentano fattori di rischio, come
possibili perpetratori d’abuso.

Codice Penale
Italiano

Art.
570: Violazione degli obblighi di assistenza familiare.

«Chiunque, abbandonando il domicilio, o comunque serbando
una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli
obblighi di assistenza inerenti alla patria potestà, alla tutela legale o alla
qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
– malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo
o del coniuge;
– fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età
minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia
legalmente separato per sua colpa».

Art.
571: Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

«Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina
in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero per
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il
pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei
mesi.
Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano
le pene stabilite negli articoli 582 e 583 ridotte ad un terzo; se ne deriva la
morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

Art.
572: Maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli.

«Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo
precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni
quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, o per l’esercizio
di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si
applica la reclusione da quattro a otto anni. Se ne deriva una lesione
gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la
reclusione da dodici a venti anni».

Art.
575: Omicidio.

«Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno».  (…)

Art.
577: Altre circostanze aggravanti.

«Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto
dall’art. 575 è commesso:
1) contro l’ascendente o il discendente;
2) col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro
mezzo insidioso;
3) con premeditazione;
4) col concorso di talune delle circostanze indicate nei
numeri 1 e 4 dell’art. 61.
La pena è della reclusione da 24 a 30 anni, se il fatto è
commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre
adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta».

Art.
582: Lesione personale.

«Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla
quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione
da tre mesi a tre anni.
Se la malattia ha una durata non superiore ai venti
giorni e non occorre alcuna della circostanze aggravanti prevedute negli
articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima
parte dell’art. 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa».

Art.
591: Abbandono di persone minori o incapaci.

«Chiunque abbandona una persona minore di anni
quattordici ovvero una persona incapace, per una malattia di mente o di corpo,
o per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale
abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino
italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello stato
per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal
fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la
morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio,
dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato».

Art.
643: Circonvenzione di persone incapaci.

«Chiunque per procurare a sé o ad altri un profitto,
abusando dei bisogni, delle passioni, o dell’inesperienza di una persona
minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una
persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto,
che comporti qualsiasi effetto giuridico per lei dannoso, è punito con la
reclusione… e con la multa…».

 

Tag: Anziani, prevenzione, qualità della vita, abusi

Rosanna Novara Topino




La paralisi agitante

La condizione
dell’anziano (seconda parte) / il Parkinson
Tremore, rigidità,
disturbi dell’equilibrio, postura curva, disfunzioni sessuali, disturbi della
pressione arteriosa, dell’olfatto, del sonno, depressione, ansia, apatia,
disturbi cognitivi e talvolta psicotici. La «paralisi agitante» colpisce il 2%
della popolazione sopra i 65 anni, e per i prossimi 15 anni è previsto un
raddoppio del numero di malati. Ricerca scientifica e assistenza ai malati e
alle loro famiglie sono le priorità.

La malattia di Parkinson è senz’altro
la patologia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer (crf.
Mc dicembre 2014). Nei paesi industrializzati, la prevalenza di questa malattia
è di circa lo 0,3%. Secondo uno studio di R. Dorsey, neurologo dell’Università
di Rochester (Usa), apparso su «Neurology», il numero dei malati di Parkinson
raddoppierà con la prossima generazione nei 15 paesi oggetto della ricerca
(Francia, Germania, Spagna, Italia, Regno unito, Cina, India, Indonesia, Usa,
Brasile, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Giappone, Russia), passando dai 4,1
milioni attuali a 8,7 milioni nel 2030, di cui 5 nella sola Cina. Secondo lo
studio di «Neurology», la patologia aumenterà, più che negli Usa e in Europa,
negli altri paesi, soprattutto in quelli in via di sviluppo, dove il Parkinson
non è ancora considerato un problema rilevante e le infrastrutture per la
diagnosi e la cura sono spesso molto limitate. Questi paesi focalizzano le proprie
risorse maggiormente sulle malattie infettive, ma in un futuro non troppo
lontano dovranno fare fronte a quelle croniche non infettive, come il
Parkinson, che rappresentano un peso maggiore in termini di costi economici e
sociali.

In Italia

In Italia attualmente i pazienti in cura
sono circa 230.000. Si stima che la spesa annuale italiana per questa patologia
sia di circa 2,4 miliardi di Euro. Buona parte di questa cifra viene spesa in
ricoveri ospedalieri e case di cura, mentre la spesa relativa ai farmaci è
decisamente inferiore. A queste voci vanno poi aggiunti i costi indiretti della
malattia, come la riduzione della produttività dei pazienti e, spesso, dei
familiari che li assistono, e i costi dei vari ausili e della riabilitazione
per superare le difficoltà motorie e di linguaggio, che la malattia comporta.

Malati illustri

Nell’immaginario collettivo, la malattia di
Parkinson è legata soprattutto a due personaggi pubblici come papa Giovanni
Paolo II e Muhammad Ali, alias Cassius Clay. Per il pugile si è ipotizzato un
parkinsonismo secondario, dovuto cioè ai colpi ricevuti nell’attività sportiva.
Un altro malato illustre fu il cardinale Carlo Maria Martini, scomparso nel
2012. Anche nel mondo dello spettacolo si contano malati di Parkinson come
l’attore canadese Michael J. Fox, che ha aperto una fondazione negli Usa con lo
scopo di sviluppare una cura. Negli ultimi anni della sua vita, fu malato di
Parkinson anche Adolf Hitler.

