Pandemia, e punti di vista

Luca ci racconta la vita di Gesù, da una prospettiva più simile alla nostra. E poi un diario dal carcere, quello di un missionario rapito dagli islamisti nel Sahel. Infine, come si è vissuta la pandemia in una terra molto speciale.

Ma Dio ci ama gratis?

È uscito a novembre e, complice l’impossibilità di essere presentato nelle librerie a causa delle restrizioni sanitarie legate alla pandemia, se n’è parlato poco, ma Dio ti ama gratis. In cammino con Luca merita tutta l’attenzione possibile. Scritto dal torinese Paolo De Martino e pubblicato dalla casa editrice veronese Gabrielli, è un libro che si inquadra perfettamente all’interno della nuova realtà che, a partire dal marzo del 2020, si è modellata sotto i nostri occhi.

Paolo De Martino, insegnate di religione in una scuola superiore, diacono della diocesi di Torino, è anche il responsabile dell’apostolato biblico e non è nuovo alle avventure editoriali. Questa volta, però, il viaggio all’interno del Vangelo di Luca ha una valenza precisa: ricordarci che la buona notizia c’è, anche se attorno a noi tira un’aria cupa. E questa buona notizia va semplicemente letta e fatta nostra. Anche e soprattutto oggi che abbiamo un gran bisogno di notizie buone.

Luca è l’evangelista che non ha conosciuto Gesù, proprio come noi, e si rivolge a persone che a loro volta non hanno mai visto il Nazareno. Eppure, ci ricorda l’autore nell’introduzione, «Se non avessimo avuto il suo vangelo, non conosceremmo la parabola del buon samaritano, della pecora perduta, non sapremmo nulla del buon ladrone e di Zaccheo, ci sfuggirebbe il particolare che Gesù era seguito e mantenuto da un gruppo di donne».

Luca intervista, chiede, viaggia, studia, mette insieme i pezzi e ci offre un quadro d’insieme di grande umanità perché «vuole semplicemente inserire la vicenda di Gesù nella storia universale».

Oggi quella storia e quelle parole dell’evangelista risultano urgenti. «Dio ci ama gratis – ci dice l’autore raggiunto nel suo ufficio della Curia torinese -, non ci chiede redenzione o qualcosa in cambio. Lui ci perdona, poi saremo noi che, inevitabilmente, cambieremo il nostro punto di vista».

Con questa pandemia non siamo diventati migliori, anzi, la società è divisa come poche al-tre volte in tempi recenti. La lettura del Vangelo di Luca accompagnata dalla guida di Paolo De Martino, per molti di noi, potrebbe rivelarsi un’occasione da non perdere.

 

Sciogliere le catene

Se c’è qualcuno che non ha mai perso la speranza, anche se la sua vita era appesa a un filo, questi è padre Pier Luigi Maccalli, religioso della Società per le missioni estere (Sme) di Genova, cremasco di nascita, che fu rapito nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018 in Niger, nella parrocchia di Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale Niamey, e poi liberato due anni dopo, nei primi giorni di ottobre del 2020.

Quella difficile esperienza è diventata ora un libro, pubblicato dalla Emi, che porta la firma dello stesso Pier Luigi Maccalli, «Catene di libertà». Il religioso italiano racconta il suo rapimento, ma soprattutto chiude un cerchio: deve fare in modo che quella pagina della sua vita possa essere messa alle spalle una volta per tutte: «Adesso sono libero per liberare il perdono e spegnere sul nascere ogni inizio di violenza – scrive padre Maccalli -.  Sono libero per liberare l’accoglienza e consolare chi è affaticato e oppresso. Sono libero per liberare la parola e dire a tutti di non incatenare mai nessuno». C’è una domanda che lo arrovella mentre è, letteralmente e fisicamente, in catene: «Perché il Signore mi ha abbandonato?». Due anni tra le savane del Sahel e le dune del Sahara, dormendo ogni notte all’addiaccio, il più delle volte solo con i suoi carcerieri, altre volte con altri ostaggi, sono un’esperienza dalla quale si può uscire vivi, ma non si è più se stessi. Scrivere diventa terapeutico, diventa lo strumento per tornare davvero tra i vivi e i liberi. Infatti «Catene di libertà», che la stessa Emi, presentandolo, ha definito un «quaderno dal carcere», oscilla tra cronologia e introspezione, in cui i momenti di sconforto, accentuato dal pensiero costante dei familiari e degli amici che il missionario immagina angosciati e preoccupati a casa, si alternano a quelli di speranza. Con sè, ovviamente, non ha una Bibbia e men che meno può permettersi di celebrare i sacramenti. È sottoposto a un lunghissimo «digiuno eucaristico», ma padre Luigi scopre nuove risorse e una nuova dimensione del vivere e del credere: «È proprio in questa prova delle catene che il mio spirito si libera. Perché i miei piedi sono incatenati, ma il cuore no».

C’è una grande dose di nuova fiducia nel futuro nel diario di padre Maccalli, un’eredità preziosa.

Da una terra molto speciale

Rimanendo legati agli effetti di questo lungo periodo segnato dal Covid-19, vale la pena segnalare, a due anni dal primo lockdown italiano, La pandemia in Terra Santa. Diario di un francescano, uscito nella seconda metà del 2021 per Edizioni Terra Santa.

A scriverlo è stato padre Ibrahim Faltas, frate francescano che vive a Gerusalemme. Attualmente è direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa ed è stato vice parroco a Betlemme, parroco a Gerusalemme e responsabile dello status quo della basilica della Natività. «Il mio diario – spiega il religioso – racconta l’esperienza di quest’anno di pandemia. Noi francescani abbiamo continuato la nostra missione in Terra Santa senza mai fermarci, per dare un messaggio di speranza e di attesa di un nuovo futuro». Ci sono ricordi, appunti e immagini, che vanno dalla Pasqua 2020 alla Pasqua 2021: due date fortemente simboliche. La prima è stata una festa umiliata e dimessa con celebrazioni cancellate, santuari vuoti, la gente chiusa in casa e le comunità francescane rinserrate nei conventi. E poi i morti, i malati, la paura. Un anno dopo: tanti fedeli locali e lavoratori migranti che respirano nuovamente la gioia di camminare da Betfage a Gerusalemme per celebrare i riti del tempo pasquale in presenza, nel calore e nella condivisione dei fratelli di fede.

