Lo stato e il suo finanziamento


Diritti della persona e beni comuni non possono essere tutelati dal mercato, essendo quest’ultimo uno strumento che esclude chi non può pagare. Soltanto una comunità organizzata in una «casa comune» (come lo stato) può raggiungere lo scopo. Per poter funzionare, la casa comune ha però bisogno di essere finanziata. Le imposte servono a questo.

Siamo abituati a pensare che l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni sia tramite l’acquisto, ma in realtà abbiamo a disposizione anche altri canali, di cui due usati abitualmente. Il primo è «il fai da te», che ci permette di provvedere da soli a ciò che ci serve. Situazione che ricorre, ad esempio, quando cuciniamo, riordiniamo la casa, laviamo i nostri panni, ripariamo la nostra bicicletta. Il secondo canale è «l’azione collettiva» che significa mettersi insieme per raggiungere un obiettivo comune. Le modalità sono tante e vanno dal gruppo di amici che si dividono i compiti per un’attività a beneficio di tutti, agli abitanti di una località che uniscono le forze per un evento comune, fino alle forme più organizzate di servizi pubblici.

L’umanità ha sempre avuto ben chiaro che da soli non si va da nessuna parte e da sempre, a tutte le latitudini, si sono sviluppate forme di organizzazione comunitaria. Non di rado anche di tipo deviato come mostrano le monarchie, il feudalesimo, le dittature e ogni altra forma di gestione del potere statuale basato sul sopruso e la prepotenza. E sono proprio queste forme di degenerazione che spesso ci fanno vivere la dimensione pubblica come un nemico che ci opprime piuttosto che come una comunità che ci accoglie. Ma dobbiamo convincerci che senza dimensione comunitaria la nostra vita è fortemente compromessa soprattutto per ciò che concerne i diritti e i beni comuni. E se in tema di beni comuni sembra esserci un consenso diffuso sulla necessità di tutelarli, rispetto ai diritti si ha la sensazione di trovarci di fronte a un’idea che sta passando di moda. Un risultato forse dovuto all’insinuarsi sempre più in profondità della cultura individualista indotta dal mercantilismo crescente. Ma forse dovuto anche a una insufficiente riflessione sul concetto di diritto che vale la pena rispolverare.

I diritti, la nostra seconda pelle

I diritti non sono un optional. I diritti sono la nostra seconda pelle. Ci appartengono come il nostro nome e cognome. Ci appartengono per il fatto stesso di esistere, perché si riferiscono ai bisogni fondamentali che ciascuno di noi deve poter soddisfare indipendentemente se ricco o povero, maschio o femmina, giovane o vecchio. Nasciamo col diritto a respirare, a nutrirci, a coprirci, a proteggerci, a curarci, a istruirci, a muoverci, a comunicare, a vivere in sicurezza.

Per fortuna non c’è ancora nessuno che affermi che solo i ricchi debbono poter bere o mangiare, il che ci permette di stabilire subito, con certezza, che i diritti non possono appartenere al mercato. E non per pregiudizio ideologico, ma per constatazione pratica. Da un punto di vista dell’offerta il mercato è ineguagliabile, con i suoi milioni di imprese di ogni dimensione e settore. Beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra: non c’è prodotto che il mercato non sia in grado di procurare. Ma la regola base del mercato è la vendita che esclude automaticamente chi non può pagare. Esclusione e diritti sono principi inconciliabili. Per questa unica ragione, il mercato, una macchina organizzata per escludere, non può occuparsi di diritti.

L’ambito naturale dei diritti è la comunità che si organizza per garantirli a tutti in maniera gratuita attraverso un patto di solidarietà. Chiede ad ognuno di contribuire per quanto può, affinché ognuno possa ricevere per quanto ha bisogno. Un principio che non è estraneo ai nostri ordinamenti, ma che oggi è sotto attacco perché toglie spazio al mercato. Eppure, il riconoscimento dei diritti è lo spartiacque tra umanità e animalità. È l’affermazione che la convivenza non va organizzata sulla forza e la prepotenza, ma sul riconoscimento di un livello di uguaglianza e di rispetto per tutti che nessuna forza può oltrepassare. Nella misura in cui questo patto è rispettato, avremo la civiltà, altrimenti sarà la barbarie.

In concreto dovremmo rafforzare e riformare la dimensione comunitaria in modo da costruire una grande casa comune dentro la quale tutti possano trovare rifugio e sicurezza. In tre campi dell’esistenza: in primo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, cibo, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia; poi la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la qualità della nostra esistenza dipende da un ambiente in buono stato; infine, la garanzia di un lavoro affinché tutti possano sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Il finanziamento della «casa comune»

Chiarite le funzioni della dimensione comunitaria, si tratta di capire come farla funzionare. Le soluzioni possono essere varie. Ad esempio, potremmo far funzionare i servizi collettivi, mettendo tutti una parte del nostro tempo a loro disposizione. Oppure potremmo organizzare delle attività produttive per fabbricare, in forma collettiva e monopolistica, dei beni destinati alla vendita e col ricavato finanziare i servizi pubblici.

Per una serie di vicende storiche, la formula che più si è fatta strada è quella della tassazione della ricchezza prodotta individualmente. In pratica ognuno versa allo stato una parte di ciò che guadagna e col ricavato lo stato acquista beni e lavoro, utili a garantire servizi e assistenza. Una modalità di finanziamento semplice come principio, ma complessa nella sua attuazione pratica perché la questione fiscale trascina con sé varie altre problematiche su cui spiccano l’esigenza di efficacia e di equità. Efficacia intesa come capacità reale dello stato di impossessarsi della ricchezza dei cittadini. Equità intesa non solo come tentativo di fare pagare di più a chi più ha, ma anche come tentativo di livellare la ricchezza dei cittadini. Solitamente il primo obiettivo è raggiunto tassando la ricchezza nelle sue varie espressioni, il secondo tramite la progressività. L’analisi della situazione italiana ci può aiutare a capire meglio come funzionano entrambi.

Le imposte in Italia (e il «cuneo fiscale»)

In Italia, la pressione fiscale, ossia la quantità di ricchezza rastrellata dallo stato, ammonta grosso modo al 42% del prodotto interno lordo e fornisce un gettito che, nel 2016, è stato di 717 miliardi di euro. Un ammontare raggiunto attraverso tre vie contributive: contributi sociali per il 31%, imposte dirette per il 35%, imposte indirette per il 34%. I contributi sociali, che gravano in parte sui lavoratori, in parte sui datori di lavoro, sono prelievi effettuati sulle attività produttiva per finanziare la previdenza dei lavoratori. Sommati ad altre forme assicurative obbligatorie (per gli infortuni, per esempio) e alle imposte sui salari, rappresentano il cosiddetto «cuneo fiscale».

Le imposte dirette sono prelievi su ciò che ognuno guadagna (reddito) e sulla ricchezza che ognuno ha accumulato (patrimonio). A seconda della fonte, i redditi si distinguono in redditi da lavoro, redditi da fabbricati (affitti), redditi da capitale (interessi e dividendi), redditi da impresa (utili). L’Irpef è l’imposta sul reddito più conosciuta. Quanto ai patrimoni, si usano distinguere in mobiliari e immobiliari. I mobiliari comprendono depositi bancari, titoli, quote societarie; gli immobiliari: case, palazzi, terreni. L’Imu è l’imposta sul patrimonio più conosciuta.

L’articolo 53: la progressività disattesa

Riuscire ad intercettare tutto ciò che i cittadini guadagnano è impresa piuttosto ardua, perciò accanto alle imposte dirette, che colpiscono la ricchezza quando viene incassata, lo stato ricorre anche alle imposte indirette che colpiscono la ricchezza quando viene consumata. L’Iva è l’imposta indiretta più nota. Come regola si può dire che una forte incidenza delle imposte indirette denota scarsa volontà perequativa da parte dello stato, perché le imposte indirette colpiscono i redditi in forma decrescente. Poiché chi guadagna poco consuma tutto, finisce per pagare imposte indirette sul 100% del proprio reddito. Chi guadagna molto, invece, pur conducendo una vita più agiata, evita di consumare tutto, finendo per pagare tasse indirette solo su una parte del suo reddito. A causa di questo meccanismo, una forte preponderanza di imposte indirette denota che lo stato preferisce colpire gli strati medio bassi piuttosto che quelli ricchi. Il che è contrario allo spirito della Costituzione che all’articolo 53 afferma: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» ed aggiunge che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Tradotto significa che la ricchezza non deve essere tassata tutta allo stesso modo, ma in forma crescente al crescere del reddito. Un modello di progressività è l’imposta differenziata per scaglioni di reddito. Ad esempio, si potrebbe prevedere un’aliquota (quota di tassazione) nulla sulla prima fascia di reddito fino a 10.000 euro all’anno, del 5% sui successivi 5.000 euro, del 7% sui successivi 4.000, del 10% sui successivi 3.000 e avanti di questo passo.

La progressività si basa sulla constatazione che il reddito risponde a bisogni diversi via via che cresce: le quote più basse non possono essere toccate o devono essere toccate poco perché servono per i bisogni fondamentali. Viceversa, le quote che si aggiungono servono per consumi sempre più di lusso, per cui si possono tassare sempre di più senza paura di compromettere la vita delle famiglie, ma anzi migliorandola perché si arricchiscono di servizi pubblici. Ma la progressività serve anche a ridurre le disuguaglianze e ad attivare il principio di solidarietà fra chi ha molto e chi ha poco.

Tuttavia, per essere reale la progressività ha bisogno non solo di aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito, ma anche di cumulabilità dei redditi. Ci sono categorie di persone che hanno una sola fonte di reddito. È il caso della maggior parte dei lavoratori dipendenti. Ma ci sono categorie più benestanti che ottengono redditi da più fonti. Può succedere al libero professionista che oltre ad ottenere redditi da lavoro autonomo, ottiene introiti per affitti, per interessi su depositi bancari e altro. Se ogni tipo di reddito è tassato separatamente, le aliquote più alte non scattano mai e la progressività rimane azzoppata.

Nella prossima puntata esamineremo più in dettaglio alcune caratteristiche del sistema fiscale italiano per capire da che parte sta veramente.

Francesco Gesualdi

 




Il falso anniversario della crisi (economica)

Si dice che (la crisi) sia iniziata il 15 settembre 2008. È un falso inventato per non ammettere che la crisi è nata dalla globalizzazione. Un processo che ha prodotto sfruttamento nei paesi del Sud, salari bassi e disoccupazione in quelli del Nord. Quando i consumi sono risultati insufficienti, il sistema ha pensato di uscirne con i mutui facili. Quello che poi è successo è storia recente.

L’anno appena trascorso è stato commemorato in tutto il
mondo come il decennale di una crisi da cui non siamo ancora realmente usciti. L’anniversario è dovuto alla
narrazione ufficiale che vuole fare coincidere l’inizio della crisi con la
caduta della Lehman Brothers, la
banca d’affari fallita il 15 settembre 2008. Tuttavia, se vogliamo capire
davvero come essa si sia prodotta e perché non si sia ancora esaurita,
nonostante le migliaia di miliardi di dollari messi in campo dalle principali
banche centrali, dobbiamo andare molto più indietro. Il decennio giusto da cui
partire è quello degli anni Ottanta del secolo scorso, quando a Punta del Este,
una località balneare situata su una stretta penisola nel Sud Est dell’Uruguay,
si tenne l’ultima tornata (round) di riunioni sotto l’egida di un accordo
commerciale internazionale nato nel 1947 e conosciuto come General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt, Accordo Generale
sulle Tariffe e il Commercio). L’Uruguay Round, avviato nel 1986, durò ben otto
anni e aveva come scopo la sepoltura del Gatt e la nascita al suo posto di un
nuovo organismo denominato World Trade
Organization
(Wto, Organizzazione Mondiale del Commercio – Omc).