Chi colpisce

La malattia di Parkinson prende il nome da
James Parkinson, il chirurgo londinese che ne descrisse i sintomi nel Trattato
sulla paralisi agitante
del 1817. Sono state trovate descrizioni di sintomi
simili già in antichi scritti di medicina indiana e cinese, in un papiro
egizio, nella Bibbia (si veda ad esempio Qoelet 12,3-7 e Lc 5,17-26) e negli
scritti di Galeno (medico greco del II secolo d.C.).

Questa malattia è tipica dell’età anziana,
poiché esordisce mediamente intorno ai 60 anni. Tuttavia nel 5-10% dei casi,
definiti a esordio giovanile, i sintomi compaiono già tra i 20 e i 50 anni. La
sua incidenza è di 8-18 nuovi casi all’anno su 100.000 persone, e colpisce
circa il 2% della popolazione sopra i 60 anni. La percentuale sale al 3-5%
oltre gli 85 anni. Un malato di Parkinson rischia di soffrire di demenza da 2 a
6 volte in più della popolazione generale, e la prevalenza della demenza
aumenta con il decorso della malattia. Ciò riduce notevolmente la qualità e
l’aspettativa di vita. Il tasso di mortalità dei parkinsoniani è circa il
doppio di quello delle persone non affette. Inoltre, se la cura non viene
intrapresa ai primi sintomi, il paziente rischia di venire immobilizzato dal
morbo nell’arco di una decina di anni.

I sintomi motori

I sintomi della malattia di Parkinson
possono essere distinti tra motori e non motori. Non sono presenti in tutti i
pazienti allo stesso modo, e nel singolo paziente possono presentarsi
progressivamente nel corso degli anni, ma in modo molto diverso a seconda che
la cura sia iniziata più o meno precocemente, per cui è importante cogliere i
primi segnali della malattia per effettuare quanto prima una corretta diagnosi.
Talvolta purtroppo i sintomi del Parkinson non vengono immediatamente
riconosciuti, perché si manifestano in maniera incostante, e la progressione
della malattia è tipicamente lenta. Spesso sono i familiari del malato ad
accorgersi per primi dei cambiamenti.

Tra i principali sintomi motori del
Parkinson ci sono il tremore a riposo, la rigidità, la bradicinesia
(lentezza dei movimenti), i disturbi dell’equilibrio e del cammino, la postura
curva
, l’alterazione della voce, le difficoltà di deglutizione
con conseguente scialorrea (eccessiva presenza di saliva in bocca).
Generalmente il tremore a riposo, che peraltro non è comune a tutti i pazienti,
interessa unilateralmente una mano o un piede, oppure la mandibola. Qualche
paziente talvolta riferisce di percepire un «tremore interno» non
visibile esteamente.

La rigidità è la conseguenza di un aumento
involontario del tono muscolare, che può essere un sintomo di esordio della
malattia. Colpisce inizialmente un lato del corpo e può interessare gli arti,
il collo e il tronco. È tipica la riduzione dell’oscillazione pendolare delle
braccia durante il cammino. Può essere presente anche acinesia
(difficoltà a iniziare movimenti spontanei). Acinesia e bradicinesia
interferiscono pesantemente con la vita quotidiana, rendendo difficili (se non
impossibili) attività come lavarsi, vestirsi, camminare, spostarsi, girarsi nel
letto. I movimenti fini diventano sempre più difficili, per cui ne risultano
alterate la grafia, che diventa più piccola, e l’espressione del volto
(ipomimia).

I disturbi dell’equilibrio compaiono più
tardivamente: per una riduzione dei riflessi di raddrizzamento, il paziente non
è capace di correggere eventuali squilibri, ad esempio mentre cammina o cerca
di cambiare direzione, rischiando cadute e fratture. Si stima che il 40% dei
ricoveri di pazienti con Parkinson sia conseguente alle cadute. Poiché questo
sintomo non risponde alla terapia dopaminergica, può essere di grande aiuto la
fisiochinesiterapia.

I disturbi del cammino si manifestano con un
ridotto movimento pendolare delle braccia, con un tronco flesso in avanti e con
un passo più breve. Talvolta è presente la «festinazione», cioè la tendenza a
trascinare i piedi a terra e ad accelerare il passo, con difficoltà ad
arrestarsi. Inoltre, durante il cammino, possono verificarsi episodi di blocco
motorio, anch’esso possibile causa di cadute. Oltre alla postura flessa del
tronco, talvolta sono flesse anche le ginocchia.

Le difficoltà di movimento che interessano i
muscoli della gola causano problemi di deglutizione (disfagia) e di fonazione,
rendendo la voce via via più flebile o mancante di tonalità e di modulazione.
Talvolta il paziente tende a ripetere le sillabe, ad accelerare l’emissione dei
suoni e a «mangiarsi» le parole.

I sintomi non motori

Oltre ai sintomi motori, nella malattia di
Parkinson, a causa di alterazioni del sistema nervoso autonomo, insorgono anche
sintomi non motori che possono esordire anni prima rispetto a quelli motori e
peggiorare nella fase avanzata. Tra essi ci sono la stipsi
(stitichezza), i disturbi urinari, le disfunzioni sessuali, i disturbi
della pressione arteriosa
, alcuni problemi cutanei, i disturbi
dell’olfatto
, quelli del sonno, quelli dell’umore, tra cui depressione,
ansia, apatia
, i disturbi comportamentali ossessivi-compulsivi, i disturbi
cognitivi
e talvolta i sintomi psicotici.

