Il futuro dell’Ia e il nostro

Da poco più di un anno l’Intelligenza artificiale (Ia) è diventata tema quotidiano. Quali conseguenze comporta questa rivoluzione? E come si affronteranno gli altissimi costi ambientali che essa genera?

Quando, nel 1867, Joseph Thomson scoprì l’elettrone non poteva immaginare che la sua scoperta avrebbe aperto la strada a una valanga di ricerche scientifiche che avrebbero rivoluzionato il nostro modo di vivere e lavorare. Il tema di fondo è l’elettronica. Essa ha trovato così tanti ambiti di applicazione da avere dato vita a tantissimi settori, fra cui le telecomunicazioni, l’aereospaziale, le connessioni a distanza, l’elaborazione dati e, ultima arrivata, l’intelligenza artificiale (Ia). Ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria tecnologia, i propri materiali di base, i propri supporti tecnici, ma anche i propri tempi di evoluzione. E, mentre certi settori hanno ormai raggiunto un certo grado di maturità, altri sono ancora in piena evoluzione. Per questo sono terreno di scontro e di contesa non solo fra imprese, ma addirittura fra Stati. Perché controllare quelle tecnologie significa, di fatto, dominare l’intera economia in un sistema che non vive di ciò che ha raggiunto, ma di ciò che deve ancora venire. Non a caso il motore del capitalismo è l’innovazione, fondamentale non solo per accrescere gli spazi produttivi, ma anche per abbattere i costi di produzione e quindi vincere l’eterna battaglia per la concorrenza.

Dal militare al civile

Senza dimenticare che, quando l’innovazione non basta a garantire il predominio, l’arma di riserva è la supremazia militare dipendente anch’essa dalla superiorità tecnologica.

In effetti, i confini fra civile e militare si fanno sempre più sottili, non solo perché la sfera economica chiede aiuto a quella militare quando non ce la fa a dominare la situazione con le strategie classiche di tipo economico, ma anche perché le invenzioni nate in ambito militare si sono, in seguito, estese a quello civile. Ne sono una dimostrazione la storia del Gps o di Internet ma anche di molte altre tecnologie. Del resto, sono ormai tantissime le imprese informatiche inserite contemporaneamente in un campo e nell’altro.

Dati e data center

Fra le novità tecnologiche in via di definizione, che daranno forma al futuro, c’è senz’altro la gestione centralizzata dei dati e l’intelligenza artificiale. La gestione dei dati si riferisce alle tecniche per raccogliere, archiviare, organizzare, proteggere ed elaborare tutte le informazioni utili allo svolgimento della propria attività. Nei primi anni di utilizzo di massa del computer, la soluzione più naturale di gestione dei dati consisteva nel dotarsi, struttura per struttura, di apparecchiature proprie, sufficientemente capienti per le proprie esigenze. Con l’evolversi della tecnologia, la soluzione più utilizzata è diventata quella dell’immagazzinamento centralizzato, ossia il deposito dei propri dati in megastrutture, i data center. Questi sono gestiti da terzi che di mestiere affittano spazi informatici capaci di immagazzinare dati ed elaborarli secondo le esigenze dei propri clienti. Un esempio banale potrebbe essere la custodia di dati relativi a clienti e fornitori con annesso servizio di ragioneria per la tenuta conti, gestione dei pagamenti e incasso delle fatture. E, per imprimere un tocco di simpatia a questa nuova politica gestionale, il trasferimento a distanza dei dati e relativa lavorazione è stato battezzato cloud computing che potrebbe essere tradotto come «elaborazione fra le nuvole».

La convenienza delle aziende, o di chiunque altro deve gestire un numero importante di dati, a trasferire le proprie attività informatiche nei data center, piuttosto che gestirle in proprio, è una questione di risparmio economico e di efficienza.

In ambito informatico, la tecnologia evolve rapidamente, bisogna spendere in continuazione per essere al passo con le ultime novità. Alla fine, risulta più conveniente appaltare il servizio a un ente terzo che, in cambio di un affitto annuale, garantisce spazi adeguati e tecnologie aggiornate.

La rivoluzione dell’Ia

La rivoluzione dell’Ia. (Foto Andrea de Santis-Unsplash)

La tecnologia informatica che oggi sta di nuovo rivoluzionando la nostra esistenza si chiama intelligenza artificiale, che si può definire coma la capacità delle macchine di svolgere compiti che, normalmente, richiedono capacità di ragionamento, apprendimento e creatività tipiche dell’essere umano. Le sue applicazioni stanno avanzando in ogni settore: dalle auto senza conducente, ai robot che svolgono funzioni infermieristiche, fino ai call center addetti ai rapporti con il pubblico o agli studi di assistenza legale. In ambito quotidiano molti stanno conoscendo l’intelligenza artificiale tramite l’uso di piattaforme come ChatGPT capaci di conversare con chi le interpella, di rispondere a domande, di creare testi, di fornire immagini, di tradurre lingue e molto altro. Ed è inutile dire che l’intelligenza artificiale sta diventando un caposaldo anche in ambito militare, con tutti i rischi che possono esserci ad affidare alle macchine decisioni di morte che non dovrebbero essere affidate neanche agli umani. In effetti, l’intelligenza artificiale, tanto è strabiliante per ciò che è capace di fare, tanto pone problemi sul piano morale e politico, considerato che attenta alla democrazia stessa. Essa, infatti, è capace di generare e veicolare informazioni, foto e filmati falsi o di censurare, ossia bloccare la circolazione di opinioni sgradite al potere o non condivise dai gestori delle piattaforme social. Del resto, è già abbastanza inquietante che miliardi di informazioni – riguardanti strutture pubbliche, aziende, singoli cittadini – siano concentrate in poche strutture controllate da una manciata di aziende informatiche che possono usare i nostri dati come merce da vendere ai soggetti più vari: aziende pubblicitarie e commerciali, partiti politici, servizi segreti. La nostra intimità e i nostri valori violati per vile denaro.

Tutto in mani private

Gli investimenti mondiali nei data center sono quasi raddoppiati dopo il 2022 raggiungendo i 500 miliardi di dollari nel 2024. Il risultato è che, a oggi, si contano all’incirca 12mila data center a livello globale, per il 45% localizzati negli Stati Uniti. Palazzi interi ricolmi di milioni di componenti informatiche (computer, hard disk e memorie), che però non sono mai abbastanza per i bisogni di un’intelligenza artificiale in continua evoluzione. Per questo si vanno strutturando centri di elaborazione dati sempre più grandi e complessi, i cosiddetti data center hyperscale, che inducono un numero crescente di soggetti economici di tutto il mondo a trasferire i propri dati presso di loro al fine di ottenere servizi migliori in tempi più rapidi.

Il rovescio della medaglia di tutto questo è la concentrazione di potere: pochi gestori privati –  Amazon, Google, Microsoft, Meta, TikTok, Alibaba, Apple – di fatto hanno il controllo di intere economie, con possibilità di decidere se farle funzionare o sabotarle (MC ha dedicato al tema un dossier ad agosto 2024, ndr). Un tema che, purtroppo, non sembra interessare i governi dal momento che in nessuna parte del mondo si è aperta la discussione sulla necessità di considerare i servizi informatici come servizi strategici da fare gestire a soggetti pubblici operanti sotto controllo democratico. Il massimo della preoccupazione espressa dai governi è la nazionalità dei gestori partendo dall’assunto che non presentano rischi se risiedono in Stati amici o, meglio ancora, se appartengono al proprio Paese. Una posizione in linea con il patriottismo produttivo oggi tanto in voga. E non per finalità ambientali o sociali, ma come strategia di difesa delle imprese di casa propria in un mondo sempre più dominato da scarsità di risorse e iniqua distribuzione della ricchezza che, di fatto, impedisce l’allargamento del mercato.

Per il dominio digitale

La battaglia per il dominio digitale si combatte essenzialmente fra Usa, Cina e Unione europea (ma un ruolo fondamentale lo ha Taiwan, ndr) e non riguarda solo i data center, ma anche la produzione di semiconduttori (i componenti base delle macchine informatiche) e il controllo delle materie prime utili a produrli. Ognuno cerca di garantirsi il primato nei tre ambiti tramite sovvenzioni alla produzione, dazi, tutela dei brevetti, accordi di approvvigionamento commerciale, limiti all’esportazione. In questa chiave vanno letti i fondi stanziati negli ultimi anni da Usa, Cina, e Unione europea a favore della propria industria elettronica, o i dazi imposti da Usa e Unione europea verso i semiconduttori cinesi o le restrizioni introdotte dalla Cina sull’esportazione dei minerali necessari alla produzione di materiale informatico, di cui ha grande disponibilità.

Il sistema insegue la tecnologia perché è funzionale alla logica concorrenziale delle imprese, ma, per farcela accettare, ci dicono che serve a garantirci una vita migliore. Su quest’affermazione si dovrebbe discutere ma, pur dandola per buona, sappiamo per esperienza che le innovazioni tecnologiche aprono sempre nuove problematiche di carattere sociale e ambientale, se non morale.

A maggior ragione la tecnologia digitale, rispetto alla quale le Nazioni Unite hanno istituito un organismo indipendente di esperti per individuare rischi e opportunità dell’intelligenza artificiale (Un office for digital and emerging technologies, Odet). La struttura, istituita nel corso del 2025, non ha ancora prodotto risultati, ma alcune problematiche sono già state accertate.

Consumi fuori controllo

Fra queste, c’è un elevato impatto ambientale per i bisogni esorbitanti di energia elettrica da parte dell’intelligenza artificiale e, quindi, dei data center.

Per la verità tutta la filiera informatica è altamente energivora, dall’estrazione dei minerali utili alla costruzione dei circuiti elettronici, fino al funzionamento dei computer ovunque siano dislocati. Ma l’intelligenza artificiale ha impresso un’accelerazione perché servono componenti sempre più complessi, e interconnessioni sempre più abbondanti.

L’Agenzia internazionale per l’energia (International energy agency) informa che, ad oggi, la produzione di semiconduttori assorbe l’1% dell’energia elettrica mondiale, mentre l’insieme dei data center assorbe l’1,5% del totale. Presi singolarmente i data center più grandi consumano la stessa quantità di energia elettrica assorbita da 100mila famiglie, mentre si stanno costruendo strutture che consumeranno quanto due milioni di famiglie corrispondenti a città come Los Angeles.

Dal 2017 a oggi l’elettricità assorbita dai data center a livello globale è cresciuta del 12% all’anno fino a raggiungere i 415 terawatt/ora nel 2024, consumati per il 45% negli Stati Uniti, il 25% in Cina, il 15% in Europa. Entro il 2030 l’assorbimento complessivo da parte dei data center raddoppierà alterando profondamente l’odierno rapporto fra settori produttivi.

Negli Stati Uniti, ad esempio, si prevede che i data center consumeranno un ammontare di energia elettrica superiore a quella assorbita dalle industrie dell’acciaio, del cemento e dell’alluminio messe insieme.

Per ragioni ambientali sarebbe utile che la maggiore quantità di energia elettrica richiesta venisse fornita solo dalle rinnovabili, ma considerazioni di carattere tecnico e finanziario spingono anche verso soluzioni di vecchio tipo come le centrali funzionanti con i tradizionali combustibili fossili e centrali nucleari. Con un aumento certo di emissioni di anidride carbonica e, nel caso del nucleare, di rischio radioattivo. Non a caso l’Agenzia internazionale dell’energia prevede che la CO2 mondiale collegata ai data center passerà da 175 milioni di tonnellate di oggi a 320 milioni di tonnellate nel 2030. E non è tutto.

La rivoluzione dell’Ia. (Foto Igor Omilaev-Unsplash)

La questione idrica

Quando si parla di elettricità, un elemento che si tende a trascurare è l’acqua. Essa svolge un ruolo fondamentale non solo nelle stazioni idroelettriche, ma anche nelle centrali termiche e nucleari (per il raffreddamento, ndr). Dunque, se aumenta la produzione di energia elettrica da fonti tradizionali, aumenta anche il consumo di acqua. L’Agenzia internazionale per l’energia stima che, allo stato attuale, il consumo mondiale di acqua collegato all’energia elettrica utilizzata dai data center corrisponde a 373 miliardi di litri all’anno. Ad essi vanno aggiunti altri 140 miliardi di litri per gli impianti di raffreddamento indispensabili al loro buon funzionamento e un’altra cinquantina di miliardi per la produzione di semiconduttori. Il totale fa 560 miliardi di litri all’anno che potrebbero diventare 1.200 nel 2030.

Un bilancio sicuramente pesante per un pianeta che si dimostra sempre più assetato e che vede crescere i data center proprio nei luoghi a maggiore criticità, com’è, ad esempio, lo stato della Virginia negli Stati Uniti. In un’intervista pubblicata dal Financial Times il 14 agosto 2024, la stessa Microsoft ha ammesso che il 42% dell’acqua che utilizza globalmente proviene da «aree a stress idrico», mentre Google ha dichiarato che il 15% dei suoi prelievi idrici avviene in «aree con alta scarsità di acqua».

Intelligenze

In conclusione, l’intelligenza artificiale è un’altra dimostrazione che nessuna innovazione tecnologica è priva di conseguenze. Dovremmo meditare se non sia meglio organizzarci per valorizzare a pieno l’intelligenza di tutti gli esseri umani piuttosto che affidarci all’intelligenza delle macchine che, per quanto sviluppata, è sempre ammaestrata e – quindi – stupida.

Francesco Gesualdi

 



Dietro i «giochi» delle banche

Dal mondo delle banche arrivano rumori di spade: lotte fra giganti per la supremazia. E poiché ogni tattica è buona pur di raggiungere i propri obiettivi, proprio come succede nel gioco del Risiko, questo è il termine usato ogni volta che si riaccendono le lotte tra banche per il controllo reciproco. Lotte che, paradossalmente, si accentuano quando le banche sentono odore di vacche magre. Com’è il caso del tempo che stiamo vivendo.

Il 2023 e 2024 sono stati anni d’oro per le banche di tutta Europa, Italia compresa. La Banca d’Italia informa che, nel 2023, i profitti lordi del sistema bancario italiano si sono attestati a 45,4 miliardi di euro, il 40% in più rispetto a quelli ottenuti nel 2022. Nel 2024 sono saliti addirittura a 51,5 miliardi di euro.

Dai tassi agli azionisti

La spinta è venuta dall’aumento dei tassi di interesse decretato dalla Banca centrale europea (Bce) come mossa contro l’inflazione. L’operazione, partita nel luglio 2022, ha raggiunto il suo apice nel dicembre 2023 quando il tasso di interesse è stato portato al 4,5%. Una vera mannaia, per famiglie e imprese indebitate, ma un regalo insperato per il sistema bancario, che in Italia ha visto un’impennata degli introiti da interessi del 36% nel 2023. Tanto più che le banche avevano pensato bene di alzare gli interessi applicati sui prestiti, ma di lasciare invariati, ossia prossimi allo zero, quelli applicati sui depositi.

Nel giugno 2024, considerata vinta la lotta contro l’inflazione, la Bce ha deciso di cominciare ad allentare la morsa sui tassi di interesse intervenendo con ripetuti ribassi, fino al 2% del giugno 2025. Con viva preoccupazione del sistema bancario che ha visto svanire la sua gallina dalle uova d’oro. Per questo, vari protagonisti hanno cominciato a darsi da fare per continuare a raccogliere gli stessi profitti, ma da fonti diverse. Con ottimi risultati: a giugno 2025, le prime cinque banche italiane hanno dichiarato il 13,5% di utili in più rispetto a giugno 2024. Utili distribuiti agli azionisti.

Le banche, ieri e oggi

Al giorno d’oggi, le banche sono qualcosa di più dei vecchi intermediari che raccoglievano risparmio per passarlo a chi era in cerca di prestiti.

Le banche moderne sono macchine finanziarie che usano canali molto più ampi per fare soldi attraverso i soldi. Lo dimostra tutto quel flusso di introiti che va sotto il nome di commissioni, cioè soldi incassati per i servizi più vari: la gestione dei conti corrente, i pagamenti tramite carta elettronica, la compravendita di titoli, le assicurazioni sulle esportazioni e molto altro. Voci di entrata che, nel 2023-2024, hanno rappresentato un terzo degli introiti bancari, che però erano attorno al 40% negli anni precedenti, quando i tassi di interesse erano bassi. Questo spiega perché molte banche hanno intrecci proprietari con il mondo assicurativo mentre anche le più piccole si sono dotate di «società di gestione del risparmio» (Sgr) per la creazione di fondi comuni di investimento. E con il crescere delle famiglie facoltose, molte banche si stanno anche organizzando per offrire servizi di così detto wealth management e private banking, forme di amministrazione personalizzata di grandi patrimoni, generalmente superiori ai 500mila euro, con l’obiettivo di farli fruttare in vario modo. Esempi di banche con questo genere di servizio sono Unicredit, Intesa San Paolo, Banca Sella, Banca Generali e varie altre.

Una banca particolarmente attrezzata per attirare clienti desiderosi di guadagnare attraverso investimenti in titoli di proprietà (azioni), prestiti ad aziende (obbligazioni) e varie altre diavolerie finanziarie, è la Banca popolare di Milano (Bpm) che, recentemente, ha acquisito l’intera proprietà di Anima, uno dei principali gruppi finanziari italiani, gestore di fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni, per un patrimonio complessivo valutato in 190 miliardi di euro.

