Cristiani d’Arabia. Stranieri e fraterni
Parla il vicario apostolico, monsignor Paolo Martinelli. I conflitti in Medio Oriente, il dialogo, la speranza dei giovani. Un milione di fedeli cattolici, tutti immigrati, negli Emirati arabi uniti, Oman e Yemen. In quest’ultimo Paese la situazione più difficile.
La sofferenza per i conflitti in Medio Oriente non risparmia i cristiani che vivono in Arabia. «Noi – ci dice monsignor Paolo Martinelli, francescano, vicario apostolico per l’Arabia del Sud -, attraverso la presenza dei migranti che provengono da Palestina, Libano, Siria e dagli altri Paesi in conflitto, tutti i giorni facciamo esperienza dell’afflizione che si vive in quei luoghi. Come comunità cristiana, portiamo avanti un’opera di accompagnamento, di sostegno, di condivisione, perché tutti loro, in qualche modo, hanno parenti o amici che hanno patito le violenze, che hanno perso la vita. Cerchiamo di farci carico del loro dolore».

Il vicariato del Sud Arabia
La sede principale del vicariato apostolico della Chiesa cattolica per l’Arabia del Sud si trova ad Abu Dhabi, negli Emirati arabi uniti, ma il suo servizio pastorale abbraccia anche l’Oman e lo Yemen, Paese, quest’ultimo, dove la situazione è difficilissima a causa della guerra.
Il vicariato si estende su un territorio di 930mila km2 (oltre tre volte l’Italia) abitato da 45 milioni di persone.
I cattolici guidati dal vescovo Paolo sono un milione, tutti immigrati per lavoro.
«Negli Emirati arabi, la situazione è tranquilla, e in sicurezza – prosegue il monsignore -. Mi sembra che il Governo abbia una grande capacità di tenere rapporti buoni con gli altri Paesi. Noi possiamo vivere una vita serena, tenuto conto della situazione. Però, nella comunità cristiana, sentiamo l’eco dei conflitti. Tra i nostri fedeli, molti arrivano dal Libano, dalla Palestina, dalla Giordania. A partire dal 7 ottobre del 2023, quasi tutti loro hanno avuto lutti e feriti. Anzi, spesso sono arrivati dalle nostre parti in situazione di emergenza».
La vita della comunità cristiana è scandita da preghiere, messe, catechesi, come in ogni diocesi del mondo.
Una peculiarità del vicariato dell’Arabia del Sud è che il suo territorio si estende in Paesi molto differenti tra loro, per la loro cultura e per la situazione geopolitica che attraversano.
Un’altra peculiarità è quella di fare da punto di riferimento per una comunità composta da persone provenienti da molti posti diversi, compresa l’Italia.
Ora si sente forte anche la presenza degli immigrati scappati dalle vicine guerre. «Tanti dei nostri fedeli sono preoccupati per il destino della propria gente – ci dice monsignor Martinelli -. Per noi è importante camminare insieme, soprattutto non smettere mai di pregare. In tutte le nostre messe c’è sempre un’invocazione per la pace, in particolare nel Medio Oriente.
E poi offriamo un sostegno più complessivo, perché le persone non perdano la speranza e continuino a fare progetti per ricominciare».

Lo Yemen pericoloso
Il vescovo ci parla dei tre Paesi del suo vicariato.
Se gli Emirati arabi uniti hanno una forte tradizione di dialogo interreligioso e una cultura che sostiene il confronto tra le persone, pur con le loro differenze culturali, etiche e religiose, l’Oman «è un Paese molto più tradizionale, ma anche molto accogliente, abitato da gente molto mite». Lo Yemen, infine, è un Paese dove è difficile essere cristiani. «Lì, avevamo quattro chiese, ma sono state tutte praticamente distrutte».
È in Yemen che il 4 marzo 2016 furono uccise quattro Missionarie della Carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta.
Le suore stavano servendo la colazione agli anziani della casa di Aden quando furono attaccate dai terroristi. Assieme a loro morirono anche diversi collaboratori della struttura. In totale, sedici vittime.
Le sorelle si chiamavano suor Annselna, suor Judith, suor Margarita e suor Reginette. Provenivano rispettivamente da India, Kenya e, le altre due, dal Rwanda. La più anziana, Annselna, aveva 57 anni. La trentaduenne Reginette era la più giovane. Suor Annselna, dopo aver servito i poveri negli Stati Uniti e in Italia, aveva deciso, come le tre consorelle, di proseguire il suo operato proprio in Yemen.
«Nonostante l’eccidio, e la continua minaccia degli Houthi – riferisce monsignor Martinelli -, le suore di Madre Teresa hanno scelto di rimanere. Nel Nord dello Yemen hanno due comunità e fanno un lavoro di carità straordinario, in modo assolutamente gratuito. Accolgono chiunque, e se ne prendono cura. Io sono in contatto quasi quotidiano con loro, telefono sempre, soprattutto quando vedo che c’è qualche attacco. E loro che cosa mi rispondono? “Sì, ci sono un po’ di rumori, ma poi non succede niente. Andiamo avanti tranquille”.