Arriva la globalizzazione

WTO Public Forum 2016, Day 1, Open Plenary Debate

L’atto di nascita dell’Omc avvenne il 15 aprile
1994 a Marrakesh per volontà di 123 paesi. Questo organismo si può considerare
l’inizio ufficiale di ciò che chiamiamo «globalizzazione».

Nonostante le molteplici definizioni date al
termine, da un punto di vista economico la globalizzazione è riassumibile come
il tentativo di trasformare il mondo intero in un unico mercato, un’unica
piazza finanziaria, un unico villaggio produttivo. È il passaggio da un mondo
strutturato su mercati nazionali, ognuno con le proprie regole commerciali e
doganali, a un mondo strutturato come mercato unico con da regole comuni, per
permettere a merci e capitali di fluire senza ostacoli da un capo all’altro del
globo.

Un cambiamento non casuale, perché rispondente ai
bisogni dei nuovi padroni del mondo, le multinazionali, ormai con capacità di
vendita così ampie da far sì che nessuna nazione possieda un numero di
consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti. Immaginarsi, ad esempio,
se una Coca-Cola, una Nestlé o una Volkswagen può accontentarsi dei consumatori
esistenti nel proprio paese di origine. Per le dimensioni raggiunte, ognuna di
esse aveva bisogno di rivolgersi ai consumatori di tutto il mondo e,
chiedendosi come fare per tagliare il traguardo, capirono che il vero ostacolo
da affrontare erano gli stati. Questi, in nome della difesa dei propri
consumatori, dei propri posti di lavoro, della propria sicurezza sociale,
pretendevano di definire in totale autonomia le regole di entrata e uscita di
beni e servizi. In effetti 150 nazioni, con 150 legislazioni, 150 regimi
doganali, l’uno diverso dall’altro, rappresentano una vera complicazione per i
mercanti globali che invece hanno bisogno di uniformità. Per questo è stata
istituita l’Organizzazione Mondiale del Commercio col compito di scrivere le
regole sovrannazionali, una sorta di «supercostituzione mondiale», che ogni
nazione deve impegnarsi a rispettare quando legifera su tematiche che hanno a
che fare col commercio internazionale. Disgraziatamente per noi, tali ambiti
sono molto vasti e vanno dalle questioni sanitarie a quelle ambientali, da
quelle culturali a quelle sociali. Immancabilmente, la supercostituzione
dell’Omc impone agli stati di ridurre al minimo, se non di eliminare, ogni
regola che si pone in contrasto con gli interessi commerciali. Basti pensare
che nel 1999 l’Unione europea è stata condannata dall’Omc per aver vietato
l’ingresso della carne proveniente da bestiame statunitense allevato con ormoni
ritenuti pericolosi per la salute dei consumatori.

La corsa alla riduzione dei costi e dei salari

Proprio quando la globalizzazione ha cominciato a
materializzarsi, le imprese hanno scoperto che il grande mercato mondiale che
loro sognavano in realtà non esiste perché il numero di famiglie con soldi
sufficienti per entrare nell’olimpo dei consumatori non va oltre il 30% della
popolazione mondiale. Tutte le altre sono solo zavorra. Così milioni di imprese
di tutto il mondo si sono trovate l’una in guerra con l’altra per conquistarsi
un mercato mondiale tutto sommato piccolo senza possibilità di espansione
immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue combattuta non
solo con i mezzi moderni della tecnologia, del design, della velocità di
consegna, ma anche con le armi più tradizionali della pubblicità e
dell’abbassamento dei prezzi. Un insieme di misure che certo possono fare
aumentare le vendite, ma anche assottigliare i profitti se contemporaneamente
non vengono ridotti i costi. Così nel vecchio lupo capitalista è riemerso,
prepotente, l’istinto di risparmiare attaccando il lavoro con strategie
differenziate a seconda del settore di attività. In quelli ad alta tecnologia è
stata intensificata l’automazione per sostituire i lavoratori con robot, che
non pretendono contratti, non dichiarano sciopero e non si suicidano, come
invece fanno gli umani quando non ne possono più. Nei settori ad alta
manovalanza, invece, si è optato per la delocalizzazione, prima verso l’Asia,
poi anche verso l’Europa dell’Est, in ogni caso verso paesi dove salari e
diritti sono così ridotti da garantire costi di produzione anche venti volte più
bassi di quelli in vigore nei paesi di vecchia industrializzazione. Di colpo è
stata riscritta la geografia mondiale del lavoro con risultati drammatici:
sfruttamento e industrializzazione selvaggia nel Sud, aumento della
disoccupazione e riduzione dei salari nel Nord. Un attacco al lavoro in piena
regola che ha prodotto come risultato finale la riduzione della massa salariale
a livello globale.

In Europa, ad esempio, l’Ocse ha certificato che
la quota di prodotto interno lordo per i salari è scesa dal 72%, nel 1975, al
63% nel 2014. Una perdita di 9 punti percentuali che, nel caso specifico
italiano, è stata addirittura di 13 punti. Un fenomeno purtroppo non confinato
ai soli paesi di vecchia industrializzazione, ma che coinvolge anche i paesi
emergenti. In Cina, ad esempio, nel periodo 1995-2012 la quota di Pil andata ai
salari è scesa del 7%, in Turchia addirittura del 17%.

I guasti della globalizzazione

Che la globalizzazione abbia aggravato le
disuguaglianze lo dice non solo la diversa distribuzione del Pil fra salari e
profitti, ma anche la distribuzione della ricchezza patrimoniale. Per
intendersi il possesso di case, aziende, depositi bancari. Nel 2000 l’1% più
ricco della popolazione mondiale deteneva il 40% della ricchezza privata
mondiale. Oggi ne detiene il 50%. Dolce musica per i detentori di capitale, ma
al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono, chi comprerà
tutto ciò che il sistema produce? In effetti l’ombra della crisi da scarsità di
mercato si è manifestata fin dall’inizio della globalizzazione con l’arrivo di
due cavalieri. Il primo: l’espansione della finanza, un fenomeno che fa
capolino ogni volta che aumentano i profitti, ma ci sono basse prospettive di
vendite. Il secondo: l’espansione del debito, che si affaccia ogni volta che i
magazzini si ingolfano di materiale invenduto.

La strada maestra per sbloccare la situazione
sarebbe stata la crescita salariale, ma non sentendoci da quell’orecchio il
sistema ha cercato di fare crescere le vendite spingendo le famiglie a
consumare oltre le proprie possibilità tramite l’indebitamento. Strada che gli
Stati Uniti hanno imboccato a piene mani a inizio anni Duemila utilizzando come
esca l’acquisto della casa.

L’imbroglio dei mutui

Complessivamente fra il 2000 e il 2007 vennero
concessi mutui per 18.000 miliardi di dollari, ma un buon 15% erano subprime, ossia scadenti nel senso che
erano a rischio di non ritorno perché concessi a famiglie così povere da non
poterli restituire. Così successe che gli stessi agenti che, un paio di anni
prima, erano passati casa per casa per strappare una firma sotto un contratto
per l’accensione di un mutuo, ora passavano per pignorare le abitazioni degli
insolventi e metterle sul mercato al fine di recuperare le somme prestate. Ma
le case pignorate e messe in vendita erano tante. L’effetto fu un crollo del
prezzo del mercato immobiliare che impediva il pieno recupero delle somme
impegnate.

La cosa strana, tuttavia, fu che quando il marcio
venne a galla, non furono le banche che avevano stipulato i mutui a
preoccuparsene, ma tutte le altre. E qui si scoprì che la concessione di mutui
a famiglie troppo povere per poterli ripagare non era stato il frutto di errori
di valutazione, ma di disonestà. Il fatto è che le banche che concedevano i
mutui non avevano nessun interesse a valutare la solidità delle famiglie perché
sapevano che avrebbero scaricato la patata bollente su altri.

Il trucco su cui si reggeva l’intero castello
stava nel fatto che le banche concessionarie di mutui avevano trovato il modo
di dare prestiti alle famiglie e riscuoterli subito, non dalle famiglie che già
erano in difficoltà a restituirli in trent’anni, ma da altri soggetti disposti
a subentrare come creditori al posto loro.

In fin dei conti avevano messo in piedi un
gigantesco meccanismo di vendita dei mutui che trovava clienti soprattutto fra
banche, fondi pensione e assicurazioni. Per di più quegli stessi mutui erano
stati utilizzati come base di scommesse complicatissime che si rivelarono tutte
perdenti quando trapelò la notizia che molte famiglie americane non pagavano più.

Il terremoto fu mondiale e a rimanere sotto le macerie furono soprattutto le banche di qua e di là dell’Atlantico che si ritrovarono i cassetti pieni di titoli che ormai non valevano niente. La Lehman Brothers forse venne lasciata fallire appositamente per fare conoscere al mondo quanto fosse grave la situazione delle banche che, trovandosi piene di debiti e un capitale altamente svalutato, non erano più in grado di svolgere la loro funzione istituzionale di concedere prestiti. Così la crisi finanziaria si estese al sistema produttivo con fabbriche che chiusero e investimenti che non vennero realizzati. Una vera tragedia sul piano occupazionale che, secondo le Nazioni Unite, comportò la perdita di 30 milioni di posti di lavoro.

© KevinDooley

Serve più salario e più lavoro

Di chi è la colpa di tutto questo? L’accento è
stato posto sulla mancanza di regole che ha consentito al sistema bancario e
finanziario di avventurarsi per strade insane e piene di azzardi. Una diagnosi
verissima, purtroppo ancora valida per responsabilità della politica che non ha
saputo intervenire per metterci al riparo da nuove crisi bancarie che magari
possono avere come nuovo epicentro la crisi dei prestiti per mantenersi agli
studi piuttosto che ai consumi. La mancanza di regole è però solo una parte
della storia. A monte di tutto c’è l’ingiusta distribuzione della ricchezza che
provoca povertà e indebitamento.

Il sistema deve capire che l’equilibrio può essere
ritrovato solo in due modi: aumentando i salari e permettendo a tutti di avere
un lavoro. Che non significa automaticamente produrre più beni per il mercato,
ma ridurre l’orario di lavoro e rilanciare l’economia pubblica. Ricette
semplici e possibili ma che attueremo solo se cambieremo mentalità.

Francesco Gesualdi




Vento antieuropeista?

Un’altra Europa è possibile


Per poter proseguire il suo cammino, l’Europa deve cambiare. Smettendo di proteggere gli interessi privati e la speculazione per porsi al servizio delle persone e del bene comune.


Testo di Francesco Gesualdi


Un vento antieuropeista soffia per l’Europa, dal Danubio all’Atlantico, dal Mediterraneo al Polo Nord. I partiti nazionalisti l’hanno intercettato e lo amplificano in funzione anti straniero, convogliando le ansie e le paure provocate dall’iniquità. Il fondamento ideologico di questi movimenti è l’identità nazionale, in nome della quale viene fatto accettare ai cittadini qualsiasi abuso, ingiustizia, privazione di libertà.

L’immigrazione e l’appartenenza all’Ue dunque sono le circostanze utilizzate dai nazionalisti per fomentare lo spirito xenofobo.

Gli immigrati vengono strumentalizzati dipingendoli come coloro che ci rubano i posti di lavoro e si appropriano indebitamente del nostro stato sociale.

L’Europa viene strumentalizzata dipingendola come una camicia di forza che vuole limitare la nostra sovranità. Ma colpevolizzare l’Europa perché limita la sovranità degli stati aderenti è come colpevolizzare il cane perché abbaia di notte quando vede un pericolo.

Perché i nazionalisti hanno successo

Il compito del cane è quello di fare la guardia. Allo stesso modo, il compito degli organismi sovranazionali è quello scrivere regole che condizionino la sovranità degli stati in nome di un interesse comune. Del resto agli stati rimane sempre la libertà di decidere se aderirvi o rimanerne fuori.