Non a caso Bpm è stata presa subito di mira da Unicredit, il secondo colosso bancario italiano, che nel novembre 2024 ha dichiarato di voler lanciare un’operazione d’acquisto per inglobare Bpm nel proprio impero. Ma le concentrazioni bancarie sono operazioni sensibili che richiedono il nulla osta da parte di varie istituzioni, per cui solo nell’aprile 2025 Unicredit è potuta passare alla fase operativa. La banca aveva già annunciato che il periodo di acquisto delle azioni Bpm sarebbe durato dal 28 aprile al 23 giugno 2025.

foto Miquel Parera – Unsplash

Il «golden power»

Tutto si è fermato per l’altolà imposto dal Governo italiano che si opponeva all’acquisizione in nome del golden power, il diritto di veto che consente allo Stato di bloccare le operazioni ritenute contrarie agli interessi nazionali.

Fra i punti critici sollevati dal Governo c’è il fatto che Unicredit è ancora presente in Russia, paese sotto sanzione per la sua aggressione all’Ucraina. Ma sorprende che proprio Antonio Tajani, ministro degli Esteri, abbia votato contro il decreto di golden power e abbia addirittura chiesto che la sua contrarietà venisse scritta a verbale. Questo fatto permette alle malelingue di sostenere che il vero motivo per cui Giancarlo Giorgietti, ministro dell’Economia, abbia preteso di mettere il veto su Unicredit non sia dovuto agli interessi nazionali, ma all’obiettivo di favorire un altro progetto di fusione bancaria gradito al suo partito. La fusione, cioè, fra Bpm e Monte dei Paschi di Siena, due banche che, a detta di Salvini, sono italianissime contrariamente a Unicredit che è definita «straniera». Sulla base di quale criterio non è dato saperlo. Se l’italianità delle banche dovesse essere misurata in base alla nazionalità dei loro azionisti, si cadrebbe comunque male. I primi due azionisti di Unicredit sono BlackRock (7,3%) e Capital Group (5,1%), due fondi statunitensi. I primi tre azionisti di Bpm sono Credit Agricole (19,8%), BlackRock (5%), JPMorgan (3%), banca francese la prima, fondo e banca statunitensi gli altri due. Ma, al di là della nazionalità degli azionisti, l’aspetto che forse più interessa alla Lega è il mantenimento dello status quo in un territorio che è suo bacino di voti.

Constatato che, in territorio padano, Bpm è stato attore di stabilità economica e che la stabilità economica è garanzia di stabilità politica, la Lega teme l’arrivo di nuovi soggetti che potrebbero alterare la situazione.

A seguito del veto del Governo italiano, Unicredit ha impugnato il provvedimento di fronte al Tar il quale il 12 luglio si è pronunciato a favore della banca, almeno in parte. Per di più, del caso si è occupata anche la Commissione europea che il 16 luglio ha contestato al governo italiano la validità del suo decreto. Ciò nonostante, il 22 luglio Unicredit ha annunciato di voler gettare la spugna: rinunciava definitivamente all’acquisto di Bpm per l’allungarsi dei tempi necessari a ottenere «una risoluzione definitiva della questione golden power».

In teoria, ora Monte dei Paschi avrebbe avuto campo libero per portare avanti il suo progetto di fusione con Bpm, ma stranamente più nessuno ne ha parlato. Eppure, Bpm è già presente nell’azionariato della banca senese con una partecipazione che rasenta il 9%. Evidentemente quell’idea è stata poco più di un’ipotesi accarezzata lì per lì, ma poi lasciata cadere, perché, nel frattempo, Mps ha ufficializzato un altro progetto di acquisizione, addirittura di Mediobanca. Un progetto che molti ritengono stravagante perché una banca piccola (Mps) vuole mangiarne una grande (Mediobanca). Tanto da pensare che le vere finalità dell’operazione non siano di tipo economico, ma dettate da ragioni di potere.

La banca più antica

Fino agli anni Duemila, Monte dei Paschi, la banca più antica d’Italia, con sede a Siena, aveva fatto parlare di sé soprattutto per i benefici economici e culturali che aveva apportato al territorio senese. Poi si è fatta prendere dal gigantismo e ha sbandato. L’inciampo più serio è avvenuto nel 2007 quando si è indebitata pesantemente per acquistare la Banca Antonveneta.

Il problema, tuttavia, non è emerso subito, perché i dirigenti erano riusciti a nascondere il marcio dietro un’intricata operazione di ingegneria finanziaria.

Quando, però, nel 2011 la magistratura ha portato a galla la gravità della situazione, lo Stato ha dovuto intervenire con potenti iniezioni di denaro per evitare il fallimento. L’intervento pubblico è avvenuto a più riprese fino a concentrare nelle mani dello Stato più di due terzi del capitale azionario di Mps. Oggi, il pacchetto azionario in suo possesso corrisponde all’11,7% perché, dopo il 2017, molte quote sono state vendute. L’ultima grande vendita è avvenuta nel novembre 2024 e ha lasciato dietro di sé una montagna di polemiche. Non tanto per la decisione del Governo di ridurre la propria presenza nella banca senese, ma per le modalità con le quali è avvenuta la vendita delle azioni in suo possesso. Tant’è che la stessa Commissione europea ha aperto un’inchiesta, non ancora conclusa, per appurare se le procedure siano state corrette, o se – come denunciano alcuni, fra cui Unicredit – siano stati utilizzati degli stratagemmi per favorire alcuni soggetti rispetto ad altri. In particolare, Francesco Caltagirone, patron di un vasto impero comprendente anche il quotidiano Il Messaggero, e Delfin, società della famiglia Del Vecchio, proprietaria, fra l’altro, di Luxottica. Le loro quote rasentano in ambedue i casi il 10% e oggi Caltagirone e Delfin sono rispettivamente il secondo e terzo azionista di Mps, seguiti da Bpm che detiene un altro 9%.

Il fatto intrigante è che Caltagirone e Del Vecchio compaiono anche fra gli azionisti di Mediobanca, la banca che Mps vuole inglobare.

La storia di Mediobanca

Fondata nel 1946 da tre banche di proprietà statale, dieci anni più tardi Mediobanca è stata quotata in borsa e data in pasto ai privati, rappresentando, così, una sorta di sperimentazione ante litteram di privatizzazione. Mediobanca è stata però una sperimentazione anche di un nuovo modo di fare banca. Essa, infatti, non è una banca ordinaria, ma una banca d’affari o banca d’investimenti che dir si voglia. Mentre le banche ordinarie, cosiddette commerciali, si rivolgono al grande pubblico con l’intento di raccogliere risparmio da chicchessia per offrire prestiti e servizi finanziari di uso comune, le banche d’affari si rivolgono a un pubblico ristretto, ma più facoltoso, desideroso di investimenti più lucrosi anche se più rischiosi. Inoltre, si rivolgono al mondo delle grandi imprese per aiutarle a realizzare non solo i loro investimenti produttivi, ma anche i loro progetti di riorganizzazione aziendale, tramite ristrutturazioni, acquisizioni, fusioni. Le banche d’affari, insomma, svolgono un ruolo centrale nella definizione degli assetti proprietari dei grandi complessi societari, per cui tutti gli imprenditori di un certo calibro vogliono parteciparvi per poter dire la propria su questioni strategiche per l’assetto produttivo e finanziario dell’economia nazionale.

Mediobanca non ha fatto eccezione, tanto da essere stata definita il «salotto buono» d’Italia.

Nel momento in cui scriviamo (agosto 2025), Mediobanca conta migliaia di azionisti per la maggior parte con quote al di sotto dell’1%, con l’eccezione di tre: Delfin (Del Vecchio) con il 19,8%, Caltagirone con il 10%, BlackRock con il 3,5%. In teoria, in Mediobanca dovrebbero comandare Del Vecchio e Caltagirone, ma la vecchia dirigenza continua a godere della fiducia del piccolo azionariato che riesce ad agire in maniera compatta. Il governo della banca, infatti, continua a essere nelle mani di Alberto Nagel, un banchiere che ricopre la carica di amministratore delegato da più di un quindicennio. Questo con profondo disappunto dei due azionisti di maggioranza, che – tra l’altro – sono azionisti importanti anche in un’altra società di cui Mediobanca è il maggiore azionista: Generali.

Banca Monte dei Paschi di Siena in Pisa – foto Petar Milosevic

La vittoria di Monte dei Paschi

Stiamo parlando della più grande società assicuratrice d’Italia, che ha come primo azionista Mediobanca (13,2%), seguita da Del Vecchio (10%) e da Caltagirone (7%). Inutile dire che, in Generali, comanda Mediobanca e che la «sfortunata» coppia Del Vecchio-Caltagirone non comanda né di qua né di là, pur avendo numeri consistenti. La frustrazione dei due soci deve essere grande e molti leggono l’intenzione del Monte dei Paschi di Siena di voler acquisire Mediobanca, come una mossa che permetterebbe alla coppia Del Vecchio-Caltagirone di conquistare, con un colpo solo, il governo di due banche e una società d’assicurazione. Prospettiva, questa, gradita anche al Governo italiano, perché si troverebbe anch’esso al comando di due banche e un’assicurazione, due realtà che possono giocare un ruolo importante nell’assorbimento dei titoli di debito pubblico, che rappresentano una fonte strategica di entrata governativa.

Con un comunicato dell’11 luglio 2025, il Consiglio di amministrazione di Mediobanca si è dichiarato contrario all’operazione annunciata da Mps nei suoi confronti. Invano.

Ricevute tutte le approvazioni da parte delle autorità competenti, il 14 luglio Mps ha diramato un avviso per informare tutti i possessori di azioni Mediobanca di essere disposta ad acquistarle tramite una modalità particolare, definita di scambio. In data 8 settembre, Monte dei Paschi ha raggiunto il 62,3 per cento del capitale, conquistando la maggioranza assoluta di Mediobanca e divenendo così il terzo colosso bancario italiano dopo Intesa San Paolo e Unicredit. Qualunque sarà il prosieguo della vicenda, non sarà comunque la fine del risiko bancario, bensì il suo inizio.

Francesco Gesualdi

foto Dmytro Demidko – Unsplash



Uno su cinque non ce la fa

Il numero degli occupati è aumentato, ma sono aumentati anche i lavoratori poveri, soprattutto in  Italia. Inflazione, contratti precari, mancanza di tutele legislative sono le cause principali della situazione.

Il 30 ottobre 2024, nella trasmissione «Porta a porta», la premier italiana Giorgia Meloni aveva affermato: «L’unico modo per combattere la povertà è creare lavoro». La stessa frase l’aveva pronunciata nel 2020 durante un festival curato dall’Ordine dei consulenti del lavoro. Ed è in ossequio a questo mantra che, a fine 2023, fra i primi atti del suo governo, c’è stata l’abolizione del così detto «reddito di cittadinanza», sostituito con altre forme di provvidenze per la formazione al lavoro. Tuttavia, secondo la Caritas (Rapporto su povertà ed esclusione sociale 2024), 331mila famiglie, per un totale di 665mila persone, non sono rientrate nella riforma e hanno perso qualsiasi tipo di sussidio. Nel 2024, la stessa Caritas ha assistito 277.775 persone (La povertà in Italia. Report 2025).

Un salario da poveri

La grande novità dei nostri tempi è che si può rimanere poveri pur lavorando. Lo certifica lo stesso istituto di statistica italiano: «Non sempre il reddito proveniente dall’attività lavorativa è sufficiente a eliminare il rischio di povertà per il lavoratore e la sua famiglia». E aggiunge: «Nel 2023, i lavoratori a basso reddito (che hanno lavorato almeno un mese nell’anno e hanno percepito un reddito netto da lavoro inferiore al 60% della mediana della distribuzione individuale) sono pari al 21% del totale».

Tradotto in termini concreti, l’Istat ci sta dicendo che si è lavoratori poveri quando si guadagna meno di 12.700 euro l’anno. Ci dice anche che, a trovarsi in questa condizione, sono 3,8 milioni di lavoratori, ossia uno su cinque. Una tendenza che è andata peggiorando nel tempo: «Nel 2023, la quota dei lavoratori a basso reddito risulta più alta di circa quattro punti rispetto a quella stimata nell’anno pre crisi 2007, quando era pari al 16,7%».

Di recente anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) si è soffermata sui salari pagati in Italia con uno studio uscito nell’aprile 2025. In maniera impietosa, lo studio rivela che – dal 2008 al 2024 – i salari italiani hanno perso l’8,7% in termini di potere d’acquisto. Questo significa che da un punto di vista monetario possono essere pure aumentati, ma la quantità di cose che riescono a comprare si è ridotta.

Fra i paesi del G20, i lavoratori italiani hanno conseguito il risultato peggiore, considerato che i salari giapponesi hanno perso il 6,3%, quelli spagnoli il 4,5% e quelli inglesi il 2,5%. Altre nazioni, invece, hanno registrato aumenti addirittura a due cifre, com’è successo in Corea del Sud (+20,2%), in Germania (+14,4%), negli Stati Uniti (+11,2%).

A corrodere i salari è stata ovunque l’inflazione, che ha raggiunto il suo apice nel 2022, quando i prezzi hanno registrato un aumento attorno al 9% nei Paesi a economia avanzata.

In Italia gli aumenti più consistenti si sono fatti sentire nel settore alimentare, negli affitti e nelle utenze domestiche. Come tutti hanno sperimentato, le bollette del gas e dell’energia elettrica, sono più che raddoppiate nel corso del 2022.

Nel grafico della Caritas (Report 2025) l’andamento delle retribuzioni reali lorde per dipendente tra il 2019 e il 2024 (2019=100): l’Italia occupa l’ultimo posto con distacco.

Ancora i polli di Trilussa

Un tempo in Italia avevamo la scala mobile, un meccanismo che faceva aumentare in automatico i salari all’aumentare dei prezzi. Il meccanismo non era perfetto, ma rappresentava una buona difesa contro l’inflazione. Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, il meccanismo venne duramente attaccato dai governi e dalle associazioni imprenditoriali, finché, nel 1992, il sindacato cedette e accettò di eliminarla. Da allora, le sole possibilità per i salari di aumentare sono legate agli aumenti contrattuali e alla decisione del potere politico di ridurre la pressione fiscale sui salari. Ossia, nel secondo caso, di accettare minori entrate pubbliche per fare crescere i soldi in tasca ai lavoratori. In questa direzione sono andati, ad esempio, il bonus introdotto da Renzi nel 2014 e la riduzione del così detto «cuneo fiscale» da parte del governo Draghi prima, e del governo Meloni dopo. Manovre che però non sono state sufficienti a compensare pienamente la corrosione dell’inflazione come documenta lo studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

Ovviamente i dati dell’Oil si riferiscono all’impatto che l’inflazione ha avuto sulla media dei salari e come – succede ogni volta che si procede per medie – la realtà ne può uscire distorta.

Trilussa lo spiegò in romanesco con l’esempio dei polli: «Da li conti che se fanno seconno le statistiche d’adesso risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra nelle spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perch’è c’è un antro che ne magna due».

Anche nel caso dell’inflazione, le conseguenze non sono equamente distribuite. Se già non arrivi alla fine del mese, un minimo aumento dei prezzi può gettarti nella disperazione, mentre non te ne accorgi neanche se tutti i mesi hai di che far crescere il tuo conto in banca. Dunque, per avere un’idea più precisa della sofferenza reale provocata dall’inflazione bisogna studiare meglio la distribuzione dei salari.

Salari giù, profitti su

Se puntiamo la lente sulle imprese private ed eliminiamo le poche decine di amministratori delegati con retribuzioni che vanno anche oltre i venti milioni di euro l’anno, rimangono 16 milioni di dipendenti che l’associazione «A buon diritto» ha studiato utilizzando la banca dati dell’Inps del 2022.

Dai calcoli effettuati dall’associazione e pubblicati sul sito rapportodiritti.it, risulta che il 52% dei dipendenti delle imprese private percepisce salari lordi inferiori ai 20mila euro, il 37% addirittura inferiori ai 15mila euro. Solo il 41% percepisce una retribuzione lorda da ceto medio, compresa fra i 20mila e i 40mila euro. Mentre i dirigenti con salari fino a 80mila euro sono appena il 7% del totale.

Per la verità i salari in Italia sono fermi dal 1991. Lo certifica l’Inapp, l’ente pubblico che effettua ricerche sulle politiche del lavoro. Nel suo rapporto 2023 precisa che fra il 1991 e il 2022 «in termini reali i livelli salariali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a differenza degli altri paesi Ocse (a economia avanzata) ove sono cresciuti in media del 32,5%».

Studiando le serie storiche, si scopre che la slavina dei salari è cominciata negli anni Sessanta del secolo scorso con vantaggio speculare per i profitti. Lo mostra chiaramente la composizione del prodotto interno lordo. Nel 1960 i salari rappresentavano il 77% della ricchezza prodotta in Italia, i profitti il 23%. A inizio millennio, la quota di prodotto nazionale formata dai salari era scesa attorno al 60%, quella formata dai profitti era salita al 40%. Una situazione rimasta invariata fino ai nostri giorni.

Lavoratori precari

Il livello dei salari dipende in parte dalla tecnologia (in gergo produttività), in parte dai rapporti di forza fra lavoratori e imprese, in parte dall’orientamento politico dei governi in carica. Negli anni successivi al secondo dopoguerra tutte queste dinamiche si muovevano in maniera favorevole ai lavoratori e i salari crebbero. Ma poi gli equilibri sono cambiati. La tecnologia ha continuato a progredire, ma dentro un progetto di profitto e di mercato sempre più selvaggio che – per giunta – si stava estendendo a livello globale.

Il lavoro è stato trattato sempre di più come un costo da comprimere affinché le imprese, in concorrenza perenne fra loro a livello nazionale e mondiale, potessero vincere la loro lotta per la sopraffazione reciproca. Le tutele conquistate hanno cominciato a sgretolarsi e accanto ai rapporti di lavoro stabili e tutelati si sono fatti strada contratti di assunzione precari pensati per soddisfare unicamente le esigenze delle imprese.

Contratti a tempo determinato, contratti a chiamata, contratti in affitto, contratti stagionali: la lista delle tipologie possibili è nota solo ai consulenti del lavoro, ma è chiaro a tutti che il numero dei precari è andato crescendo e, assieme a essi, la debolezza dei lavoratori con inevitabili ripercussioni sui livelli salariali.

Immigrati e donne

Il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia segnala che dal 2014 al 2024 il numero complessivo delle persone occupate è cresciuto di oltre un milione e settecentomila unità, ma i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono aumentati del 14,2%, quelli a termine del 40%. E se facciamo una fotografia con fermo immagine al 2022, troviamo che le persone che lavoravano con un contratto a termine da più di cinque anni, dunque in maniera continuativa, erano quasi 4 milioni, il 17% degli occupati. Tutte persone a bassa tutela lavorativa, soprattutto fra gli immigrati.

Basti dire che, fra i lavoratori immigrati, la quota di quelli con contratto a tempo determinato è del 19% contro il 12% fra i lavoratori italiani. Non a caso un elemento di disuguaglianza salariale è anche la nazionalità: «I lavoratori migranti in Italia percepiscono un salario orario inferiore del 26,3% rispetto a quello dei lavoratori nazionali». Lo sostiene lo studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

Un’altra categoria penalizzata sul piano salariale è quella delle donne. Secondo il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, «nel 2022 complessivamente la retribuzione media annua degli uomini è stata superiore del 43,3% rispetto a quella delle donne». E aggiunge: «Ciò non significa direttamente che vi sia una disparità di trattamento economico a parità di mansioni e lavoro tra uomini e donne, ma mette in evidenza come vi sia una forte disparità, dal punto di vista delle opportunità di lavoro, che di fatto discrimina le donne».

Un’ulteriore spiegazione fornita dall’Oil è «il maggiore ricorso al lavoro a tempo parziale da parte delle donne ed elementi retributivi che favoriscono i lavoratori rispetto alle lavoratrici, in particolare in tema di carichi familiari».

n Italia crescono i lavoratori poveri: da anni i salari reali diminuiscono. Foto Nikguy-Pixabay.

Come aumentare i salari

Il dibattito su come fare aumentare i salari è un tema aperto e, mentre c’è chi sostiene che l’importante è investire in tecnologia per consentire alle imprese di aumentare i salari senza subire contraccolpi, la storia ci dice che la tecnologia da sola non basta.

Le imprese non offrono aumenti salariali spontaneamente, ma solo sotto pressione dei lavoratori e della legge. Per questo servono misure legislative che potenzino la forza contrattuale dei lavoratori e protezione speciale per le categorie che non sono in grado di organizzarsi. Ecco due ambiti rispetto ai quali la legge può avere un ruolo determinante procedendo lungo quattro direttrici.

La prima è quella di regolamentare in maniera più rigida il ricorso al lavoro a tempo determinato o esternalizzato, perché la precarietà induce i lavoratori ad accettare qualsiasi sopruso per paura di non essere riassunti. Allo stesso tempo, vanno rafforzate le strutture di controllo che devono poter agire con ampio potere di intervento perché solo la paura della sorpresa conferisce ai controlli capacità di deterrenza verso chi è incline a violare la legge. Del resto, che oggi i controlli siano insufficienti e inefficaci lo dimostra anche l’alto numero di incidenti sul lavoro.

La terza linea di intervento riguarda la revisione della normativa sui licenziamenti per impedire che questi siano utilizzati come arma di ricatto verso chi si impegna in ambito sindacale.

Infine, bisogna fissare per legge il minimo salariale al di sotto del quale nessuno può scendere. Che non significa impedire ai sindacati di usare la propria forza per contrattare salari più alti, ma garantire a chi di forza non ne ha che l’articolo 36 della Costituzione vale anche per lui: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Formulazione chiara che deve solo essere applicata.

Francesco Gesualdi




Il futuro non sarà dell’auto

L’auto dà lavoro a milioni di persone, ma il suo è un settore maturo, oltre che inquinante. Si sostiene che la soluzione sia l’auto elettrica. La realtà è però diversa. Per un futuro giusto e sostenibile sono altre le strade.

Il 2025 si è aperto decisamente male per l’industria automobilistica. Almeno per quella europea. Non certo un fulmine a ciel sereno se si considera che, già nel 2018, si ebbe una prima riduzione di vendite a livello globale. Riduzione che è continuata anche negli anni successivi per raggiungere il suo punto più elevato nel 2020, in piena pandemia da Covid.

Successivamente, è iniziata la risalita per raggiungere i 74,6 milioni di vendite a livello mondiale nel 2024, ma ancora 5 milioni in meno rispetto al 2017 (dati Acea).

L’anno è stato altalenante: qualche mese di più, qualche mese di meno, per chiudersi complessivamente con un più 2,5% rispetto al 2023. La lieve crescita ha riguardato soprattutto Cina e Stati Uniti, mentre il mercato europeo non ha registrato variazioni di rilievo. Intanto, nel primo trimestre 2025, l’Europa ha registrato una riduzione di vendite dello 0,2% rispetto allo stesso periodo di un anno prima (meno 1,6 in Italia). Le industrie che ne hanno risentito di più sono state proprio i maggiori attori del mercato europeo: Volkswagen (che include Audi, Seat, Cupra, Škoda, Bentley, Lamborghini e Porsche) e Stellantis (con i marchi italiani: Fiat, Abarth, Alfa Romeo, Lancia, Maserati).

Gli analisti imputano lo scarso dinamismo del mercato dell’auto a guerre, economia rallentata, alti prezzi e alti tassi di interesse che scoraggiano gli acquisti a rate.

Un miliardo e mezzo di auto

In realtà, quello dell’auto è un settore ormai saturo in molte aree del mondo. A livello globale, i mezzi circolanti sono un miliardo e mezzo, con incidenze altissime in alcuni continenti: quasi un’auto a testa in Nord America e una ogni due persone in Europa. Oltre che saturo, il settore è anche inquinante dato che contribuisce a circa il 12% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.

Nell’Unione europea le auto contribuiscono addirittura al 16% del totale emesso entro i suoi confini. È proprio questa sua alta capacità inquinante che sta generando problemi economici alle case automobilistiche, soprattutto nell’Unione europea che è all’avanguardia nella lotta ai cambiamenti climatici.

Fra le misure adottate dalla Commissione europea c’è anche quella di imporre alle case automobilistiche la produzione di auto che – gradualmente – riducano le emissioni di anidride carbonica, fino ad arrivare allo zero nel 2035.

Più in specifico i limiti sono di 93,6 grammi a chilometro per il periodo 2025-2029 e di 49,5 grammi per gli anni 2030-2034. Subito si sono levate le grida di allarme dei produttori che, temendo di non riuscire a rispettare i nuovi standard, hanno paventato multe miliardarie. Una botta, a loro dire, che rischierebbe di metterli al tappeto in un momento in cui devono già investire un sacco di soldi nella trasformazione industriale che, in pochi anni, li possa portare a produrre solo auto elettriche. E, alla fine, il lavoro per indurre le autorità europee ad ammorbidire le regole sulle emissioni di CO2 sembrerebbe aver avuto i suoi frutti: nel marzo 2025, infatti, la Commissione europea ha annunciato l’intenzione di voler modificare il regolamento in questione in modo da dare più respiro alle case automobilistiche.

La transizione e l’auto elettrica

Su un punto sembrano essere tutti d’accordo: l’auto va prodotta, ma deve essere pulita, ossia elettrica. Un ulteriore caso di transizione ecologica in salsa capitalista che insegue il mito della crescita infinita, illudendosi che possa conciliarsi con la capacità di tenuta del pianeta attuando un semplice cambio di tecnologia. Ma di produzioni a impatto zero non ne esistono, considerato che perfino l’invio di un messaggio di posta elettronica richiede consumo di energia e, quindi, di materia.

Nel caso dell’auto elettrica l’uni-co obiettivo ambientale perseguito è la riduzione di anidride carbonica, ma se già esistono dubbi rispetto a questa finalità, ancora di più ne sorgono se allarghiamo la visuale ad altri aspetti. Per cominciare la vita di un’auto elettrica non comincia quando è su strada, ma quando i suoi materiali si trovano ancora nelle viscere della terra sotto forma di minerali grezzi.

Il passaggio dalle miniere ai saloni di vendita è un lungo processo di trasformazione che coinvolge decine di materiali, petrolio incluso, i quali, oltre a manomettere l’ambiente nei luoghi di estrazione e a richiedere il consumo di grandi quantità di acqua e di energia, comportano anche il rilascio di molti rifiuti, anidride carbonica compresa.

Secondo i calcoli della rivista on line earth.org, sono ben quattro le tonnellate di anidride carbonica emesse lungo il percorso produttivo di un auto elettrica. Ma queste quattro tonnellate sono che l’inizio. Il vero problema arriva quando si tratta di ricaricare le batterie. Se l’energia elettrica utilizzata proviene da centrali a combustibili fossili, non si fa altro che far rientrare dalla finestra la CO2 che si è espulsa dalla porta.

In termini di anidride carbonica, l’auto elettrica ha senso solo se il sistema energetico nazionale si regge sulle rinnovabili. Tuttavia, poiché è abbastanza difficile soddisfare la nostra voracità energetica solo con acqua, vento e sole, ormai tutti fanno un gran parlare di apertura al nucleare. Una tecnologia tutt’altro che priva di rischi.

Un’altra seria criticità dell’auto elettrica è la scarsità dei minerali necessari alla costruzione delle batterie: litio, cobalto, grafite e le terre rare. Probabilmente ce n’è abbastanza per garantire l’auto elettrica ai benestanti, ma non alla gente comune e, soprattutto, a quel miliardo di persone che non dispone ancora di energia elettrica.

Così il nostro superconsumo si trasforma in una dichiarazione di guerra contro i poveri.

La necessità di ridurre i consumi

In un documento intitolato «Sradicare la povertà oltre la crescita» (maggio 2024), Olivier De Schutter, relatore speciale alle Nazioni Unite per i diritti umani, mette in evidenza l’inconciliabilità fra il nostro consumismo e la dignità degli esseri umani a livello planetario. Il report Onu si conclude affermando che la lotta alla povertà esige, inevitabilmente, un ridimensionamento dei consumi da parte dei più ricchi. Che non significa ritorno alla candela, ma eliminazione del superfluo, e un altro modo di organizzare il soddisfacimento dei nostri bisogni.

Nell’ambito della mobilità, ad esempio, significa coprire a piedi i piccoli percorsi, usare la bici per i medi tragitti, utilizzare mezzi pubblici o condivisi sulle lunghe percorrenze, concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita.

Molti stanno cominciando a capire che, per coniugare sostenibilità con equità, dobbiamo ritrovare il senso del limite. Ma una paura ci impedisce di staccarci dal consumismo: si chiama posto di lavoro. Nel settore auto, ad esempio, gli addetti sono quasi 14 milioni a livello europeo, il 6% di tutti gli occupati. Che faranno tutte quelle famiglie se la gente smette di comprare auto?

Il problema è serio e va affrontato con spirito di solidarietà, ma non può essere utilizzato come giustificazione per continuare nel solco del consumismo. Al contrario, bisogna ammettere che siamo cresciuti in una logica di malsviluppo che ha espanso settori nocivi, utili solo al mercato. Fra essi l’auto, la moda, l’arredamento, l’elettronica, la pubblicità, ma anche le armi e molto altro. Quei settori vanno fortemente ridimensionati, sapendo che potremo farlo senza eccessivi scossoni se sapremo battere quattro strade.

Le strade per l’alternativa

La prima è il soccorso alle persone colpite dalla riduzione del lavoro affinché possano continuare a provvedere a se stesse nonostante la perdita dell’impiego.

La seconda è la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per garantire l’inclusione lavorativa di tutti. Concetto semplice che rappresenta l’aspirazione di molti, ma che trova la resistenza dei proprietari d’azienda timorosi per le ricadute sui loro profitti.

La terza strada, altrettanto semplice da intraprendere, ma più difficile da accettare perché si scontra con la nostra mentalità, riguarda la funzione del lavoro. Nella nostra società mercantile il lavoro serve solo a guadagnare un salario perché la nostra dipendenza dal denaro è diventata totale. Per qualsiasi bisogno ci venga in mente, la soluzione è sempre comprare. Ma per comprare ci vogliono i soldi e poiché non abbiamo altro modo di ottenerli se non vendendo il nostro tempo, siamo diventati tutti sostenitori del consumismo. Abbiamo ben chiaro, infatti, che le aziende assumono solo se vendono ciò che producono. Perciò, consideriamo il consumo una virtù che sostiene il lavoro. L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso è recuperare la concezione originaria del lavoro. Quella del tempo in cui il lavoro sfuggiva al circuito del denaro perché era messo al servizio diretto dei bisogni che ciascuno avvertiva. Una modalità che, se ha il limite di potersi attuare solo in ambiti semplici, ha il vantaggio di rompere la dipendenza dai consumi degli altri. Ogni bisogno che riusciamo a soddisfare da soli è non solo conquista di autonomia, ma anche contributo dato alla sostenibilità e all’equità. Per questo il fai da te va espanso in tutti gli ambiti possibili ricordandoci che già oggi è presente fra noi.

Il già citato rapporto Schutter sostiene che nel mondo «circa 16,4 miliardi di ore sono dedicate quotidianamente alla cura dei bambini e dei familiari più anziani oltre che alle attività domestiche come quella di cucinare, pulire, riparare, procurarsi acqua e legna da ardere. Una quantità di tempo che corrisponde a otto ore al giorno di due miliardi di persone che provvedono alle proprie famiglie senza corrispettivo in denaro. Se questo lavoro venisse conteggiato secondo i parametri di un salario minimo, rappresenterebbe il 9% del prodotto lordo mondiale».

La quarta strada che dobbiamo battere è il potenziamento (e la trasformazione) dell’economia pubblica. Lo spazio e il ruolo da assegnare all’economia pubblica è da sempre oggetto di dibattito fino a contraddistinguere gli schieramenti politici.

L’opinione di chi scrive è che l’economia pubblica deve essere lo spazio della solidarietà collettiva. Una solidarietà organizzata non solo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali riconosciuti come diritti, ma anche la tutela dei beni comuni e un livello minimo di occupazione per tutti. Con un’avvertenza.

Secondo la concezione dominante, l’economia pubblica è una sorta di vassallo, addirittura un parassita che vive di tasse, ossia di ricchezza generata nel mercato. Per cui se il mercato va bene, l’economia pubblica può fornire molti servizi, se invece va male, deve autolimitarsi. Una dipendenza che va spezzata perché impedisce all’economia pubblica di svolgere il ruolo di erogatore di servizi a tutela dei diritti e la funzione di datore di lavoro di ultima istanza, come invece dovrebbe essere.

Non soldi, ma tempo e competenze

La realtà lo dimostra: abbiamo un esercito di disoccupati e una quantità infinita di bisogni da soddisfare, ma non operiamo la connessione, semplicemente perché non ci sono i soldi per pagare gli stipendi. E se producessimo «un corto circuito»? Se invece di chiedere soldi ai cittadini, chiedessimo tempo e competenze, non risolveremmo il problema?

Tra comunità e cittadini, il patto potrebbe essere semplice. Ogni adulto mette a disposizione dieci giorni al mese, o quello che sia, e in cambio si aggiudica il diritto, dalla culla alla tomba, di accedere – gratis per sé e i propri familiari – a tutti i beni e i servizi che la comunità ha classificato come diritti: una quantità appropriata di acqua, cibo, vestiario, energia, oltre ad alloggio, sanità, istruzione, trasporti locali, comunicazioni. Un paracadute integrale che risolverebbe in forma ugualitaria qualsiasi altra esigenza di pensione e reddito di cittadinanza.

D’un colpo costruiremmo una grande casa capace di garantire a tutti una triplice area di sicurezza: la salvaguardia dei beni comuni, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali e un’occupazione minima.

Sogno impossibile? Forse. Ma perché non cominciamo con l’istituzione di un servizio civile obbligatorio per tutti?