La stipsi è dovuta a un rallentamento della
funzionalità gastro-intestinale.

I disturbi urinari generalmente comportano
un aumento della frequenza minzionale, cioè la necessità di urinare spesso.
Possono esserci anche ritardo nella minzione o lentezza nello svuotamento della
vescica.

Il desiderio sessuale può essere ridotto o
aumentato sia per motivi psicologici, che per effetti farmacologici.

Possono esserci alterazioni della pressione
arteriosa con episodi di ipotensione durante la stazione eretta e di
ipertensione durante la posizione sdraiata. Il cambio di posizione
sdraiato/seduto può causare caduta pressoria.

Possono esserci molteplici problemi cutanei
come cute secca o seborroica (grassa), ridotta sudorazione o iperidrosi
(sudorazione profusa).

Tra i primi sintomi del Parkinson possono
esserci riduzione del senso dell’olfatto e del gusto, per cui improvvisamente
viene meno il piacere di mangiare determinati cibi o di sentire gli odori.

I disturbi del sonno possono interessare
fino al 70% dei pazienti, si manifestano sia all’inizio della malattia, che più
avanti nel tempo, e possono essere determinati tanto dalla patologia, che dai
farmaci utilizzati. Tra questi disturbi vi sono l’insonnia, l’eccessiva
sonnolenza diua indipendente dall’insonnia nottua, il disturbo
comportamentale nella fase Rem del sonno (mentre in essa normalmente si è
rilassati, i malati di Parkinson si muovono e sembrano interagire con i sogni),
la sindrome delle gambe senza riposo (che compare e s’intensifica nelle ore
serali e nottue con una continua necessità di muovere le gambe).

La depressione è molto frequente nei malati
di Parkinson, sia in fase iniziale, che avanzata, e può manifestarsi con
alterazioni dell’umore, affaticamento, disturbi del sonno, modificazioni
dell’appetito e disturbi della memoria. Altrettanto frequente è la presenza di
ansia, paura o preoccupazione. Spesso l’ansia è associata a sintomi vegetativi,
somatici e cognitivi, e in particolare alle fasi di blocco motorio.

Spesso il paziente si presenta apatico, cioè
presenta indifferenza emotiva e mancanza di volontà a intraprendere qualsiasi
attività.

Sotto l’effetto dei farmaci dopaminergici,
in alcuni pazienti possono essere presenti alterazioni comportamentali come la
ricerca ossessiva di piacere e gratificazione personale, l’assunzione smodata
di cibo, il gioco d’azzardo, l’ipersessualità, lo shopping compulsivo o la
dipendenza da internet.

In tutte le fasi della malattia, ma
soprattutto nello stadio avanzato e negli anziani, possono manifestarsi
disturbi cognitivi che coinvolgono l’attenzione, le capacità di visualizzazione
spaziale e le funzioni esecutive, cioè la capacità di pianificare e cambiare
strategia.

In rari casi possono essere presenti sintomi
psicotici come deliri, allucinazioni e affaticamento, riferito come mancanza di
forza e senso di stanchezza, anche nel caso in cui il paziente in cura non
abbia problemi dal punto di vista motorio.

Cause

I sintomi del Parkinson sono la conseguenza
del danneggiamento di aree profonde del cervello – i gangli della base (nuclei
caudato, putamen e pallido) – che partecipano alla corretta esecuzione dei
movimenti. In particolare si verifica la morte di una consistente quota (fino
al 70%) di neuroni dopaminergici, i quali producono dopamina, un
neurotrasmettitore che favorisce l’attività motoria. Caratteristica della
malattia di Parkinson è la presenza, nei neuroni rimanenti, di formazioni,
dette corpi di Levy, costituite dalla proteina alfa-sinucleina. Per molti
malati di Parkinson la causa della malattia non è nota, ma in una piccola
percentuale di casi, circa il 5%, la malattia si verifica a seguito di una
mutazione genetica: di uno tra i geni specifici che, ad esempio, codificano per
l’alfa-sinucleina (Snca), per la parkina (Prkn) e per la dardarina (Lrrk2).
Tali mutazioni sono la causa di circa il 5% dei casi di familiarità del
Parkinson, i quali sono a loro volta il 15% del totale.

Fattori di rischio

Tra i fattori di rischio della malattia pare
esserci l’esposizione a inquinanti ambientali come i fitofarmaci, gli
insetticidi come il rotenone, gli erbicidi come il disseccante paraquat e il
defoliante Agente Orange (usato durante la guerra del Vietnam per stanare i
vietcong nascosti nella foresta), i metalli pesanti (a cui sono esposti alcuni
lavoratori come, ad esempio, i saldatori) e gli idrocarburi solventi
(trielina). Altro fattore di rischio importante sono i traumi cranici ripetuti.

Fattori protettivi dalla malattia sembrano
essere il consumo di caffeina, gli estrogeni, i farmaci anti-infiammatori non
steroidei e il fumo di tabacco. Quest’ultimo però è da evitare, visto il suo
ruolo nel cancro del polmone e nell’insorgenza dell’aterosclerosi.