Anche se non tutto è alle nostre spalle, il diario di padre Faltas è una lettura utile per osservare da un altro punto di vista quello che tutti quasi ovunque abbiamo subìto e vissuto. Però, farlo dalla Terra Santa che, per definizione, è il luogo della Resurrezione, ha un sapore intenso e anche un po’ consolante. Il filo che lega le pagine scritte dal francescano è chiaro: la speranza non deve mai cedere il passo allo sconforto.

Sante Altizio




La Letteratura che parla della vita


Un cantautore, un Rom e due donne

Una storia vera e due inventate, ma che parlano di cose vere. L’esperienza di un bambino francese che perde la madre a sei anni, quella di un Rom, perseguitato da uno stigma che gli brucia come un marchio a fuoco, quella di una donna alle prese con un trasloco a novant’anni, e della donna che le porta la notifica di sfratto.

Solo i bambini sanno amare

Gli editori indipendenti sono retti da gente coraggiosa. Coraggiosa e creativa. Chi ama leggere lo sa: nei cataloghi indipendenti spesso si nascondono pagine di letteratura che dovrebbero avere molta più fortuna di quella che hanno.

Ho appena finito di leggere Solo i bambini sanno amare, pubblicato nel 2021 da Vague Edizioni. Lo ha scritto Bruno Caliciuri, in arte Cali, un cantautore francese sconosciuto in Italia, ma di buon seguito oltralpe. In Francia il libro è uscito nel 2018. Vague Edizioni ha scovato la classica perla che rischiava di andare perduta.

I cantautori, almeno in Italia, si concedono spesso digressioni narrative. Da Ligabue a Francesco Guccini, da Roberto Vecchioni a Giuliano Sangiorgi, gli esempi non mancano. Non ho idea se anche in Francia succeda qualcosa di simile, di certo Solo i bambini sanno amare è un libro che non dovrebbe passare inosservato.

Cali, con coraggio e una dose rara di umanità, racconta i mesi terribili che sono seguiti alla morte di sua mamma, la maestra di Vernet Les Baines, un piccolo paesino della Francia meridionale. Lui aveva sei anni.

È un racconto in prima persona, senza distanza temporale. È Cali bambino che si racconta. Attraversa il disorientamento, il dolore, la rabbia, la ricerca di quell’amore materno perduto e che lui ha bisogno in qualche modo di rimpiazzare. Peccato che ci siano vuoti che non possono essere colmati e che capirlo a 6 anni è dura.

Leggendo questo libro, ho rivisto pezzi di Romain Gary, sicuramente con meno ironia, ma di certo con la medesima lucidità. Cali è un autore che vale la pena scoprire come narratore e, se andrete a cercare sue tracce canore su YouTube o Spotify, non resterete di certo delusi.

Un’ultima nota importante sull’editore: Vague Edizioni pubblica solo autori francofoni e rappresenta, per la letteratura francofona, ciò che Sur rappresenta per quella sudamericana, Iperborea per il Nord Europa o Miraggi per il mondo slavo.


Ogni luogo un delitto

Vi segnalo un’altra recente lettura che mi ha colpito non poco. Credo di aver letto, per la prima volta in vita mia, un libro nel quale uno dei due protagonisti, eroe positivo, è un Rom. Un Rom brutto sporco e cattivo, come vogliono gli stereotipi, ma non solo.

Il Rom e tutta la sua comunità vengono raccontati per quello che sono: un popolo imperfetto, con una cultura ancestrale e una religiosità incrollabili alle spalle. Ma anche uno stigma indelebile che li perseguita.

Lo stigma che spinge la signora Pautasso a stringere a sé la borsetta quando li incrocia al mercato, e che fa raccogliere firme nei gazebo per far sgomberare a colpi di ruspa l’accampamento sorto troppo vicino alle nuove villette a schiera.

Gli zingari popolano il razzismo che crediamo di non avere, e che mai nessuno redimerà.

Flavio Troisi, scrittore, ghostwriter e youtuber, ha scritto per Autori Riuniti, Ogni luogo un delitto. È uscito a febbraio del 2021 ed è già alla prima ristampa. Non sono sorpreso. Flavio (che è un tipo interessante, colto, con una visione del mondo che non ama l’ovvio) ha scritto davvero un bel libro, un intrigante viaggio nel mondo zigano, in un accampamento che ha collocato in Val Susa, nella «valle che resiste» (più ai tempi che cambiano troppo rapidamente le vite, che al treno veloce), ma soprattutto ha trasformato un riuscitissimo racconto thriller in un piccolo manifesto di lucida protesta.

Tutti i protagonisti del libro di Troisi sono alla ricerca di un «piano B», di una seconda possibilità. Sono stanchi di un modello sociale nel quale non si identificano, e, alla faccia di ogni regola non scritta, si costruiscono, un pezzo alla volta, un’alternativa, un luogo nel quale poter essere se stessi fino in fondo.

Costel, autorevole boss della comunità rom, e Fabio, ex dirigente scaricato dalla multinazionale di turno, reinventatosi muratore, si ritrovano senza volerlo per un secondo a fare i conti con una brutta (bruttissima) storia di sangue.

Tra loro nasce quel legame di amicizia che nessuno dei due avrebbe mai messo in conto, e scoprono due cose: innanzitutto di essere dei discreti investigatori, poi di essere molto più simili di quanto fosse ipotizzabile.