Francesco Gesualdi




I dazi dell’impero

Un tempo dominava la globalizzazione. Oggi sono tornati di moda nazionalismo e protezionismo. Cerchiamo di comprendere come l’economia mondiale è arrivata a questo punto e cosa può riservarci il futuro.

Qualcuno ha spiegato le scelte protezionistiche di Donald Trump come una strategia finalizzata ad aumentare gli introiti governativi senza aumentare le tasse ai più ricchi. In effetti, i dazi sono forme mascherate di tasse indirette che gravano su tutti i consumatori alla stregua dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto.

Tasse trasversali che non distinguono fra chi ha e chi non ha e, proprio per questo, maggiormente pagate dai poveri, perché questi ultimi consumano tutto ciò che guadagnano, i ricchi solo una parte.

A convalidare la tesi dei dazi accresciuti per fare cassa alle spalle dei poveri c’è anche la scelta di spazzare via l’Usaid, l’Agenzia statunitense di cooperazione internazionale, e di ritirarsi dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di cui gli Stati Uniti erano il primo finanziatore. Tuttavia, per quanto il risultato fiscale a costo zero per i più ricchi sia uno dei piccioni che Trump intende prendere, esso non può essere considerato il motivo principale, anche perché la strategia non è priva di rischi. Molti analisti, infatti, hanno fatto notare che l’aumento di prezzo dei beni importati è destinato a provocare inevitabilmente inflazione, ossia aumento generalizzato dei prezzi, soprattutto se a essere colpiti sono beni di consumo di massa o semilavorati che entrano nella filiera produttiva di molti prodotti. Una prospettiva, quella dell’inflazione, che i governanti vivono con apprensione perché è motivo di malcontento per tutta la popolazione. Anche Trump teme l’inflazione ma, se ha deciso di correre il rischio, è per qualche ragione di ordine superiore.

Il disegno di Trump

Ritratto di Donald Trump, il presidente Usa, che ha scatenato la «guerra dei dazi». Foto Library of Congress – Unsplash.

Nel suo primo discorso da nuovo Presidente, tenuto il 4 marzo davanti al Congresso americano, Trump ha affermato: «Ci sono paesi che da decenni usano i dazi contro di noi. Ora tocca a noi usarli contro di loro. Mediamente, l’Unione europea, la Cina, il Brasile, l’India, il Messico, il Canada e innumerevoli altre nazioni applicano nei nostri confronti tariffe molto più alte di quelle che noi applichiamo a loro. I dazi cinesi sono il doppio dei nostri e quelli della Corea del Sud addirittura il quadruplo, nonostante l’aiuto militare che le abbiamo fornito».

È difficile dire se le affermazioni di Trump rispondano al vero, ma poco importa. Ciò che conta sono le conclusioni a cui giunge: «L’aumento dei dazi ci farà incassare migliaia di miliardi di dollari e creerà un gran numero di posti di lavoro».

Ecco svelato il vero obiettivo di Trump: creare così tanti ostacoli all’ingresso di merci negli Stati Uniti, da spingere chi vuole entrare nel loro mercato a trasferirvi la produzione.

In altre parole, il vero obiettivo è il richiamo delle attività produttive come strategia per rafforzare l’economia statunitense e ottenere, a cascata, altri risultati. Non solo cioè la crescita dell’occupazione, ma anche delle entrate fiscali per avere di che pagare l’enorme debito pubblico accumulato dal Paese. E già si vedono dei segnali di successo di questa strategia.

Valga, come esempio, l’annuncio della multinazionale taiwanese Tsmc di volere investire almeno cento miliardi di dollari negli Stati Uniti per produrre semiconduttori, o le intenzioni di investimento oltre oceano espresse da colossi europei come Stellantis, Bmw, Volkswagen, Pirelli.

Vincitori e perdenti della globalizzazione

Protezionismo e richiamo della produzione in patria sono tutto il contrario della globalizzazione, il progetto perseguito da alcuni decenni che ha per obiettivo la costruzione di un mercato mondiale con piena libertà di movimento per merci e produzioni. Un progetto sostenuto da tutti i centri di potere, ed è sbalorditivo che, a voltargli le spalle, sia proprio un uomo come Trump che appartiene al mondo degli affari. Ma Trump è anche un nazionalista e questo cambia tutto.

Il punto è che tutte le politiche creano vincitori e perdenti. I vincitori della globalizzazione sono sempre state le imprese più votate alle vendite che alla produzione. O meglio, imprese che trattano merci dalla produzione flessibile, spezzettabile, collocabile un pezzo qua, un pezzo là, dove conviene di più. Se commercializzi vestiario o computer, la globalizzazione è perfetta, perché puoi usare il mondo intero non solo come mercato, ma anche come villaggio produttivo: ogni fase viene svolta nel Paese dove produrre costa meno, spesso senza dover neanche possedere gli stabilimenti produttivi perché puoi sempre rivolgerti a dei terzisti. Tuttavia, se produci e vendi acciaio è tutta un’altra storia perché l’impiantistica costringe a produzioni centralizzate. Tant’è che l’industria pesante – sia quella europea, che statunitense – non ha mai salutato la globalizzazione con grande favore. Al contrario, l’ha vissuta come una minaccia per l’intensificarsi della concorrenza dovuta all’arrivo di prodotti provenienti da Paesi come la Cina o l’India che riescono a produrre acciaio e alluminio a prezzi molto più bassi.

Una sensazione di minaccia vissuta anche da altri settori, ad esempio dalle imprese agricole, le quali, essendo legate alla terra, sono per definizione stanziali e, quindi, esposte alla concorrenza dei prodotti provenienti da Paesi con costi più bassi e regole ambientali più blande.

Containers di merci. Foto Yoav Aziz – Unsplash.

Grandi e piccoli

In ogni caso, il fronte degli imprenditori pro o contro la globalizzazione non è determinato solo dall’attività economica, ma anche dalla dimensione d’impresa. In linea di massima, i grandi operatori sono a favore, i piccoli contro.

In Occidente, molte piccole imprese sono nate come terzisti al servizio dei grandi complessi industriali dell’automobile, dell’abbigliamento, della meccanica, della chimica, delle concerie, del mobile, e quando si sono accorti che i loro committenti preferivano passare le commesse a terzisti asiatici piuttosto che a loro, ci sono rimasti parecchio male.

Alla fine, dovevano scegliere se chiudere o trasferirsi loro stessi all’estero, dove produrre costa meno. Questa, ad esempio, è stata la scelta fatta da molti padroncini del Nordest italiano che hanno preferito spostarsi in Serbia, Albania o addirittura in India, piuttosto che chiudere. Altri, invece, sono rimasti a casa loro e, in nome del nazionalismo, hanno chiesto alle forze politiche di proteggerli dai processi di internazionalizzazione a partire da quello europeo. Istanza recepita soprattutto dalla Lega che, non a caso, è il partito più antieuropeista.

Fra grandi e piccoli, anche negli Stati Uniti gli scontenti della globalizzazione sono tanti e Trump li rappresenta tutti con politiche che puntano a proteggere la produzione interna anche a costo di contravvenire alle regole classiche del libero mercato. Del resto, da un po’ di anni, la destra si contraddistingue ovunque per la sua capacità di trasgredire l’ortodossia di mercato, mentre la sinistra si presenta come il suo più strenuo difensore, facendo rimanere in campo due sole parti politiche: quella dei reazionari e quella dei conservatori.

I Paesi verso i quali Trump ha annunciato punizioni doganali sono essenzialmente cinque: Messico, Canada, Unione europea, Vietnam e Cina. Collettivamente sono accusati di essere i principali «invasori» del mercato americano, ma singolarmente ognuno di loro è perseguito anche per colpe particolari. L’Unione europea, ad esempio, è accusata di accanimento verso le imprese americane che operano sul suo territorio. Come esempio sono citate le multe milionarie applicate nei loro confronti per avere violato le regole europee in ambito fiscale e commerciale. Già nell’agosto 2024, la US Chamber of commerce, la più grande organizzazione imprenditoriale del mondo, aveva inviato una lettera aperta alla Commissione europea per protestare contro le multe a dodici zeri inflitte a Apple, Amazon, Google, Meta, Microsoft e altre imprese americane. Così, per mostrare riconoscenza a Trump che aveva annunciato battaglia all’Ue, nel novembre 2024 sia Bezos che Zuckerberg – l’uno patron di Amazon, l’altro di Meta – si sono affrettati a versare un milione di dollari ciascuno per sostenere le spese di festeggiamento in occasione dell’insediamento del nuovo Presidente.

La questione cinese

Più complessa appare la partita con la Cina, contro la quale, già durante il precedente mandato, Trump aveva ingaggiato un duro braccio di ferro. Fra tutti, la Cina è l’avversario più temuto, non solo per la sua capacità di competere all’interno del mercato americano, ma anche per lo spazio commerciale che ha conquistato a livello mondiale. Spazio che, se è occupato da Pechino, non può essere utilizzato dalle imprese statunitensi.

Va ricordato che l’aspirazione di ogni impresa capitalista è di impedire ai prodotti altrui di entrare in casa propria, ma di poter collocare i propri nei mercati degli altri. Per le imprese capitaliste l’allargamento dei mercati è una questione strategica ed esse hanno due possibilità per vincere la partita.

La prima, quella politically correct, è data dalla concorrenza, giocata sul piano dell’innovazione tecnologica e dell’abbattimento dei costi: la prima serve per sedurre i consumatori con nuovi prodotti, il secondo per sedurli sul piano dei prezzi. Tuttavia, la via della concorrenza non sempre è di facile percorribilità. Allora il capitalismo è tentato di passare alle maniere forti, al tentativo cioè di sopraffare i concorrenti con sanzioni economiche, con sbarramento delle vie commerciali, con intimidazioni militari.

Per questo tutte le grandi potenze economiche hanno sempre cercato di assicurarsi una forza militare capace di mettere paura agli avversari. Anche perché lo sbocco di mercato non è la sola sfida posta alle imprese capitaliste.

La sfida per i minerali

Altrettanto importante, e forse ancora più determinante, è la possibilità di disporre delle materie prime utili a produrre ciò che si intende vendere. E se, ai fini della conquista dei mercati, la forza militare è sempre stata usata in maniera velata, al contrario per il controllo delle materie prime è sempre stata usata in maniera manifesta. L’avventura coloniale ne è una dimostrazione (e oggi c’è il timore che quest’era possa riaprirsi, ammesso che si sia mai conclusa). Per la conquista delle ricchezze del sottosuolo tutt’oggi si combatte in Rd Congo e, in una certa misura, anche a Gaza e in Ucraina.

Non è un caso che, come prezzo per la pace, gli Stati Uniti abbiano imposto a Kiev la cessione dei suoi siti minerari.

In futuro, la guerra per le materie prime potrebbe coinvolgere perfino il Circolo polare artico. Lo ha paventato Trump a più riprese, sostenendo di non escludere l’uso della forza militare per annettere la Groenlandia, la più grande isola non continentale che, nel proprio sottosuolo, custodisce grandi quantità di risorse naturali.

Non solo petrolio e gas, ma anche numerosi minerali di importanza strategica per l’era che si sta delineando, dominata dall’informatica, dalle telecomunicazioni, dall’aerospaziale, dalle energie rinnovabili, dalla mobilità elettrica. Il problema è che i minerali utili allo sviluppo delle tecnologie moderne sono scarsi. Così, come succede ogni volta che si sente ostacolato dalla scarsità, il capitalismo ripiega verso l’imperialismo, la conquista dell’egemonia economica manu militari.

Trasporto merci ad opera di una nota compagnia. Foto Galen Crout – Unsplash.

Dal welfare al warfare

Ai nostri giorni, la chiamata alle armi risuona ovunque. Perfino l’Unione europea sta virando dal «welfare» al «warfare», ossia dalla spesa sociale alle spese di guerra (si veda articolo a pagina 19).

Pur di permettere agli Stati membri di accrescere il proprio arsenale militare, nel marzo 2025 la Commissione europea ha accettato di contravvenire al principio di basso deficit, autorizzando nuovo debito per 800 miliardi di euro. Una scelta che i nostri figli pagheranno a caro prezzo in termini di riduzione di diritti sociali, di mancata tutela ambientale, di perdita di beni comuni.

Nel suo libro «Le monde confisqué», lo storico ed economista francese Arnaud Orain definisce il capitalismo nella morsa della scarsità con l’appellativo di «capitalismo della finitudine» (sostitutivo del «capitalismo concorrenziale»), riconoscibile per tre caratteristiche: controllo militare delle vie marittime; uso della forza in sostituzione di regole condivise; affermazione di monopoli in settori chiave dell’economia mondiale.

Tutti aspetti già ampiamente presenti, come testimonia la corsa al controllo del Mar Rosso, del canale di Panama, dell’Oceano Artico. O il crescere di colossi mondiali in settori chiave come quello dei trasporti, delle vie informatiche, delle attività satellitari, del commercio online. O l’uso dei dazi come strumento di guerra economica in aperta violazione delle regole scolpite nei trattati interni all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Un’organizzazione questa che, fin dalla sua nascita (era il 1995), ha imposto un’ordine economico e commerciale foriero di sconquassi sociali.

Guerre commerciali

Nel burrascoso incontro dello scorso 28 febbraio alla Casa Bianca, Trump ha accusato Zelensky di scherzare con la terza guerra mondiale, senza rendersi conto che il primo a scherzare con il fuoco è proprio lui comportandosi da prepotente. Perché le guerre commerciali si sa dove cominciano, mai dove finiscono. Tanto più che Trump è del tutto imprevedibile cambiando idea ogni minuto, non si sa se per calcolo strategico o per instabilità caratteriale.

Fatto sta che, dopo avere ordinato dazi a doppie cifre per decine di paesi, il 9 aprile si è velocemente corretto decretando la loro sospensione per 90 giorni. Formalmente, dice di averlo fatto per permettere l’avvio di trattative con ognuno di loro, nei fatti doveva calmare il nervosismo dei mercati che stava facendo crollare le borse di tutto il mondo. Il solo Paese escluso dal beneficio è stato la Cina, l’altro grande colosso mondiale, sui cui prodotti gli Stati Uniti applicano un dazio complessivo del 145%, nel momento in cui scriviamo. Una misura a cui la Cina ha risposto con controdazi del 125%, mettendo in apprensione il mondo intero, perché il passo dalla guerra commerciale a quella militare è breve.

A questo punto, la domanda da porci è: come possiamo uscire da questo gioco al massacro, sapendo che il capitalismo è intrinsecamente violento per la sua tendenza alla sopraffazione.

Progettare un altro sistema

La mia convinzione è che dovremmo agire in due direzioni. Da una parte, dovremmo cercare di abbassare il livello di aggressività sostituendo le politiche di riarmo con il multilate- ralismo. Ossia rafforzando le sedi internazionali deputate a dirimere i conflitti e a dare al mondo regole di convivenza economica basate sulla cooperazione, la solidarietà, il rispetto dei diritti umani, la salvaguardia del creato.

Dall’altra, dovremmo riconoscere che, vivendo su un pianeta dalle risorse finite, c’è l’obbligo di porre un limite alla nostra voracità. Un vecchio proverbio indiano dice che «quando il cavallo è morto, la cosa più intelligente da fare è scendere», per cui dovremmo metterci al lavoro per progettare un altro sistema economico, non più orientato alla crescita sotto il dominio del mercato, ma finalizzato al benvivere di tutti nel rispetto dell’equità e del creato. Progetto possibile purché si sappia ripensare il lavoro, ridimensionare il mercato e rafforzare l’economia della solidarietà collettiva.

Francesco Gesualdi




Rimettiamo i loro debiti


In apertura del 27° Giubileo indetto dalla Chiesa cattolica, papa Francesco è tornato su un tema già oggetto di una campagna internazionale in occasione del precedente Giubileo dell’anno 2000.

Il tema è quello del «debito del Sud del mondo» o – meglio – delle somme che le nazioni a reddito medio basso (Cina inclusa) devono ad altre nazioni.

In tutto, si tratta di 135 paesi, genericamente definiti «Sud globale». Nel 2023, questi paesi avevano un debito complessivo verso l’estero pari a 8.800 miliardi di dollari, per il 57% a carico dei governi e il 43% a carico di soggetti privati, principalmente imprese. Due entità giuridicamente ben distinte fra loro, ma economicamente connesse perché entrambe attingono alla stessa fonte per pagare i propri debiti esteri. Il bacino comune si chiama introiti da esportazione, il principale canale di ingresso di dollari, euro e altre valute forti che i creditori esteri pretendono come forma di pagamento. Se il sistema paese non dovesse avere abbastanza valuta estera per tutti i pagamenti, toccherebbe al governo trovarne aprendo nuovo debito.

I numeri del debito

Nel primo scorcio di questo secolo il debito estero del Sud ha conosciuto un andamento a singhiozzo. Mentre dal 2000 al 2007 è rimasto abbastanza stabile passando da 2.000 a 3.100 miliardi di dollari, nei 15 anni successivi è praticamente triplicato, sfiorando, nel 2023, i 9.000 miliardi di dollari.

Secondo i dati forniti dall’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite, se nel 2010 il debito este-ro rappresentava mediamente il 19% del prodotto lordo dei paesi del Sud, nel 2022 era salito al 28%. Debito che, messo a confronto con gli introiti da esportazioni, nel 2010 rappresentava il 71%, nel 2022 il 92% dell’importo incassato. Situazione ancora peggiore per il gruppo dei 45 paesi più poveri del mondo (per la maggior parte africani) il cui debito estero rappresenta il 54% del Pil e il 250% delle loro esportazioni.

Borse e speculatori

L’ultimo evento che ha fatto crescere il debito dei 45 paesi più poveri, quelli che l’Unctad definisce «paesi meno sviluppati», è stato l’aumento del prezzo dei cereali.

Spiegato ufficialmente come un effetto della guerra in Ucraina, in realtà la variazione è stata il prodotto della speculazione finanziaria sempre pronta a trasformare le sciagure in occasioni di arricchimento. In effetti non c’è stata proporzionalità fra la quantità di grano che la guerra aveva fatto mancare e l’aumento dei prezzi che, in poche settimane, erano cresciuti del 50%.

Il fatto è che il prezzo delle risorse commercializzate a livello mondiale si forma nelle borse merci, luoghi popolati più da soggetti che usano i prezzi come strumenti di scommessa che da imprese interessate a comprare realmente le materie prime trattate. Peccato, però, che le puntate degli scommettitori si ripercuotano sui prezzi reali produ-

cendo sconquassi a tutti i livelli, ivi compresa la fame, la recessione e l’indebitamento dei governi.

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, il mondo stava appena uscendo da un altro periodo difficile, questa volta prodotto da un virus, il Covid-19 che, oltre ad avere provocato ovunque una battuta d’arresto delle attività produttive, aveva costretto tutti i governi del mondo ad accrescere le proprie spese sanitarie. Le due emergenze messe assieme avevano fatto crescere il debito pubblico che, a livello mondiale, è passato da 75mila miliardi di dollari, nel 2019, a 97mila nel 2023. E benché più dell’80% del nuovo debito pubblico sia stato generato dai governi dei paesi ricchi, i problemi più seri li stanno incontrando quelli poveri.

Nel 2023 il debito pubblico complessivo del Sud del mondo ammontava a 29mila miliardi di dollari, con conseguenze poco gravi per paesi con economie in crescita come Cina, Indonesia o India, ma un vero flagello per quelli stagnanti come sono la maggior parte dei paesi collocati nell’Africa subsahariana.

Anche perché i paesi con minori capacità finanziarie finiscono per pagare di più.

La spesa per interessi

Debito estero e Giubileo 2025. Foto PublicDomainPictures – Pixabay.

È la legge del mercato. L’argomentazione è che il prestito comporta un rischio per il creditore. Questo rischio va compensato, e poiché il povero ha più probabilità del ricco di non riuscire a restituire le somme ricevute, deve accettare di pagare interessi più alti. Teoria confermata dai fatti.

Secondo i dati riferiti dall’Unctad, il tasso medio pagato sui titoli del debito pubblico fra il 2020 e il 2024, è stato dello 0,85% per la Germania, del 2,5%  per gli Stati Uniti, del 5,35% per i paesi asiatici e del 9,8% per quelli africani.

Il risultato è che nel 2023 la spesa per interessi dell’insieme dei paesi del Sud ha raggiunto gli 847 miliardi di dollari, il 26% in più rispetto al 2021. Con ricadute pesanti sulle popolazioni di molti paesi dove la spesa sanitaria o per istruzione è inferiore a quella per ripagare gli interessi del debito. Ad esempio, in Asia (Cina esclusa), nel periodo 2020-2022, la spesa per interessi è stata mediamente di 84 dollari pro capite, quella per la sanità di 62 dollari. Quanto all’Africa, è stata di 70 dollari la spesa per interessi, di 39 dollari quella per la sanità.

La conclusione è che 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per interessi sul debito che per sanità o istruzione, mentre nei paesi ricchi la situazione è all’inverso.

Valga, come confronto, l’Italia che, pur avendo un debito pubblico di 3mila miliardi di euro, nel 2023 ha registrato una spesa pubblica pro capite per la sanità pari a 3.400 euro contro 1.300 per interessi.

La raccolta fiscale

Il punto è che i paesi del Sud hanno una scarsa capacità di raccolta fiscale, per cui basta un minimo aumento di spesa imposta dall’esterno per peggiorare i già fragili bilanci. Basti dire che, mentre nell’Unione europea la raccolta fiscale rappresenta mediamente il 40% del Pil, nei paesi del Sud si attesta su una media del 29%. Percentuale che scende addirittura al 12% nei 45 paesi più poveri.

Un fenomeno dovuto a una varietà di fattori fra cui una pubblica amministrazione debole e male organizzata, un’alta percentuale di economia informale, una massiccia evasione fiscale (anche da parte di grandi complessi multinazionali).

Purtroppo, quella per interessi non è l’unica voce di spesa del debito. Agli interessi vanno aggiunte le quote di capitale da restituire annualmente. Queste ultime più gli interessi sono definite «servizio del debito». Nel caso del Sud del mondo una parte importante del servizio del debito è verso l’estero. Nel 2022 è stato di circa 1.400 miliardi di dollari, dei quali 406 per interessi.

Messo a confronto con le entrate governative, si scopre che nel 2023 il servizio del debito estero nel Sud del mondo ha assorbito mediamente il 17% delle entrate pubbliche con punte che hanno raggiunto il 65% in Angola, il 52% in Laos, il 43% in Pakistan ed Egitto.

Il tutto mentre povertà e cambiamenti climatici pongono sfide finanziarie enormi.

Rinunciare a 353 miliardi

Secondo lo studio condotto nel 2023 da un gruppo di esperti per conto del G20, da qui al 2030, al Sud del mondo (Cina esclusa) servirebbero ogni anno 5.400 miliardi di dollari, di cui 2.400 per affrontare la crisi climatica e 3.000 per combattere la miseria.  Ciò nonostante nel 2023 i governi del Sud hanno speso per il servizio del debito 12 volte e mezzo in più di quanto non abbiano speso per difendersi dai cambiamenti climatici.

Lo sostiene un rapporto della Misereor tedesca secondo il quale mediamente i governi del Sud destinano al totale del servizio del debito il 33% delle risorse pubbliche mentre ai cambiamenti climatici solo il 2,5%.

Considerato che una quota rilevante del servizio del debito del Sud è verso creditori esteri, la parte più sensibile della nostra società insiste affinché vengano annullati almeno i crediti vantati verso i paesi più poveri. In tutto 45 nazioni che ospitano il 13% della popolazione mondiale con un reddito pro capite inferiore ai mille dollari all’anno e bassissimi livelli di sviluppo umano.

Basti dire che, nell’insieme di questi paesi (33 dei quali africani), vive la metà dei poveri assoluti del mondo, persone che campando con meno di due dollari al giorno, non si nutrono abbastanza, non hanno una casa degna di questo nome, muoiono di malattie banali come una bronchite o una dissenteria. Il 22% dei bambini di questi paesi non va a scuola, mentre il 44% della popolazione non dispone di corrente elettrica e il 63% non ha l’acqua corrente né adeguati servizi igienici.

L’Unctad ci informa che, complessivamente, i governi di questi 45 paesi detengono un debito verso l’estero di 353 miliardi di dollari, una cifra irrisoria per i nostri livelli economici, ma una vera e propria condanna a morte per loro che, messi tutti assieme, hanno introiti governativi di appena 160 miliardi di dollari.

Nel 2023 ne hanno dovuti accantonare una trentina per ripagare il loro debito verso le ricche istituzioni estere. Ne sono rimasti all’incirca 130 per soddisfare i bisogni sociali e sanitari di oltre un miliardo di persone, sen-

za contare tutte le altre spese che ogni governo del mondo normalmente sostiene.

«Chi deve a chi?»

Come termine di paragone il governo italiano utilizza più di 800 miliardi di euro all’anno per una popolazione che non raggiunge i 60 milioni. Insomma, 353 miliardi di dollari per paesi così malandati sono un’enormità, ma non altrettanto per i loro creditori.

Certo, spacchettando la somma, si scopre che uno dei principali creditori è la Cina che vanta all’incirca 50 miliardi di crediti, il 14% del debito totale dei 45 paesi più poveri. Il resto, però, fa capo ad altri governi per lo più del Nord (21%), alla Banca mondiale e ad altre istituzioni finanziarie multilaterali (42%), a banche commerciali e ad altri soggetti privati (23%). Anche l’Italia compare fra i creditori con 1,2 miliardi di dollari. Paesi che non andrebbero falliti se depennassero i crediti vantati verso i «dannati della terra».

Invece, succede che sei dei 45 paesi più poveri hanno già conosciuto momenti di bancarotta, mentre altri quindici ne sono sull’orlo.

La richiesta di annullamento del debito è sostenuta anche dal fatto che, analizzando bene le cose, si scopre che non è il Sud  povero, bensì il Nord ricco, a essere in debito. Un debito formato nel corso dei secoli da politiche di oppressione e mal sviluppo che hanno provocato danni sociali e ambientali così alti al Sud del mondo, da gettarlo nello stato di fragilità economica che oggi lo costringe ad indebitarsi.

Un rapporto pubblicato recentemente da Action Aid, dal titolo emblematico Who owes who? (Chi deve a chi?), sostiene che fra danni ambientali, danni da colonialismo, danni da scambio ineguale e danni da esportazione illecita di capitali, il Sud dovrebbe ricevere un indennizzo pari a un milione di miliardi di dollari, cifra che corrisponde a dieci volte il prodotto lordo mondiale.

L’appello di Francesco

Un quadro ben chiaro a papa Francesco che, nel suo discorso tenuto il 1° gennaio 2025, in occasione della 58a giornata dedicata alla pace, ha dichiarato: «Debito estero e debito ecologico sono due facce della stessa medaglia, figli della stessa logica di sfruttamento che ha portato alla crisi del debito. Nello spirito di questo Anno giubilare, sollecito la comunità internazionale a lavorare per l’annullamento del debito estero come riconoscimento del debito ecologico esistente fra Nord e Sud del mondo. Un appello di solidarietà che è prima di tutto un’esigenza di giustizia».

Appello accolto dalla Caritas internazionale che, in apertura dell’Anno giubilare, ha lanciato la campagna «Trasformare il debito in speranza», ricordando che, negli ultimi dodici anni, le nazioni ricche hanno speso per sovvenzioni ai combustibili fossili sei volte di più di quanto non abbiano versato ai paesi vulnerabili per aiutarli ad arginare le conseguenze prodotte dai cambiamenti climatici.

Quei soldi avrebbero potuto fornire quasi metà del denaro di cui i paesi più vulnerabili hanno bisogno per iniziare a proteggersi.

La campagna è presente anche in Italia con cinque richieste fondamentali: ridimensionare o annullare la spesa per interessi dei paesi più poveri, convertire il loro debito in spese a favore delle popolazioni, aiutare i paesi del Sud a lottare contro l’evasione fiscale specie quella attuata da parte delle multinazio-

nali, portare la cooperazione dei paesi del Nord almeno allo 0,7% del Pil come richiedono le Nazioni Unite, riformare l’assetto finanziario internazionale in un’ottica non predatoria. Obiettivi raggiungibili che contribuirebbero a ottenere un mondo più giusto e quindi la pace.

Francesco Gesualdi




Sfida alla dittatura del dollaro


Da gennaio 2025, il gruppo dei Brics, nato nel 2009, si è allargato all’undicesimo paese. Il gruppo si pone come alternativa economica ai paesi occidentali riuniti nel G7. Uno degli obiettivi dichiarati è porre fine alla supremazia del dollaro Usa.

Un nuovo soggetto si aggira per il mondo e innervosisce i paesi occidentali. Si chiama Brics, una sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. L’acronimo venne usato la prima volta in una nota sullo stato dell’economia mondiale pubblicata nel 2001 da Jim O’Neill, responsabile dell’ufficio ricerche di Goldman Sachs, potente banca d’affari. La nota voleva avvertire i governi occidentali che altri paesi stavano emergendo sulla scena economica mondiale e che nessuna nuova decisione poteva essere presa senza di loro.

Sfida al forum dei «G7»

Consiglio pertinente, se si considera che, a partire dal 1976, i paesi occidentali più potenti – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – avevano preso a incontrarsi annualmente per concordare risposte comuni alle principali problematiche mondiali. Il forum era stato battezzato G7 – Gruppo dei sette – e si è consolidato come l’assise internazionale, esterna al sistema delle Nazioni Unite, nella quale i potenti decidono le politiche da imporre al mondo intero.

Nel 1997, il G7 divenne G8 per l’inclusione della Russia, che però ci sarebbe rimasta solo fino al 2014, anno in cui ne sarebbe stata esclusa per essersi impossessata della Crimea (Ucraina). Intanto, al G8 del 2003, presieduto dalla Francia, furono invitati come osservatori anche Brasile, India e Sudafrica. I tre ne uscirono contrariati rendendosi conto che erano lì per pura formalità.

Lula, presidente del Brasile, chiese: «A che serve essere invitati al banchetto dei potenti per mangiare solo il dessert?». E aggiunse: «Oltre al dessert vogliamo assaporare tutte le altre vivande».

foto Willfried Wende – Unsplash

Fatto sta che, solo tre giorni dopo, i ministri degli esteri dei tre paesi si ritrovarono a Brasilia e formalizzarono la nascita del «Forum di dialogo dell’Ibsa» con l’obiettivo principale di trovare una linea di condotta comune sui tanti temi che si stavano definendo all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, quello sui brevetti, tenuto conto che tutti e tre i paesi ospitavano industrie che producevano grandi quantità di farmaci generici al servizio di tutto il Sud del mondo.

Intanto, in Asia, andava prendendo forma l’Irc, un tavolo composto da India, Russia e Cina per confrontarsi con regolarità su temi di interesse comune, come sicurezza, migrazioni, terrorismo.

I due forum, l’Ibsa e l’Irc, si fusero nel settembre 2006, allorché Russia e Brasile, in occasione di una riunione all’Onu, promossero un incontro allargato a Cina e India, per discutere le problematiche connesse all’assetto finanziario internazionale. Tema più che mai azzeccato considerato che di lì a poco si sarebbe scatenata una delle peggiori crisi finanziarie a livello mondiale.

Fu proprio la crisi del 2008 a dare carattere di stabilità al gruppo dei Brics che formalizzò la propria alleanza durante un nuovo incontro organizzato nella cittadina russa di Yekaterinburg, il 16 giugno 2009, data del primo summit ufficiale.

Da allora i cinque paesi (il Sudafrica si unì nel 2011), s’incontrano ogni anno e progettano iniziative comuni. Una delle più importanti fu la creazione, nel 2015, di una banca internazionale denominata Nuova banca di sviluppo (Ndb, secondo l’acronimo inglese).

Il Pil dei Brics

Nel 2001, quando O’Neill alzò per la prima volta il sipario sui futuri Brics, il loro peso sulla scena mondiale corrispondeva all’8% del Pil e al 43% della popolazione. Nel tempo sono passati al 25% del Pil, mentre la popolazione si è ridotta al 41% del totale mondiale.

Dal gennaio 2024 sono però stati ammessi altri cinque membri (Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti). A gennaio 2025 è entrata l’Indonesia, mentre altre nazioni hanno mostrato interesse ad aderire. Fra esse Thailandia, Malaysia e la Turchia che pure fa parte della Nato.

In conclusione, ben presto il blocco dei Brics potrebbe rappresentare un terzo del Pil e dell’interscambio mondiale. Basti dire che all’ultimo vertice che si è tenuto in Russia, a Kazan, dal 22 al 24 ottobre 2024, erano presenti 37 paesi. Tutti molto diversi fra loro per collocazione geografica, regime politico, posizione economica, ma tutti interessati a rafforzare la propria economia senza subire condizionamenti da parte dei potentati economici, in particolare quello statunitense.

Non a caso il grande tema al vertice di Kazan è stato quello dei pagamenti internazionali.

Negli ultimi secoli, il commercio internazionale si è espanso a dismisura, ma la scelta della moneta con cui pagare è sempre stata un problema.

In maniera molto empirica, il vecchio Mao Zedong sosteneva che a deciderlo è la dimensione dei cannoni. Come dire che si è sempre imposta la moneta del paese più forte sia da un punto di vista economico che militare. La sterlina dominava quando gli inglesi possedevano un impero su cui non tramontava mai il sole, come il denarius aureus dominava quando a comandare era Roma.

L’egemonia del dollaro e la variabile Trump

Oggi, di paesi coloniali vecchia maniera non ce ne sono più. Ma il prodotto interno lordo e la spesa militare contano ancora. Tant’è che la moneta universalmente accettata è il dollaro, espressione degli Stati Uniti, che sono i primi sia per Pil (27mila miliardi di dollari), che per spesa militare (817 miliardi di dollari). Il risultato è che il dollaro è la moneta più richiesta al mondo ed è la più usata sia per gli scambi commerciali che per le operazioni finanziarie di livello internazionale.