Le cure


Attualmente non esiste una cura per la
malattia di Parkinson, ma il trattamento farmacologico, la chirurgia e la
gestione multidisciplinare del malato possono contribuire ad alleviare i
sintomi. Poiché la malattia è scatenata dalla riduzione della dopamina in
circolo, la terapia farmacologica mira a ripristinae il livello. Il farmaco
più usato, la levodopa, viene convertito in dopamina nei neuroni dopaminergici,
tuttavia solo il 5-10% raggiunge il cervello. Il resto viene trasformato
altrove, causando una serie di effetti collaterali, come nausea, discinesia
(movimenti involontari) e rigidità articolare. Dopo circa 10 anni di terapia
con levodopa, i pazienti sono in gran parte affetti da queste complicanze da
farmaco. Inoltre dopo un numero di anni variabile, il trattamento non è più in
grado di fornire un controllo motorio stabile. In questi casi è possibile
ottenere un miglioramento ricorrendo alla chirurgia stereotassica che consente
di raggiungere formazioni situate nella profondità del cervello, grazie
all’ausilio di dispositivi radiologici. Attualmente sono in corso ricerche per
mettere a punto una terapia genica, che prevede l’uso di virus non infettivi
per portare nel nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio, un gene
utile alla produzione del neurotrasmettitore Gaba, anch’esso deficitario nel
Parkinson.

Un altro fronte di ricerca è quello che
prevede la sostituzione dei neuroni dopaminergici andati perduti con cellule
staminali. Le cellule staminali possono essere embrionali, neurali adulte o
fetali, autologhe (derivanti dal midollo osseo o da altri tessuti dei pazienti
stessi), e derivanti dal cordone ombelicale. Le staminali embrionali sono
cellule capaci di differenziarsi in qualsiasi tessuto, tuttavia il loro uso
rappresenta un problema etico. Inoltre esse possono causare la formazione e lo
sviluppo di tumori, e rigetto. Solo proseguendo con la ricerca sarà possibile
risolvere questi problemi. È indispensabile, quindi, che vi sia una maggiore
sensibilità su questi temi, soprattutto a livello parlamentare, affinché siano
recepite tanto l’importanza della ricerca, quanto la necessità di supportare la
gestione dei malati.

Rosanna Topino
Novara

 

La prima puntata, dedicata all’Alzheimer, è
apparsa su MC 12/2014, pp. 66-69.

Tags: malattie, salute, anziani, malattia di Parkinson

Rosanna Topino Novara




Un uomo su sette

Le patologie
oncologiche / 2: Il tumore alla
prostata

Il tumore alla
prostata è la principale neoplasia che colpisce il genere maschile. Sempre più
diffusa, soprattutto nei paesi sviluppati, negli ultimi anni ha tuttavia visto
migliorare l’indice di sopravvivenza.

I tumore alla prostata è la neoplasia prevalente nell’uomo. Esso
rappresenta il 21% di tutti i tumori ed è la terza causa di morte per tumore,
dopo quelli del polmone e del colon-retto. La sua incidenza è andata
progressivamente aumentando a partire dalla metà del secolo scorso, in cui esso
era considerato estremamente raro. Oggi è la più diffusa neoplasia tra i
maschi. Le ragioni di questo incremento sono legate sia ad un miglioramento
delle tecniche diagnostiche e alla diffusione della tecnica di resezione
transuretrale, le quali permettono di scoprire i casi subclinici, che
diversamente non sarebbero riconosciuti, sia all’aumento della vita media
verificatosi nell’ultimo secolo. L’incidenza (vedi Glossario) di questo
tumore aumenta infatti progressivamente con l’età (1% sotto i 40 anni, 30%
nella fascia 45-60 anni, 95% oltre gli 80 anni). In pratica quasi tutti gli
uomini, che hanno superato gli 80 anni presentano un piccolo focolaio di cancro
prostatico. La prevalenza (vedi Glossario) di queste lesioni raddoppia
ogni dieci anni d’età, passando dal 10% in uomini di 50 anni al 70% negli
ottantenni. Il tumore della prostata è particolarmente diffuso nei paesi
sviluppati, cioè Europa Nord occidentale, Australia, America del nord (in
particolare la popolazione afro-americana presenta elevati tassi d’incidenza),
ma è di frequente riscontro anche in alcune popolazioni caraibiche e nel Nord
Est del Brasile, mentre le popolazioni asiatiche dell’India e della Cina
sembrano essee meno colpite. In Italia l’incidenza di questo tumore varia tra
il 16,9 (x 100.000 abitanti) nella provincia di Latina e il 59,1 in quella di
Trieste. Nel nostro paese vengono diagnosticati oltre 40.000 nuovi casi
all’anno, un malato ogni 7 uomini seguiti e ci sono circa 5.000 decessi (uno su
34 pazienti seguiti). Ma la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è migliorata
nel corso degli anni passando dal 66% (1990-94) al 91% attuale.

Per quanto riguarda l’eziologia di questo tumore, sono state individuate
diverse possibili cause
: la predisposizione genetica, l’età, l’influenza degli
ormoni maschili, gli inquinanti ambientali, l’alimentazione e l’Herpes virus.

La predisposizione genetica risulta evidente
sia dalla maggiore diffusione della patologia in alcune etnie, come quella
nera, che in altre ed inoltre dalla familiarità (è più a rischio chi ha avuto
un consanguineo malato per questo tumore)1.

Si ipotizza inoltre che un continuo stress
infiammatorio come la prostatite possa favorire la progressione tumorale in una
condizione già predisposta.