Costel è un uomo in fuga, come tutti gli zingari del globo, da una storia infinita di pregiudizi. Fabio, invece, dopo essere stato preso a calci nel sedere da ciò in cui credeva, ha bisogno di riprendere in mano la propria esistenza.

Questa storiaccia brutta, darà loro l’opportunità per svoltare.

Non so se in un libro vada cercata la «morale della storia», ma io, in Ogni luogo un delitto, ho trovato questa: la ricerca di un posto nuovo nel quale dormire il sonno del giusto, prima o poi, tocca tutti. E questa ricerca ci rende, che lo si voglia o meno, nomadi.

Anche se non abbiamo origini slave, non suoniamo violini zigani, non siamo circensi, non svuotiamo appartamenti o rubiamo portafogli sul tram. Siamo un po’ Rom, anche se siamo gagi (non Rom). Rom, per la cronaca, significa uomo.


Olmo

Chiudiamo con Olmo, il sesto romanzo di Marcello Loprencipe, uscito con Campi di Carta nel 2021.

Loprencipe, autore con una vicenda personale intrigante (Google vi aiuterà a scoprirla), ci sorprende con una storia intima e tutta al femminile. Le protagoniste infatti sono due donne, molto diverse tra loro per età, vissuto e approccio alla vita e ai sentimenti. Margherita è una novantenne che vive sola in una casa, piena di ricordi, che dovrà lasciare. Viola è la giovane donna che le consegna la notifica di sfratto, ma che non rimane indifferente al racconto dell’anziana.

Quasi tutta la vicenda si svolge su una panchina, dove le due donne si raccontano.

È qui che il romanzo prende corpo, nell’immersione dentro il sentire femminile e, allo stesso tempo, nella rottura degli stereotipi sulla vecchiaia, sui rapporti di forza, sull’importanza del passato e sulle paure del futuro e della morte. Infatti non è detto che Margherita viva nel passato e che Viola progetti il futuro.

Intensa, densa, poetica, come sempre, la scrittura di Loprencipe, che non ama dilungarsi e che in ogni pagina racconta un mondo, in fondo conosciuto e vissuto da ognuno di noi.

Rimane il perché del titolo Olmo. Cosa rappresenta, cos’è, chi è? La risposta la troverete leggendo il libro, ma ciascuno di voi se ne farà un’immagine diversa, ne sono certo.

Sante Altizio

 

 




Storie a Est, verso l’Europa


La rotta balcanica è assai dura. Specie in inverno. I piedi dei migranti si congelano e si disfano nel tentativo di passare la «cortina». Ecco un film che non è un documentario, ma è «cinema del reale».

Un pugno nello stomaco

Dall’11 ottobre le sale cinematografiche sono tornate ad avere la possibilità di capienza al 100%. Speriamo non sia troppo tardi. Nell’ultima settimana di ottobre, con le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria, i cinema italiani, segnala Cinetel, hanno incassato circa quattro milioni e mezzo di euro. Il 20% in meno rispetto alla settimana precedente. Nel weekend dell’11 ottobre 2019, The Joker, di Todd Philips, aveva incassato, da solo, oltre sei milioni di euro. Presto sapremo quanto la pandemia ha cambiato le nostre abitudini di consumo cinematografico, con tutto ciò che ne consegue.

Intanto all’inizio di settembre è uscito nelle sale italiane un piccolo capolavoro, che ha fatto parlare di sé anche all’ultimo Festival del Cinema di Cannes: «Europa». A firmarlo è Haider Rashid, figlio di Erfan, giornalista e regista iracheno che da anni vive a Firenze. Haider ha 36 anni ed è nato a Fiesole, non è nuovo al successo, ma questa volta ha davvero toccato vette alte.

«Europa» è un pugno nello stomaco di straziante attualità.

La storia, se vogliamo, è semplice: Kamal è un giovane iracheno che sta cercando di entrare illegalmente in Europa attraverso la frontiera bulgara, a piedi dalla Turchia. Kamal diventa una preda per cacciatori, legali e illegali.

Sulla «rotta balcanica» abbiamo visto servizi in Tv e letto articoli, anche su MC (vedi dossier di questo numero), ma «Europa» ha il pregio di portarci dentro quella strada invernale e, in poco più di un’ora, ci fa vivere tutta l’angoscia e l’ingiustizia che subiscono, ogni giorno, migliaia di persone «colpevoli» di desiderare un futuro migliore per sé e la propria famiglia (si veda il dossier a pag 35).

Nel film di Rashid c’è qualcosa di «Fuocoammare», ultimo grande capolavoro di Gianfranco Rosi. Pur non essendo un documentario, «Europa» può tranquillamente essere catalogato come cinema del reale. Rashid quella storia la sente sulla pelle, è la storia della sua gente. E questa fortissima empatia si sente dalle prime inquadrature fino ai titoli di coda, con una dedica a chi quel viaggio per entrare nella «Fortezza Europa» lo ha iniziato, ma mai finito. Il film è rimasto nelle sale meno di un mese e ha incassato pochissimo. Presto però sarà disponibile in streaming, non perdetelo.

Fatma e la natura

Rimanendo al confine tra Est Europa e Vicino Oriente, vale la pena segnalare un titolo made in Turkey presentato in anteprima mondiale all’ultima e decima edizione del «Nuovi mondi film festival» di Valloriate, in provincia di Cuneo.

Si intitola «Untold story of Fatma Kayaci». In italiano il titolo è diventato «La storia di Fatma Kayaci, che ascoltò il richiamo della montagna». La regia è di Orhan Tekeoglu, classe 1954.

A differenza di «Europa», la vicenda di Fatma non è una storia collettiva, non è così tragica (per fortuna) e non porta con sé conseguenze che segnano i tempi, ma, nel suo piccolo, è la classica storia che dice molto di chi siamo o non siamo più.