I paesi Brics, e in particolare la Russia, stanno progettando di sfidare questa egemonia creando un sistema di pagamento alternativo, almeno nel loro circuito. Ma la battaglia si presenta ardua dal momento che Trump ha lanciato parole di fuoco quando ha saputo che qualcuno osava mettere in discussione la supremazia della moneta Usa.

Non ancora investito delle funzioni di presidente, il 1° dicembre 2024 ha rilasciato un comunicato stampa che suonava come una vera e propria dichiarazione di guerra: «Non credano i paesi Brics che noi ce ne staremo semplicemente a guardare se provano a sganciarsi dal dollaro». E proseguendo, ha aggiunto: «Noi li avvertiamo: se proveranno a creare un nuovo mezzo di scambio interno ai Brics o a sostenere la nascita di qualsiasi altro mezzo di pagamento che sfida la potenza del dollaro, saranno colpiti con dazi doganali fino al 100% affinché perdano ogni possibilità di vendere le loro merci nella meravigliosa economia americana».

Invettive confermate dopo l’insediamento (in un discorso del 22 febbraio 2025) e dettate non solo da spirito suprematista, ma anche dalla consapevolezza che essere titolari di una moneta a valenza internazionale offre vantaggi. Ad esempio, permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ossia di poter godere della ricchezza altrui, oltre che di quella prodotta internamente. Il caso americano né un classico esempio.

Il debito degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti vivono cronicamente in uno stato di debito commerciale, nel senso che importano più di quanto esportano. Nel 2023 la differenza in negativo è stata di 773 miliardi di dollari, ma nessuno ha protestato. Se qualsiasi altro paese avesse un deficit commerciale di questo livello verrebbe subito messo sotto sorveglianza del Fondo monetario internazionale e costretto a ogni forma di sacrificio finché non avesse portato la propria bilancia commerciale in pareggio.

Gli Stati Uniti, invece, continuano indisturbati nella loro navigazione in rosso, perché possono compensare il loro debito commerciale con le grandi masse di dollari che ricevono da tutto il mondo sotto forma di capitali. Tenendo a mente che, in caso di cattiva parata, i dollari possono essere ottenuti con la stampa di nuove banconote.

La rivoluzione di Nixon 

Per la verità fino al 1971 questa possibilità era limitata dal fatto che ogni aumento di denaro esigeva un aumento di riserve di oro perché c’era l’impegno, da parte della Banca centrale statunitense, di convertire i dollari in oro qualora le istituzioni estere ne avessero fatto richiesta (era il sistema aureo o Gold standard). In quel 1971, constatando che ormai di dollari in circolazione ce n’erano troppi, il presidente americano Richard Nixon decretò la fine della convertibilità in oro lasciando molta più libertà all’emissione di nuova moneta (cioè alla stampa di nuovi biglietti). Come dire che il dominio del dollaro, oggi più che mai dipende dalla forza economica e militare degli Stati Uniti.

Eppure, già nel 1944, quando a Bretton Woods (negli Usa) si discuteva quale assetto finanziario dare al mondo che usciva dalla seconda guerra mondiale, l’economista inglese John Maynard Keynes aveva proposto un sistema di pagamenti internazionali che escludesse l’uso diretto di qualsiasi moneta nazionale.

Due i capisaldi della sua proposta. La prima: la creazione di una moneta interbancaria, il bancor, che avrebbe avuto una parità fissa con ogni moneta, da utilizzare esclusivamente come unità di conto, ossia per permettere a ogni paese di registrare il valore delle proprie importazioni ed esportazioni. La seconda: la creazione di una camera di compensazione con il duplice compito di verificare i saldi periodici di ogni nazione e concordare volta per volta le misure da adottare per permettere a debitori e creditori di ritrovare una situazione di pareggio. Un sistema ben diverso da quello in vigore oggi che costringe tutti i paesi del mondo a dotarsi di riserve in valuta forte (prevalentemente dollari o addirittura oro), per saldare le eventuali posizioni debitorie che possono venire a crearsi.

«R5», la valuta dei Brics

foto Davie Bicker-Bluebudgie-Pixabay

L’alternativa attorno alla quale stanno lavorando i Brics, per le loro relazioni commerciali, è simile a quella prospettata da Keynes. La proposta prevede la creazione di un’unità di conto, denominata «R5», il cui valore è determinato per il 40% dal prezzo dell’oro e per il rimanente 60% da un paniere di valute nazionali utilizzate all’interno dei Brics, che – di qui il termine – cominciano tutte per «R»: reais, rublo, renmimbi, rupia e rand, rispettivamente valute ufficiali di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica.

La proposta è integrata dalla creazione di un circuito di comunicazione interbancario attraverso il quale le banche di tutti i paesi Brics possono comunicarsi in tempo reale i pagamenti che si fanno reciprocamente per le più svariate esigenze dei propri clienti.

Va detto che già oggi esistono vari circuiti di comunicazione fra banche a livello internazionale, ma quello predominante è lo Swift, con sede legale in Belgio e controllato dalle banche centrali di dieci paesi occidentali. Complessivamente, il circuito Swift comprende più di 11mila organizzazioni finanziarie e bancarie appartenenti a oltre 200 paesi e territori fra i quali fino al 2021 figurava anche la Russia, poi estromessa come ritorsione per avere aggredito l’Ucraina.

Considerata la sua posizione di paese sotto sanzioni, si capisce perché la Russia spinga più degli altri per la creazione di un sistema di pagamenti alternativo. Comunque la si metta, l’egemonia del dollaro rimane un problema perché getta sul mondo intero e, in particolare, sui paesi più deboli, le conseguenze di scelte operate per ragioni a esclusivo servizio degli Stati Uniti. Valga, come esempio, la decisione assunta negli ultimi anni dalla Banca centrale statunitense di aumentare il tasso di interesse per aggiustare la propria economia. L’effetto è stato la crescita del costo del debito a livello globale che ha obbligato molti governi del Sud a ridurre le spese sanitarie e sociali per pagare gli interessi più alti maturati sui prestiti esteri.

È troppo presto per dire se i Brics possono rappresentare una speranza di gestione alternativa dell’economia a livello mondiale, ma è salutare che qualcuno sfidi lo status quo.

Francesco Gesualdi

 




Il mondo secondo Trump


Dallo scorso 20 gennaio, Donald Trump siede di nuovo alla Casa Bianca. Prima del suo insediamento, il neo presidente statunitense ha tenuto una conferenza stampa dalla quale non sono arrivati segnali confortanti per il mondo e per l’economia.

Il 7 gennaio 2025, tredici giorni prima del suo insediamento ufficiale come 47° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha tenuto una lunga conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Trump ha illustrato gli aspetti strategici del programma che intende realizzare nei prossimi quattro anni. Ebbene, in vari passaggi del suo discorso, i giornalisti presenti hanno stentato a credere alle proprie orecchie. Ad esempio, quando Trump ha dichiarato di volersi riprendere il canale di Panama e impadronirsi della Groenlandia.

Un mondo di nazioni in lotta

L’essenza della politica di Trump era già stata anticipata in campagna elettorale sotto l’acronimo «Maga», ovvero Make America great again, che tradotto significa «Facciamo di nuovo grande l’America».

Un credo politico che si iscrive fra le dottrine cosiddette «nazionaliste». Concependo il mondo come nazioni in lotta fra loro per l’egemonia, queste si pongono come obiettivo primario quello di garantire forza, prestigio e ricchezza al proprio paese contro tutti gli altri. Quanto alle divisioni sociali interne a ogni nazione, i nazionalisti fingono che non esistano e, giurando fedeltà al modello capitalista, pretendono che ricchi e poveri, lavoratori e imprenditori formino un corpo unico accomunato dal fatto di appartenere alla stessa nazione.

Al contrario, gli stranieri sono guardati tutti con sospetto, anche se, alla fine, sono divisi in due categorie: quella dei nemici, con politiche contrarie ai propri interessi, e quella degli amici, con comportamenti favorevoli al proprio arricchimento.

Non a caso la succitata conferenza stampa di Donald Trump si è aperta cantando le lodi di tale Hussain Sajwani, imprenditore miliardario degli Emirati arabi uniti che ha promesso di investire negli Stati Uniti 20 miliardi di dollari per l’apertura di centri informatici dedicati alla gestione dati.

In cima alla lista dei paesi nemici compilata da Trump, compare senz’altro la Cina, alla quale già nel precedente periodo di presidenza (dal 2016 al 2020), erano stati applicati numerosi dazi doganali come tentativo di limitare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e, quindi, la sua espansione economica.

Un agricoltore Usa con la bandiera trumpiana. Foto Laura Seaman – Unsplash.

Panama e il canale

Durante la conferenza stampa di Mar-a-Lago, il primo paese verso il quale Trump si è scagliato è stato Panama, accusato di danneggiare gli Stati Uniti in combutta con la Cina.

Oggetto del contendere è il canale che collega l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Un canale da sempre di importanza strategica per gli Stati Uniti, tant’è che nel 1902, prima ancora che esso venisse costruito, l’esercito Usa occupò militarmente l’area da scavare per assicurarsi la possibilità di controllare l’opera. Il canale entrò in funzione nel 1914 e rimase sotto gestione statunitense fino al 1999, allorché diventò di proprietà del governo panamense in virtù di accordi di cessione firmati nel 1977 dall’allora presidente Jimmy Carter (recentemente scomparso).

Per una ventina di anni l’amministrazione del canale da parte del governo panamense è proceduta senza particolari attriti con gli Stati Uniti, con grande vantaggio per Panama sia in termini economici che occupazionali. In effetti le attività del canale contribuiscono al 7% del Pil e al 23% delle entrate governative del paese centroamericano. Da un paio di anni, però, un problema di carattere ambientale sta mettendo in crisi la via di comunicazione.

Il problema si chiama siccità da cambiamenti climatici che riduce l’apporto di acqua al canale fino a imporre la limitazione del traffico di navi che possono attraversarlo. Tant’è che oggi, ai due imbocchi del canale, ci sono lunghe file di portacontainer in attesa di poterlo attraversare.

Le conseguenze sono negative soprattutto per gli Stati Uniti, che sono i principali destinatari delle merci che attraversano il canale. Le imprese statunitensi lamentano che i ritardi nelle consegne stanno facendo aumentare i prezzi e rallentano i loro processi produttivi. E, quasi fosse una congiura internazionale, Trump se la prende con la Cina: «Il canale di Panama è gestito dai cinesi, ma noi abbiamo regalato il canale a Panama e non alla Cina che ne sta abusando: quel regalo non si sarebbe mai dovuto fare».

Incalzato dai giornalisti che chiedevano cosa pensasse di fare, Trump non ha escluso l’uso della forza militare per fare tornare il canale di Panama sotto il controllo degli Stati Uniti affinché possa essere gestito a loro uso e consumo.

Una loro presenza militare nel mezzo dell’America Centrale permetterebbe agli Usa di combattere anche un altro fenomeno, quello delle migrazioni, tema posto anch’esso ai primi posti dell’agenda di Trump. Considerato che Panama è un passaggio obbligato per tutte le rotte migratorie provenienti dall’America Meridionale, uno sbarramento militare in quel territorio ridurrebbe di molto gli arrivi al confine tra Stati Uniti e Messico.

La Groenlandia

L’aspetto sorprendente è che Trump ha ipotizzato l’uso della forza militare per annettere anche la Groenlandia. Giuridicamente una regione autonoma facente parte del Regno di Danimarca, la Groenlandia è un’immensa isola, la più grande non continente, situata in zona artica. Vi abitano soltanto 56mila persone concentrate soprattutto nella parte sud, essendo la restante parte del paese coperta da una calotta glaciale che si estende sull’80% della superficie.

Gli Stati Uniti sono già presenti in Groenlandia fin dalla seconda guerra mondiale con una base aeronautica, la Pituffik Space Base, che si trova a 1.500 chilometri dal Polo Nord. Ma oltre che per motivi militari, la Groenlandia sta diventando appetibile anche per ragioni economiche da quando la tempera-

tura terrestre ha cominciato a salire.

Nel suo sottosuolo, infatti, si trovano non solo gas e petrolio, ma anche numerosi minerali molto ricercati dalle moderne tecnologie come litio, grafite e anche uranio. Fino a ora era impensabile cercare di estrarli a causa dell’enorme strato di ghiaccio che ricopre i giacimenti, ma con l’innalzamento delle temperature questo scoglio si va riducendo.

Per la stessa ragione sta assumendo importanza strategica anche il Mar Artico, il mare del Polo Nord, su cui la Groenlandia si affaccia assieme alla Russia, al Canada e all’Alaska. Se il mare si libera dal ghiaccio, può diventare navigabile per gran parte dell’anno, accorciando le distanze fra America del Nord, Asia ed Europa.

Per la verità già durante il precedente mandato presidenziale Trump aveva avanzato l’offerta di comprare la Groenlandia in linea con quanto aveva già tentato di fare Truman nel 1946.

La Danimarca, però, ha sempre opposto un fermo rifiuto e ora Trump minaccia non solo l’occupazione militare, ma anche potenti ritorsioni doganali pur di piegare la volontà del piccolo stato europeo.

Donald Trump. Foto TheDigitalArtist – Pixabay.

Il Canada

Nel suo discorso di Mar-a-Lago Trump ha scagliato la propria ira nazionalcapitalista anche contro Canada e Messico, paesi con i quali fino al 2020 aveva un accordo di libero scambio (il Nafta), poi trasformato, proprio durante la sua prima presidenza, in accordo di collaborazione (noto come Usmca) su punti specifici come agricoltura, flusso di lavoratori e brevetti. Temi tutti rigorosamente normati a principale vantaggio degli Stati Uniti.

Ciò non di meno, Trump rimprovera al Canada di continuare a vendere troppi prodotti agli Stati Uniti, contribuendo a rafforzare il debito commerciale che il paese a stelle e strisce ha verso il resto del mondo. Nel 2023, le merci canadesi hanno rappresentato circa un settimo del disavanzo commerciale statunitense, che complessivamente ammonta a 773 miliardi di dollari (dati Bea-U.S.Department of commerce).

«Ci mandano centinaia di migliaia di auto facendo un sacco di soldi. Ci mandano un sacco di altre cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno delle loro auto, né di altri prodotti. Non abbiamo bisogno del loro latte», ha detto Trump ai giornalisti riferendosi al vicino nordamericano.

Quindi, invece di chiedersi perché gli statunitensi comprano le merci canadesi, Trump ha partorito l’idea di risolvere il problema contabile facendo diventare il Canada un territorio statunitense.

Non a caso il giorno dopo la conferenza stampa di Mar-a-Lago, Trump ha pubblicato su una sua pagina social la cartina degli Usa comprendente anche il Canada ormai definito come 51° stato degli Stati Uniti d’America. Bontà sua, Trump ha escluso di voler piegare il Canada con l’esercito, dichiarando di volersi limitare all’impiego delle armi economiche.

Il Messico

Passando al Messico, Trump ha detto: «Abbiamo un grande deficit commerciale con il Messico, motivo per cui lo aiutiamo tantissimo».

«Il paese – ha spiegato il neo presidente – è gestito essenzialmente da cartelli criminali e noi non possiamo permetterlo. Il Messico è davvero nei guai, un sacco di guai». Poi si è buttato su una rivincita di tipo lessicale: «Cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America».

Lanciando – infine – la stoccata finale: «Il Messico deve smetterla di permettere a milioni di migranti di penetrare nel nostro paese».

La Nato e le spese militari

Durante la conferenza stampa Trump ne ha avuto anche per gli alleati Nato, essenzialmente i paesi europei. Dichiarandosi di nuovo stufo di farsi carico della loro difesa, Trump è tornato a dire che gli alleati devono innalzare le loro spese militari. E se durante il suo primo mandato aveva chiesto che fossero portate al 2% del Pil, nel discorso di Mar-a-Lago ha spostato l’asticella ancora più in alto: «Io penso che la Nato si meriti il 5%. Non ce la può fare se rimane al 2%. […] Tutti i paesi Nato […] devono attestarsi al 5%».

Al momento, tuttavia, neppure gli Stati Uniti dedicano agli armamenti una quota di Pil tanto alta, arrivando al 3,4%. Fra i paesi Nato, solo la Polonia va più su con il 4,1%, seguita dall’Estonia con il 3,43%. Allora sorge il dubbio che la vera intenzione di Trump sia quella di annunciare al mondo l’intendimento di voler alzare ulteriormente la spesa militare degli Stati Uniti incurante del fatto che già oggi rappresenta il 38% dell’intera spesa mondiale (dati Sipri).

Dove sta andando

la democrazia? Nel complesso a Mar-a-Lago molti hanno visto un Trump ancora nelle vesti del candidato sguaiato che voleva aumentare il proprio consenso tra un popolo becero, piuttosto che un uomo di Stato che dal 20 gennaio governa il Paese più potente del mondo. Certi discorsi, tuttavia, non andrebbero fatti sotto nessun tipo di veste e il fatto che tanta gente vada dietro a chi le spara più grosse lascia molti dubbi su cosa, al giorno d’oggi, sia diventata la democrazia.

Francesco Gesualdi

 




Dalla globalizzazione al protezionismo


Il sistema economico è cambiato. Lo sanno bene Stati Uniti e Cina, le due prime potenze mondiali. L’Unione europea è impreparata e rischia l’irrilevanza. Per questo ha chiesto aiuto a Mario Draghi. Tuttavia, le proposte da lui formulate sono deludenti e vecchie.

Il capitalismo è uno solo per i fini perseguiti, ma è plurimo per le modalità di attuazione. A determinarne la forma sono le circostanze rappresentate dalla dimensione delle imprese, i valori dominanti all’interno della società, la volontà e la capacità di pressione popolare, la situazione ambientale, i rapporti internazionali. Agli albori del capitalismo, quando la rivoluzione industriale muoveva i primi passi, la filosofia capitalista non incontrò ostacoli: si affermò il capitalismo selvaggio del lavoro minorile, del colonialismo, delle guerre di sopraffazione. Dopo la grande crisi del 1929 ci fu un sussulto di valori sociali e, grazie a economisti come John Maynard Keynes (1883-1946), si affermò la convinzione di dover conciliare il profitto con obiettivi come la piena occupazione, la garanzia di una certa sicurezza per tutti, l’indipendenza politica di ogni popolo. Un periodo di grazia che durò fino agli anni Ottanta del secolo scorso, allorché lo spirito mercantilista più radicale ebbe di nuovo il sopravvento e iniziò l’epoca neoliberista.

Intanto in tutti i paesi industrializzati si erano affermate imprese di dimensione globale che, a fine secolo, pretesero la riscrittura delle regole mondiali per trasformare il mondo intero in un unico grande mercato, un unico spazio produttivo, un’unica piazza finanziaria.

Cominciò l’era della globalizzazione che, fra i suoi effetti, ebbe anche l’emergere di nuove potenze mondiali come Cina, India, Russia, Brasile, Sudafrica, riunite nei Brics. Potenze prima avvertite come necessarie, poi come minacce.

Nello stesso periodo si affermò una nuova rivoluzione tecnologica, quella informatica, mentre vennero al pettine tutti i guasti ambientali provocati da un sistema economico che, in nome della crescita, non si è mai preoccupata dei limiti del pianeta.

Arriviamo così ai giorni nostri caratterizzati da un ripensamento della globalizzazione, da un ritrovato desiderio di protezionismo per difendersi dall’espansione altrui, da un rigurgito di nazionalismi e di guerre di sopraffazione, dalla necessità di riorganizzare gli assetti produttivi nell’illusione di poter continuare a espandere produzione e consumi senza provocare ulteriore degrado ambientale.
In termini di potenze economiche, i paesi che hanno dominato la scena nel primo scorcio del 21° secolo sono stati Cina e Stati Uniti che si contendono la supremazia tecnologica a suon di brevetti, mentre usano l’arma doganale per ostacolare l’ingresso delle reciproche mercanzie. Recentemente sia l’una che gli altri hanno aggiunto sovvenzioni governative alle imprese per promuovere l’espansione produttiva in settori strategici come i semiconduttori e le energie alternative. Politiche andate a segno dal momento che entrambi hanno registrato crescite significative in termini di prodotto interno lordo e di investimenti.

Il declino dell’Europa

Chi invece è rimasta al palo è stata l’Unione europea che ora – ancora di più dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump – è terrorizzata non solo di perdere terreno nell’arena internazionale, ma addirittura di andare verso il declino.

Grida di allarme lanciate da tutte le più grandi rappresentanze industriali. Tra esse, la European round table, il forum in cui siedono gli amministratori delegati delle prime sessanta imprese operanti in Europa, che – a dimostrare quanto la situazione sia grave – riporta i dati relativi alla produzione industriale mondiale: se nel 2000 il contributo dell’Europa ammontava al 25 per cento, nel 2020 era sceso al 16,3 per cento.

Lamenti ascoltati dalla Commissione europa che, nel settembre 2023, ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sullo stato della concorrenza dell’industria europea. Che tradotto significa capire i motivi per cui l’industria della Ue sta perdendo terreno e individuare i passi per farle riprendere quota.

Draghi è stato veloce: sei mesi dopo aveva il rapporto già pronto ma, non volendo interferire con le elezioni, ha atteso settembre per annunciare i propri risultati.

Del resto sul tema molto era stato già scritto, in particolare da parte del mondo imprenditoriale che, a detta di una trentina di Organizzazioni non governative, ha lavorato a stretto contatto con Draghi per la stesura del rapporto. Protesta, quella delle Ong, contenuta in una lettera aperta in cui si lamenta scarsa trasparenza e rapporti di collaborazione quasi esclusivi con le rappresentanze imprenditoriali. Se ci fosse stato il coinvolgimento delle organizzazioni sociali e ambientali, forse certe proposte non avrebbero trovato accoglienza.

Certo, tutti sanno che le strategie per sopravvivere e anzi farsi spazio nel mercato globale sono tematiche tutte interne alla logica capitalista, per cui sarebbe stato da ingenui aspettarsi un rapporto dai contenuti rivoluzionari. Specie quando a scriverlo è un personaggio come Draghi da sempre custode del sistema. Ma certe proposte hanno fatto sobbalzare anche i più ortodossi.

Mario Draghi (alla destra) con il presidente francese Macron. Foto European Central Bank.

Lo Stato no, i privati sì?

Complessivamente il rapporto Draghi, titolato «Il futuro della competitività europea», è composto da 400 pagine distribuite in due volumi: la parte A che offre una sintesi delle conclusioni raggiunte e la parte B che entra nei dettagli dei singoli temi e settori.

Fra i settori analizzati e fatti oggetto di proposte c’è anche quello dei minerali rari, delle industrie ad alte emissioni di anidride carbonica, del riciclo, delle energie pulite, dell’intelligenza artificiale, della farmaceutica, perfino dell’industria bellica e aerospaziale.

Benché il rapporto Draghi avanzi 170 proposte, la filosofia da cui queste derivano è un condensato di pochi elementi: crescita, innovazione, dinamismo, riduzione e ottimizzazione dei costi di produzione, approvvigionamento di materie prime in maniera sicura e a buon mercato, alta disponibilità finanziaria, sicurezza militare.

A partire da questi principi il rapporto formula proposte per ogni ambito e settore. Nel caso delle telecomunicazioni, ad esempio, indica la necessità di innovare investendo nella fibra ottica e nel 5G.

Ma il problema, secondo il rapporto, è che il settore è affollato da troppe imprese di piccole dimensioni.

In Europa i gruppi dediti alla telefonia mobile sono 34 contro tre degli Stati Uniti e quattro della Cina. Una frammentazione che dà come risultato un ammontare di investimenti di gran lunga inferiore rispetto agli altri due paesi. La conclusione di Draghi è che anche in Europa bisogna favorire la nascita di mega colossi tramite fusioni e acquisizioni. Il tutto in barba all’idea fin qui inseguita che i monopoli sono pericolosi, motivo per cui negli anni Novanta venne imposta in tutta Europa la privatizzazione di quelli di Stato dediti alla telefonia e all’energia. Avallare oggi i monopoli privati sarebbe una beffa e la dimostrazione che il vero obiettivo delle privatizzazioni non era la concorrenza, ma espropriare lo Stato della sua funzione sociale.

Il rapporto raccomanda un processo di concentrazione anche nel settore della produzione bellica, che in Europa ha un giro d’affari di 135 miliardi di euro. A tale scopo porta come esempio gli Stati Uniti che, dal 1990 a oggi, hanno ridotto il numero di imprese belliche di carattere strategico da 51 a 5. E, per non dare spazio ai concorrenti esteri, Draghi chiede ai paesi dell’Unione europea di programmare insieme gli acquisti di materiale bellico privilegiando le forniture dalle imprese europee. Ma al di là delle proposte specifiche, sorprende che un rapporto sulla concorrenza si occupi anche di produzione di armi dal momento che, in termini di valore economico, rappresenta appena il 2,5% del totale della produzione industriale europea. La risposta di Draghi è militare più che economica: «L’Unione europea proviene da decenni di bassa spesa militare, bassi investimenti nell’industria bellica e basse riserve di magazzino. Ma oggi la sicurezza alle sue frontiere è radicalmente cambiata per cui deve dotarsi di un piano per rafforzare gli investimenti nella difesa in modo da raggiungere una vera indipendenza strategica e aumentare la sua influenza geopolitica a livello globale».

Un’ulteriore conferma di come economico e militare siano profondamente intrecciati fra loro.

Fra i motivi per cui l’industria europea sta perdendo terreno, il rapporto Draghi ne sottolinea un paio: costi energetici elevati (come conseguenza della riduzione di gas proveniente dalla Russia) e incapacità di produrre internamente semiconduttori, batterie al litio e altri prodotti strategici per l’innovazione tecnologica. Due strozzature che l’Europa deve risolvere insieme a un terzo elemento di crisi che non è solo suo, ma dell’intera umanità: i cambiamenti climatici che impongono l’abbattimento dell’anidride carbonica.

Chi paga?

Un insieme di problematiche che, secondo Draghi, richiedono investimenti massicci, addirittura dell’ordine di 800 miliardi di dollari, per un numero indefinito di anni.

Ma chi paga? Il rapporto Draghi non lo precisa, ma fa capire che il peso deve essere ripartito fra sfera pubblica e sfera privata. Tant’è che formula proposte per permettere a entrambe di reperire i fondi necessari.

Per quanto riguarda i governi, Draghi avrebbe potuto proporre una tassa straordinaria sui più ricchi. Invece ha ripiegato sulla formula classica del debito con l’unica novità di farlo non individualmente, ma collettivamente, in quanto Unione europea, come già successo per il finanziamento del Next generation Eu attualizzato in Italia sotto la sigla Pnrr.

Il debito contratto dall’intera Unione europea ha il vantaggio di costare meno perché quando il prestito è chiesto da un’entità ritenuta solida, questa riesce a spuntare interessi più bassi. Ma quando arriverà il momento di restituirlo, tutti i paesi membri dovranno frugarsi in tasca, e quelli più deboli si comporteranno come sempre, ossia faranno cassa tagliando le spese, in particolare quelle a beneficio dei più poveri.

I fondi pensione

Venendo alle imprese, Draghi segnala che una difficoltà incontrata in Europa è la scarsità di capitali fuori dal circuito bancario. Fa anche notare che una delle realtà non bancarie che più investe nelle imprese è rappresentata dai fondi pensione, per cui sollecita il loro potenziamento.

Il che apre degli interrogativi sul perché si insiste tanto per demolire la previdenza pubblica. Ci è stato detto che la ragione è l’inefficienza della macchina pubblica e il peso eccessivo delle pensioni che fa indebitare lo Stato. Ma, alla luce delle parole di Draghi, viene il sospetto che la verità sia un’altra: ossia che si voglia spostare le pensioni dal pubblico al privato per fare un regalo di peso alle imprese private.

La dominanza del «meno»

Per favorire la competitività delle imprese, Draghi insiste molto anche sulle regole. Oltre a raccomandare di alleggerire il carico fiscale sulle imprese e di snellire le procedure di accesso a benefici e permessi, il rapporto raccomanda anche di ridurre gli obblighi a loro carico.

Fra questi cita espressamente una disposizione appena introdotta dal Parlamento europeo. Si tratta dell’obbligo di sorveglianza del rispetto dei diritti umani, tecnicamente definita due diligence, imposto alle multinazionali con fatturato annuo superiore ai 450 milioni di euro. Draghi cita quest’obbligo, assieme ad altri di natura ambientale e sociale, come esempi concreti di costi che sovraccaricano le imprese.

A questo punto, la domanda che occorre farsi è: dove finisce l’Europa attenta ai diritti, che abbiamo sempre detto di voler costruire, se anteponiamo la concorrenza ai diritti umani e all’ambiente?

Francesco Gesualdi

 

 




Riparare alla barbarie


Con la globalizzazione e la liberalizzazione le imprese hanno avuto l’opportunità di produrre a costi inferiori. A pagare sono stati i lavoratori e l’ambiente. Oggi, finalmente, nuove leggi sulla «due diligence» cercano di porre rimedio a questa barbarie.

Prima che la globalizzazione partisse in grande stile, diciamo una trentina di anni fa, le imprese che si presentavano ai consumatori con i loro marchi avevano l’abitudine di curare l’intero ciclo produttivo di ciò che vendevano. Parlando di vestiario, ad esempio, le imprese compravano le stoffe e le immettevano nei propri stabilimenti, funzionanti con propri dipendenti, per ottenere indumenti pronti alla vendita, partendo dal taglio e proseguendo con la cucitura, il lavaggio, la stiratura. Le imprese più esigenti sul piano della qualità gestivano in proprio perfino la filatura e la fabbricazione di stoffe a partire dal cotone o la lana.

Con la globalizzazione, questo tipo di organizzazione è andato definitivamente in frantumi per adottare una strategia produttiva che già aveva cominciato a fare capolino negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso. La stessa strategia che aveva permesso a Nike, il notissimo marchio di scarpe e articoli sportivi, di diventare dal nulla un’impresa mondiale.

La storia del baffo

La storia dell’impresa con il baffo comincia nel 1964, allorché Phil Knight, giovane contabile americano e appassionato di corsa campestre, s’imbatte in un paio di scarpe sportive che trova particolarmente buone. Anche il marchio è affascinante: una tigre stilizzata nel momento del salto. Phil se ne innamora e progetta di commercializzarle. Convinto com’è che qualità e aggressività siano un mix ideale per farsi strada, si galvanizza. Da tempo sogna di mettersi in affari e quella può essere la sua grande occasione.

Dopo un approfondimento, appura che le scarpe tigrate vengono dal Giappone. Ma per lui che abita sulla costa Ovest del Pacifico, quella provenienza non è un problema. Contatta l’azien-

da produttrice, l’Onitsaka Company, e ottiene il contratto di distribuzione esclusiva per gli Stati Uniti.

Phil non ha negozi, non ha spedizionieri e risolve il problema improvvisandosi venditore ambulante all’uscita delle università e delle palestre. Come mezzo di trasporto usa la sua auto su cui ha fatto stampigliare la scritta Blue Ribbon Sports, la società che ha fondato per avviare l’attività. Due soli soci: lui e Bill Bowerman, suo istruttore sportivo. Le scarpe vanno, gli affari si allargano fino a dover assumere del personale, e Phil decide di voler diventare un vero imprenditore con un marchio tutto suo. Tanto più che il socio Bill, appassionato di modellistica, ha messo a punto un modello di scarpa ancora più leggero e più comodo di quello che stanno vendendo.

Nel 1971 si decidono per il gran-

de passo, ma non possiedono stabilimenti. Perciò bussano alla porta di un altro produttore giapponese disposto a lavorare per conto terzi. Gli forniscono il modello, si accordano sul prezzo e alla data prestabilita avranno il numero di scarpe ordinate. Complete di logo che uno studente americano ha disegnato per loro in cambio di 35 dollari: una specie di baffo, uno sgorbio simile a un boomerang che, nelle intenzioni del disegnatore, rappresenta un’ala, simbolo di Nike, la dea alata della mitologia greca che personifica la vittoria. Il resto lo conosciamo. Nike è diventata una multinazionale con un fatturato di 51 miliardi di dollari, ma neanche uno stabilimento produttivo. Ottiene i suoi prodotti da terzisti dislocati in 41 paesi del mondo, quelli a costo più basso.

Nike fece scuola e quando tutte le imprese del mondo si trovarono costrette dalla concorrenza mondiale ad abbattere i prezzi di produzione, tutte scoprirono la produzione in appalto. Smisero di produrre in proprio e cominciarono a ordinare ciò di cui avevano bisogno a imprese estere localizzate in paesi a bassi salari. Prima la Corea del Sud, poi Taiwan, l’Indonesia, la Cina, il Vietnam, il Bangladesh. Ora il Kenya, l’Etiopia, il Malawi.

I proprietari di marchi sono sempre con la valigia in mano alla ricerca di paesi dove la «licenza di sfruttamento» è più alta. La loro parola d’ordine è liberalizzazione produttiva, che poi significa assenza di regole.

Irresponsabili

In un mondo produttivo senza regole, la situazione si è fatta sempre più selvaggia e agli albori del terzo millennio è tornata la barbarie produttiva del protocapitalismo ottocentesco. È tornato il lavoro minorile, le paghe da fame, l’assenza di diritti sindacali, l’insicurezza nei luoghi di lavoro.

Uno dei primi disastri si ebbe in Cina nel 1993 all’interno della Zhili, una fabbrica di giocattoli che lavorava in appalto per Chicco Artsana. Alle due del pomeriggio, scoppiò un incendio, ma le operaie non poterono uscire perché i cancelli erano chiusi a chiave. Il bilancio finale fu di 87 ragazze morte carbonizzate e quaranta ferite.

Molti altri incidenti avvennero successivamente in varie altre imprese asiatiche che lavoravano in appalto per committenti stranieri, ma quello più grave si verificò in Bangladesh il 24 aprile del 2013. Un intero palazzo di sette piani, conosciuto come Rana Plaza, crollò uccidendo 1.138 operaie e ferendone altre duemila. Frugando fra le macerie emersero etichette delle più importanti multinazionali della moda mondiale, tra cui Benetton, che, pur di fare soldi, avevano appaltato la produzione a imprese locali le quali, a loro volta, contenevano i costi di produzione risparmiando anche sulla sicurezza.

Il crollo del Rana Plaza, infatti, non fu un fulmine a ciel sereno: le lavoratrici già da tempo avevano denunciato la presenza di crepe, ma erano state ignorate.

In un mondo normale, le vittime dovrebbero ricevere almeno un indennizzo. Ma, nei vari incidenti, raramente è successo. Di solito, l’impresa terzista si rifiuta di pagare perché esonerata dalla legge locale, mentre l’impresa committente si chiama fuori asserendo di non avere alcun tipo di responsabilità verso una mano d’opera che non dipende direttamente da essa. Quelle rare volte che le vittime hanno ricevuto un indennizzo è stato grazie all’impegno della società civile che ha organizzato proteste e campagne. Così è stato per le vittime della Zhili grazie alla campagna organizzata nel 1997 dal Centro nuovo modello di sviluppo e altrettanto è stato per le vittime del Rana Plaza grazie all’intenso lavoro svolto dalla Clean clothes campaign. Campagne organizzate nei confronti delle imprese committenti che si rifiutavano di pagare non per una questione di soldi, ma di principio. Si dicevano disponibili a dare dei soldi, ma solo per la loro «bontà», non perché avessero un obbligo. La vecchia politica delle imprese disponibili a dare, se e quando vogliono, a titolo di carità e non come atto riparatorio per aver mancato in una precisa responsabilità ledendo un diritto.

La «diligenza dovuta»

Questo modo di operare da parte di diverse aziende, è reso possibile da una politica connivente che, per decenni, ha permesso alle imprese di rivendicare il diritto di intascare i soldi dello sfruttamento senza assumersi alcuna responsabilità, non perché ci fossero delle leggi che le autorizzassero, ma perché non esistevano leggi che affermassero il contrario. Niente leggi, niente diritti, niente obblighi.

Il pretesto utilizzato dai vari parlamenti nazionali per giustificare la propria inazione era la difficoltà di emettere leggi che avrebbero dovuto essere rispettate simultaneamente in più paesi. Tuttavia, già nel 2011 la Commissione Onu per i diritti umani aveva indicato la soluzione. La cosa da fare da parte degli Stati era di obbligare le imprese registrate nel proprio Paese ad assumersi la responsabilità di ciò che succede ai lavoratori e all’ambiente lungo le filiere produttive da esse utilizzate. Un concetto espresso con il termine inglese di due diligence, che in italiano potrem-mo tradurre come «diligenza dovuta» o, meglio ancora, «dovere di prendersi cura», sottinteso dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un imperativo che, in concreto, si attua attraverso tre passaggi chiave: innanzitutto vigilanza, per accertarsi che tutela ambientale e diritti dei lavoratori siano rispettati in ogni punto delle filiere produttive; secondariamente, correzione di ciò che non va; infine, messa in atto di tutte le misure di indennizzo nel caso siano stati provocati dei danni.

In Europa il primo paese a raccogliere la raccomandazione delle Nazioni Unite è stata la Francia che, nel 2017, ha promulgato la cosiddetta Loi de vigilence. Nel 2021, è seguita la Germania con una legge analoga e, finalmente, nell’aprile 2024 anche il Parlamento europeo ha legiferato in materia. Con una precisazione: i provvedimenti del consesso dell’Ue non sono indirizzati direttamente ai cittadini, ma ai parlamenti o ai governi degli stati membri. Sono ordini impartiti ai paesi aderenti affinché redigano leggi nazionali secondo le indicazioni definite dal Parlamento europeo.

L’Unione europea interviene

Nel caso della due diligence, la direttiva del Parlamento europeo dà agli Stati aderenti due anni di tempo per produrre una legge che attribuisca ai grandi marchi una serie di obblighi di controllo, correzione e indenizzo: in sostanza, gli stessi previsti dalla Commissione Onu per i diritti umani.

La Direttiva europea non è perfetta: si applicherà solo a gruppi molto grandi con più di 1.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore a 450 milioni di euro. Inoltre, prevede meccanismi di gestione e pratiche amministrative non ancora sperimentate che le imprese possono cercare di manipolare. Nonostante i suoi difetti, però, il provvedimento è importante almeno per due motivi. In primo luogo, perché rappresenta un cambio di passo rispetto al ruolo assegnato dall’ordinamento giuridico alle imprese: non più il profitto a ogni costo, ma solo se ottenuto nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’integrità del pianeta. In secondo luogo, perché la forza di persuasione dell’Ue potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati.

La direttiva due diligence avrà i suoi effetti anche sulle aziende della moda, comprese le italiane. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, il settore tessile è fra quelli a più alto rischio di violazione dei diritti umani, insieme al minerario e all’agricolo. Le filiere di produzione della moda sono costellate di sfruttamento, povertà e disparità salariale, straordinari obbligatori, fabbriche insicure, prezzi di acquisto bassi e comportamenti commerciali predatori da parte dei marchi committenti.

Non c’è bisogno di andare in Bangladesh per rendersene conto: nel corso del 2024 la magistratura italiana ha preso provvedimenti contro Armani e Dior per presunta agevolazione colposa del caporalato. Del resto il Global slavery index del 2023 pone il settore tessile al secondo posto per numero di persone sottoposte a lavoro forzato. Per questo la Campagna abiti puliti, assieme al network internazionale della Clean clothes campaign, ha condotto un’intensa attività di lobby sul Parlamento europeo per ottenere l’approvazione del provvedimento sulla due diligence.

Francesco Gesualdi




L’autonomia dell’egoismo


La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?

Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.

Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.

Nord e Sud

La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.

La (brutta) riforma del Centrosinistra

Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio.  L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.

La legge Calderoli

Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo.  Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.

Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.

Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.

In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.

Le criticità

Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi.  L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.

Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».

Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.

Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.

Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.

Francesco Gesualdi


Il Ssn e i livelli essenziali

L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.

Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.

L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande  sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.

F.G.

 




Per non bruciarsi le ali


La transizione «verde» può aiutare a risolvere un problema ambientale ma crearne altri. La soluzione non sta nelle nuove tecnologie, ma nell’accettazione dei limiti.

La ragione per cui l’umanità ha optato per la transizione energetica è la volontà di rallentare i cambiamenti climatici. In altre parole, è legata a motivi ambientali. Tuttavia, se non è attuata in maniera avveduta, la transizione segnerà solo il passaggio da un problema ambientale a un altro. Anzi, ad altri.

Come è noto, per ottenere energia libera da anidride carbonica servono tecnologie basate sull’uso di una trentina di minerali che, oltre a essere presenti sulla Terra in quantità limitata, comportano numerose problematiche ambientali sia nella fase estrattiva che di lavorazione.

Gli impatti dell’estrazione

Uno dei problemi più gravi che si riscontra nei luoghi di estrazione è l’impatto sul suolo. Le zone toccate dalle attività minerarie si presentano come paesaggi lunari a causa delle voragini provocate dal materiale prelevato e delle montagne artificiali create dagli scarti accumulati. I minerali utili, infatti, difficilmente si trovano in natura allo stato puro. Molto più spesso sono incorporati in rocce che contengono molti altri minerali dai quali devono essere separati. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio servono 3,5-4 tonnellate di bauxite, la roccia grezza da cui il metallo proviene. In altre parole, ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 2-3 tonnellate di detriti, fra cui abbondanti quantità di fango rosso, un residuo che deve il suo colore all’alto contenuto di ferro e altri metalli pesanti. Secondo l’Aluminium institute, nel 2017 sono stati generati a livello mondiale 159 milioni di tonnellate di residui di bauxite, per un totale di depositi accumulati pari a 3 miliardi di tonnellate.

Le previsioni dicono che la produzione di alluminia (alluminio grezzo) passerà da 140 milioni di tonnellate del 2022 a 178 milioni nel 2040, con una produzione di 220 milioni tonnellate di detriti all’anno, per un accumulo complessivo di residui di bauxite stimati al 2050 in 8 miliardi di tonnellate.

Il fango rosso è considerato un rifiuto altamente pericoloso a causa della sua elevata alcalinità e delle numerose sostanze tossiche che contiene. Veleni che possono propagarsi nell’ambiente circostante, danneggiando la salute delle persone oltre all’integrità di fiumi, falde acquifere, foreste e terreni agricoli. In Malaysia, l’estrazione di bauxite avviene dall’inizio del nuovo millennio, ma attorno al 2015 c’è stata un’intensificazione che ha provocato problemi ambientali e sanitari così seri da indurre le autorità a sospenderla per alcuni mesi.

La transizione «verde» richiede minerali di difficile reperimento e gestione. Foto Miningwatch Portugal – Unsplash.

Dall’Ungheria all’Indonesia

Se in Malaysia la preoccupazione principale è per le falde acquifere, in Australia le miniere di bauxite generano problemi soprattutto all’aria. Il vento trasporta la polvere rossa, contaminando strade, terreni e fiumi per chilometri attorno alle miniere. Ma l’incidente più serio si è avuto in Ungheria il 4 ottobre 2010, allorché un grande bacino di decantazione contenente circa 30 milioni di metri cubi di fanghi di scarto di una fabbrica di alluminio nei pressi della cittadina di Ajka, collassò improvvisamente originando una colata di fanghi rossi di quasi un milione di metri cubi. L’impatto violento dell’acqua e del fango uccise dieci persone e fece crollare numerosi ponti e abitazioni. Complessivamente 40 chilometri quadrati di territorio vennero allagati, avvelenando terreni agricoli e fiumi. Lo stesso Danubio venne investito dall’onda rossa registrando una massiccia moria di pesci.

In Indonesia, il minerale che sta mettendo a soqquadro l’arcipelago è il nichel, di cui l’Indonesia detiene le maggiori riserve mondiali. Da quando questo minerale si è dimostrato particolarmente importante per la costruzione di batterie, la sua estrazione in Indonesia è passata da 6,5 milioni di tonnellate nel 2013 a 98 milioni nel 2022. Il 90% circa dei depositi accertati sono localizzati nelle isole di Sulawesi e Maluku, dove si trovano non solo miniere, ma anche industrie di raffinazione. In queste isole, ricche di vegetazione, l’apertura delle miniere avviene a spese delle foreste, evidenziando così il primo danno ambientale provocato dell’estrazione del minerale.

L’associazione ambientalista statunitense Mighty earth sostiene che, in Indonesia, l’estrazione di nickel ha già comportato la distruzione di oltre 75mila ettari di foreste, mentre altri 500mila ettari potrebbero venire distrutti qualora fossero messi in atto tutti i propositi di apertura di nuove miniere dichiarati dal governo.

Foreste e anidride carbonica

Quando si dice foreste, si dice non solo biodiversità, ma anche riserve di anidride carbonica. Le foreste, infatti, sono grandi serbatoi di carbonio, che si combina con l’ossigeno diventando anidride carbonica, che si disperde in atmosfera nel momento in cui le foreste sono distrutte. Così si arriva all’assurdo di aumentare le emissioni di anidride carbonica per sviluppare una tecnologia tesa a non produrne più. Una situazione aggravata dal fatto che, oltre a estrarre nickel, l’Indonesia lo raffina pure, consumando una grande quantità di energia elettrica ottenuta da centrali alimentate a carbone. Basti dire che il solo complesso minerario di Morowali sta pianificando centrali a carbone della potenza di 5 Giga watt, tanta quanta ne ottiene l’intero Messico dallo stesso tipo di combustibile.

Non a caso il consumo di carbone in Indonesia è cresciuto da 20 milioni di tonnellate nel 2021 a 86 milioni nel 2022, quattro volte tanto. Così l’Indonesia compare fra i primi dieci produttori mondiali di anidride carbonica. I problemi del nickel sono legati anche ai suoi rifiuti. Ogni tonnellata di minerale raffinato lascia sul terreno una tonnellata e mezzo di detriti carichi di sostanze tossiche che inquinano il terreno e le acque circostanti fino al mare. Ad andarci di mezzo è la salute della popolazione e non solo. I pescatori lamentano una grande moria di pesci che li rende sempre più poveri: «Prima dell’apertura delle miniere le acque erano chiare e il pesce abbondante. Ma ora il mare è sporco e caldo a causa degli scarichi delle miniere e delle sue industrie. Il pesce si è assottigliato e quello rimasto è tossico». Così si lamenta Max Sigoro, un vecchio pescatore dell’isola di Sawai, durante un’intervista rilasciata all’associazione Climate rights international.

Il litio o l’acqua?

Un altro minerale portato in auge dalla transizione energetica è il litio, anch’esso determinante per la produzione di batterie. Un’area del mondo particolarmente ricca è il così detto «Triangolo del litio» che si estende fra Cile, Argentina e Bolivia. In quest’area, il litio si trova disciolto in depositi sotterranei di liquido salmastro che viene pompato in superficie e immesso in grandi piscine contenenti acqua dolce. Nel corso di alcuni mesi, sotto l’effetto del sole, l’acqua evapora e lascia sul fondo magnesio, calcio, potassio, sodio e, appunto, litio.

In definitiva si tratta di una tecnologia relativamente semplice, ma che richiede immense quantità di acqua.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, ci vogliono 330 tonnellate di acqua per ottenerne una di litio. Secondo altri studi, invece, ce ne vorrebbero duemila tonnellate. Ma al di là della guerra dei numeri, rimane il fatto che le zone del Triangolo ricche di litio sono fra quelle più aride del mondo. Una di queste è il Salar d’Atacam, una vasta zona salina a 2.500 metri sul livello del mare. Qui le piogge non arrivano a dieci litri per metro quadrato all’anno. L’acqua c’è solo perché è fornita dalle montagne circostanti ma in maniera contenuta e la popolazione lamenta che quella a propria disposizione è sempre minore.

Karen Luza, residente a San Pedro de Atacama e attivista per la difesa dell’acqua, in un’intervista rilasciata nel 2022 all’associazione catalana Odg (Osservatorio sui debiti della globalizzazione), ha dichiarato che «mentre nelle miniere si utilizzano migliaia di litri d’acqua al giorno, i contadini devono aspettare anche un mese per poter irrigare i propri campi». L’Agenzia internazionale dell’energia conferma che metà della produzione di litio e rame avviene in aree ad alto stress idrico con forte opposizione delle comunità locali che rivendicano l’acqua per bere, lavare e irrigare.

La transizione «verde» richiede minerali di difficile reperimento e gestione. Foto Dominik Vanyi – Unsplash.

I costi umani dell’estrazione

Al costo ambientale si associa spesso quello umano, pagato non solo dalle popolazioni indigene estromesse dalle loro terre, ma anche dai lavoratori che sono privati dei loro diritti. Una ricerca condotta nel 2022 dal centro indonesiano Inkrispena, ha messo in evidenza una grande quantità di abusi e di irregolarità all’interno delle miniere e delle fabbriche di nickel presenti in Indonesia. Ma in ambito minerario, le peggiori condizioni di lavoro si trovano nella Repubblica democratica del Congo, nelle miniere di cobalto, altro minerale strategico per la transizione verde.

In questo settore è molto sviluppato il fenomeno dei minatori artigianali, persone che non sapendo come sbarcare il lunario, si improvvisano minatori che a fine giornata vendono per pochi spiccioli quanto hanno trovato.

Prima di tutto devono individuare un sito promettente e dopo avere ottenuto il permesso di sfruttamento da parte del proprietario del terreno iniziano l’estrazione avvalendosi della collaborazione di persone altrettanto povere che pur di avere un lavoro sono disposte a correre qualsiasi rischio per qualsiasi salario.

Amnesty International ha più volte denunciato che fra loro vi sono molti bambini. Nella sola regione del Katanga, i minori impiegati nelle miniere di cobalto in condizioni indicibili sarebbero tra i 20mila e i 40mila. Il minerale portato in superficie dai loro esili corpi finisce nella filiera dei metalli utili a costruire le batterie che alimentano i nostri computer e i nostri smartphone, nel più assoluto silenzio.

La fine di Icaro

I diritti umani sono una questione di volontà collettiva. Basterebbero più regole, più controlli, più investimenti sociali per tutelarli. Anche la tutela ambientale passa attraverso regole e controlli più stringenti, ma da soli non bastano. Serve anche la disponibilità ad accontentarsi di meno in modo da ridurre il nostro impatto sulla natura. Un obiettivo che si raggiunge assumendo un altro concetto di sviluppo e di benessere. Negli ultimi due secoli abbiamo coltivato l’idea che il nostro solo interesse è produrre e consumare sempre di più ed abbiamo finito per sconvolgere molti equilibri su cui si regge la natura: i meccanismi climatici, la diversità biologica, la vitalità dei suoli, i cicli idrici. I segnali di una natura violata a causa dei nostri eccessi sono ormai all’ordine del giorno, ma non bastano per fermarci. Dall’alto della nostra superbia pensiamo che la tecnologia risolverà tutto, per cui non dobbiamo produrre di meno, ma addirittura di più per avere le risorse e l’energia necessarie a sviluppare le nuove tecnologie. Ma la non accettazione dei limiti imposti dalla natura può farci fare la stessa fine di Icaro che, per fuggire dal labirinto, usò delle ali fatte di cera. Ma si avvicinò troppo al sole, la cera si sciolse e Icaro precipitò nel vuoto.

Francesco Gesualdi
(seconda parte-fine)