L’avanzare dell’età predispone alla
possibile insorgenza di qualche forma tumorale per via del naturale
abbassamento delle difese immunitarie.

Un’altra causa sono gli ormoni sessuali
maschili, cioè il testosterone ed il suo metabolita diidro-testosterone. La
prostata è una ghiandola dell’apparato riproduttore maschile situata sotto la
vescica urinaria, con la funzione di produrre il liquido prostatico, che
unitamente a quello prodotto dalle vescicole seminali, dalle ghiandole
bulbo-uretrali e dai testicoli, forma il liquido seminale. La prostata inoltre è
androgeno-dipendente, cioè si sviluppa ed è mantenuta normofunzionale dai
livelli plasmatici del testosterone. Verosimilmente questo ormone ed il suo
metabolita hanno un ruolo importante, anche se non esclusivo, nello sviluppo
del tumore prostatico, poiché questa neoplasia non si trova negli eunuchi, non
si sviluppa in ghiandole atrofiche e tende a regredire somministrando
antagonisti del testosterone, cioè estrogeni, farmaci Lhrh (che bloccano la
produzione dell’ormone da parte dei testicoli) e antiandrogeni (che impediscono
il legame del testosterone sulle cellule prostatiche).

Di
sicuro rilievo nell’eziologia del tumore prostatico sono gli inquinanti
ambientali e l’alimentazione
, come si evince osservando le variazioni nei tassi
d’incidenza nelle popolazioni migrate, tassi che in breve diventano
sovrapponibili a quelle del Paese ospitante. Per quanto riguarda gli inquinanti
ambientali, ricordiamo il cadmio, teratogeno e cancerogeno e lo zinco, capace
di determinare un indebolimento del sistema immunitario.

L’alimentazione può favorire l’insorgenza del tumore
prostatico, se particolarmente ricca di grassi e di cai rosse, che portano ad
un aumento del testosterone. Anche un consumo elevato di calcio può fare
aumentare il rischio. Al contrario, tra i fattori protettivi, oltre al consumo
di vegetali è importante inserire nella dieta la vitamina E, il selenio e
l’estratto di pomodoro che contiene il licopene, capace di ridurre i livelli
ematici di Igf-1, proteina che stimola la crescita delle cellule del cancro
prostatico .

Gli studi sul possibile ruolo di agenti infettivi quali
batteri e virus come causa del tumore prostatico hanno portato a risultati
contrastanti, poiché al momento non ci sono prove certe, sebbene sia stata
osservata la presenza di Herpes virus (trasmissibile con i rapporti sessuali)
in alcune cellule di tumore prostatico2.

La
prostata può essere interessata da una patologia benigna, premaligna o maligna
.
Tra le patologie benigne ci sono la prostatite, cioè l’infiammazione/infezione
(che può essere acuta con episodi anche in giovane età e cronica) e l’«ipertrofia
prostatica benigna», un ingrossamento della parte di prostata più vicina
all’uretra legato all’età del paziente. Si tratta di una patologia progressiva,
che comincia verso i 50-60 anni e si presenta con un aumento volumetrico della
prostata, che comprime e rende meno elastica l’uretra, determinando difficoltà
di svuotamento completo della vescica con rischio di complicanze legate alla
parziale ritenzione dell’urina.

Tra le lesioni premaligne della prostata ci sono la «iperplasia
adenomatosa atipica» (Iaa) e la «neoplasia intraepiteliale prostatica» (Pin)3. La prevalenza delle
lesioni preneoplastiche aumenta con l’età del paziente e precede di circa 5
anni l’insorgenza dell’adenocarcinoma.

Le patologie maligne della prostata (cioè le varie forme
di cancro) sono: l’adenocarcinoma dei dotti (che è sicuramente l’istotipo più
frequente, rappresentando il 95% dei casi), il carcinoma anaplastico a piccole
cellule, il carcinoma spinocellulare ed il carcinosarcoma. 

I
soggetti più a rischio
e che necessitano di un maggiore controllo sono gli
uomini a partire dai 50 anni d’età e coloro che presentano familiarità per il
cancro prostatico, per i quali è consigliabile effettuare i controlli a partire
dai 40 anni. È bene tenere presente che la presenza o l’assenza di sintomi non è
un criterio discriminatorio, perché questo tumore – in fase iniziale -non dà
una sintomatologia clinica. La diagnosi precoce si basa essenzialmente sulla
visita urologica, sull’ecografia transrettale e sulla valutazione di alcuni
parametri del sangue, in particolare del Psa4. Va detto che per porre la
diagnosi di carcinoma prostatico è sempre necessaria la biopsia prostatica, la
cui esecuzione viene decisa sulla base della visita urologica e sull’esame di
specifici parametri.

L’aggressività del tumore viene definita dal referto
istologico della biopsia, in base alla classificazione secondo Gleason (5
livelli), mentre la sua estensione viene valutata con la scintigrafia ossea, la
Tac o la Pet-Tac e la risonanza magnetica.

Le
opzioni di trattamento di un tumore prostatico allo stadio iniziale sono
: la
sorveglianza attiva o monitoraggio attivo, l’intervento chirurgico, la
radioterapia a fasci estei o la brachiterapia, la terapia ormonale e l’attesa
sorvegliata. Ciascuna di queste opzioni presenta pro e contro, quindi la scelta
va fatta valutando le rispettive conseguenze e l’età del paziente.