I nazionalisti si oppongono agli organismi sovranazionali per principio, tutti gli altri decidono se aderirvi o meno in base agli obiettivi che l’organismo si prefigge e ai principi che lo animano. Da questo punto di vista, anche i non nazionalisti hanno la necessità di ripensare l’Europa. Se non lo faranno loro, la consegneranno definitivamente nelle mani dei nazionalisti, i quali non la elimineranno, ma la trasformeranno in una nuova entità di cui è difficile prevedere la connotazione economica, ma che di certo avrà le sembianze di una fortezza con i confini ben difesi.

Verosimilmente il nuovo patto europeo a quel punto potrebbe fondarsi su due obiettivi: il mantenimento di un mercato comune interno e la chiusura militarizzata dei confini esterni. Il primo per compiacere le imprese, il secondo per le frustrazioni dei cittadini.

Europa, da madre a matrigna

Oggi i nazionalisti hanno buon gioco ad alimentare lo spirito anti europeo, perché l’Europa è macchiata da un peccato originale che la fa essere più matrigna che madre. Stiamo parlando della scelta mercantilista: finché ha avuto come applicazione pratica la creazione di un mercato comune, non ha provocato molti contraccolpi, ma quando si è realizzata nella moneta unica, ha orientato la predilezione dei governanti europei verso i forti e gli interessi privati, in spregio a quelli comuni.

L’Europa, ignorando che l’euro, senza meccanismi di compensazione, poteva trasformarsi in uno tzunami per i paesi e le imprese più deboli, e ignorando che chi gestisce la moneta, di fatto, gestisce il potere, si è dotata di un’architettura monetaria che favorisce le imprese ad alta capacità concorrenziale contro quelle meno competitive e le banche contro i governi.

Se esaminiamo le statistiche commerciali stilate dopo l’introduzione dell’euro, notiamo che Olanda, Belgio e Germania hanno avuto un costante ed elevato saldo commerciale positivo nei confronti degli altri paesi dell’Unione europea. Al contrario Francia, Austria, Portogallo, Grecia hanno avuto un costante saldo negativo. Quanto all’Italia, notiamo un andamento altalenante: in pareggio fino al 2009, poi negativo fino al 2012, infine di nuovo positivo ai giorni nostri. È proprio durante gli anni della crisi – quando il Pil e le esportazioni scendevano e la disoccupazione saliva al 13% -, che anche in Italia si è cominciato ad avere dubbi sulla convenienza a rimanere nell’euro. Qualcuno ha iniziato a proporre addirittura di uscirne per rimettersi in piedi. Quest’idea poggia sulla convinzione che l’Italia vada male perché non è abbastanza competitiva rispetto agli altri paesi, sia quelli interni che esterni all’Unione europea, e che le servirebbe una propria moneta da svalutare, cosa che l’appartenenza all’euro però non permette. Quest’analisi, per la verità, è condivisa anche dal pensiero dominante, il quale però individua nel modello tedesco la strada da seguire per tornare a correre: la Germania, infatti, dicono i suoi estimatori, è in testa alle esportazioni europee perché ha impegnato risorse importanti in investimenti tecnologici che hanno aumentato la produttività e la qualità dei prodotti, e anche perché ha saputo varare riforme occupazionali, salariali, fiscali che hanno ridotto i costi delle aziende. Detto fatto: in tutta Europa si è puntato a ridurre il costo del lavoro tramite l’esasperazione del precariato, il ridimensionamento del sindacato, la riduzione salariale e dei contributi sociali. Una strada, però, che da una parte approfondisce il divario fra profitti e salari, portando all’aumento dell’iniquità, dall’altra crea le premesse di una futura instabilità. Meno soldi in tasca alle famiglie, infatti, significano meno consumi e quindi rallentamento della produzione, con nuove possibilità di crisi economica.

Ma allora perché tutti seguono questa strada? I fautori dell’uscita dall’euro sostengono che ci sia una sola ragione: perché l’unica alternativa sarebbe quella della svalutazione, cosa impossibile a causa della moneta unica. Di qui la proposta di tornare a una moneta propria che ci consenta di recuperare competitività non attraverso la svalutazione salariale bensì tramite quella valutaria.

Da quando l’Italia è tornata a crescere, la disoccupazione si è ridotta e il saldo commerciale con l’estero è tornato di segno positivo, il dibattito attorno all’uscita dall’euro si è smorzato. Ma altre ragioni, dalle conseguenze sociali ancor più gravi, ci impongono di mantenere acceso il dibattito sull’euro, non tanto per stabilire se mantenerlo o lasciarlo, ma per discutere come governarlo.

Nella sua impostazione attuale, l’euro è una moneta a pagamento, affidata al sistema bancario privato. Un’impostazione ultraliberista che nega sovranità alla sfera pubblica in favore dei mercati. Essa va messa in discussione non per spirito nazionalista, ma per una questione di democrazia e giustizia sociale.

Prima l’interesse dei creditori

Ce ne siamo accorti quando l’attenzione dei mercati, dopo avere devastato banche e imprese, si è concentrata sui debiti pubblici, ultimi ambiti rimasti da saccheggiare. La speculazione ha affondato i suoi denti nei polpacci dei paesi più deboli e non ha mollato la presa finché i governi non hanno adottato politiche di finanza pubblica che mettessero l’interesse dei creditori prima di quello dei cittadini.

Nessuno condanna la speculazione, neanche le istituzioni europee che appaiono come amministratori di un condominio i cui condomini, al di là delle scale e dell’ingresso, non condividono neppure il buongiorno. Per le regole di Maastricht, del resto, ogni paese è solo di fronte ai propri debiti e, non potendo sperare nell’aiuto della Banca centrale europea (Bce), l’unica cosa che deve fare è ingraziarsi i mercati assicurando di servire loro il primo pezzo di carne disponibile sulla tavola. A costo di sacrifici, recessione, disoccupazione.

Uscire dal guado

Il dibattito sui debiti pubblici è lungo e articolato, ma per non ritrovarci di fronte ad altre crisi come quella che abbiamo attraversato e che ancora ci morde, dobbiamo ripensare l’Europa e il governo della moneta.

Abbiamo due strade di fronte a noi: andare avanti o tornare indietro. L’unica cosa certa è che non possiamo rimanere in mezzo al guado senza sapere se siamo in compagnia di amici o nemici e con il rischio essere mangiati dal primo rapace che passa.

Fuori di metafora non possiamo restare in un’Europa a mezz’aria: mercato comune, ma condizioni di lavoro agli antipodi tra un paese e l’altro; moneta unica, ma nemici finanziari; libera circolazione dei capitali, ma regimi fiscali concorrenziali. Non ci si può buttare in acqua con lo stesso salvagente e poi nuotare in direzioni opposte. O ci uniamo o ci lasciamo. O ci tuteliamo a vicenda dal pericolo che l’alleato si trasformi in carceriere o ci salutiamo. Anche se, certo, non a cuor leggero e solo come ultima ratio.

Costruire un’Europa solidale

L’auspicio è di poter andare avanti, ossia di costruire un’Europa federale e solidale al servizio delle persone e del bene comune. Un’Europa che non si fondi su trattati amministrati da tecnici nominati, ma su una Costituzione che si esprima in leggi emanate da un Parlamento eletto dal popolo. Un’Europa della sussidiarietà che, senza rinunciare alla solidarietà, sappia organizzarsi su più livelli per facilitare partecipazione, sostenibilità, presa in carico dei beni comuni. Un’Europa a sovranità monetaria socialmente orientata che, pur disponendo di una moneta comune, lasci spazio allo spontaneismo monetario territoriale per favorire l’autodeterminazione dei cittadini e lo sviluppo delle economie locali. Un’Europa dell’omologazione salariale e sociale affinché esista un’unica Europa sociale e del lavoro. Un’Europa a fiscalità condivisa che gestisca il debito pubblico europeo come un tutt’uno e redistribuisca le risorse in base ai bisogni dei singoli territori.

Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere l’elezione di un’Assemblea costituente che scriva la nuova Costituzione europea contenente principi, diritti, doveri, assetti organizzativi e istituzionali. Ma, nell’attesa, sarebbe già un grande passo avanti se si cominciasse a riformare la Banca centrale europea per democratizzare l’euro e gestirlo in chiave sociale a partire dall’obiettivo di aiutare gli stati a liberarsi dai loro debiti pubblici. Sarebbe il segnale che ci stanno a cuore più le persone dei mercati, condizione senza la quale nessun’altra Europa è possibile.

Francesco Gesualdi




In un mondo di debiti, tra crescita e austerità


Non è soltanto l’Italia a essere indebitata. Lo è tutto il mondo. Si stima un debito di 30mila dollari a testa, neonati inclusi. Le ricette proposte sono sempre le stesse: per ripagare il debito occorre tagliare sanità, scuola, pensioni. E poi bisogna crescere. Quanto? In che modo? E a che prezzo?

Il debito è motivo di preoccupazione per tutti, ma ciascuno per ragioni diverse: l’Unione europea (Ue) è preoccupata per le ricadute sull’euro, le imprese per le ripercussioni sull’andamento economico, le famiglie per i contraccolpi sociali. E, a seconda del tipo di preoccupazione, cambiano ricette e rimedi.

Il debito secondo l’Ue

L’obiettivo principale dell’Unione europea è rassicurare i mercati, dimostrare agli investitori internazionali che non hanno niente da temere perché i governi europei sono debitori affidabili. Perciò i suoi occhi sono puntati solo sui conti per mantenerli entro parametri rassicuranti per gli investitori: debito complessivo non oltre il 60% del Pil e deficit annuale al di sotto del 3%, meglio se uguale a zero. È il famoso «pareggio di bilancio» in base al quale tutte le spese, compresa quella per interessi, devono essere coperte dalle entrate ordinarie.

L’Europa si è autornimposta un giro di vite a partire dal 2011, quando la situazione debitoria di tutti i paesi europei peggiorò a causa dei salvataggi bancari. E l’Italia, pur non avendo una situazione bancaria così disastrosa, divenne subito un vigilato più sorvegliato degli altri perché aveva un debito pubblico cronicamente elevato. Del resto in quel periodo i titoli di stato italiano continuavano a perdere valore, un chiaro messaggio che, se l’Italia non si fosse attrezzata per dimostrare di essere un debitore fedele, sarebbe stata messa sotto attacco da parte dei mercati. La politica non tardò a battere un colpo: nel novembre 2011 destituì Berlusconi, considerato troppo debole, e lo sostituì con Monti che adottò subito politiche di austerità particolarmente pesanti. L’allora primo ministro aumentò le tasse, fino a portare la pressione fiscale al 44,1% del Pil nel 2013, mentre tagliò pensioni, istruzione, sanità, trasferimenti ai comuni. L’inevitabile conseguenza furono povertà, disuguaglianze e disoccupazione, una decadenza mal sopportata dal popolo italiano che non ha tardato a punire le forze politiche che l’avevano sostenuta.

Il debito secondo le imprese

Se veniamo alle imprese, la loro posizione sul debito non è omogenea, come del resto non lo è su molte altre questioni. Di solito su principi e obiettivi le imprese convergono, ma sulle strategie possono esprimere posizioni diverse a seconda dell’attività svolta, delle dimensioni raggiunte, dei mercati occupati. In tema di debito, le imprese sono tutte concordi nell’affermare che gli impegni vanno onorati, ma sono divise sul tipo di logica da far prevalere. Grosso modo si fronteggiano due schieramenti: il partito dell’estrazione e il partito della produzione. Partigiani del partito dell’estrazione sono le imprese della finanza (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento) che, vivendo di parassitismo, sognano un sistema economico altamente indebitato totalmente asservito alle esigenze di guadagno dei creditori. Partigiani del partito della produzione sono le imprese dell’economia reale che, vivendo di produzione e commercio, sentono il bisogno di operatori economici sani ad alta capacità di acquisto. Dunque, non troppo dilapidati dai loro creditori. La storia del capitalismo è piena di crisi provocate da un eccesso di debito: l’inceppamento dell’intero sistema dovuto ai fallimenti di imprese, famiglie e governi, sopraffatti da un eccesso di risorse da trasferire ai creditori. Che è esattamente il rischio che corriamo oggi, considerato che il mondo galleggia su 237mila miliardi di dollari di debiti, circa tre volte il prodotto lordo mondiale (Iif, maggio 2018).