Fatma è una donna molto anziana che da 55 anni vive da sola in una casa di pietra lontana da tutto e tutti, immersa tra gli alberi, in montagna nel distretto di Tonya, provincia di Trebisonda. Il confine armeno non è così lontano. Fatma non si è sposata, non ha avuto figli. Si è isolata da quando, a causa di un incidente avvenuto in casa, un nipote al quale era molto affezionata è morto.

Lei si sente responsabile, i genitori del bambino le hanno rimproverato imprudenza, si è arrivati allo scontro, anche fisico. Così Fatma ha scelto di chiudersi nel suo dolore e di tagliare i ponti con il mondo. La gente del villaggio sa che quanto è successo è solo frutto di un tragico destino, attorno a Fatma c’è comprensione per lei e rispetto per la scelta fatta.

Nonostante la neve la isoli per almeno quattro mesi all’anno, Fatma non scende a valle, dove le autorità locali le hanno messo a disposizione una casa. La montagna diventa il suo habitat. A farle compagnia ci sono solo un gatto e due mucche. Soprattutto diventa la custode del luogo. Se ne prende cura arbusto per arbusto, pianta per pianta. Non solo: coltiva, pianta e impedisce il taglio degli alberi di tutta l’area circostante. Solo quelli secchi possono essere abbattuti. La sua sola presenza, la sua capacità di vivere lì da sola, le conferiscono un’autorevolezza naturale.

Gli abitanti del villaggio, compresi gli uomini più avvezzi alla vita di montagna, lo ammettono candidamente: «Nessuno avrebbe resistito così tanto a una vita così dura».

L’acqua di un rigagnolo, una lampada a gas, un fuoco acceso 12 mesi all’anno, due stanze ingombre di sacchetti di plastica pieni di nulla, qualche coperta, è tutto ciò che Fatma possiede, eppure, forse senza nemmeno volerlo, a forza di prendersi cura dell’ambiente che la circonda ora ci sono decine e decine di alberi da frutta, peri, meli, pruni. La flora stessa è varia come mai prima. «È stata capace perfino di far crescere le fragole, che qui non si erano mai viste», confessa un suo parente. Tutta questa sua determinazione le vale un premio che la comunità di Tonya riserva ogni anno alla «Donna più meritevole».

Ovviamente il suo volto segnato da mille rughe e dall’assenza di denti non si lascia intenerire. Ringrazia e ribadisce che il giorno in cui morirà vorrà essere sepolta nel suo bosco, davanti alla sua casa.

La storia di Fatma sarà presto visibile in streaming sul sito amerigofilm.it.

Il mercante georgiano

Sempre a Est, a quella che fino alla fine degli anni Novanta era l’area definita «oltre cortina», merita una segnalazione «The Trader», il mercante, una piccola produzione indipendente che arriva dalla Georgia e che possono vedere gli abbonati a Netflix. La firma è della regista, classe 1986, Tamta Gabrichidze. Si tratta di un documentario breve, tutto girato on the road, che ha vinto il premio come «miglior corto» al Sundance film festival del 2020. Ventitre minuti insieme a un commerciante che, a bordo di uno sgangheratissimo furgone, parte da Tblisi e gira le campagne armene scambiando oggetti usati con chilogrammi di patate, l’unica vera moneta corrente dell’entroterra agricolo. Il baratto, alle porte dell’Europa, oggi.

Sante Altizio




Disinformazione, misteri e leggende

testo di Sante Altizio |


Quando le notizie false possono renderci felici, e quando invece mancano le notizie vere, necessarie per fare giustizia. E poi un poema, che nasce da un viaggio e dai miti, che di notizia non hanno nulla.

Le fake news e la felicità

Il termine fake news è entrato prepotentemente nel nostro vocabolario quotidiano. Le notizie false, le «bufale», come spesso le definiamo, sono diventate, forse per la prima volta, oggetto di dibattito collettivo. E pensare che le notizie false, inventate, costruite artificialmente, appositamente messe in circolazione sono sempre esistite. E con tutta probabilità sempre esisteranno. Meglio, quindi, imparare a conviverci con serenità.

Fabio Paglieri, savonese, classe 1976, nonché ricercatore presso l’Istituto di scienze e tecnologia della cognizione del Cnr di Roma, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un piccolo divertentissimo saggio che meriterebbe quella che i social media manager più agguerriti chiamano «massima diffusione». Si intitola «La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale», 250 pagine di grande efficacia e di facile lettura anche per chi non ha sulle spalle studi di peso.

«Questo libro – scrive nella premessa l’autore – propone un radicale ribaltamento di prospettiva sul tema della disinformazione online: si invita infatti il lettore ad abbracciare una prospettiva di disinformazione felice. In analogia con la decrescita felice, si sta suggerendo che si possa vivere circondati di disinformazione, e al contempo trarne valore e benessere: essere felici, dunque, non a dispetto delle bufale, ma proprio grazie ad esse, sviluppando un rapporto più sano con la natura, la qualità e la quantità dell’informazione in cui siamo immersi».

La provocazione è forte. Il problema non sono le bufale, ma siamo noi. «Dobbiamo smetterla di pensare alle bufale come oggetti minacciosi che circolano là fuori, novelli squali bianchi nell’oceano digitale […]. Se di colpo producono disastri peggiori che in passato (tesi tutt’altro che dimostrata, per inciso), ciò dipende dagli atteggiamenti che tutti noi assumiamo o non assumiamo a fronte delle informazioni di cui ci nutriamo ogni giorno».

Quindi, se una notizia falsa circola, la colpa non è di chi ha fatto partire la giostra, ma nostra che ci saliamo senza farci qualche domanda basilare. Non che sia sempre facile, va detto, anzi. Per questo motivo la lettura del libro di Paglieri può essere di grande aiuto.

Verità e giustizia

Dalle notizie false, passiamo alle notizie che, per quanto drammatiche e vicine a noi, dimentichiamo con disarmante facilità.

Qualcuno ancora ricorda l’uccisione di Luca Attanasio, nostro ambasciatore nella Repubblica democratica del Congo, avvenuta a Goma il 22 febbraio di quest’anno. Aveva 44 anni e con lui sono stati uccisi Mustapha Milambo, suo autista, e il carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci appena trentenne.