La sorveglianza attiva prevede regolari controlli del
Psa e biopsie della prostata, per stabilire se il cancro è stabile o in
crescita, in modo da trattare chirurgicamente o con radioterapia solo chi ne ha
davvero bisogno, poiché le forme di cancro non sono tutte aggressive allo
stesso modo. È una metodica applicata agli uomini giovani e con tumore allo
stadio iniziale, che permette loro di vivere normalmente, ma con l’incognita di
un possibile aggravamento e con il fastidio delle biopsie ripetute.

L’intervento chirurgico sulla prostata («prostatectomia»)
e sugli annessi è indicato quando il tumore è allo stadio iniziale e limitato
all’interno della capsula prostatica. È riservato alle persone che abbiano
un’aspettativa di vita di almeno 10 anni, quindi non viene eseguito in età
avanzata.

È radicale, quindi libera dal tumore completamente
(salvo eventuali future recidive), ma il paziente va purtroppo incontro al
rischio di incontinenza urinaria (20-40% dei casi) e di impotenza (80% dei
casi). Da alcuni anni, per limitare il rischio d’impotenza, diversi urologi
praticano la chirurgia nerve sparing, che conserva l’innervazione.
Tuttavia esistono limitazioni alla sua applicazione, poiché potrebbe esporre il
paziente ad un più elevato rischio di recidive. Sicuramente questo tipo di
chirurgia non può essere praticato, se il tumore supera la capsula prostatica,
perché delle cellule neoplastiche potrebbero rimanere vicino ai nervi, causando
successivamente una recidiva. La radioterapia a fasci estei o la
brachiterapia, praticata inserendo diverse fonti radioattive direttamente nella
prostata, sostituisce a tutti gli effetti l’intervento chirurgico, non presenta
i rischi di decesso correlati all’intervento, ma implica la comparsa di cistiti
durante e dopo il trattamento, possibili danni alla vescica ed al retto e,
anche in questo caso, rischio d’impotenza (30-50% dei casi).

La terapia ormonale con antagonisti del testosterone
praticata da sola non sconfigge tutte le cellule tumorali, ma può tenere sotto
controllo la malattia per mesi o anni, finché il tumore resta
androgeno-dipendente e può inoltre essere addizionata alla chirurgia e alla
radioterapia. A seconda della terapia usata ci sono effetti collaterali
variabili, che possono comprendere ginecomastia, vampate di calore, impotenza e
mancanza di desiderio sessuale. Quando il tumore non risponde più alla terapia
ormonale è ancora possibile passare alla chemioterapia. L’attesa sorvegliata
consiste nel monitoraggio con Psa dei pazienti più anziani o che hanno altri
problemi di salute per cui chirurgia o radioterapia sono controindicate. Va
detto che spesso il cancro della prostata cresce molto lentamente, al punto da
non creare problemi in un paziente già avanti negli anni. Nonostante la sua
diffusione, il tumore prostatico non è un big killer, come può essere ad
esempio il melanoma, che può uccidere in 6 mesi.

Spesso
le cure seguite per il tumore della prostata hanno quindi gravi ripercussioni
sulla vita sociale e di coppia del paziente, oltre che a livello psicologico.
In particolare, per quanto riguarda la vita di coppia dopo una diagnosi di
tumore o di altra grave patologia, è stato recentemente pubblicato uno studio
su Cancer (che ha preso in esame tumori cerebrali e sclerosi multipla),
riguardante 515 pazienti da cui è emerso che il 12% delle coppie va incontro a
separazione o divorzio, se ad uno dei coniugi viene diagnosticato un cancro. In
particolare tende a separarsi il 21% delle coppie se ad ammalarsi gravemente
(quindi non solo di cancro) è lei, contro il 3% se il malato è lui e si tratta
prevalentemente di coppie di giovani. Il cancro, da malattia della persona,
diventa quindi malattia della coppia e della famiglia, per il trauma che esso
comporta ed i gravi disagi fisici e psicologici sia del paziente, sia di chi
gli sta accanto. Purtroppo i pazienti lasciati dal coniuge vanno più facilmente
incontro a recidive, perché meno motivati a seguire le cure e i controlli con
costanza e forse perché più indeboliti a livello immunitario, a causa della
sofferenza psicologica. Va detto che, nel caso del tumore della prostata,
attualmente, dopo la terapia, è possibile fare ricorso a protesi impiantate chirurgicamente
o a trattamenti farmacologici per ovviare al problema dell’impotenza, che
purtroppo spesso mina l’autostima del paziente (inducendo talora al suicidio) e
il rapporto di coppia. Tuttavia, forse sarebbe meglio aiutare le persone a
comprendere un rapporto si basa su cose diverse dalla sessualità, che
sicuramente è importante, ma non essenziale. Quando esistono amore vero,
affetto reciproco e interessi comuni, la limitazione della sessualità è un
problema superabile, soprattutto grazie alla consolazione che c’è ancora del
tempo da trascorrere insieme, nonostante la malattia. È altrettanto importante
essere consapevoli che il proprio valore come persona è immutato, nonostante la
malattia, anzi è maggiore proprio per il coraggio dimostrato nell’affrontarla.