Una buona dose di regole, per tenere contemporaneamente a bada gli appetiti degli avvoltorni finanziari e la propensione all’azzardo da parte degli operatori economici, sarebbe il modo migliore per prevenire l’eccesso di debito. Ma poiché le imprese vivono le regole come dita negli occhi, si ostinano a rifiutarle, sostenendo che esiste una ricetta capace di salvare capra e cavoli: l’interesse di chi è parassita a garantirsi alti incassi e l’interesse di chi è parassitato a garantirsi un’alta solidità finanziaria. La ricetta si chiama crescita e si basa sul principio che, se la ricchezza si fa più grande, diventa più facile pagare i debiti con ampia soddisfazione per tutti, sia dei creditori che dei debitori. Applicata ai debiti sovrani, la tesi è che, se cresce la ricchezza prodotta nella nazione, cresce anche il gettito fiscale e quindi la capacità di spesa dei governi che, al tempo stesso, avranno abbastanza risorse per garantire servizi ai cittadini e onorare i propri debiti. In effetti, questa è la sola ricetta che in Europa si va facendo strada in alternativa all’austerità: la propugnava il governo Pd di Renzi e la propugna il governo giallo verde di Di Maio e Salvini. Potrà funzionare?

La favola della crescita

In teoria sì, in pratica presenta molte perplessità. Per cominciare c’è un problema di misura: quanta crescita servirebbe per tirarci fuori dal pantano senza sacrifici? Proviamo a fare due conti. Solo di interessi ci servono una settantina di miliardi l’anno; ma se ci aggiungiamo anche il traguardo di sbarazzarci in venti anni di metà del debito accumulato, che ormai ha oltrepassato i 2.300 miliardi, dovremmo mettere in conto altri 57 miliardi l’anno. Ad oggi farebbero 125 miliardi. Se è vero che andrebbero a scalare via via che passano gli anni, non sbaglieremmo di molto se dicessimo che per i prossimi 10 anni lo stato dovrebbe avere un aumento di gettito di un centinaio di miliardi all’anno. Considerato che oggi la pressione fiscale è al 40%, per ottenere un simile risultato, il primo anno dovremmo avere un aumento di Pil di 250 miliardi. Tradotto in termini percentuali farebbe una crescita del 15%, che è il doppio della crescita media ottenuta dalla Cina nell’ultimo quinquennio. Quella italiana è un’economia matura e, per bene che vada, non può attendersi una crescita del Pil oltre il 2%, 34 miliardi l’anno, un ammontare che – secondo la pressione odierna – potrebbe produrre un gettito aggiuntivo di 13 miliardi: appena l’11% di ciò che servirebbe. Insomma, i numeri ci dicono che quella della crescita è una bella favola che serve a poco per tirarci fuori dai problemi. Ciò nonostante è usata come pretesto per imporci una serie di altre riforme che peggiorano le nostre condizioni di lavoro e attentano al bene comune. Il punto è che la crescita a cui tutti pensano è quella trainata dalle imprese private, che oggi però sono libere di andare a produrre dove vogliono. Il che ha messo tutte le nazioni del mondo in gara fra loro percreare le condizioni più allettanti per gli investimenti. E poiché le imprese prestano attenzione prioritaria al costo del lavoro e alle tasse, tutti i governi si stanno organizzando per ridurle. Tant’è che anche in Italia le parole d’ordine sono flessibilità, libertà di licenziamento e riduzione delle tasse come mostrano il Job’s Act e il fatto che l’imposta sui redditi d’impresa è passata dal 37% nel 1994, al 24% di oggi. E, detto per inciso, a che serve impegnarsi per fare aumentare il Pil, se poi si abbassano le tasse su chi potrebbe pagarle? Ma la fede nella crescita è così radicata che c’è chi chiede di poter fare altro debito per permettere allo stato di investire in opere pubbliche, nella convinzione che la costruzione di strade, ponti e ferrovie stimolerà l’avvio di molte altre attività economiche. In questa direzione sembra voler andare anche l’attuale governo giallo verde che, pur di riuscirci, si dice pronto a superare i paletti fissati in sede europea. È cronaca di questi mesi.

Altri parametri, altre strade da percorrere

È fuor di dubbio che in Italia ci sono molti bisogni insoddisfatti che necessitano di interventi pubblici, ma l’obiettivo non può essere la crescita tout court, bensì il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tenendo ben presente che c’è anche un’altra condizione fondamentale da rispettare: la salvaguardia ambientale. In questa ottica non sono le grandi opere a dover prevalere, ma il recupero del patrimonio edilizio esistente e la valorizzazione delle tratte stradali e ferroviarie locali. Una scelta che (forse) non farebbe crescere il Pil come auspicato, ma che migliorerebbe la vita dei cittadini senza consumare altro suolo e limita al minimo il consumo di nuove risorse. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il tempo della crescita è finito, mentre deve iniziare quello della riconversione economica: una totale rivisitazione del «cosa, come e per chi» produrre con l’obiettivo di espandere le attività ad alto impatto qualitativo sul piano dei diritti, della serenità personale, dell’inclusione occupazionale, della difesa ambientale, mentre vanno chiuse le attività energivore, insalubri, dissipative, utili solo a creare bisogni artificiali che ci ingolfano di rifiuti e ci condannano a una vita in corsa perenne per guadagnare sempre di più.

Gestire il debito attraverso la crescita è come volersi ingraziare la dea Khali con sacrifici umani: il rimedio peggiore del male.

Progressività, patrimoniale, prestito forzoso

Vanno cercate altre strade. Una soluzione è quella della redistribuzione, che vuol dire fare pagare i più forti. Fino ad ora si sono cercate le risorse a favore del debito tagliando sanità, scuola, assegni sociali, che è come se una famiglia decidesse di pagare le banche riducendo la razione di latte del neonato invece che togliere la bistecca agli adulti. In Italia la ricchezza c’è, ma – per un tacito accordo fra tutte le forze politiche – i potenti nessuno li tocca. Questa ingiustizia deve finire: se il paese è in difficoltà lo sforzo del risanamento va richiesto prima di tutto a chi sguazza nell’opulenza. Un obiettivo che si raggiunge non solo riformando il sistema fiscale in senso fortemente progressivo (come avevamo nel 1974), ma anche imponendo una seria imposta patrimoniale e magari un prestito forzoso sugli alti redditi e patrimoni, ad esempio oltre i 500mila euro. In contemporanea andrebbe attuata una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che ogni anno procurano allo stato una perdita di oltre 100 miliardi. E poiché questi provvedimenti hanno bisogno di tempi lunghi, come misura d’urgenza si dovrebbe pensare di chiedere anche ai creditori di fare la propria parte. I creditori chiedono un tasso di interesse perché corrono un rischio, ma se sono sempre protetti, il rischio dov’è? Una strategia di uscita dal debito potrebbe cominciare proprio dalla decisione di raggiungere il pareggio di bilancio tagliando la spesa per interessi, invece che le spese a vantaggio della collettività. Nel 2017 la quota di interessi che le imposte non sono riuscite a coprire è stata pari a 40 miliardi, lo stato avrebbe potuto congelarli raggiungendo di fatto il pareggio di bilancio. Ma chi sarebbe stato penalizzato da una simile decisione? Non certo le famiglie che detengono appena il 5% dei titoli del debito pubblico italiano. In ordine decrescente ci avrebbero rimesso le banche italiane che ne detengono il 27%, la Banca centrale europea (Bce) che ne possiede il 20%, altre istituzioni finanziarie italiane anch’esse al 20%, la Banca d’Italia al 15%, altri investitori stranieri al 13%. In altre parole, a subire i contraccolpi non sarebbero solo istituzioni private, da cui potremmo aspettarci un atteggiamento ostile, ma anche la Banca centrale europea e la Banca d’Italia dalle quali ci potremmo attendere quanto meno un atteggiamento di non belligeranza dal momento che sono istituzioni private con funzioni pubbliche. Ed è proprio la Banca centrale europea, la grande struttura che, alla fine, dobbiamo riformare perché, se avesse un’altra impostazione, potrebbe liberare tutti i governi dell’eurozona dal fardello dei loro debiti senza troppi scossoni.

Chi ragiona diversamente c’è

Charles Wyplosz, uno dei più noti economisti europei, ha avanzato una proposta in tal senso con un progetto denominato Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone). In pratica l’istituto di Francoforte diventerebbe il nuovo titolare dell’intera massa debitoria degli stati dell’Eurozona e, mentre potrebbe dotarsi di un piano pluriennale per estinguere gradatamente il capitale con denaro di nuova emissione, potrebbe pagare gli interessi in scadenza con i proventi del «signoraggio», ossia con i guadagni ottenuti dal servizio di emissione monetaria. Tutto questo per dire che, da un punto di vista tecnico, le soluzioni ci sarebbero. L’ostacolo è tutto politico ed è rappresentato dal predominio dell’ideologia liberista che vuole gli stati succubi dei mercati. Solo una nuova volontà popolare può aprire la strada a un’altra visione,  ma un nuovo popolo si affermerà solo se capirà che i responsabili dei suoi mali non si annidano fra gli ultimi bensì fra i primi.

Francesco Gesualdi




La vera storia del debito italiano


Perché siamo indebitati per 2.300 miliardi di euro? Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità? È colpa del sistema pensionistico? L’evasione fiscale e la corruzione quanto pesano? Perché le diseguaglianze continuano ad aumentare? La pressione fiscale è giusta? E la tanto mitizzata «flat tax» per chi sarà vantaggiosa? Proviamo a dare qualche risposta.

Le turbolenze finanziarie vissute dall’Italia a fine maggio, in coincidenza con la formazione del nuovo governo, hanno dimostrato quanto sia rilevante il tema del debito pubblico ai fini politici ed economici. Soprattutto per l’Italia, il paese più indebitato dell’Unione europea. Almeno in termini assoluti. In termini relativi, ossia in rapporto al Pil, il primato tocca alla Grecia che è al 178%, mentre quello italiano è al 132% (mappa pag. 61).

Un luogo comune vuole che l’Italia sia indebitata perché pretende di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ma i numeri raccontano un’altra storia. Se volessimo ricostruire l’evoluzione del nostro debito pubblico, dal dopoguerra ad oggi, noteremmo tre fasi: quella dei disavanzi in regime di sovranità monetaria, quella dei disavanzi in regime di schiavitù monetaria e quella degli avanzi ancora in regime di schiavitù monetaria.

Il divorzio più costoso della storia d’Italia (1981)

Il primo periodo, durato fino al 1980, era caratterizzato da spese a vantaggio dei cittadini superiori al gettito fiscale, ma i disavanzi erano coperti in larga misura dalla stampa di nuova moneta da parte della Banca d’Italia. Nel corso degli anni Settanta una serie di eventi, fra cui un’inflazione insidiosa, fece cambiare il vento politico ed uno degli effetti prodotti in Italia fu il così detto divorzio fra stato e Banca d’Italia che segnò la fine della sovranità monetaria. Così si entrò nella seconda fase, quella dei disavanzi in schiavitù monetaria. Era il febbraio 1981 e il governo decise che da quel momento avrebbe colmato i suoi disavanzi solo con prestiti ottenuti dalle banche private. A torto o a ragione, i governi che si susseguirono negli anni Ottanta decisero di fare spese superiori al gettito fiscale, molti dicono per colpa della decisione di mandare la gente in pensione troppo presto. E può darsi. Ma complessivamente il debito contratto a vantaggio dei cittadini fra il 1981 e il 1991 fu di 140 miliardi di euro, una somma che, sommata al debito già esistente nel 1980, darebbe un totale di 254 miliardi. In realtà, nel 1991 non trovammo un debito a 254 ma a 750 miliardi. La differenza è data dalla spesa per gli interessi che in quel decennio viaggiavano fra il 14 e il 20%.