Matteo Giusti, giornalista aretino, esperto d’Africa e da dieci anni collaboratore della rivista di geopolitica Limes, nel maggio scorso ha pubblicato con Castelvecchi «L’omicidio Attanasio. Morte di un ambasciatore».

Il libro di Giusti da un lato inquadra in modo efficace la situazione ormai strutturalmente caotica della Rdc, dall’altro rende il giusto tributo a un uomo che in quella terra stava lavorando con grande dedizione. Non è un caso se Attanasio è stato ucciso mentre accompagnava un convoglio di aiuti alimentari diretti verso la zona di confine tra Congo e Uganda.

Il lavoro sul campo fatto dall’autore permette di farsi un’idea piuttosto chiara di cosa è successo e perché, ma sarebbe riduttivo pensare a «Morte di un ambasciatore» come a un libro inchiesta. L’esigenza è più alta e traspare chiaramente: «È difficile capire quale possa essere il futuro del Kivu e dell’intero Congo – scrive nella prefazione Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace del 2018 e amico personale di Attanasio e della sua famiglia – […] In questa regione non potrà esserci un futuro di sviluppo senza la pace, e non ci sarà pace senza giustizia […]. Siamo certi che se domani nasceranno, emergeranno dei nuovi Luca Attanasio in Italia e in Congo, il cammino della pace sarà possibile […]. Il futuro ha sempre il volto delle azioni delle donne e degli uomini che malgrado le difficoltà si impegnano a scrivere le più belle pagine della loro storia, e della storia della comunità mondiale».

Il merito del libro di Giusti è la sua capacità di restituire la complessità di una situazione intricata prima di tutto a causa dei nuovi assetti geopolitici, del ruolo non marginale dell’occidente, della corsa alle terre rare e della difficoltà che abbiamo noi italiani di «fare nostre» le cose che succedono lontano dai nostri confini.

L’ipotesi che la morte del nostro ambasciatore, del carabiniere di scorta e dell’autista, sia il frutto di un rapimento finito male è forse la più accreditata e sensata, ma mancano risposte ufficiali. Risposte che difficilmente arriveranno. Quello che possiamo fare, però, è non dimenticare Luca Attanasio, «Un uomo – chiosa Giusti – che era andato nella Repubblica democratica del Congo per rappresentare l’Italia ed era diventato un simbolo di altruismo e generosità e che meriterebbe almeno verità e giustizia, due parole che in Congo hanno perso significato da tempo».

Meraviglia della natura

Restiamo in Africa, ma seguiamo un registro diverso: quello del racconto orale del mito. Lorenzo Allegrini è un giornalista di lungo corso, che ha girato il mondo.

La scorsa primavera è uscito il suo «La leggenda del Capo di Buona Speranza», pubblicato da Il Viandante. Il libro nasce da un viaggio fatto dallo scrittore marchigiano in Sudafrica, ed essendo Allegrini ormai un giornalista prestato tanto al teatro quanto alla poesia, il suo è a tutti gli effetti un poema, sia nella forma che nella sostanza.

Attinge ai miti africani ed europei, gioca con il conflitto perenne tra uomo e mare, culmina con il sanguinoso sbarco dei coloni olandesi. Utilizzando l’espediente del manoscritto ritrovato, ricostruisce il momento in cui prende corpo una delle meraviglie della natura: il Capo di Buona Speranza.

«La leggenda» è diventato un monologo teatrale godibilissimo nel quale l’autore mette sul palco un’energia rara. Seguitelo sul sito dell’Huffington Post dove tiene un blog dedicato alla poesia.

 

Sante Altizio




Storie di civismo e di mal d’Africa

testo di Sante Altizio |


I giornalisti, quelli bravi, raccontano la realtà. Chi andando in giro per l’Italia a scovare (anche nei tempi avversi del Covid) esperienze di r-esistenza civica, chi andando in giro per l’Africa a scovare i meccanismi del neocolonialismo.

Coscienza civica e dove trovarla

Ormai abbiamo capito che la pandemia non ci ha resi migliori e forse è stato un po’ naïf augurarselo. Certo, quando tutto sembra andare male, ha senso sperare che il futuro possa essere radioso dopo una notte buia e tempestosa.

C’è, però, un libro, uscito in giugno con Neos Edizioni e firmato da Gloria Schiavi e Luca Rolandi, che ha il merito di mostrare come la speranza abbia i suoi fondamenti, anche molto concreti. Il libro si intitola Coscienza civica e dove trovarla. Storie da un’Italia che r-esiste, e accende i riflettori su un mondo che, durante i vari lockdown più o meno rigidi di questo ultimo anno e mezzo, sarebbe potuto scomparire e che, invece, ha trovato la forza di resistere. E non solo di resistere, ma addirittura di crescere.

È il mondo delle associazioni, dei movimenti di base, di quei gruppi espressione di «coscienza civica», di attenzione al territorio, alle persone che lo abitano, all’ambiente, ai fenomeni globali.

L’editore racconta così la sua pubblicazione: «Si tratta di un libro inchiesta che racconta trenta storie di cittadinanza attiva e di partecipazione “dal basso”, trenta casi esemplari di coscienza civica, trenta iniziative sparse su tutto il territorio nazionale, da Torino a Roma a Lecce, da Milano a Rimini ad
Accumoli, messe in campo da comuni cittadini che hanno avviato cambiamenti all’interno delle loro realtà e che si battono per il bene comune nelle forme più diverse».

Il sociologo Franco Garelli, al quale è stata affidata la prefazione, le ha definite «storie di ordinario civismo», e di questo infatti si tratta.

Gloria Schiavi e Luca Rolandi sono giornalisti capaci, e hanno costruito un giro d’Italia che apre il cuore alla speranza.