Rosanna Novara
Topino

Glossario
 

Adenocarcinoma / adenoma:
adenocarcinoma è un tumore maligno del tessuto epiteliale, che prende
origine dall’epitelio ghiandolare. Se il tessuto ghiandolare è anormale, ma il
tumore è benigno, si parla invece di adenoma.

Antigene: sostanza
di provenienza ambientale o formatasi all’interno dell’organismo, che può
essere riconosciuta dal sistema immunitario. Viene definita immunogena quando
stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi contro di essa. Il sistema immunitario
elimina o neutralizza qualsiasi antigene riconosciuto come estraneo o
potenzialmente dannoso.

Eziologia: in
medicina è lo studio delle cause di malattia.

Ginecomastia: anomalo
ingrossamento delle mammelle maschili. Può essere vera, quando vi sia una
eccessiva conversione del testosterone in estrogeni, o iperprolattinemia, o a
seguito di ormoni femminili, o per incapacità del fegato di smaltire gli
estrogeni in eccesso. È invece falsa, quando è semplicemente dovuta a un accumulo
di grasso: in questo caso si parla di lipomastia.

Incidenza: numero
di nuovi casi diagnosticati in una popolazione di riferimento (ad esempio,
100.000 persone) in un arco di tempo, solitamente un anno.

Licopene: appartiene
al gruppo dei carotenoidi ed è abbondante nel pomodoro. È una sostanza
lipofila, quindi viene assorbito dai grassi e ha elevate proprietà
antiossidanti. È una molecola scavenger, cioè spazzina di radicali liberi,
molecole implicate nell’insorgenza dei tumori.

Macrofagi: detti
anche istiociti, sono cellule della difesa immunitaria aspecifica, con proprietà
di fagocitosi, cioè capacità di inglobare nel proprio citoplasma detriti
cellulari e particelle estranee. Ricoprono il ruolo di cellule spazzine
dell’organismo.

Melanoma: è il
più aggressivo dei tumori della pelle, poiché utilizza sia la via ematica, che
quella linfatica per diffondere le metastasi. Può prendere origine da un neo
cutaneo, ma non necessariamente, e può formarsi ovunque. Negli ultimi anni la
sua frequenza è notevolmente aumentata rispetto al passato anche a causa della
tendenza a esporsi a lungo al sole e alle lampade abbronzanti.

Per-Tac: tomografia
assiale computerizzata a emissione di positroni.

Psa (valori e rischio tumore):
il Psa –
antigene prostatico specifico – è un «marcatore» del tumore prostatico. Si
misura attraverso un’analisi del sangue: •
0-2,5 ng/ml: rischio basso; • 2,6-10
ng/ml: rischio moderato; • oltre 10 ng/ml: rischi
elevato.

Prevalenza: la
prevalenza dei pazienti oncologici è il numero di persone che hanno
precedentemente avuto una diagnosi di tumore, nella popolazione generale. È
influenzata sia dalla frequenza con cui ci si ammala, sia dalla durata della
malattia (sopravvivenza). Tumori meno frequenti ma con buona prognosi tendono a
essere più rappresentati nella popolazione rispetto a tumori molto più
frequenti ma caratterizzati da bassa sopravvivenza.

Rna messaggero: acido
nucleico con la funzione di trasporto dell’informazione genetica dal Dna
contenuto nel nucleo cellulare ai ribosomi del citoplasma cellulare, dove si
effettua la sintesi proteica.

Scintigrafia: esame
di medicina nucleare effettuato dopo la somministrazione di un tracciante
radioattivo, che si accumula preferenzialmente nel tessuto che si intende
studiare. È utilizzata per evidenziare la presenza di metastasi tumorali
localizzate nelle ossa.

Testosterone: ormone
sessuale maschile del gruppo androgeno, prodotto principalmente dalle cellule
di Leydig dei testicoli e, in minima parte, dalle ovaie e dalla corteccia
surrenale. Nell’uomo è deputato allo sviluppo degli organi sessuali e di tutto
l’apparato genitale, nonché dei caratteri sessuali secondari come la barba, la
distribuzione dei peli, il timbro della voce e la muscolatura. Nella pubertà
interviene anche nello sviluppo scheletrico, limitando l’allungamento delle
ossa lunghe ed evitando una crescita sproporzionata degli arti.

R.N.T.

Note (tecniche)
esplicative

 

(1) In particolare, vi sarebbero tre geni coinvolti
nell’eziologia di questo tumore: il Rnasel (detto anche Hpc1), la cui mutazione
può predisporre a infezioni virali; l’Msr1, importante per la risposta che i
macrofagi possono dare agli antigeni estei e la cui mutazione predispone alle
infezioni, soprattutto batteriche; il Brca2, il cui prodotto normale è
coinvolto nella riparazione di tratti cromosomici danneggiati.

(2) Secondo un recente studio di
E. Platz pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention
dell’«American Association for Cancer Research», la presenza di infiammazione
cronica nel tessuto prostatico benigno è associabile a un aumentato rischio di
tumore prostatico più aggressivo, anche nel caso in cui il livello del Psa
(antigene prostatico specifico) sia basso. Lo studio che ha coinvolto 18.882
pazienti ha dimostrato che quelli con il tessuto prostatico benigno infiammato
hanno probabilità 1,78 volte maggiore di ammalarsi di tumore della prostata e
2,24 volte in più che si tratti di una forma più aggressiva.

(3) Nella Iaa è evidente una proliferazione
dell’epitelio prostatico con la formazione di gruppi di neoformazioni
ghiandolari ben delimitate, senza quadro d’infiltrazione. Nella Pin, che può
essere di basso e di alto grado, si osserva una proliferazione epiteliale senza
neoformazione ghiandolare, con formazione di più strati di cellule, che
presentano alterazioni nucleari e nucleolari sempre più marcate mano a mano che
si va verso il grado più elevato e che presentano notevoli analogie con il
quadro riscontrabile nell’adenocarcinoma prostatico, la varietà più diffusa di
cancro della prostata.

(4) I parametri principali sono:
il Psa ematico, il rapporto Psa libero/Psa totale, la Psa velocity, ovvero la
velocità con cui il Psa aumenta nel tempo, il Pca3, nuovo marcatore su base
genetica (Rna messaggero), il Psma (antigene di membrana prostatico specifico)
e il Psap (fosfatasi acida prostatica specifica). Per quanto riguarda il Psa,
il marcatore più ricercato per effettuare la diagnosi, si tratta di una
glicoproteina contenuta nelle cellule epiteliali prostatiche acinari e dei
dotti sia normali, che neoplastiche. Si ritiene che in presenza di un elevato
ricambio cellulare (come avviene nei tumori) ci sia una perdita di coesione tra
le cellule epiteliali e i lumi dei dotti ghiandolari, con conseguente
immissione del Psa nel sangue.

Tags:

patologie oncologiche, indice di sopravvivenza, prostata

Rosana Novara Topino




Una donna su otto: Il tumore al seno 

Le patologie oncologiche / 1


Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la
patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per
tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori:
ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo,
alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è
migliorato.

In questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi
adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è
costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che – oltre a tutto ciò che comportano – hanno un
grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie
c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui
costi – stimati per 2,5 anni di malattia – sono di circa 15.500 euro procapite
a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici,
chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente,
se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite
specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e
chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della
paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una
possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%.

Per capire meglio l’impatto sociale di questa
malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene
attualmente affrontata.

Secondo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica»
(www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori»
(www.registri-tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo
tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è
influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque
rilevante. Attualmente è a rischio di
ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo
tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla
diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella
popolazione totale è il secondo tumore più frequente, essendo primo quello del
colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana,
il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7%
degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi
casi – cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) – e muoiono circa 13.000 donne. Le
più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre
abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50
anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono
ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo
su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo
tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. 

I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di
questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del
Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di
incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e
delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi
industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci
sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati,
e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su
100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono
bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio
all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come
l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad
esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e
bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra
le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Beardino Ramazzini
(1633-1714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più
frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato
ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle
popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio,
i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti
variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli
statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini
alimentari e riproduttive statunitensi.

Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella
e assunzione di grassi,  proteine di
origine animale e di calorie totali.

Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento
riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza.
Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori
fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da
MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla
prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e
oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni.
Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35
anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che
qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto
protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo
di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che
procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza
aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri
studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un
effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della
menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di
contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza.
Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco
altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni
nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima,
così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si
tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita
di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario.
Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie
formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore,
ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio.
Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione
nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del
tumore della cervice. Le nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo
sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla
terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare
gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati
epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario
sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel
caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in
estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni
è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di
tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure
obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che aumentano il rischio di
carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni.
Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe
il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa
prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che
presentano la menopausa dopo i 55 anni.

Diversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al
giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di
1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori
mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le
radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è
risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e
all’esplosione della centrale nucleare di Cheobyl nel 1986, tra le pazienti
trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi.

Esiste una percentuale di popolazione intorno
allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2,
HER2 e p53.  Si stima che nei Paesi
occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste
mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi
di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per
predisporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente
di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario
aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti
colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio
diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre
quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario,
ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e,
nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1
ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da
chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del
tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha
inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva
delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore
mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere
certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini
netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come
la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il
monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a
partire dai 30 anni, eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo
i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di
tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile
strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di
estrogeni, senza modificare l’immagine corporea.

Altri importanti
fattori di rischio
per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali.
Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed
aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata
vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come
ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di
materiali da costruzione come calce e veici. Purtroppo, essi sono stati
riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo
umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra
Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti
ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici
policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi
grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e
l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro
pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra
cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie,
cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio
di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco,
nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene
sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è
dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità
assoluta di salute pubblica.

La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente
effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di
tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto.
Ciò a cui bisogna tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un
miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle
sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. 

Rosanna Novara
Topino


Il Seno

Il seno è costituito da un insieme di
ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In
realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una
malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto
alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria
che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di
staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e,
col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del
seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le
seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia
lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il
carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e
l’80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare:
quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno.

Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma
tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)

Glossario

Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in
un certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore:
si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex
novo; puó essere benigno o maligno.
Cancro:
è una definizione generale, che riguarda ogni
tipo di tumore maligno.
Carcinoma:
è il cancro dei tessuti di origine epiteliale,
di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole.
Menarca:
è il primo flusso mestruale della donna, che
rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara:
donna che non ha mai partorito.
Mastectomia:
è l’asportazione chirurgica della mammella.
BRCA:
geni coinvolti nel tumore mammario.

tags: salute, seno, oncologia, tumore, patologie

Rosanna Novara Topino