Queste suore, quasi ogni notte sentono i bombardamenti, però vanno avanti a lavorare, a prestare il loro servizio di carità. Veramente sono un grande segno di speranza».
Giovani e speranza
«Speranza» è la parola che ricorre di più nella conversazione con questo frate cappuccino, nato a Milano 67 anni fa.
Nel 2014, quando è stato consacrato vescovo, gli è stato consegnato il pastorale appartenuto a monsignor Luigi Padovese, suo confratello e amico, ucciso in Turchia, dove era presidente della conferenza episcopale, nel 2010. Quasi un segno premonitore: il 1° maggio del 2022, papa Francesco lo ha nominato, infatti, vicario apostolico dell’Arabia meridionale. Pastore, come Padovese, in una terra musulmana, dove i cristiani sono da sempre promotori di dialogo.
Parla di speranza, monsignor Martinelli, anche quando si riferisce ai suoi giovani: «C’è un clima molto bello tra di loro, di solidarietà, di chi fa un cammino condiviso, nello spirito della gioventù, quindi nello spirito del guardare al futuro in modo positivo. Trasmettono a tutti la speranza che c’è sempre una possibilità di ricominciare, di costruire, di edificare».
Il vescovo, nell’agosto scorso, è stato a Roma insieme a una novantina di ragazzi per il Giubileo dei giovani. «È stato un grande segno di speranza», sottolinea.
Purtroppo, «nessuno dallo Yemen è riuscito a unirsi al pellegrinaggio. Quando c’era stata l’ultima Giornata mondiale della gioventù, quella di Lisbona nel 2023, uno almeno era riuscito a venire». Poi prosegue, riprendendo il tema del Giubileo: «Il percorso verso Roma, è stato un andare a toccare le sorgenti della speranza, l’amore di Cristo, l’amore di Dio, che ci permette sempre di ricominciare dopo ogni difficoltà, la certezza di essere amati, di essere voluti, e quindi di poter guardare al futuro con fiducia e speranza. Questo è quello che vedo nei miei giovani».

Cattolici, tutti immigrati
Le nuove generazioni di cristiani nell’Arabia meridionale sono cosmopolite. Tutti, infatti, sono arrivati con le loro famiglie da Paesi lontani grazie alle grandi possibilità di lavoro nel Golfo.
Di cattolici originari della regione dell’Arabia non ce ne sono. Qui, «la conversione dall’Islam è molto difficile, anzi, di per sé è proprio proibita – sottolinea il vescovo -. Bisogna riconoscere, però, che noi abbiamo libertà di culto: non solo possiamo celebrare quando vogliamo, ma facciamo anche catechesi, formazione cristiana».
Tra gli immigrati, c’è anche una comunità italiana: «Sono più di 20mila negli Emirati arabi uniti. Nell’Oman sono di meno. Non mi risulta che ci siano italiani in questo momento nello Yemen».
Ma la maggior parte dei cattolici che vivono in Arabia sono asiatici: «Abbiamo una forte partecipazione soprattutto di filippini e indiani. I filippini costituiscono praticamente la metà dei nostri fedeli».
Martinelli spiega che «la lingua comune utilizzata è l’inglese. Le liturgie sono celebrate in gran parte in questa lingua, anche perché è richiesta, a differenza dell’arabo, per venire a lavorare in questi Paesi.
Poi ci sono i fedeli di lingua araba, quelli che arrivano, appunto, dal Libano, dalla Palestina o dalla Giordania. Celebriamo anche nella loro lingua».
Del milione di fedeli che fanno riferimento al vicariato, 800-850mila vivono negli Emirati. In questo Paese «le nostre chiese sono strapiene. Abbiamo il problema che non c’è abbastanza spazio per i fedeli, nonostante, soprattutto nelle parrocchie più grandi ad Abu Dhabi e a Dubai, nel fine settimana ci siano messe, una dopo l’altra, dalle 6 di mattina alle 9 di sera.
Negli Emirati arabi uniti abbiamo nove parrocchie. Siamo presenti in sei dei sette Emirati che compongono il Paese. Nell’Oman abbiamo quattro chiese. I fedeli sono poco più di 100mila».

Dialogo interreligioso
Un fattore importante nel vicariato apostolico dell’Arabia del Sud è il dialogo interreligioso. È qui che è nata l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco.
«La visita di papa Francesco del febbraio 2019 – racconta monsignor Martinelli – rimane una pietra miliare, un punto di riferimento per gli stessi Emirati arabi uniti. Il Paese ne fa memoria tutti gli anni. Ricorda con diversi eventi la firma del famoso “Documento sulla fratellanza umana” da parte del Papa insieme al grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb».
Da quel documento del 2019 nacque l’enciclica Fratelli tutti, promulgata da papa Francesco l’anno successivo, il 4 ottobre del 2020. Il documento che propone la fraternità e l’amicizia sociale come vie per costruire un mondo migliore, più giusto e pacifico, con l’impegno di tutti: persone, istituzioni, mondo economico, organizzazioni internazionali, società civile.
Nella Fratelli tutti, papa Francesco ha sottolineato la necessità di vivere nella casa comune come un’unica famiglia, proponendo azioni concrete per restaurare il mondo e superare i malanni generati dalla crisi della pandemia, diventata crisi sanitaria, economica, sociale, politica. In primo piano la pace, perché nessuna opera è possibile se le nazioni e i popoli continuano a combattersi.
Ad Abu Dhabi è rimasto un segno tangibile di questa volontà di dialogo: la Casa della famiglia abramitica. «È un centro composto da una chiesa cattolica, una sinagoga e una moschea, e da un quarto spazio che viene chiamato Forum, dove i fedeli delle diverse religioni – spiega monsignor Martinelli – si possono incontrare per condividere esperienze, affrontare temi, vedere come le varie tradizioni religiose possono dare il loro contributo per una società più fraterna e giusta, più umana».
La Casa della famiglia abramitica ha oggi più che mai il suo valore: «Secondo me è un miracolo che esista. In un momento di grandi tensioni internazionali come questo, è importante anche solo il fatto che ci sia: che ci siano un imam, un rabbino, un prete cattolico, che si occupano, nello stesso luogo, dei fedeli delle tre religioni che si riferiscono, in modo diverso, ad Abramo. È importante che facciano anche delle iniziative comuni di dialogo. Ha una potenzialità molto grande e speriamo di svilupparla sempre di più».
L’Abrahamic family house ad Abu Dhabi ha aperto i battenti il primo marzo 2023. Per i musulmani, tutte le preghiere, comprese quelle del venerdì, si tengono presso la moschea Eminence Ahmed El-Tayeb; per i cattolici, la messa è celebrata in inglese ogni domenica nella chiesa di San Francesco, mentre per gli ebrei si svolgono servizi quotidiani alla sinagoga Moses Ben Maimon.
Ogni edificio può ospitare da 200 a 350 fedeli. Indicazioni e segnali sono scritti in arabo, inglese ed ebraico.
Il centro è un luogo unico per dialogo interreligioso. Durante la giornata, visite guidate gratuite sono offerte ai visitatori in inglese e in arabo.
Oltre alle tre case di culto, c’è un’ampia area di «Accoglienza visitatori» che comprende un caffè, un angolo biblioteca, e un negozio di articoli da regalo. In questa area c’è il «Muro delle intenzioni», dove i visitatori sono invitati a scrivere i loro desideri e i loro impegni per la pace e la fratellanza.
«I fedeli delle diverse religioni, stanno insieme senza confusioni – fa notare il vicario apostolico -. Cioè ognuno va nella sua chiesa, moschea o sinagoga rispettando l’altro. I luoghi per pregare sono costruiti in modo da risultare chiaramente distinti, ma, allo stesso tempo, connessi tra loro.
È bello che, per andare in chiesa, devo riconoscere che c’è la moschea, che c’è la sinagoga.
Il fatto che questa cosa continui a esistere – ribadisce monsignor Martinelli -, pur con tutta la prudenza dovuta dalla situazione del Medio Oriente, credo che sia un segno di speranza. Bisogna continuare a promuovere realtà di dialogo come questa, per poter guardare oltre la tribolazione del momento presente».
La situazione internazionale è difficile, prosegue il vescovo. «Sembriamo impotenti rispetto a tutto quello che sta accadendo, soprattutto nell’area del Medio Oriente. Mancano, a livello internazionale, delle mediazioni forti che siano in grado di mettere attorno allo stesso tavolo le persone.
Seguo da vicino quello che ha fatto, anche ultimamente, il Patriarca di Gerusalemme dei latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Di fatto, siamo nella stessa conferenza episcopale – sottolinea Martinelli. Quindi abbiamo anche possibilità di sentirci, incontrarci. Credo che quello che lui sta facendo rappresenti quello che tutti noi vogliamo fare: mostrare com’è la situazione e, soprattutto, sostenere la fede, la vita di coloro che si trovano nelle difficili condizioni che tutti conosciamo».
Per monsignor Martinelli «non dobbiamo abituarci a questa violenza, dobbiamo dire che le cose non vanno bene, che bisogna cercare la pace. Che mi sembra, poi, il grande lavoro fatto con tenacia e insistenza da papa Francesco, e che adesso sta facendo papa Leone.
Non rimanere inermi, fare sentire la nostra voce, pregare, dare segnali di vicinanza, perché non ci si abitui al male. Questo è importante.
Ricordo la prima frase di Papa Leone quando si è presentato al mondo dicendo: “La pace sia con voi”, “una pace disarmata e disarmante”. E poi quel grido: “Il male non prevarrà”.
Queste sono delle parole che incidono nella storia davanti a tutto il mondo: dire che il male non prevarrà, non accettare che esso diventi una logica, un sistema. Fare in modo che le coscienze non si narcotizzino e che sentiamo tutti il bisogno di fare qualcosa».
Manuela Tulli
ARCHIVIO MC
• Paolo Moiola, Penisola Arabica: (Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi), MC gennaio 2019.

























