Nel 1992 l’Italia entrò nella terza fase caratterizzata dal risparmio. Nel tentativo di ripagare il debito, tutti i governi che si sono susseguiti, ad eccezione del 2009, hanno speso per i cittadini meno di quanto abbiano incassato dal gettito fiscale. Complessivamente, dal 1992 al 2016 il risparmio è stato pari a 760 miliardi, ma il debito pubblico ha continuato a salire fino a sfondare i 2.300 miliardi. Il punto è che il risparmio realizzato non è stato sufficiente a coprire la spesa per interessi che nello stesso periodo è ammontata a 2.038 miliardi. Per cui lo stato italiano si è indebitato per altri 1.278 miliardi per pagare la parte di interessi non coperta dai risparmi. In altre parole, l’Italia si trova nella trappola dell’interesse composto che significa pagare gli interessi sugli interessi. Un meccanismo noto in ambito bancario come «anatocismo», dal greco ana, di nuovo, e tokos, interessi. E quando il debitore ci casca dentro non ne esce più perché il debito si autornalimenta: gli interessi non pagati fanno crescere il capitale da restituire e la crescita del capitale fa crescere gli interessi in una rincorsa senza fine.

Su chi ricade la pressione fiscale?

Appurato che l’Italia non vive al di sopra delle proprie possibilità, la domanda che, caso mai, dobbiamo porci è perché non riusciamo a tenere la corsa con gli interessi. Ma per trovare la risposta a questa domanda bisogna esaminare sia le entrate che le uscite per appurare eventuali lacune, errori, inefficienze. Sul lato delle entrate il quesito da porsi è se lo stato stia incassando tutto ciò che dovrebbe, o se stia rinunciando a cifre importanti per assecondare categorie privilegiate. Se esaminiamo la pressione fiscale, ossia il peso delle imposte sul prodotto interno lordo, scopriamo che è andata crescendo costantemente passando dal 31,4% nel 1980 al 42,9 nel 2016. Ma scopriamo anche che lo sforzo non è stato equamente distribuito e che la pressione è aumentata molto più sui redditi medio bassi che su quelli medio alti. Ce lo dice soprattutto l’Irpef, l’«Imposta sui redditi delle persone fisiche» che rappresenta il 65% dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali, oltre i 252mila euro di allora, corrispondenti a 3 milioni di oggi, era al 72%. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65% oltre i 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43% oltre i 75mila euro. E per confrontare meglio lo scenario di oggi con quello di 40 anni fa, conviene ragionare su somme uniformate da un punto di vista del potere d’acquisto. Ebbene, su uno stipendio equivalente ai 25mila euro di oggi, nel 1974 l’Irpef si sarebbe preso il 12%, oggi se ne prende il 24%, praticamente il doppio. Viceversa, su un reddito equivalente a un milione di euro di oggi, nel 1974 l’Irpef si sarebbe preso il 45%, oggi se ne prende il 42%. E poi uno si meraviglia per l’acuirsi delle disuguaglianze.

Purtroppo, la lista dei favori fatti alle classi più agiate non si limita alla manomissione degli scaglioni dell’Irpef, ma si estende a molti altri ambiti facilmente individuabili, ma difficilmente quantificabili. In ogni caso si può dire che una via attraverso la quale è stato garantito un alto gettito fiscale sulle spalle dei più poveri è quella delle imposte indirette (ad esempio, l’Iva), che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1%, passando dall’8,1% al 14,4% del Pil. Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60% dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18% nel 1982 al 22% nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano.

E sullo sfondo di un sistema fiscale sempre più iniquo, destinato a farsi ancora peggiore se passerà l’ipotesi della «flat tax», c’è la piaga dell’evasione fiscale che, secondo il rapporto 2018 della Commissione presieduta da Enrico Giovannini, ammonta a 110 miliardi all’anno. Una perdita enorme che, se fosse recuperata, permetterebbe di gestire agevolmente il nostro debito pubblico. Ma la si vuole veramente recuperare?

Le spese inutili

Un esame altrettanto rigoroso andrebbe svolto sul lato delle uscite per individuare spese inutili e dannose. E tanto per sgombrare il terreno da un altro luogo comune altrettanto diffuso, va detto che la cassa pensionistica che finanzia le pensioni dei lavoratori (l’Inps), in Italia non è in passivo, ma in attivo di ben 14 miliardi all’anno (205 miliardi di uscite a fronte di 219 miliardi di entrate nel 2016, come da bilancio dell’istituto). Gli sprechi, che senz’altro ci sono, vanno ricercati altrove. Nella corruzione ad esempio, che ogni anno provoca uscite indebite per 50 miliardi. Oppure nelle grandi opere totalmente inutili e deturpanti per l’ambiente. Per non parlare delle spese militari di tipo aggressivo contrarie all’articolo 11 della Costituzione. O dei soldi buttati nei salvataggi delle banche gestite in maniera scriteriata. O, peggio ancora, dei soldi persi nelle scommesse fatte con le grandi banche internazionali sull’andamento dei tassi di interesse. Fra il 2013 e il 2016 per questo genere di scommesse, lo stato italiano ha perso 18 miliardi di euro.

Per i livelli raggiunti, il debito pubblico italiano preoccupa tutti, ma non per le stesse ragioni. Tre le principali posizioni esistenti. La prima è dell’Unione europea, preoccupata per i destini dell’euro, che chiede rigore per conquistarsi la fiducia dei mercati finanziari. La seconda è del mondo imprenditoriale italiano, preoccupato per la sopravvivenza delle proprie aziende, che chiede un approccio più elastico per garantire più spesa. La terza è dei difensori dei poveri, preoccupati per l’impatto sociale, che chiede un’uscita dal debito facendo pagare i più ricchi. Nella prossima puntata, esamineremo più in dettaglio le tre posizioni, ma intanto conviene soffermarci sulle conseguenze del debito.

Le conseguenze del debito

Il debito ha tre gravi conseguenze sociali: crea povertà, aggrava le disuguaglianze e provoca disoccupazione. Produce povertà per l’aumento delle tasse e il taglio dei servizi. La forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le bollette, di chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non può permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni. Le persone in questo grave stato di deprivazione materiale sono oltre 7 milioni, 12,1% della popolazione. Ma se allarghiamo lo sguardo a chi vive in bilico a causa del suo stato di precarietà e di incertezza, troviamo che le persone a rischio povertà, o esclusione sociale, sono 18 milioni, il 30% della popolazione italiana, il 4% in più del 2004. Persone a cui basta un dente da riparare, degli accertamenti sanitari imprevisti, una riparazione d’auto fuori programma, per mandarle sott’acqua e costringerle ad arrangiarsi chiedendo un prestito o rinunciando ad altre spese importanti. Quanto alle disuguaglianze si può senz’altro affermare che il debito verso i privati è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi perché solo i facoltosi hanno un sovrappiù da prestare allo stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale.

Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza accumulata sotto forma di case, terreni, titoli, le famiglie più ricche, pari al 10% del totale, detengono il 46% dell’intera ricchezza privata, quelle più povere, pari al 50% del totale, posseggono il 9,4%. I segnali di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Ogni individuo del 10% più ricco ha un introito annuale di 77.189 euro, mentre quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro. Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore rispetto agli anni Ottanta quando il rapporto era 8 a 1.

Disoccupati e fattorini

E, infine, c’è la disoccupazione dovuta a un rallentamento di tutta la macchina economica. Difficile dare i numeri al riguardo perché oggi si considera occupato anche chi lavora un’ora al giorno a partita Iva come fanno i fattorini di Foodora. L’Istat pone la disoccupazione a 2 milioni e mezzo di persone, 11,2% della forza lavoro, ma la Banca centrale europea (Bce) pensa che si debbano aggiungere altri 3 milioni di persone che un lavoro lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati.

Un quadro allarmante su cui dovremmo cominciare a riflettere, per trovare soluzioni alternative a tutte quelle che ci hanno imposto finora. Ma senza farci illusioni: ogni scelta fuori dall’ortodossia creditizia è destinata a suscitare scontri e ricatti. Intanto, però, cominciamo a parlarne.

Francesco Gesualdi

 




Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi

 




L’austerità neoliberista

Testo su austerità ed economia di Francesco Gesualdi |


La gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Lo stato dovrebbe poter spendere a debito per raggiungere alcuni obiettivi sociali. Con l’imposizione dell’austerità neoliberista è diventato quasi impossibile farlo. Un’austerità che l’Europa ha messo da parte soltanto per salvare le banche con 800 miliardi di euro dei contribuenti.

La decisione dell’Unione europea di adottare un sistema monetario che ha come unico obiettivo la tutela del valore dell’euro attraverso i meccanismi di mercato, ha creato non poche difficoltà ai governi e quindi all’intera economia.

Per cominciare bisogna precisare che la gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Quando si amministra una famiglia la priorità è mantenere le spese nel perimetro delle entrate perché non c’è nessun altro obiettivo da raggiungere se non quello di utilizzare al meglio i soldi che si hanno a disposizione. La differenza tra stato e famiglia l’ha spiegata un economista inglese di nome John Maynard Keynes (1883-1946).

Debito pubblico: prestiti o stampare moneta?

Keynes ci ha insegnato che oltre al compito di una buona gestione, lo stato ha anche quello di promuovere il miglioramento della vita dei cittadini e di stimolare l’economia quando è «imballata». Come dire che in certi contesti lo stato oltre che il diritto, ha il dovere di spendere in deficit, ossia senza corrispettivo di entrate tributarie, che poi significa spendere a debito. Ad esempio, se nel paese c’è un’alta disoccupazione, lo stato non deve limitarsi a spendere ciò che incassa, ma deve espandere i suoi servizi oltre i denari ricevuti dai cittadini in modo da offrire ai disoccupati un’occasione di lavoro e produrre un effetto positivo su tutto il sistema economico grazie all’aumento di spesa generata dai nuovi salari.

Certo, la preoccupazione di tutti nasce dal fatto che il debito è un’arma a doppio taglio: se nell’immediato genera sollievo per la possibilità di realizzare la spesa tanto agognata, in seguito è fonte di preoccupazione per la necessità di accantonare le cifre da restituire per interessi e capitale. Questa regola, però, vale solo in regime di schiavitù monetaria. Per tutte quelle situazioni, cioè, in cui non si ha altra possibilità di procurarsi i denari se non chiedendoli in prestito alle banche. Destino tipico di famiglie ed aziende, ma non dei governi che in condizioni di normalità godono di sovranità monetaria, della possibilità, cioè, di emettere moneta e quindi di finanziare le spese in eccesso con moneta stampata di fresco.

Nella storia del secolo scorso ci sono stati casi importanti di rilancio dell’economia tramite la spesa in deficit finanziata con emissione di nuova moneta. Valga come esempio il «new deal» degli anni Trenta negli Stati Uniti o la crescita economica del dopoguerra in molti paesi europei fra cui l’Italia, l’Inghilterra, la Francia. Ma come tutti gli strumenti, anche «la monetizzazione del debito» (così si definisce le spesa a debito finanziata con nuova moneta), va usato con discrezione perché il rischio è l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato dei prezzi. Ne sa qualcosa la Germania che nel primo dopoguerra si ritrovò con un’economia a pezzi e un prezzo da pagare ai vincitori a titolo di danni di guerra, così esoso da non sapere da che parte rifarsi. Tutto l’oro era stato utilizzato per le spese di guerra, le fabbriche erano distrutte, le case in macerie, la disoccupazione alle stelle. Non sapendo come venirne a capo, i governanti pensarono di risolvere il problema stampando carta moneta. Ma esagerarono e si scatenò un’inflazione impossibile perfino da misurare. Nel novembre del 1923 per comperare un chilo di pane ci voleva più di un chilo di banconote e il francobollo per una cartolina costava 50 miliardi di marchi. Carriole piene di carta moneta servivano a comprare un uovo o un biglietto del tram e se nel 1914 bastavano 4,2 marchi per comprare un dollaro, nel novembre 1923 ce ne volevano 4.200 miliardi. Alla fine molta gente preferì tornare al baratto e usò le banconote per accendere la stufa. La situazione si normalizzò nel gennaio 1924 con l’introduzione di un nuovo tipo di marco che riposizionò tutti i valori.

Memori di questa esperienza, ancora oggi i tedeschi continuano a vedere l’inflazione come il peggiore dei mali e la prima condizione che posero quando vennero avviate le trattative per l’istituzione dell’euro fu di assumere un’architettura organizzativa che evitasse la minaccia dell’inflazione. E convinti che il rischio principale provenisse dai debiti pubblici e dalla pretesa di ripagarli con l’emissione di nuova moneta, chiesero di risolvere il problema in maniera drastica togliendo ai governi qualsiasi possibilità di accesso all’emissione di moneta.

Numeri inventati: 60% e 3%

Per questo oggi ci ritroviamo con un euro governato dal sistema bancario privato capeggiato dalla Banca centrale europea, che ha un unico divieto: quello di prestare direttamente ai governi anche un solo centesimo.

Ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che la Bce deve perseguire la stabilità dell’euro. In altre parole deve impedire ai prezzi interni di crescere oltre il 2% e deve garantire la stabilità di cambio con le altre valute straniere. Ed è quest’ultimo capitolo che chiama di nuovo in causa i debiti pubblici. La premessa è che nel sistema di oggi anche il valore delle valute è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. Per fare l’esempio pratico dell’euro, il suo valore cresce quando c’è un’alta richiesta di monete estere che chiedono di essere cambiate in euro, diminuisce quando succede il contrario. Gli elementi che determinano la richiesta di una valuta sono molti, ma i principali sono quelli di carattere commerciale e finanziario.

Sul piano commerciale la moneta di un paese si apprezza quando esporta più di quanto importa, mentre su quello finanziario si apprezza quando il capitale estero che entra è più alto di quello domestico che esce. Per assurdo, uno dei meccanismi che contribuisce a richiamare capitali esteri è la richiesta di prestiti da parte di famiglie, imprese, governi, per cui nessuno stato, nemmeno l’Unione europea, è contrario all’indebitamento. Ma tutto deve rimanere entro certi limiti, sia perché prima o poi i debiti vanno restituiti, sia perché generano interessi che impoveriscono il paese. Del resto chi si indebita troppo finisce per diventare inaffidabile e più nessuno sarà disposto a dargli nuovi prestiti. Tutto ciò spiega perché quando venne istituito l’euro vennero fissati dei paletti ben precisi rispetto all’indebitamento dei governi. Due sono le regole auree stabilite dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992): la prima è che il debito complessivo dei governi non può superare il 60% del Prodotto interno lordo (Pil); la seconda è che il deficit, ossia l’eccesso di spesa sulle entrate riferito ad ogni singolo anno, non può andare oltre il 3% del Pil. Due numeri fissati su base politica senza alcun fondamento scientifico: l’uno perché rifletteva la posizione della Germania, l’altro quella della Francia. E a indicare che si trattava di numeri indicativi senza veri effetti pratici, basti dire che nel novembre 1993, quando entrò in vigore il trattato di Maastricht, il debito pubblico italiano era al 121% del Pil, mentre nel 2002, quando venne adottato l’euro, era al 105%.

Per salvare i banchieri

Tutto cambiò nel 2008. Accecati da prospettive di guadagno esose, i dirigenti di molte banche europee avevano impiegato i denari dei propri clienti per operazioni rischiose e azzardate che ora stavano provocando il loro fallimento. Era toccato all’inglese Northern Rock, all’irlandese Bank of Ireland, alla belga Dexia, alle tedesche Sparkasse e Commerzbank, all’italiana Monte dei Paschi di Siena. L’intero sistema bancario europeo stava scricchiolando, i governi potevano decidere di salvare solo i piccoli risparmiatori lasciando banchieri, speculatori e profittatori al loro destino. Invece decisero di farsi carico dell’intero risanamento e complessivamente, dal 2008 al 2014, i paesi dell’eurozona utilizzarono 800 miliardi di euro per salvare banche marce e corrotte: 238 miliardi in Germania, 52 in Spagna, 42 in Irlanda, 40 in Grecia, 8 in Italia. Ma quei soldi i governi non li avevano: per salvare le banche si indebitarono essi stessi. Dal 2008 al 2012 il debito pubblico dei paesi dell’eurozona passò dal 65 al 90% del prodotto interno lordo, il 30% in più di ciò che prescrive il trattato di Maastricht. Ora l’Europa temeva davvero per l’euro. Tanto più che la Grecia già nel 2010 aveva dichiarato di non riuscire più a onorare i propri impegni. Solo l’intervento degli altri stati europei, che fra il 2010 e il 2012 le avevano messo a disposizione 150 miliardi di euro, era riuscita ad evitare la bancarotta. La Grecia è una delle economie più piccole nell’ambito dell’eurozona, ma le autorità europee temevano che potesse rappresentare la classica mela marcia che poteva indurre gli investitori internazionali a ritenere putrido l’intero paniere europeo. Tanto più che tutti i governi avevano superato i livelli di guardia a causa dei salvataggi bancari. E che gli investitori stranieri cominciassero a dubitare della solidità finanziaria dell’eurozona non lo diceva solo il fatto che Irlanda, Italia, Spagna faticassero ad ottenere nuovi prestiti, mentre la Grecia non ci provava neanche più. Lo dimostravano anche gli attacchi speculativi che erano stati sferrati contro i titoli di stato di alcuni paesi europei, Italia compresa. Segno inequivocabile che i mercati stavano dichiarando guerra all’Europa.

Sacrifici e Fiscal compact

Che qualcosa andasse fatto è fuori di dubbio. L’Europa poteva scegliere di usare la propria autorità per disarmare i mercati, proibendo la speculazione sui titoli del debito pubblico e ordinando alla Banca centrale europea di entrare direttamente in gioco fornendo ai governi, se non tutto, parte del denaro che serviva per superare la crisi. Invece non fece nulla di tutto questo. Semplicemente accettò la legge del mercato e si organizzò per dimostrare ai creditori che i governi europei erano debitori affidabili capaci di sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di onorare i propri impegni. Strinse i suoi controlli sulla contabilità dei governi, li obbligò ad ottenere da Bruxelles l’approvazione preventiva dei bilanci pubblici e di qualsiasi altro provvedimento fiscale prima di presentarli ai propri parlamenti. Addirittura li obbligò ad inserire nelle proprie legislazioni condizioni più stringenti di quelle previste dal trattato di Maastricht.

Nel 2012 venne firmato il Fiscal compact, l’accordo che impegna gli stati a rispettare il pareggio di bilancio inserendolo addirittura in Costituzione come fece puntualmente l’Italia per dimostrare alle Borse mondiali che la priorità della Repubblica italiana non è il bene dei propri cittadini, ma il guadagno assicurato a chi lucra con la finanza. È la legge dell’austerità neoliberista che ormai contraddistingue l’Europa e che non saranno certo i don Chisciotte – di destra o di sinistra – a debellare, ma una forza politica consapevole che deve scegliere fra mercati e diritti. Chi pretende di servirli entrambi, finisce per servire i più forti.

Francesco Gesualdi

 




Il dilemma della moneta

Testo di Francesco Gesualdi |


Alla fine degli anni Ottanta l’Europa ha virato verso un’impostazione economica neoliberista che riconosce il mercato come la sola legge e le imprese come gli unici attori. Questa impostazione ha permeato anche l’architettura della moneta unica: l’euro è nato non come strumento di servizio pubblico, ma come strumento di lucro.

Nel dopo guerra le imprese europee fecero la scelta della Comunità economica europea (Cee) come strategia per allargare il proprio mercato e dotarsi, nel contempo, di una politica comune nei confronti del resto del mondo. Inevitabilmente, a un certo punto del processo di integrazione, si pose il problema della moneta, perché monete diversificate rappresentano un freno per il commercio. La moneta, però, è un tema molto delicato che a seconda di come è gestito può favorire i forti contro i deboli, la finanza contro l’economia reale, il mondo degli affari contro lo stato sociale, o tutto il contrario. In altre parole, la moneta è come un mezzo di trasporto che, a seconda di come è strutturato, può diventare un carro armato per fare la guerra o un autobus per andare in vacanza. Per cui non si può capire la moneta se prima non si chiarisce da quali principi è animato il potere che ci sta dietro e quali fini persegue.

La perdita di centralità dello stato

Di moneta unica in Europa si cominciò a discutere seriamente negli anni Ottanta, quando in tutta l’area stava cambiando il vento politico. Da un’impostazione socialdemocratica che riconosce allo stato il compito di pilotare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, di superare le disuguaglianze e di garantire a tutti il godimento dei servizi essenziali, si stava passando a un’impostazione neoliberista che riconosce il mercato come unica legge e le imprese come soli attori economici. Come dire che tutto deve essere regolato dalla concorrenza e dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre lo stato va ridotto a mero gestore di tribunali, polizia ed esercito, senza alcuna funzione economica. Questo cambio di vento influenzò profondamente l’architettura dell’euro.

Nel 1988, Jacques Delors, politico francese ex-presidente della Commissione europea, venne incaricato di elaborare una proposta di moneta unica. Delors sapeva che ci sono due modi per governare la moneta: uno come servizio pubblico, l’altro come affare su cui lucrare. Il primo vede come gestore lo stato che si ispira a criteri di gratuità e promozione sociale. Il secondo vede invece come gestore il sistema bancario che si muove secondo il principio del profitto.

La gestione pubblica

La logica della gestione pubblica, di tipo gratuito e socialmente orientata, si contraddistingue sia per la quantità di denaro messo in circolazione, sia per i canali utilizzati per iniettare nel sistema economico la liquidità aggiuntiva.

Per quanto riguarda la quantità, non viene valutato solo il denaro che serve per soddisfare il livello di scambi esistenti. Si fa anche un’analisi della situazione socio-economica per capire se ci sono problemi da risolvere e – nel caso si giunga alla conclusione che c’è un’alta disoccupazione, molti bisogni collettivi da soddisfare, un livello produttivo insoddisfacente – si può decidere di dare una sferzata al sistema con l’emissione di nuova moneta da utilizzare per pagare nuovi salari in ambito pubblico, o per finanziare investimenti pubblici e privati. Questo genere di operazione, che si concretizza attraverso l’apertura di debito pubblico di tipo virtuale, può esporre al rischio di inflazione, ma – se condotta con equilibrio, in associazione con altre misure – non produce effetti mostruosi e quelli che produce sono comunque più accettabili dei problemi sociali irrisolti.

Parlando di quantità, va tenuto presente che il sistema economico può crescere anche per meccanismi propri e quando succede ha bisogno di nuovo denaro per non rimanere frenato. Lo stato che ha sovranità monetaria ed è al servizio dei cittadini amplia l’emissione di moneta e la immette nel sistema economico tramite il pagamento dei salari dei propri dipendenti, delle pensioni, degli acquisti di beni e servizi. In questo modo la massa monetaria si adegua alle accresciute esigenze del sistema in maniera silente e senza aggravio per nessuno, anche se apparentemente lo stato ha aperto un debito. Ma è con se stesso, quindi è nullo.

La gestione privatizzata

La logica della gestione privata concepisce il denaro come una merce da vendere per trarre profitto. Per cui la produzione di moneta è gestita dal sistema bancario con criteri opposti a quelli dello stato. Primo: ha interesse a mantenere la penuria di moneta, piuttosto che l’abbondanza, perché è nella scarsità che si possono imporre tassi di interesse più alti. Secondo: immette nuova liquidità a pagamento perché il principale canale che usa per aggiungere denaro al sistema è quello del credito su cui pretende un tasso di interesse. E poiché il sistema bancario è capace di emettere moneta dal niente, le banche godono del privilegio (assurdo) di poter incamerare ricchezza reale in cambio di un servizio virtuale di cui non hanno alcun merito. Una forma di arricchimento che non si può definire latrocinio solo perché è parassitismo legalizzato.

Su pressione delle forze liberiste che ormai dominavano la scena politica in tutta Europa, Jacques Delors non prese neanche in considerazione l’ipotesi della gestione pubblica dell’euro ed elaborò una proposta di gestione da parte del sistema bancario privato che poi diventò la base per la trattativa finale. In capo a qualche mese venne raggiunto un accordo definitivo, subito inserito nel trattato di riforma dell’Unione europea che venne firmato a Maastricht, Olanda, il 7 febbraio 1992.

Con i suoi 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, il Trattato definisce il nuovo assetto organizzativo dell’Unione europea e le condizioni che gli stati debbono rispettare per esservi ammessi. Varie parti sono dedicate all’impianto organizzativo della moneta unica e fin dai primi passaggi si percepisce la volontà di tenerla completamente fuori dalla sfera d’influenza del potere politico. Per cominciare la moneta nascente è affidata alle cure di un’istituzione nuova di zecca, la Banca centrale europea (Bce), di fatto una società per azioni, i cui azionisti sono le banche centrali di tutti i paesi aderenti all’Unione europea (scheda). Ma non si capisce la vera natura della Banca centrale europea, se non si precisa che le banche centrali nazionali altro non sono che strutture possedute dalle banche private. La Banca d’Italia, ad esempio, è posseduta da 124 azionisti, quasi tutti istituti bancari e fondazioni bancarie, su cui spicca Intesa Sanpaolo e UniCredit (scheda).

Mario Draghi – European central Bank

Diversità tra Bce e Fed

Il carattere neoliberista dell’Unione europea, emerge non solo dalla decisione di affidare il governo dell’euro al sistema bancario privato, ma anche dai compiti assegnati alla Bce. Se esaminiamo i compiti assegnati alla Federal Reserv (Fed), la Banca centrale statunitense, notiamo che al primo posto c’è il perseguimento della piena occupazione («to promote maximum employment»). In Europa, invece, l’unico compito assegnato alla Banca centrale è la stabilità dei prezzi, ossia il mantenimento del valore dell’euro. Nella prossima puntata di questa rubrica, vedremo come tale scelta abbia avuto effetti profondi sulla gestione del debito pubblico e quindi sulle condizioni sociali dei paesi europei. Ma intanto conviene riflettere su un’altra scelta effettuata dall’Unione europea: quella di «agire in conformità con il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza».

Accettare che il rapporto fra le imprese sia regolato solo dalla concorrenza, è come decretare la morte di quelle più deboli. E quando si adotta la stessa moneta senza alcun tipo di salvaguardia, le imprese dei paesi più deboli rischiano grosso perché adottare una moneta unica è come aprire le gabbie dello zoo: le bestie più grosse possono entrare con maggiore facilità nelle gabbie delle bestie più deboli e prendersi il loro cibo. Fuori di metafora, con una moneta unica, le imprese più solide possono sottrarre mercato alle imprese più deboli con maggiore facilità, perché possono fare prezzi più bassi. Esattamente come è successo in Europa dove le imprese del Nord Europa, tecnologicamente più avanzate, hanno potuto penetrare con più facilità in tutto il mercato europeo, mettendo in seria difficoltà le imprese meno efficienti del Sud Europa comprese quelle italiane. Un disagio che si è fatto ancora più acuto con la crisi scoppiata nel 2008, fino a suscitare una vera e propria avversione verso l’euro.

Avversione raccolta dal partito della Lega, che in nome della difesa di tutto ciò che è italiano ha riscosso molti consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.

Uscire dall’euro?

In nome delle difficoltà create alle imprese nazionali, molti propongono addirittura di uscire dall’euro, in modo da recuperare la possibilità di svalutare e riuscire, per quella via, a colmare lo svantaggio competitivo esistente sul piano tecnologico.

Questa tuttavia è solo una parte del dibattito possibile sull’euro. La discussione va inevitabilmente integrata con tutta la partita legata al tema del debito pubblico. Un aspetto che sicuramente introduce altri elementi di complicazione, ma che forse può permetterci di trovare soluzioni che ci facciano evitare il rischio di voler cambiare tutto affinché niente cambi.

Francesco Gesualdi

 




Imprese Unite d’Europa

Testo di Francesco Gesualdi |


La storia dell’integrazione economica europea inizia nel 1948 con la nascita del Benelux. Dopo vari passaggi, nel 1993 nasce l’Unione europea (Ue), il cui organismo principe è la Commissione. È questa che propone le leggi, gestisce le politiche e assegna i finanziamenti. È su di essa che le lobby lavorano.

La strategia utilizzata dalle imprese statunitensi per penetrare i mercati altrui in tempo di protezionismo fu – lo abbiamo visto nella precedente puntata – l’«invasione» dall’interno. Quelle europee, invece, preferirono seguire vie più istituzionali. La prima iniziativa in tal senso venne assunta, nel secondo dopoguerra, da parte di Belgio, Olanda e Lussemburgo, tre stati che, a causa delle loro piccole dimensioni, avvertivano più di altri il limite di mercati ristretti.

Avrebbero potuto seguire la strada dell’area di libero scambio, la forma più blanda di alleanza economica che si limita ad abbattere le barriere doganali e regolamentari per facilitare gli scambi fra stati. Invece optarono per l’unione doganale, una formula che oltre a impegnare gli stati aderenti ad abbattere gli ostacoli fra loro, li impegnava ad adottare le medesime tariffe doganali verso il resto del mondo.

L’unione doganale fra i tre stati europei divenne operativa nel 1948 ed assunse il nome di Benelux. Ma contemporaneamente si erano messi in moto altri processi che di lì a poco avrebbero reso quell’accordo obsoleto. La Francia che, al pari della Germania, disponeva di una forte industria del carbone e dell’acciaio, propose a quest’ultima un’alleanza specifica per questi prodotti, giustificata, più che da ragioni economiche, da quelle politiche.

Le proposte di Robert Schuman e Altiero Spinelli

La proposta venne ufficializzata il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con un discorso che rimase famoso: «L’insieme delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare fra Francia e Germania sia superata […]. Il governo francese propone di mettere la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità comune, nell’ambito di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi europei. Nell’immediato la gestione condivisa del carbone e dell’acciaio assicurerà le basi per uno sviluppo comune, prima tappa della Federazione europea che cambierà il futuro delle nostre regioni per troppo tempo votate alla produzione di armi di cui sono rimaste vittime. La solidarietà produttiva renderà non solo impensabile, ma materialmente impossibile che Francia e Germania tornino a farsi la guerra».

La proposta di Schuman si concretizzò il 18 aprile 1951 con la firma di un accordo denominato Ceca («Comunità economica del carbone e dell’acciaio») a cui aderirono non solo Francia e Germania, ma anche l’Italia e i tre paesi del Benelux. Intanto, Altiero Spinelli, un antifascista perseguitato da Mussolini, aveva messo a punto una proposta di integrazione europea che non si limitasse ai soli temi economici. Ma la proposta di costituire una federazione europea unita anche da un punto di vista politico e militare incontrò ampie resistenze e l’unica alleanza che venne perseguita fu quella economica.

Nel giugno 1955 nel corso di una riunione tenuta a Messina da parte dei sei paesi aderenti alla Ceca, Henri Spaak, ministro degli esteri belga, propose un rapporto di collaborazione non più limitato al carbone e all’acciaio, ma esteso a ogni altra attività produttiva e commerciale. Il suo progetto, tuttavia, non prevedeva un puro e semplice allargamento dell’unione doganale già formata fra Belgio, Olanda e Lussemburgo. La sua idea era di costituire un mercato comune europeo che, se per certi versi era una formula sovrapponibile all’unione doganale, per altri la superava perché avrebbe esteso la libera circolazione anche a capitali e persone. La proposta di Spaak incontrò il favore degli altri partner che vollero addirittura fondare una «Comunità economica europea» (Cee). Un’alleanza che si distingueva dal mercato comune perché, oltre ad istituire un’area di libera circolazione di merci, capitali e persone nella quale applicare una medesima politica doganale e commerciale nei confronti degli stati terzi, prevedeva anche l’impegno ad armonizzare le scelte dei 6 paesi in ambito agricolo, energetico, dei trasporti, della concorrenza.

Il Trattato di Roma (1957)

Il trattato che istituiva la Comunità economica europea passò alla storia come il Trattato di Roma, perché venne firmato in quella città il 25 marzo 1957. Un caposaldo dell’accordo era la gradualità del processo, e il tempo concesso per realizzare il mercato comune venne fissato in dodici anni. In realtà l’integrazione procedette a più velocità. Mentre il percorso che portò all’abolizione delle barriere doganali tra gli stati membri e a istituire una tariffa esterna comune si concluse addirittura con 18 mesi di anticipo, il processo di libera circolazione dei capitali e delle persone si completò invece nel 1993, anno in cui venne ufficialmente annunciata l’unificazione (economica) europea. Il 1993 fu un anno di svolta anche per l’entrata in vigore di un nuovo trattato, quello di Maastricht, che sanciva la nascita della moneta comune, di cui, però, ci occuperemo in altre puntate di questa rubrica.

Come vedremo, dal 1957 a oggi il Trattato di Roma è stato modificato a più riprese, ma l’impalcatura organizzativa dell’integrazione europea è rimasta pressoché immodificata. Purtroppo non ispirata a principi di democrazia parlamentare, come mostra il fatto che il Parlamento europeo verrà eletto a suffragio universale solo a partire dal 1979.

Nel condominio Europa

In effetti in Europa l’assetto organizzativo è più simile a un condominio che a uno stato. E come nei condomini le decisioni sono prese dai capifamiglia d’accordo con l’amministratore, allo stesso modo in Europa le decisioni sono prese dai governi (i capifamiglia) assieme alla Commissione europea (l’amministratore). Negli ultimi tempi sono state introdotte varie novità che danno più potere al Parlamento europeo. Ma nonostante le riforme, l’organo che continua a svolgere una funzione strategica è la Commissione europea, formata da 28 membri (uno per ogni paese dell’Unione), 27 commissari e un presidente. Quest’ultimo viene eletto dal Consiglio europeo, che è composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La funzione della Commissione è del tutto paragonabile all’amministratore di condominio. Apparentemente l’amministratore svolge solo una funzione di supporto tecnico. Di fatto è il vero gestore degli affari condominiali perché suggerisce le decisioni da prendere e le trasforma in ordinanze. Analogamente, la Commissione mette a punto le «proposte» che il Consiglio dell’Unione europea (composto dai ministri di ciascun paese competenti per la materia in discussione) e il Parlamento europeo dovranno discutere. Una volta approvate, le trasforma in provvedimenti legislativi, di cui i «regolamenti» sono l’espressione massima in quanto vincolanti per tutti.

La Commissione europea

Proprio per questa sua funzione, al tempo stesso di proponente e gestore delle decisioni assunte, la Commissione europea è l’organismo che esercita più potere in Europa. Un potere che, senza troppi sotterfugi, condivide con le imprese in nome di un principio per certi versi lodevole: la Commissione ammette di non avere competenza su tutto, perciò ogni volta che deve affrontare un tema, istituisce una commissione consultiva denominata «Gruppo di esperti». Ad esempio, nel 2013 ha convocato 38 Gruppi di esperti sulle tematiche più disparate, dagli Ogm alle regole bancarie, dal doping sportivo, agli additivi alimentari. Talvolta piccole commissioni formate da non più di 10 persone. Talvolta gruppi affollatissimi, addirittura con 80 membri. Tuttavia, la domanda importante non è quanti sono, ma chi sono i componenti dei gruppi. Perché i loro pareri diventeranno proposte che, con buona probabilità, saranno trasformate in regolamenti validi per tutta l’Ue.

Un esercito di 25mila lobbisti

Le indagini condotte attraverso gli anni dall’organizzazione Ceo (Corporate Europe Observatory: corporateeurope.org) hanno sempre messo in evidenza una predilezione per i rappresentanti d’impresa. E il rapporto pubblicato il 9 aprile 2014 sui Gruppi di esperti istituiti per tematiche finanziarie, ne è un’ulteriore conferma. Il 70% dei loro componenti sono rappresentanti di banche, fondi di investimento, istituti assicurativi.

Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro: rappresentanti di imprese e associazioni del mondo degli affari, con l’unico scopo di intrufolarsi negli uffici della Commissione europea ed ottenere decisioni favorevoli agli interessi della propria categoria. Il settore finanziario da solo tiene a libro paga 1.700 lobbisti. Gente pagata fra i 70 e i 100mila euro all’anno per una spesa complessiva di circa 123 milioni di euro.

Con tanta potenza di fuoco, la finanza si sta infiltrando anche nel Parlamento europeo. Centinaia di esponenti di istituzioni bancarie e finanziarie – fra cui JP Morgan, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Unicredit – hanno libero accesso al Parlamento europeo e quando sono in discussione provvedimenti di loro interesse, si danno da fare in tutti i modi possibili per convincere i parlamentari ad assumere posizioni a loro gradite. E i risultati si vedono. Ceo cita il caso di un provvedimento di regolamentazione finanziaria su cui vennero presentati 1.700 emendamenti, 900 dei quali scritti di sana pianta dai lobbisti della finanza.

Francesco Gesualdi


Politica e affari

Le porte girevoli

Per molti politici europei, chiusa la storia politica, inizia quella degli affari. Un fenomeno per nulla etico.

(© European Union 2013 – European Paliament)

Goldman Sachs da una parte, José Manuel Barroso (foto) dall’altra. La prima è una delle più grandi banche d’investimento del mondo, una banca cioè che non fa attività ordinaria di deposito e prestiti, ma finanza d’azzardo a vantaggio dei propri azionisti e clienti. Il secondo è un politico portoghese, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel luglio 2016 i loro destini si incrociano: Barroso diventa presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs. «La sua esperienza e capacità di giudizio saranno di grande aiuto per noi e i nostri azionisti», afferma Goldman Sachs a giustificazione della sua scelta. E c’è da starne certi: per i ruoli che ha ricoperto, Barroso saprà ben consigliare come arrivare a chi conta nell’Unione europea e come sfruttare le lacune della legislazione europea a tutto vantaggio della banca.

Quello di Barroso è un caso classico di porta girevole, di passaggio, cioè, dalla politica al mondo degli affari con chiare funzioni di lobby. Un fenomeno abbastanza diffuso che permette alle imprese di infiltrarsi sempre di più nelle istituzioni politiche e indirizzarne le scelte. Fra i casi più clamorosi: Gerhard Schröder che diventa presidente dell’azienda russa Gazprom dopo avere dismesso il ruolo di capo del governo in Germania e Viviane Reding che assume incarichi nella Fondazione Bertelsmann e Agfa-Gevaert dopo aver lasciato il posto di Commissaria alla giustizia della Commissione europea.

Fra.G.

 




Dal protezionismo alle multinazionali

Testo di Francesco Gesualdi |


Il capitalismo fece i suoi primi passi nel 1200 con la comparsa – a Genova – dei banchieri. Si rafforzò con le grandi compagnie commerciali e con le macchine. Poi arrivarono le multinazionali che oggi dominano il mondo (insieme alle imprese finanziarie).

Una caratteristica del capitalismo è la sua dinamicità, la capacità cioè di cambiare continuamente strategia pur di raggiungere l’obiettivo prefisso, che al contrario rimane sempre lo stesso: il profitto. Ed è proprio questa sua costante trasformazione organizzativa a renderlo poco afferrabile. A questo mondo non c’è però niente di indecifrabile se si trova la giusta chiave di lettura. Nel caso del capitalismo, la pista da seguire è l’evoluzione delle imprese: dimmi come cambiano le imprese e ti dirò come cambia il capitalismo.

Banchieri, commercianti, imprenditori, finanzieri

Il capitalismo si struttura attraverso un processo lento che muove i primi passi con i banchieri genovesi del 1200. Ma la sua vera storia possiamo farla cominciare nel 1600, con la strutturazione delle grandi compagnie dedite al commercio internazionale, tra cui una delle prime è la «Compagnia delle Indie orientali» (East India Company). Il secolo successivo, l’avvento delle macchine nel processo produttivo fa entrare il capitalismo in una fase nuova, caratterizzata da un cambio di ruolo dei mercanti. Se prima si limitavano a comprare e vendere prodotti già pronti, con l’avvento delle macchine trovano più vantaggioso organizzare essi stessi la produzione. Così nasce la classe dei mercanti imprenditori che ottengono i loro prodotti all’interno di stabilimenti attrezzati di macchinari fatti funzionare da uno stuolo di lavoratori salariati. Per due secoli il capitalismo sarà dominato dalle imprese produttive e, anche se oggi un nuovo tipo di impresa, quella finanziaria, sta allargando i propri tentacoli, il mondo in cui viviamo è ancora quello modellato da loro. Ciò è particolarmente vero per l’assetto internazionale.

Le imprese, lo sappiamo, sono strutture organizzate per fare profitto attraverso la divaricazione fra costi e ricavi. La battaglia delle imprese avviene sul terreno della riduzione dei costi e dell’aumento delle vendite. E se la questione costi sta alla base di temi come il progresso tecnologico, il colonialismo, il conflitto sociale, la questione vendite sta alla base delle alleanze, delle ostilità e più in generale delle relazioni fra stati.


L’appartenenza delle prime 200 multinazionali del mondo.

Multinazionali:
i numeri (2016)

  • ?Gruppi censiti: 320.000
  • ?Totale società controllate: 1.116.000
  • ?Quota di partecipazione al prodotto lordo mondiale: 35-40%
  • ?Fatturato lordo complessivo: 132mila miliardi di dollari
  • ?Profitti lordi complessivi: 17mila miliardi di dollari
  • ?Quota di commercio estero gestito: 80%
  • ?Occupati: 300 milioni (15% della mano d’opera salariata a livello mondiale)

Fonte:

Cnms, Top 200. La crescita di potere delle multinazionali, Vecchiano 2017; il lavoro è scaricabile – gratuitamente – dal sito del «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

 

 


Perché il libero scambio

Il sogno di ogni impresa è espandere le vendite in maniera infinita, per questo la crescita è un caposaldo del capitalismo. E poiché le possibilità di vendita sono tanto più ampie, quanto più vasto è il mercato, il capitalismo – almeno a parole – ha sempre fatto professione di fede nel libero scambio, nel mantenimento, cioè, di frontiere aperte per permettere a merci e servizi di fluire liberamente tra uno stato e l’altro. In realtà le imprese hanno sempre oscillato fra protezionismo e liberismo in base allo stadio evolutivo in cui si trovano. Un’ambivalenza che appare più chiara se facciamo un paragone con i tori. Quando sono ancora vitelli si sentono più al sicuro in pascoli protetti da staccionate che impediscono ai tori, più forti di loro, di entrare. Crescendo, cominciano ad avvertire la staccionata come un limite perché alzando la testa vedono tanta buona erba di là dalla palizzata: sarebbe bello poterla brucare! Ma poi si guardano nello stagno e, benché cresciuti, si vedono ancora creature acerbe incapaci di fronteggiare i tori adulti che si trovano nel pascolo aperto. Per cui sognano una situazione intermedia: lo spostamento della staccionata un po’ più in là per disporre di un recinto più ampio in cui l’erba sia contesa solo fra tori della stessa età e delle stesse dimensioni. Più tardi, quando hanno raggiunto l’età adulta ed hanno superato ogni paura di confrontarsi con gli altri, rivendicano l’abbattimento di qualsiasi staccionata (anche di quella costruita per proteggere i nuovi vitelli) per scorrazzare liberi nell’infinita prateria.

Fuori di metafora, quando l’industria è ai suoi albori, le imprese chiedono protezione agli stati. Non senza ragione. L’esperienza dimostra che solo in una situazione protetta, l’industria nascente ha garanzia di sviluppo.

In caso contrario rischia di essere sopraffatta dalle imprese straniere che, in virtù della loro forza tecnologica e finanziaria, possono inondare il paese di beni a prezzi così bassi da sgominare l’industria locale. Per questa ragione molte nazioni africane sono riluttanti a firmare l’accordo di scambio alla pari proposto dall’Unione europea. Il famoso Epa, Economic Partnership Agreement, ossia «Accordo economico di partenariato», che propone di applicare tariffe zero sui prodotti del Sud del mondo esportati verso l’Unione europea e tariffe zero per i prodotti europei esportati verso i paesi del Sud del mondo. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in Lettera a una professoressa, che non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali.

Perché il protezionismo

Tornando alla storia è un fatto che il capitalismo nasce protezionista. Le imprese manifatturiere di ogni nazione chiedevano ai propri governi di metterle al riparo dalla concorrenza estera tramite dazi doganali e ogni altro provvedimento utile a ostacolare l’ingresso di manufatti esteri. Ma il protezionismo a cui le imprese aspiravano era a senso unico: porte chiuse alle merci straniere, ma possibilità di collocare le proprie nei mercati degli altri. Una pretesa non di rado soddisfatta con le armi. Valgano come esempio le guerre dell’oppio di metà Ottocento fra Cina e Gran Bretagna per la pretesa da parte di quest’ultima di commercializzare in Cina l’oppio coltivato in India. La stessa annessione dell’India all’impero britannico aveva come obiettivo non solo quello di impossessarsi delle materie prime indiane, ma anche di garantire un ampio mercato alle manifatture tessili inglesi. Non a caso Gandhi fece dell’autoproduzione tessile uno dei simboli della resistenza contro il dominio britannico.

In principio fu la Singer

È in questo contesto di amore-odio per il protezionismo, che a fine Ottocento le imprese di grandi dimensioni mettono a punto una nuova strategia di espansione. La formula si chiama colonizzazione dall’interno e si basa su un ragionamento semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Così nel 1867 l’americana Singer si paracaduta in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, apre a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente dette gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere a una medesima società che sta a capo di tutte. Oggi i gruppi multinazionali sono 320mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutti insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come le sementi, i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo globale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.

Famiglie, azionariato e fondi d’investimento

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica della maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Mars, Barilla, Ferrero sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa: salvo eccezioni, i proprietari sono banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento, istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo perché gli è stato promesso un alto rendimento. A livello mondiale 225 istituti finanziari gestiscono una ricchezza pari a 26mila miliardi di dollari e riecheggiano le parole di Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939: «Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

Francesco Gesualdi


Geografia delle multinazionali – Chi sono, dove sono

Gli Stati Uniti guidano la classifica delle multinazionali, ma la Cina avanza rapidamente.

Se compiliamo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriamo che 66 sono multinazionali. La prima compare al 10° posto ed è Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India
(vedi il grafico Cnms a sinistra).

Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.

Fra.G.