Le trenta storie raccontate sono poco note, ma potenti. Parlano di obiettivi importanti raggiunti nonostante da febbraio 2020 mezzo mondo tenga il fiato sospeso e le porte più o meno serrate. Parlano di «piccole rivoluzioni nate dal basso, magari per rispondere alle difficoltà – dice Neos -. Buone pratiche operose e silenziose, che spesso cadono nell’indifferenza dei media. Questa raccolta di casi e testimonianze vuole portare in primo piano e dare dignità documentaria a quegli alveari innovativi che crescono in Italia: una risorsa di energia costruttiva che mette in moto cambiamenti concreti ed innesca altre azioni positive».

Mal d’Africa

Sollevando lo sguardo al mondo, vale la pena segnalare l’ultima uscita nella collana Orizzonti Geopolitici di Rosenberg & Sellier. Si tratta di Mal d’Africa, volume scritto da Angelo Ferrari e dal compianto Raffaele Masto.

Chiunque abbia l’intenzione di capire lo stato dell’arte del «continente nero» non può fare a meno di misurarsi con questo testo che è a metà strada tra un saggio e un reportage.

Ferrari e Masto sono due firme di gran livello. Il primo è responsabile del desk esteri dell’agenzia Agi, il secondo, che, purtroppo, ci ha lasciati nel maggio del 2020, è stato, per «Radio Popolare», uno dei più attenti osservatori sul campo delle «cose africane»
(cfr Librarsi di giugno).

La forza di Mal d’Africa è l’assenza di retorica e di parole d’ordine. C’è in esso, piuttosto, una lettura attenta della realtà, complessa, ricca di distinguo, che il continente sta vivendo.

La tesi che sottende al lavoro di Ferrari e Masto è questa: sebbene il Pil africano sia quasi ovunque in crescita, la percentuale di abitanti che sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno continua a essere enorme. E questo perché l’Africa continua a essere vista (e usata) dai potenti di turno come un serbatoio dal quale attingere materie prime a basso costo e al quale vendere prodotti finiti a costi molto più alti.

L’Africa esporta materie prime e importa prodotti finiti pagando il dazio due volte.

La trasformazione avviene altrove, il lavoro è eseguito altrove. Nessuna ricaduta economica sul territorio. E senza ricadute, nessuna speranza di creare un’economia capace di formare una borghesia con potere d’acquisto, una classe dirigente non corrotta, uno sbocco reale di progresso diffuso.

Con modalità profondamente diverse rispetto al passato, il colonialismo è tornato di gran moda (ammesso che sia mai finito per davvero). La Cina, prima di tutto, poi Russia, Turchia e i paesi del Golfo Persico sono i nuovi attori che hanno scelto l’Africa come terra di conquista economica.

A loro si sommano quelli «storici»: Francia, Stati Uniti, Germania, Italia.

L’Africa è un forziere straordinario, in grado di sostenere a basso costo le nostre catene produttive e agroalimentari. Prendiamo il fenomeno del land grabbing: faccio un accordo (farlocco, che dura un’eternità) con un governo (che corrompo), nel quale si stabilisce che un pezzo di terra (tendenzialmente enorme) diventa mio e ci coltivo ciò che voglio o vi estraggo qualche minerale prezioso. Il frutto di quel raccolto, ovviamente, prende la strada del mio paese.

I cinesi, sovente, fanno arrivare in Africa dalla madre patria anche la manodopera, per tenere i costi vicini allo zero.

C’è questo, ma anche molto altro, in Mal d’Africa: dalle ipocrisie occidentali, alle responsabilità di una classe dirigente africana senza scrupoli. E un occhio attendo alle persone, al miliardo di cittadini africani che subiscono questo meccanismo disumano e che spesso, se possono, tentano la via dell’emigrazione verso quei luoghi che sono all’origine della loro fuga. E lo fanno sapendo che sarà un viaggio illegale e molto pericoloso, nel quale perdere la vita è una possibilità concreta, da mettere in conto.


Adotta un libro

Per chiudere, una nota leggera: Effatà Editrice ha varato l’iniziativa «Adotta un libro! Un libro in omaggio per salvarlo dal macero». Chi acquista un libro dal catalogo dell’editore cattolico di Cantalupa (To), potrà scegliere uno dei volumi pubblicati negli ultimi anni che non hanno trovato «casa» e sono destinati alla distruzione.

Per info: www.editrice.effata.it

Sante Altizio




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio




Le biografie: Romero e Câmara

testo di Sante Altizio |


Due vescovi latinoamericani. Due difensori degli oppressi. Modelli per una Chiesa che compie anche oggi la sua scelta preferenziale per i poveri.

Anselmo Palini è un insegnante bresciano di scuola secondaria che ha all’attivo una serie di pubblicazioni sui temi della pace, della nonviolenza e dei diritti umani davvero notevole.

È stato tra i primi, negli anni Ottanta, a sollevare domande sul senso della presenza della produzione di armi nella provincia di Brescia. La quasi totalità delle armi leggere italiane, infatti, arriva da quell’area.

Nel 2020, la storica Editrice Ave, fondata nel 1935 da Luigi Gedda, ha ripubblicato due testi di Palini che, a distanza di una decina d’anni dal loro primo arrivo in libreria, meritavano di tornare all’attenzione del pubblico.

Si tratta di due biografie ricche, approfondite, senza sbavature: una dedicata a san Oscar Romero, il vescovo martire del Salvador, e l’altra a Hélder Câmara, il «vescovino» brasiliano, tra i massimi alfieri della «scelta preferenziale per i poveri» compiuta dalla Chiesa latinoamericana nella Conferenza di Medellín del 1968.

Il SudAmerica al centro

Con l’elezione al soglio pontificio di José Mario Bergoglio, argentino di Buenos Aires, è diventato chiaro per molti ciò che era già evidente da diversi anni agli osservatori interessati: il mondo latinoamericano è il nuovo motore della chiesa cattolica. E se mons. Bergoglio è diventato papa Francesco, il «merito» è anche di uomini come Oscar Romero e Hélder Câmara, che quel motore lo hanno alimentato.

San Romero de America

La biografia che Palini dedica a Romero ha un sottotitolo forte: «Ho udito il grido del mio popolo», e una postfazione pregiata che porta la firma del cardinale Gregorio Rosa Chávez, il quale, quando l’arcivescovo di San Salvador venne assassinato, era rettore del seminario diocesano della capitale centroamericana.

Era il 24 marzo del 1980. Alle ore 18.25, mentre celebrava la messa, appena terminata l’omelia, mons. Oscar Arnulfo Romero venne raggiunto da un colpo di arma da fuoco in pieno petto. Si accasciò sull’altare e morì.

La biografia di Palini traccia il percorso che portò un uomo di Chiesa con una formazione teologica tutt’altro che avanzata, e nessuna voglia di diventare una celebrità, alla scelta di stare dalla parte dei deboli di fronte alla crudele repressione della dittatura militare.

Mons. Romero spiazzò tutti, forse anche se stesso, e da «vescovo malleabile» diventò la variabile impazzita che catalizzò la speranza di chi non ne aveva più. Una variabile che sarebbe stata eliminata.

Nel 1980 la Guerra Fredda si combatteva anche in America Latina, e lasciava una scia di sangue apparentemente inarrestabile.

«Le sue omelie – scrive Palini – erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che, nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in questa minuscola nazione, e per la presenza di una Chiesa […] evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per questo, violentemente colpita […] dagli squadroni della morte».

Maurizio Chierici, un grande inviato italiano (già collaboratore di MC, ndr), che conobbe e intervistò più volte Romero, scrive nella prefazione: «Un paesino da niente (El Salvador, ndr) trasformato nel poligono dove le società benestanti costruivano il prototipo necessario per non perdere il benessere; sperimentavano la paura come arma invisibile dalla quale i popoli non riescono a difendersi».

Hélder Pessoa Câmara

L’assassinio di Romero, non solo non riuscì a far tacere la sua voce, ma diventò un grido di richiesta di giustizia per un continente intero. E tra coloro che seppero far nascere una nuova speranza dalla morte di Romero ci fu sicuramente Hélder Pessoa Câmara, uno dei vescovi brasiliani più amati e coraggiosi della storia recente.

Classe 1909, morto all’età di novant’anni, dal 2017 è, grazie a una legge dello stato, patrono brasiliano dei diritti umani.

Anselmo Palini, per la biografia di dom Hélder, come sottotitolo ha scelto una sua celebre frase, quasi un manifesto: «Il clamore dei poveri è la voce di Dio».

Nella prefazione, affidata a mons. Luigi Bettazzi, che lo conobbe al Concilio Vaticano II, si legge: «Tempo fa non sarebbe stato necessario introdurre un libro su Hélder Câmara […]. Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, il suo ricordo tende a offuscarsi».

L’autore ricostruisce con cura tutti i passaggi che hanno segnato la crescita religiosa di Hélder Câmara. Il capitolo iniziale si intitola: «Gli anni dell’integralismo», ed è subito un’immersione nel suo cammino attraverso le lettere e gli scritti lasciati dal vescovo brasiliano.

C’è un passaggio, a pag. 32, che merita di essere riportato: «Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo e lo vedevo diviso tra destra e sinistra, cioè tra fascismo e comunismo. […] Scelsi il fascismo. Si chiama Azione integralista, in Brasile. […] E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava benissimo. Come giudico ciò? Con il mio semplicismo giovanile […] non c’erano molti libri da leggere, né molti uomini sani da ascoltare». Solo una persona matura può osservare con tanta franchezza il proprio passato.

Seguono due capitoli corposi: «Gli anni del cambiamento» e «Gli anni della profezia».

il vescovo brasiliano Don Helder Camara all’Eucaristia a Den Bosch; tra i partecipanti all’escursione Pax Christi – Data 27 ottobre 1974 Posizione Den Bosch, Olanda, foto in CC di Peters, Hans / Anefo

Câmara per i poveri

Come successo per Romero, quando la realtà bussò alla sua porta, non fu facile per lui fingere di non aver sentito. Il Brasile degli anni delle dittature militari, della povertà diffusa, del razzismo, della devastante ingiustizia sociale, iniziava a far sentire la sua voce disperata. Il giovane sacerdote brasiliano crebbe, e crebbe in lui anche una nuova consapevolezza.

Negli anni Cinquanta, Câmara arrivò a Rio de Janeiro come vescovo ausiliario, poi partecipò al Concilio e, in seguito, alla Conferenza di Medellín.

Le sue prese di posizione erano sempre più nette contro la violenza e la prepotenza del potere. E poi nacquero decine e decine di gruppi di base, sindacati, cooperative che vennero fondati per organizzare il tessuto sociale, sempre partendo dal basso, dagli ultimi.

Câmara mistico

Dom Hélder aveva doti da mistico: «Tutte le notti si svegliava per un’ora di preghiere e di orientamento della giornata», ricorda mons. Bettazzi; doti da teologo e da vero oppositore politico: cosa che alla dittatura non piacque per nulla.

«La fede, basata sulla Parola di Dio, toglie la maschera alle ideologie dei dominatori. Gesù assume l’identità degli oppressi e vuole essere amato e servito in loro».

Il merito di Anselmo Palini è quello di permetterci di ripercorrere le storie di Oscar Romero e Hélder Câmara con la consapevolezza che, se anche un po’ della loro memoria si è offuscata, i frutti della loro testimonianza ci sono ancora tutti e sono arrivati sino a San Pietro.

Sante Altizio




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio




On demand

testo di Sante Altizio |


Con le sale chiuse per Covid, il cinema è più che mai domestico, magari su «piattaforme», come quella tutta italiana che offre contenuti originali. Vale la pena, poi, fare i conti anche con lo smartphone, che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi.

VatiVision

È metà marzo mentre scrivo, e l’Italia è tornata a essere quasi tutta (di nuovo) «zona rossa».

Una delle conseguenze inevitabili è il perdurare della chiusura dei luoghi di ritrovo, cinema compresi. Nessuna nuova uscita nelle sale, nessun nuovo film da guardare sgranocchiando popcorn. In Italia.

In Cina, invece, il paese da cui la pandemia ha preso il volo, i cinema sono tornati a essere affollatissimi. Da metà marzo nelle sale cinesi è tornato un film uscito nel 2009: il pluripremiato e già campione d’incassi Avatar, di James Cameron. In poco più di un fine settimana ha incassato quasi 9 milioni di dollari. Un segno positivo per il futuro prossimo della settima arte.

Con le sale chiuse, l’attenzione del pubblico, che continua a vivere il proprio tempo libero soprattutto in casa, si concentra sulle piattaforme che offrono contenuti in streaming.

Netflix ha annunciato da poco di avere superato i 200 milioni di abbonati nel mondo. Calcolando a braccio, possiamo dire che sul pianeta Terra, non c’è palazzo che non abbia almeno un abbonato al colosso statunitense. Ed è lì, o su Amazon Prime, l’unico vero competitor di Netflix, che le «prime cinematografiche» arrivano puntuali, mese dopo mese.

In mezzo ai giganti nascono realtà piccole e di qualità che vale la pena segnalare. Ce n’è una tutta italiana, nata da meno di un anno, a suo modo interessante: VatiVision, presieduta da Luca Tomassini, classe 1965, insegnante alla Luiss e, ricorda Wikipedia, uno dei padri della telefonia mobile di casa nostra.

Il nome VatiVision, in realtà, è in parte fuorviante, perché, anche se apprezzata dalla Chiesa, non è un’iniziativa del Vaticano. La piattaforma ha un catalogo piuttosto nutrito di film, serie tv, cartoon e documentari con una dichiarata impronta educational e di ispirazione cattolica. È una piattaforma on demand dove è possibile sia acquistare che noleggiare i contenuti.

Molti titoli sono di produzione recentissima e toccano temi come i diritti civili, l’immigrazione, i conflitti dimenticati, le relazioni sociali. Con uno sguardo decisamente europeo, aperto, per nulla italocentrico.

Se dovessi consigliarvi come spendere i 4,99 € di un noleggio, sicuramente suggerirei Est, dittatura last minute, film del 2020 di Antonio Pisu, ambientato nella Romania del 1989. Racconta di un viaggio che parte da Cesena e vede coinvolti tre venticinquenni (uno dei quali interpretato da Lodo Guenzi, giovane frontman di uno dei gruppi musicali più in vista della scena italiana, Lo stato sociale) che decidono di fare dieci giorni di vacanza oltre la cortina di ferro, proprio mentre la cortina va in frantumi.

All’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia ha fatto molto parlare di sé.

Est, dittatura last minute, non è un’esclusiva VatiVision (lo trovate anche sulle maggiori piattaforme specializzate). Tuttavia fate «due passi» sul sito www.vativision.com, resterete sorpresi dalla qualità dei titoli proposti. Il livello è alto. Tra essi si possono ritrovare titoli importanti del passato e piccole esclusive, soprattutto interessanti reportage dal Sud del mondo.

Sante Altizio

Alberto Ravagnani

Vale la pena fare i conti anche con un altro strumento che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi: lo smartphone.

TikTok è uno dei social network più recenti e diffusi con oltre un miliardo di utenti nel mondo. È l’unico basato esclusivamente su contenuti video non più lunghi di 30 secondi.

Nato in Cina, al centro di numerose polemiche in tema di sicurezza informatica, bloccato negli States, la app è scaricata e utilizzata soprattutto da giovanissimi.

TikTok è il terreno ideale per un giovane sacerdote che, durante il lockdown dello scorso anno, quando l’imperativo categorico era #iorestoacasa, si è chiesto in quale modo continuare a parlare con i ragazzi della sua parrocchia, anch’essa «chiusa per Covid».

Alberto Ravagnani, sacerdote di 27 anni, dall’Oratorio San Filippo Neri di Busto Arsizio, ha così iniziato a cimentarsi con YouTube, poi Instagram e infine è sbarcato su TikTok, diventandone, in pochi mesi, una vera star. Ha oltre 90mila followers (550mila se si considerano tutti i suoi social), e ogni suo TikTok raccoglie decine di migliaia di like.

Il suo canale merita di essere visto e colpisce perché don Alberto, forte delle sue poche primavere, ha un gran dono: fonde con naturalezza linguaggio alto e linguaggio basso. Usa con sapienza la tecnologia, la postproduzione video, cura l’audio, gli effetti, la color correction. E poi ci sono i testi, le brevi sceneggiature che scrive lui prima di girare.

Il suo studio è diventato un piccolo set, semplice ma curato fin nei dettagli. È bravo.

«Sono un prete, vivo in oratorio, insegno a scuola. Ogni tanto faccio cose sui social. La fede mi fa godere di più la mia vita. Per questo ne parlo. W la fede». Questa la sua breve bio su YouTube.

In una sua recentissima intervista su «Avvenire» ha detto: «I social network non sono il male. Sui social può capitare il male perché dietro ci sono anche persone che fanno il male».

Su YouTube, il suo video più gettonato (650mila visualizzazioni in 10 mesi) s’intitola: A cosa serve pregare (non è una perdita di tempo), il suo TikTok più visto, Ora di religione, conta 2,4 milioni di visualizzazioni.

«Se non impariamo a “essere tutto a tutti”, come diceva San Paolo – ha raccontato don Alberto in un’intervista alla tv della svizzera italiana che si trova in rete – come arriviamo alle persone? Se non ci facciamo “social”, come arriviamo ai ragazzi che stanno sui social? Più di qualcuno ce lo perderemo per strada».

Sante Altizio

 




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio