Scandalo in spiaggia


In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.

C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.

Le regole europee

Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.

Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.

Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto Gianni Crestani – Pixabay.

Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».

Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.

Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.

I beni del demanio statale

In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.

Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.

Ue-Stato: la saga infinita

Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.

A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.

L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.

Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi

In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.

Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.

Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.

Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto GMaiga – Pixabay.

Beni comuni trascurati

L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.

Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.

Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.

Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».

Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».

La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Francesco Gesualdi

 




Il pensiero oltre la siepe


Povertà e miseria non sono sinonimi. Anzi, la prima può coincidere con la virtù della sobrietà. La seconda è, invece, uno scandalo da combattere. Con l’intervento dello Stato.

Povertà e miseria non sono la stessa cosa: la prima è una virtù, la seconda uno scandalo. La povertà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti. È la capacità di dare alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. È un modo di organizzare la società affinché sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il minor dispendio di materiali e di energia e la minore produzione di rifiuti.

La miseria, invece, è la condizione di chi non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. L’una è espressione di rispetto, sostenibilità, armonia. L’altra di degrado, violenza, ingiustizia. Dunque, si tratta di due condizioni distinte. L’una da promuovere magari ribattezzandola con termini come sobrietà, frugalità, semplicità, tanto per non dare adito a fraintendimenti. L’altra da combattere perché disumana.

Dove vive la miseria

Le Nazioni Unite definiscono la miseria come povertà multidimensionale e, limitatamente ai Paesi del Sud del mondo (Cina esclusa), calcolano che in questa condizione vivano 1,1 miliardi di persone, il 20% della popolazione di questa porzione di mondo. Persone che non mangiano a sufficienza, non hanno un alloggio degno di questo nome, che non hanno accesso neppure ai primi gradi di istruzione scolastica, che non riescono a curare le malattie più banali come una dissenteria o una bronchite.

Secondo il criterio monetario utilizzato dalla Banca mondiale, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. Metà di loro sono bambini e adolescenti sotto i 18 anni.

L’Africa è il continente con la più alta concentrazione di miseria: metà di tutti i miseri del mondo si trovano nell’area subsahariana. Un altro terzo è in Asia. E, se guardiamo alla distribuzione fra città e campagna, scopriamo che la miseria è prevalentemente rurale: l’84% di tutti i miseri del mondo vivono nelle campagne.

Miseria e povertà. Foto Towfiqu Barbhuiya – Unsplash.

È sempre Nord e Sud

Le ragioni per cui nel Sud del mondo la miseria continua a mietere così tante vittime affondano le loro radici nel passato coloniale, tutt’altro che tramontato. Il Nord ricco continua a dissanguare il Sud non solo tramite il tradizionale scambio ineguale, oggi esteso anche ai manufatti in virtù della deloca- lizzazione produttiva basata su salari da fame, ma anche tramite il debito e varie altre strategie finanziarie legate alla fuga dei capitali.

La Banca mondiale certifica che, nel 2021, i governi dei 120 paesi del Sud del mondo a reddito basso e medio, avevano un debito verso l’estero pari a 3.500 miliardi di dollari, per il quale hanno sborsato, nello stesso anno, 120 miliardi per interessi. Considerato che, nello stesso periodo, hanno ricevuto in donazioni 108 miliardi di dollari, se ne conclude che il Sud del mondo è stato un finanziatore netto del Nord ricco per 12 miliardi di dollari. Un esborso che la popolazione ha pagato sotto forma di minore assistenza sanitaria, minor spesa scolastica, minori investimenti per elettrificazione e sussidi all’agricoltura. Le Nazioni Unite ci informano che 4 miliardi di persone vivono in nazioni dove la spesa per gli interessi sul debito è più alta di quella per sanità o istruzione. Come se non bastasse molte multinazionali presenti nel Sud del mondo si ingegnano in tutti i modi possibili per evadere le tasse ed esportare illegalmente le ricchezze ottenute nel Paese. La fuga illegale di capitali provoca all’Africa un salasso annuo di quasi 90 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2004-2013 l’America Latina ha perso 765 miliardi. Parola di Unctad e di Un Eclac, due organi delle Nazioni Unite che si occupano di commercio internazionale l’una e di questioni economico sociali dell’America Latina, l’altra.

Corruzione e latifondo

Alle storture internazionali si aggiungono fenomeni interni ai singoli paesi del Sud che immiseriscono ulteriormente la popolazione. Fra essi la corruzione (che contribuisce a sottrarre risorse alle casse pubbliche) e la protezione dei latifondisti a danno dei piccoli contadini. Ovunque nel mondo si assiste all’avanzata dei grandi proprietari terrieri che sottraggono terra ai piccoli contadini, ma in certi angoli del Sud del mondo le sproporzioni sono gigantesche. Secondo l’ultimo censimento agrario condotto in India nel 2011 il 4,9% dei proprietari terrieri controlla il 32% di tutte le terre agricole, mentre 101 milioni di famiglie rurali, il 56,4% del totale, non ne possiedono affatto. La mancanza di terra è una delle ragioni principali per cui l’84% degli immiseriti si trova nelle campagne.

Detto questo, si capisce che il primo passo per ridare dignità a quel miliardo di miseri è una seria riforma agraria che deve essere accompagnata da tutti gli altri correttivi necessari a garantire ai governi i fondi necessari a realizzare investimenti nel campo dell’elettrificazione, della viabilità, della sanità, dell’istruzione.

E nei paesi ricchi

Di miseri ce ne sono anche nel Nord opulento. Li vediamo nei sottopassi delle stazioni o delle metropolitane, derelitti sdraiati su cartoni di fortuna. Li vediamo anche nelle file in coda per un piatto di minestra alle mense della Caritas. Nella sola diocesi di Roma, nel 2023 sono stati distribuiti 65mila pasti gratuiti. In Italia i conti nazionali ce li fornisce l’Istat che definisce la miseria con il termine di «povertà assoluta», precisando che considera povero assoluto chiunque sia incapace di permettersi un «paniere di beni e servizi considerati essenziali», comprendente prodotti alimentari, alloggio, riscaldamento, trasporto, spese sanitarie e altro.

Secondo le ultime statistiche del 2023 in Italia la povertà assoluta colpisce 2,18 milioni di famiglie, per un totale di 5,6 milioni di persone, quasi un abitante su dieci. A fare ancora più male è sapere che il 22% dei poveri assoluti (1,2 milioni) sono bambini e adolescenti. In effetti il 13,4% di tutti i minorenni in Italia si trova in povertà assoluta, con ripercussioni non solo sul piano materiale, ma anche scolastico. Nella scuola dell’obbligo il tasso di dispersione scolastica è al 14%. Come dire che 14 ragazzi su 100 abbandonano precocemente la scuola o, se vi rimangono, è come se fossero parcheggiati considerato che non riescono a raggiungere gli obiettivi formativi prefissati. Colpisce, inoltre, la sovrapposizione delle due cifre: 13,4% di povertà assoluta e 14% di dispersione scolastica.

Aumenti e servizi pubblici

In un mondo dominato dagli scambi monetari, la miseria è il frutto di due opposti fenomeni: redditi troppo bassi e prezzi di beni e servizi essenziali troppo alti. Ad esempio, dopo l’aumento vertiginoso delle bollette elettriche verificatosi nel 2022, anche famiglie che normalmente se la cavavano si sono avvicinate al baratro della miseria. Oltre alla bolletta energetica, anche affitti troppo alti e la demolizione di servizi pubblici come la sanità pesano sulle spalle delle famiglie fragili che, non potendo sostenere i costi imposti dalle strutture private, semplicemente rinunciano
a curarsi.
Dunque, un primo fronte su cui intervenire per arginare la miseria è la fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambiti essenziali come sanità, istruzione, trasporti. E subito dopo politiche per calmierare i prezzi di altri servizi altrettanto essenziali come alloggio, energia, cibo, acqua, che un sistema di svliluppo ideologico ha ceduto al mercato. Ricordandoci che i prezzi sono una via potente di distribuzione della ricchezza: impoveriscono chi compra e arricchiscono chi vende.

Il secondo fronte su cui intervenire è quello del reddito. In prima battuta con interventi tampone, tipo reddito di cittadinanza, per garantire un introito minimo a chi ne è sprovvisto. E, subito dopo, creando le condizioni affinché tutti possano disporre in maniera autonoma di redditi sufficienti a vivere dignitosamente.
In un sistema in cui la principale fonte di sostentamento è rappresentata dal lavoro salariato, la categoria a maggior rischio di grave deprivazione materiale è quella dei disoccupati. La Caritas conferma che il 48% delle persone che si rivolgono alle sue strutture sono disoccupati o inoccupati che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma aggiunge che stanno crescendo anche le persone che un lavoro ce l’hanno, ma riscuotono un salario troppo basso per arrivare alla fine del mese. Si tratta dei cosiddetti «working poors» (ne abbiamo già parlato su MC a dicembre 2021), persone che sono povere pur lavorando. In Italia sono 2,7 milioni, l’11,3% di tutti gli occupati.

Il ruolo dello Stato

Le misure più urgenti per combattere la miseria sono due: garantire un salario dignitoso a chi lavora e garantire un lavoro a chi un’occupazione non ce l’ha. In ambedue i casi il ruolo del potere pubblico è determinante. Per il primo obiettivo la strada da battere è l’introduzione, per legge, di un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. Che non significa depotenziare l’attività contrattuale del sindacato, ma soccorrere le categorie più deboli che un sindacato non ce

l’hanno o ne hanno uno troppo debole per imporre livelli salariali dignitosi. Quanto al secondo obiettivo lo stato deve smetterla di aspettare che siano le imprese private a creare occupazione. Il lavoro può e deve crearlo lo Stato che deve concepirsi come un datore di lavoro di ultima istanza. Ossia un soggetto che assicura a tutti un posto di lavoro. L’idea non è nuova ed è interessante notare che uno dei primi a proporla fu Martin Luther King che, fra le altre battaglie, conduceva anche quella contro la disoccupazione che era un vero e proprio flagello per la popolazione nera del tempo.

In un proclama del 1964, pochi giorni prima di essere assassinato, King si scaglia contro il governo degli Stati Uniti: «È l’ostinata insensibilità del governo nei confronti della miseria che alimenta la rabbia e la frustrazione. Benché la disoccupazione semini disperazione nei ghetti neri, il governo continua a cincischiare con misure senza efficacia. Soprattutto si rifiuta di diventare datore di lavoro di ultima istanza. Continua a buttare la palla nel campo delle imprese private come se i fallimenti occupazionali registrati fin qui possano fare da garanzia di successi futuri».

Martin Luther King si appellava al governo perché sapeva che lo stato è l’unica entità in grado di creare occupazione indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Il mercato crea lavoro solo se vende. Lo Stato, in quanto tutore dei beni comuni e produttore di servizi a beneficio di tutti, può creare occupazione per decisione unilaterale. Il mercato stesso, quando si accorge si essere in una situazione di stallo, chiede allo Stato di intervenire per ridare impulso alla macchina produttiva.

Quello che dovremmo fare è smettere di concepire lo Stato solo come stampella del mercato e vederlo, piuttosto, come la casa comune dentro la quale tutti possono trovare rifugio e una tripla area di sicurezza. Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia. Infine, la garanzia di un lavoro che dia a tutti la possibilità di sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Miseria e povertà. Foto Dulana Kodithuwakku – Unsplash.

Immaginare e fare

Se vogliamo salvarci, dobbiamo cambiare progetto. Convincerci che oltre al vendere e al comprare, al competere e al gareggiare, al profitto e allo sfruttamento, all’arricchimento personale e alla proprietà privata, esiste anche la comunità, la solidarietà, la gratuità, i beni comuni. E come loro – multinazionali, signori della finanza, investitori – hanno il diritto di organizzarsi per arricchirsi, allo stesso modo noi, i piccoli, abbiamo il diritto di organizzarci per vivere. E l’unico modo possibile è la forma comunitaria perché la solidarietà collettiva è la sola ricchezza su cui possiamo contare. Ecco perché dovremmo avere il coraggio di riorganizzarci su una logica di doppia economia: quella dei bisogni fondamentali e quella degli optional. La prima, affidata alla comunità, funzionante con il lavoro di tutti per la dignità di tutti. La seconda, affidata al mercato, funzionante con il lavoro di chi ambisce a maggiori consumi. Fantasticherie? Può darsi. Ma quando l’impostazione corrente non è in grado di dare le risposte attese, bisogna sapere gettare il pensiero oltre la siepe.

Francesco Gesualdi

 

 

 




La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Sostituzione etnica o necessità?


Per controllare l’immigrazione clandestina, c’è (anche) «Frontex», l’agenzia europea per le frontiere e le coste. La sua azione è antitetica a quella delle Ong le cui operazioni di salvataggio sono spesso ostacolate. Se non si vuole ragionare in termini di umanità e solidarietà, il dilemma pratico è tra chi vede i migranti come un pericolo e chi li considera una necessità.

Il 10 giugno 2016, sulla frontiera fra Bulgaria e Turchia, si svolse la cerimonia di inaugurazione della «Agenzia di controllo della frontiera europea», meglio nota come Frontex. Istituita nominalmente già nel 2004, inizialmente aveva funzione di consulenza. Con l’intensificarsi del problema migratorio venne trasformata in un corpo operativo dotato di uomini e mezzi per rafforzare le attività di controllo alle frontiere già svolto dalle singole polizie nazionali.

Il controllo dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio dei migranti irregolari sono fra le sue funzioni principali. Funzioni che, ad oggi, svolge con la disponibilità di 750 milioni di euro annui, 2.500 uomini, venticinque imbarcazioni, otto velivoli e un’ampia strumentazione di vigilanza elettronica posta lungo i tratti di frontiera più battuti dai migranti. Da qui al 2027, il progetto è di raddoppiare il bilancio di Frontex e portare il numero di addetti a 10mila unità. Con grande gioia soprattutto delle imprese di armi e strumentazione elettronica che, con Frontex, fanno molti affari. Tra esse le multinazionali Airbus (Olanda), Leonardo (Italia), Thales (Francia) che offrono elicotteri, droni, sistemi di sorveglianza, ma anche imprese minori come Glock (Austria) e Mildat (Polonia) per il rifornimento di munizioni e armi leggere. Secondo l’organizzazione Corporate europe observer, tra il 2017 e il 2019, Frontex si è incontrata con 108 imprese per discutere l’acquisto di fucili, munizioni, dispositivi aerei e marittimi di sorveglianza, rilevatori di esseri umani.

Il «curriculum» di Frontex

Fra il 2020 e il 2022, Frontex è stata oggetto di numerose inchieste da parte di organi dell’Unione europea, perché accusata da prestigiose organizzazioni umanitarie e testate giornalistiche di respingimenti illegali e violazione dei diritti umani.

Ad esempio, secondo le ricostruzioni dell’agenzia giornalistica Lighthouse reports, fra il marzo 2020 e il settembre 2021, si sono verificati ventidue casi in cui Frontex ha collaborato con la polizia greca per rimettere gli immigrati in imbarcazioni di fortuna e respingerli in Turchia. Su un altro fronte, quello del Mediterraneo sud, le organizzazioni Human rights watch e Border forensics hanno documentato che, nel 2021, Frontex ha utilizzato la sua capacità di sorveglianza aerea per intercettare le imbarcazioni che trasportavano migranti e segnalare la loro posizione alla Guardia costiera libica affinché le respingessero in Libia.

Secondo l’Oim, l’Organizzazione  internazionale per le migrazioni, nel 2021 ben 32.425 migranti sono stati respinti sulle coste libiche in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, secondo la quale «Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Un rapporto del 13 luglio 2023 delle Nazioni Unite conferma che in Libia «si registrano rapimenti, arresti arbitrari e sparizioni di cittadini e personaggi pubblici per mano di vari attori addetti alla sicurezza».

Onde e Ong

Un’altra strategia, ancora più subdola, utilizzata dall’Italia per ridurre gli sbarchi, è quella di lasciare i migranti in balia delle onde, ossia senza un sistema di protezione in caso di naufragio. Nel 2013 tale attività era svolta da Mare nostrum, ma con la sua chiusura non era più chiaro chi l’avrebbe svolta. Perciò il vuoto venne colmato da alcune organizzazioni umanitarie, fra cui Medici senza frontiere, Save the children, Sea eye, che si dotarono di imbarcazioni e velivoli per individuare le barche di migranti in difficoltà e trarli in salvo. Ma la scelta non piacque ai vari governi che si susseguirono, accusando le organizzazioni umanitarie di complicità con i trafficanti di esseri umani, fecero di tutto per sabotare la loro attività di salvataggio.

Il primo giro di vite si ebbe nel 2017 per mano di Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni e proseguì nel 2019 per mano di Matteo Salvini (oggi vicepresidente del consiglio dei ministri, ndr) che fece introdurre multe fino a un milione di euro per quelle navi che fossero entrate nelle acque territoriali italiane senza averne ottenuto il permesso. In seguito, le sanzioni vennero ammorbidite, ma l’attività di salvataggio delle Ong rimane ancora oggi fortemente osteggiata, come mostra il divieto dei salvataggi multipli introdotto dall’attuale governo Meloni, o l’abitudine di assegnare porti di sbarco molto lontani dai luoghi d’intervento.

Clandestini

Mettere piede nel territorio di un paese ricco è la prima sfida di ogni migrante che viaggia come fuggitivo. Ma subito dopo si pone il problema di rimanerci. In Italia, ad esempio, può rimanerci solo chi riceve una qualche forma di risposta positiva alla domanda di asilo (qui sopra una riproduzione del modulo, ndr) avanzata per motivi politici, sociali, razziali, sessuali.

Nel 2022 in Italia si sono registrati 120mila arrivi irregolari per l’88% via mare e il 12% via terra. Nello stesso anno sono state presentate 84mila richieste di asilo, ma quelle accolte sono state meno della metà (48%). In altre parole, due terzi degli arrivati nel 2022 non sono stati autorizzati a rimanere in Italia. E mentre alcuni sono rimpatriati con la forza, i più restano nel nostro paese come irregolari senza alcun tipo di permesso. Senza documenti, senza residenza, senza assistenza sanitaria, senza possibilità di svolgere un lavoro alla luce del sole, sono costretti a vivere come clandestini. Il loro numero in Italia è stimato in mezzo milione e sono una vera manna per caporali, imprese criminali e imprese sommerse, alla ricerca di mano d’opera che, non potendo vantare alcuna tutela legale, può essere sfruttata e tartassata in ogni modo possibile.

Intanto, in Inghilterra, il governo ne aveva studiata un’altra per sbarazzarsi alla radice dei richiedenti asilo. Aveva annunciato di avere stipulato un accordo con il Rwanda che, in cambio di denaro e altri benefici, sarebbe stato disposto a prendersi un certo numero di richiedenti asilo inviati dall’Inghilterra. Ancora una volta i migranti sarebbero stati trattati come pacchi da spedire da una parte all’altra del globo (come vorrebbe fare anche il governo Meloni con i trasferimenti in Albania, ndr). Fortunatamente, nel giugno 2023 la Corte d’appello britannica ha dichiarato il Rwanda un paese non sicuro e ha annullato la decisione del governo. Ma questo ultimo è intenzionato a rivolergersi alla Corte suprema, per cui non è ancora detta l’ultima parola.

Costruire la paura

Nel 2021, mentre in tutta Europa continuava la campagna di terrorismo per convincerci che eravamo sotto la minaccia di un’invasione migratoria che ci avrebbe sommerso, cambiando totalmente narrativa ci veniva chiesto di spalancare le nostre porte a chi fuggiva dall’Ucraina. Una disponibilità che dovevamo avere senza se e senza ma, non importa quanti ne sarebbero arrivati. Allora capimmo che non è una questione di numeri, ma di colore della pelle.

Sensazione confermata anche da altre dichiarazioni successive, come quella del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida il quale, nel corso di una conferenza sulla denatalità, affermò che «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica».

L’esperienza con gli ucraini dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare e anche bene. Al contrario, se non si vuole, l’accoglienza non si fa e quella poca realizzata è fatta male. In Italia, di partiti che hanno incluso l’accoglienza dei migranti nel proprio programma di governo non ce ne sono, mentre ce ne sono di quelli che hanno basato la propria campagna elettorale sulla costruzione della paura verso i migranti della rotta balcanica e mediterranea. E dopo averli dipinti come dei barbari che vogliono prendersi ciò che è nostro, hanno promesso muri, blocchi navali, respingimenti. Oggi quelle forze politiche le abbiamo al governo e non potendo fermare i flussi, cercano di fare la faccia cattiva ostacolando i salvataggi e rendendo più difficile la permanenza di chi arriva (articolo a pagina 27, ndr).

Non garantiscono sufficienti strutture di prima accoglienza e organizzano quelle esistenti sempre più sotto forma di carceri; riducono e depotenziano i centri di accoglienza per richiedenti asilo; demoliscono le esperienze di accoglienza di tipo inclusivo; sguarniscono gli uffici che devono rilasciare i permessi di soggiorno. E dopo avere organizzato la disorganizzazione, gridano al caos emergenziale per alimentare nella popolazione l’avversione verso i migranti.

Anziani e forza lavoro

Una situazione non solo cinica e disumana, ma anche assurda perché il Documento di economia e finanza del 2023, redatto dal governo Meloni, afferma che  di immigrazione l’Italia ne ha bisogno come il pane, addirittura per ridurre il peso del debito pubblico.

Atteso che la popolazione anziana crescerà portandosi dietro un aumento spese, e che le nascite diminuiranno restringendo la forza lavoro, il solo modo per ridurre l’impatto del debito pubblico è tramite il lavoro degli immigrati, i soli capaci di fare aumentare Pil, contributi sociali e gettito fiscale.

Cosa va detto alla gente

Quello che dunque va fatto rispetto alla questione migratoria è un’operazione verità. Alla gente va detto che, senza migranti, la vecchia e infertile Europa è destinata al declino. Va detto che l’unico modo per salvarla è attraverso i migranti che, secondo il citato Documento di economia e finanza 2023, solo per l’Italia, dovrebbe essere nell’ordine di 280mila nuovi arrivi all’anno di qui al 2070.

Chiarito che abbiamo bisogno degli immigrati, dobbiamo fare anche scattare l’umanità che è in noi e il dovere di solidarietà a cui ci richiama la Costituzione. Per cui dovremmo organizzarci per accogliere chi fugge, per favorire una coesistenza sociale e culturale che potrebbe arricchire tutti; dovremmo creare corridoi umanitari che mettano fine alle traversate della morte; dovremmo attivare la collaborazione internazionale per mettere in salvo i migranti che si trovano intrappolati in situazioni violente come succede in Libia.

In una parola, dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

 




L’economia dei respingimenti


Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.

Le strategie dei governi

Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.

Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.

In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.

Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare  italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.

Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della  guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.

Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.

Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.

Migranti su un barchino. Foto Geralt – Pixabay.

L’accordo con la Libia

Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.

Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.

Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.

In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.

Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.

Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica  e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.

In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».

L’accordo con la Tunisia

Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.

Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.

L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.

Soldati indiani lungo la barriera che divide il confine tra India e Bangladesh. Foto IANS.

Stati Uniti (ma anche India)

Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.

Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.

Intanto, in Europa

A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.

Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.

Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.

Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.

A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.

In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.

Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».

Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)




L’avidità si paga


Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

L’impronta sul calendario

L’overshoot day prende spunto dall’«impronta ecologica», l’indicatore che misura la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi. E se, d’istinto, siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici in essa sono molto più ampi.

Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla mobilia fatta di legno, agli edifici e le strade che occupano suolo, ai medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto (in apparenza) più sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare in automobile o per accendere una lampadina.

Troppo spesso dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo del motore, emettiamo anidride carbonica (CO2), un veleno di cui non ci diamo pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercelo di mezzo grazie all’attività delle piante. Ma non in maniera infinita. Sicuramente non abbastanza da poter assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dalla combustione dei 16 miliardi di litri di petrolio che consumiamo giornalmente a livello mondiale. Basti dire che per sbarazzarci della CO2 che produciamo bruciando un solo litro servono cinque metri quadrati di foresta.

A livello planetario la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre arabili, ammonta a poco più di 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità ne richiedono all’incirca 22. Un deficit di dieci miliardi di ettari che l’overshoot day rappresenta per mezzo del calendario.

Attestato che ogni giorno ci servono 58 milioni di ettari di terra fertile, l’overshoot day ci indica il giorno dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che ogni anno raggiungiamo qualche giorno prima. Nel 1987 l’overshoot day arrivò il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre, nel 2023 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intera annata. Parola dell’istituto ambientalista americano Global footprint network.

La terra disponibile e quella consumata

Come si possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto di prodotti naturali. Ma, paradossalmente, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che, da vari decenni, emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno 37 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in grado di assorbirne solo 20, un bilancio negativo annuale di 17 miliardi di tonnellate che, accumulandosi in atmosfera, fa aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima.

Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ognuno di noi ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile.

Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà, i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa: quasi il doppio della quantità disponibile.

Ma, se possibile, la realtà è ancora peggiore, perché le medie non danno mai il vero quadro della situazione.

Analizzando le elaborazioni effettuate dalla Footprint data foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale.

Peso e colpe dei paesi

Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) e India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9. Per l’Italia l’impronta è pari a 4,3: questo significa che, nel 2023, abbiamo raggiunto la data di esaurimento delle risorse con oltre due mesi d’anticipo rispetto a quella mondiale, il 15 maggio.

Invocando la responsabilità collettiva, i paesi ricchi sostengono che è compito di tutti risolvere la crisi ambientale che abbiamo provocato. I numeri ci dicono però che il problema non è stato creato da tutti, ma solo dalla parte più ricca, per cui tocca a lei porvi rimedio, accettando di ridurre la propria impronta ecologica. Non solo per una questione di sostenibilità, ma anche di equità. Perché i poveri potranno salire solo se i ricchi accettano di scendere. È la legge dei vasi comunicanti.

Come italiani, ad esempio, dobbiamo ridurre la nostra impronta di quasi due terzi per riportarla nel perimetro della sostenibilità. Per capire dove intervenire, dobbiamo analizzare come è composta, ossia per quali ragioni utilizziamo terra fertile. Se togliamo le esigenze legate al legname (11%) e all’edificazione (1%), rimangono l’alimentazione, che contribuisce per il 28%, e l’assorbimento di anidride carbonica che contribuisce per il 60%. Dunque, è principalmente su questi due ultimi fronti che dobbiamo intervenire.

Il peso del cibo (e quello della carne)

Rispetto al cibo, la sfida è l’eliminazione degli sprechi intesi sotto due profili: ciò che buttiamo per le nostre negligenze e ciò che buttiamo per i nostri cattivi stili di vita.

Secondo la Fao, ogni anno, a livello mondiale si perde il 31% della produzione agricola: per il 14% a causa delle inefficienze e il 17% a causa delle nostre disattenzioni. Le inefficienze riguardano le perdite che avvengono nelle fasi di raccolta, di stoccaggio, di trasporto e di lavorazione delle derrate agricole: prodotti perduti perché mal conservati, mal trasportati, mal lavorati. Secondo il Wwf, in Italia le inefficienze, comprendenti anche ciò che è buttato dai supermercati, provocano la perdita di 4 milioni di tonnellate di cibo all’anno. A cui va aggiunto ciò che buttiamo nelle nostre case. Dalle indagini condotte dal gruppo di ricerca Waste watcher, risulta che, ogni anno, fra le mura domestiche vengono gettati 27 chili e mezzo di cibo a testa. Dato che, riportato a livello nazionale, da qualcosa come 1,6 milioni di tonnellate di cibo gettato nella pattumiera.

In parte perché scaduto a causa del fatto che gestiamo male i nostri acquisti; in parte perché non mangiato a causa del fatto che non gradiamo consumare gli avanzi dei pasti precedenti. La conclusione è che, in Italia, il solo spreco domestico corrisponde ogni anno a un milione e mezzo di ettari di terra agricola. Ettari che potrebbero essere risparmiati con una gestione più accorta della nostra spesa, del nostro frigo, della nostra cucina. Molto altro terreno potrebbe essere risparmiato scegliendo di mangiare sobrio. Soprattutto riducendo il consumo di carne, in modo da recuperare cereali e leguminose per l’alimentazione umana diretta. Oggi, a livello mondiale, il 40% dei cereali e l’80% della soia sono dati in pasto agli animali. Se ci aggiungiamo i pascoli, scopriamo che l’allevamento animale utilizza quasi l’80% delle terre agricole mentre fornisce solo il 20% delle calorie consumate dall’intera umanità. In conclusione, secondo i calcoli effettuati da Our World in data, se l’umanità adottasse una dieta solo a base di vegetali, potrebbe utilizzare il 75% di terra agricola in meno rispetto a oggi.

Il peso della CO2

Veniamo ora all’aspetto più ingombrante dell’impronta ecologica, l’eccessiva produzione di anidride carbonica. Tutti concordano che la soluzione è la transizione energetica. Ossia il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma sulle politiche da seguire ci sono due linee di pensiero. Quella del potere costituito secondo il quale il problema è solo tecnologico e quella dei critici secondo i quali il problema è anche di misura. La parola d’ordine del pensiero dominante è cambiare tecnologia e continuare a vivere nel consumismo. La parola d’ordine dei critici è cambiare tecnologia e, al tempo stesso, ridurre i consumi. Una posizione, quest’ultima, derivante da una constatazione e una convinzione.

La constatazione che i limiti del pianeta non riguardano solo la terra fertile, ma anche l’acqua e i minerali. La convinzione che a questo mondo non esistiamo solo noi opulenti ma anche una sterminata umanità che ha diritto a vivere meglio e una vasta progenie che ha diritto a ereditare una terra vivibile.

Due diritti che possono essere garantiti solo se gli opulenti smettono di dedicarsi al saccheggio in un pianeta dai contorni molto fragili.

Le strade da intraprendere

Di qui la necessità di passare non solo dai fossili alle rinnovabili, ma anche dallo spreco alla sobrietà. Obiettivo che si raggiunge in parte convertendosi al riciclo e al recupero, ma anche limitando i nostri consumi e cambiando modo di soddisfare i bisogni.

Parlando di mobilità, ad esempio, se da una parte dovremo accettare di muoverci di meno con andatura più lenta, dall’altra dovremo rinunciare al mezzo privato, anche se elettrico, e sviluppare al contrario una forte rete di mezzi pubblici.

Fino ad ora la discussione è stata fra sviluppo sostenibile e insostenibile e ne abbiamo fatto solo una questione di tecnologia. Ma la vera scelta è fra sviluppo egoistico e sviluppo altruistico ed è anche una questione di quantità.

Francesco Gesualdi

 




Non tutti i debitori sono eguali


Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione.  Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.

Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.

Il debito pubblico dei paesi ricchi

Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.

In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.

La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.

Le banche centrali e la creazione di moneta

Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.

Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.

 

Tra prestiti interni e prestiti esteri

L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.

Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.

Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.

Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).

foto-Frantisek Krejci-Pixabay

Le conseguenze della esportazione di capitali

In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.

Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.

Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.

Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.

Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove  sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.

Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.

Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.

È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.

L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.

I creditori del Nord e il servizio del debito

Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.

Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.

In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.

Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.

Francesco Gesualdi

foto-QuinceCreative-Pixabay

 




Le banche e la lezione dimenticata


Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà  l’ultima volta, a meno che…

Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.

Se una piccola banca

Nel 2008, la bufera era partita da un intero comparto: quello specializzato nei mutui sulla casa. Questa volta l’epicentro è stato una banca di dimensioni modeste dedicata alle imprese ad alta tecnologia. Non a caso il suo nome è Silicon Valley Bank (in sigla Svb), ricordando che Silicon Valley è il nome dell’area industriale della California che ospita tutte le principali imprese specializzate nell’economia digitale.

Fondata nel 1983 per iniziativa di un paio di esperti bancari, Svb era nata con lo scopo di concedere prestiti alle start-up, ossia alle aziende di nuova formazione dedite alla produzione di tecnologie e servizi innovativi. Una delle regole imposte dalla banca alle imprese a cui concedeva prestiti, era l’obbligo di aprire un conto corrente. Questa regola, associata alle politiche perseguite dalla Banca centrale statunitense, aveva favorito una crescita importante dei depositi di Sbv, che però, in seguito, come vedremo, si sarebbero trasformati in un boomerang.

Il punto da cui partire è che il ricorso al debito da parte delle imprese non segue le stesse logiche di quello delle famiglie. Nelle famiglie il debito è sempre finalizzato a una spesa specifica: l’acquisto di una casa, di un’automobile, di mobili o elettrodomestici. Nelle imprese, invece, l’indebitamento segue anche logiche finanziarie come l’obiettivo di assicurarsi della liquidità da mettere da parte o la tentazione di speculare sull’esistenza di tassi di interesse diversificati.

Il dollaro rimane la valuta mondiale di riferimento. Foto SK-Pixabay.

La speculazione sui tassi d’interesse

Fatto sta che, dopo il 2008, quando le banche centrali di tutti i più importanti paesi industrializzati abbassarono i tassi di interesse e aumentarono la massa di denaro in circolazione, molte imprese ne approfittarono per accumulare riserve monetarie. In altre parole, si indebitavano, approfittando delle condizioni favorevoli, non per affrontare spese specifiche, ma per incamerare denaro da mettere da parte o per effettuare investimenti finanziari che garantissero un tasso di interesse più alto di quello pagato. E, per assicurarsi lunghi tempi di restituzione, non rastrellavano i prestiti tramite il sistema bancario, ma quello finanziario, ossia il sistema delle borse che permette di ottenere prestiti dalla vendita di obbligazioni che generalmente prevedono tempi lunghi di restituzione. Così si sono avuti anni in cui le imprese prendevano soldi dai soggetti che operavano nelle borse e ne depositavano una buona parte nelle banche. Il che spiega perché, fra il 2010 e il 2020, il sistema bancario ha conosciuto un boom di depositi, come conferma il caso Svb che li ha visti passare da 4 miliardi di dollari nel 2006, a 189 miliardi nel 2021. Come tutte le banche, anche Svb ha usato parte dei soldi ricevuti per concedere prestiti alle imprese. Ma un’altra parte la investiva, ossia la dava in prestito a grandi entità, ad esempio lo stato, tramite l’acquisto di obbligazioni. Una forma di investimento molto praticata dal sistema bancario, non solo perché ritenuta sicura in quanto i colossi, specie gli stati, difficilmente falliscono, ma anche perché, in caso di bisogno, permette di rientrare facilmente in possesso del proprio denaro. Le obbligazioni, infatti, hanno la caratteristica di poter essere cedute ad altri in qualsiasi momento, secondo il prezzo corrente. Per di più quelle emesse da entità particolarmente forti come gli stati, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate come collaterale, ossia come garanzia, nel caso in cui si abbia bisogno di ottenere un prestito. Evenienza, questa, che ricorre di continuo nel caso delle banche, che si fanno costantemente prestiti fra loro per esigenze di cassa. Ma solo dietro fornitura di garanzie ossia depositando obbligazioni o altri titoli che la banca creditrice può vendere nel caso in cui quella debitrice non restituisca le somme nei tempi pattuiti.

Anche Svb aveva fatto il pieno di titoli emessi dal governo statunitense e tutto è andato bene finché le banche centrali hanno continuato con la loro politica di bassi tassi e alta quantità di moneta in circolazione. Nel corso del 2022 il vento è, però, mutato a causa dell’inflazione tornata a fare capolino. Per arginarla, le banche centrali, prima fra tutte quella statunitense, hanno deciso di frenare l’emissione di denaro e, soprattutto, di innalzare i tassi di interesse. È stata proprio questa nuova politica a provocare la frana che ha travolto Svb, tramite una serie di effetti paradosso.

Quando una banca fallisce

In via di principio l’aumento dei tassi di interesse è conveniente per le banche perché permette di concedere prestiti a tassi più elevati. Ma il rovescio della medaglia è che, contemporaneamente, si attivano fenomeni che possono ledere la loro stabilità. Nel caso della Svb i fatti avversi sono stati due: l’aumento dei prelievi da parte dei correntisti e la svalutazione dei titoli detenuti. Il primo fenomeno è stato provocato dal fatto che l’aumento dei tassi di interesse non stimolava più i correntisti di Svb a indebitarsi in borsa per ottenere liquidità. Ora preferivano affrontare le proprie esigenze prelevando i soldi che avevano accumulato in banca sui propri conti correnti. In effetti, già nel 2022 Svb aveva subito un calo dei depositi del 5%. Contemporaneamente, la banca californiana cadeva vittima del secondo fenomeno: l’aumento dei tassi di interesse aveva, infatti, costretto il governo degli Stati Uniti ad applicare rendimenti più alti sui titoli di nuova emissione. Il che faceva perdere valore ai titoli in circolazione che garantivano tassi di interesse più bassi. Un po’ come succede nel mercato dell’auto: quando compaiono modelli nuovi, quelli vecchi perdono immediatamente valore perché più nessuno li vuole. Lo stesso è successo a Svb che si è ritrovata nel cassetto una montagna di titoli svalutati. Tant’è che l’8 marzo 2023, nel tentativo di fare cassa, ha venduto titoli di stato precedentemente acquistati per 21 miliardi di dollari incassandone però solo 19. È stato l’inizio della fine perché i titoli rappresentano il capitale di una banca: se si svalutano questi, l’intera banca perde valore. Una situazione che mette in moto un meccanismo fallimentare che si autoalimenta. Sentendo che la propria banca non se la passa bene, i correntisti si affrettano a ritirare i propri depositi temendo di perderli. Ma così facendo accelerano il rischio di fallimento, perché nessuna banca è in grado di rifondere i propri correntisti se si presentano in massa. Così, il 9 marzo, quando è stata presa d’assalto dai suoi correntisti, intenzionati, in una sola mattina, a prelevare qualcosa come 42 miliardi di dollari, Svb è stata costretta ad abbassare la saracinesca. Il 10 marzo le autorità finanziarie hanno decretato il suo fallimento e l’hanno messa in vendita.

Il 27 marzo è stata acquistata da First Citizens Bank e il caso si è chiuso. Anche se, nel frattempo, anche Signature Bank, un’altra banca regionale statunitense, è fallita.

Franchi svizzeri: anche la Svizzera – nella primavera 2023 – ha avuto problemi con le proprie banche. Foto Claudio Schwarz-Unsplash.

Intanto, in Svizzera…

Il problema, però, era che anche al di qua dell’Atlantico si stavano accumulando nubi sul sistema bancario. Di scena era niente po’ po’ di meno che Credit Suisse, un colosso da 50mila dipendenti che gestiva una ricchezza valutata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Purtroppo per questa, stavano venendo al pettine una serie di scandali e notizie di mala gestione che minavano la sua reputazione fino ad indurre un numero importante di clienti a ritirare i propri depositi. Già negli ultimi mesi del 2022 le ricchezze affidate alla banca si erano assottigliate di 119 miliardi, tant’è che attorno al 10 marzo 2023, al fine di tamponare le perdite, il colosso era stato costretto a rivolgersi alla Swiss National Bank per ottenere un prestito da 54 miliardi di dollari. Se dagli Stati Uniti non fossero arrivati segnali inquietanti riguardanti il sistema bancario, forse le autorità svizzere avrebbero preso altro tempo per vedere se Credit Suisse ce l’avesse fatta da sola a superare le proprie difficoltà. Ma il fallimento delle due banche americane aveva creato nervosismo nel mondo finanziario e c’era il timore che si potessero verificare iniziative di rappresaglia capaci di far traballare l’intero sistema bancario. È risaputo, infatti, che il mondo della speculazione dispone di mezzi per guadagnare anche sul crollo dei prezzi e quando decide di farlo mette in atto una serie di operazioni che creano sfiducia attorno alla preda designata, condizione per ottenere il crollo dei prezzi su cui è stato scommesso. Più tardi si sarebbe saputo che manovre del genere erano avvenute perfino attorno a Deutsche Bank, ed è stato così che, per evitare il divampare di un fuoco indomabile in un settore chiave della propria economia, il 19 marzo le autorità svizzere hanno preferito agire d’anticipo facendo acquistare Credit Suisse dal colosso Usb, la più grande banca del paese. Poche settimane dopo, nel mese di aprile, negli Stati Uniti un’altra banca regionale, la First Republic, ha alzato bandiera bianca, ma senza effetti di sistema perché nel giro di poco è stata acquistata da JP Morgan, una delle più grandi banche al mondo. E poiché non sono seguiti altri fallimenti, si è considerato concluso il mini terremoto bancario della primavera 2023.

I motivi delle crisi bancarie

Gli analisti si stanno ancora confrontando sulle cause delle crisi bancarie, riconducibili, schematicamente, a tre grandi ambiti. Il primo riguarda le lacune legislative. Secondo molti esperti, i controlli sulle banche non sono abbastanza stringenti, mentre sono ammesse forme di gestione azzardate che amplificano il rischio di bancarotta. Il secondo  aspetto è l’eccessiva libertà lasciata alla speculazione di fare il bello e il cattivo tempo, attraverso manovre che, a seconda delle convenienze, fanno oscillare artificiosamente il valore delle banche ora verso l’alto, ora verso il basso, condizionando il clima di fiducia nei loro confronti. Il terzo aspetto riguarda le politiche delle banche centrali. Secondo molti analisti, le banche centrali non avevano motivo di alzare i tassi di interesse in maniera così repentina ed elevata. L’intento dichiarato è stato la lotta all’inflazione, ma secondo il pensiero di molti si è trattato di una misura sbagliata. L’aumento dei tassi di interesse trova giustificazione quando i prezzi sono spinti verso l’alto da un eccesso di domanda di beni. In tal caso la manovra può funzionare perché l’aumento del costo del denaro riduce gli acquisti a debito. Ma l’inflazione di oggi è dovuta all’aumento di prezzo dei prodotti energetici, per cui non serve a niente frenare la domanda. L’effetto che ne può derivare è la stagflazione, un male addirittura peggiore di quello che si intende combattere perché la stagflazione è la persistenza dell’inflazione con l’aggiunta della recessione.

Sedi bancarie. Foto Miquel Parera – Unsplash.

La funzione delle banche

Verosimilmente si può concludere che l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali è stato l’aspetto contingente che ha fatto da detonatore a una situazione perennemente a rischio di esplosione. Oggi le banche non sono più pensate come soggetti che fanno da tramite fra chi risparmia e chi ha bisogno di soldi, ma come macchine congegnate per permettere ai loro azionisti e agli speculatori di potersi arricchire con qualsiasi mezzo. La soluzione sarebbe il ritorno alla funzione sociale delle banche, ma a quel punto dovremmo rimettere in discussione tutto: compiti, vigilanza e proprietà.

Francesco Gesualdi

 




La fine dell’acqua


Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Visibile o nascosta

Di per sé l’acqua è una risorsa rinnovabile che, in teoria, non dovrebbe scarseggiare. Ma, come ogni altra risorsa, ha anch’essa i suoi ritmi e le sue regole che, se violate, mandano in crisi l’intero equilibrio. Quando parliamo di acqua dolce il nostro immaginario corre ai fiumi e ai laghi, ma il 99% dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta è nascosta: per il 69% si trova nelle calotte polari e nei ghiacciai di montagna, ed è praticamente inutilizzabile. Un altro 30% si trova nel sottosuolo, ed è da lì che estraiamo gran parte dell’acqua che consumiamo. Ad esempio, le acque sotterranee forniscono il 49% di tutta l’acqua impiegata a livello mondiale per usi domestici e il 25% di quella utilizzata per l’irrigazione dei campi. Anche in Italia le acque del sottosuolo giocano un ruolo fondamentale, dal momento che forniscono l’85% dell’acqua potabile.

Anche sotto il Sahara esistono vaste riserve di acqua fino a ora inutilizzate perché poste a grande profondità. La loro formazione risale a migliaia di anni fa quando, per varie ragioni, rimasero intrappolate in mezzo a strati di materiali impermeabili. Per questo sono dette falde fossili che né crescono né diminuiscono di livello in quanto prive di comunicazione con la superficie terrestre. Quelle che invece utilizziamo per i nostri consumi, oltre a trovarsi a minori profondità, hanno una conformazione geologica che permette il loro continuo ricarico con acque di superficie, siano esse piogge o acque percolanti da fiumi e laghi. Ma i tempi di ricarica solitamente sono piuttosto lenti, per cui bisogna fare molta attenzione a quanta acqua si preleva. Quanto ai fiumi e ai laghi, i tempi di ricarica sono più veloci ma, in caso di fenomeni meteorologici avversi, la loro situazione può farsi critica da un mese all’altro perché il loro livello è direttamente dipendente dalla quantità di piogge che cadono e da come si comportano le nevi.

Oggi la sete di acqua da parte dell’umanità è più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta come conseguenza dell’aumento della popolazione e del desiderio di crescita economica. E mentre l’agricoltura assorbe il 70% di tutta l’acqua prelevata, e l’industria il 19%, anche l’acqua consumata in ambito domestico sta crescendo considerevolmente.

Secondo il World resources institut dal 1960 al 2014 l’aumento sarebbe stato del 600%, pur registrando ancora due miliardi di persone senza accesso ad acqua sicura e quattro miliardi di individui senza adeguati servizi igienici. Foto di un mondo attraversato da disuguaglianze a ogni livello. Tant’è che, mentre in America il consumo medio di acqua in ambito domestico è di 370 litri pro capite al giorno e in Europa di 124 litri, in Africa subsahariana arriva a malapena a 15 litri.

La siccità si espande e aggrava. Foto Jody Davis-Pixabay.

Inquinamento e clima

Il consumo è solo uno degli aspetti che incidono sulla disponibilità di acqua. Un altro è l’avvelenamento di fiumi, laghi e falde. Al primo posto sul banco degli imputati c’è il nostro assetto produttivo, sia di tipo industriale che agricolo. Un dossier pubblicato nel 2020 da Legambiente, dal titolo «H2O la chimica che inquina l’acqua», rivela che, dal 2007 al 2017, in Italia è stato immesso nei corpi idrici un totale di ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche riconducibili a metalli pesanti, sostanze organiche clorurate e pesticidi. Non c’è regione d’Italia che non abbia da raccontare la propria storia di avvelenamento. Il rapporto di Legambiente ne cita 46 relative agli ultimi 30 anni. Di particolare peso l’inquinamento da pesticidi (erbicidi e antiparassitari) che, essendo cosparsi direttamente sui suoli e nell’aria, finiscono più facilmente nei corsi d’acqua e nelle falde, grazie alla percolazione e all’effetto dei venti.

L’indagine condotta dall’Ispra nel 2020 su 4.388 punti di campionamento, ha trovato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali monitorate e nel 23,3% delle acque sotterranee. Le sostanze rinvenute sono 183, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. Fra essi anche l’atrazina, proibita già dal 1992, a dimostrazione di come gli inquinanti persistano a lungo nell’ambiente.

Intanto nuove minacce si affacciano all’orizzonte. In particolare la contaminazione da microplastiche che non riguarda solo i mari, ma anche i fiumi e le falde sotterranee. A questo riguardo la legge non ha ancora assunto iniziative significative forse perché non sa cosa fare.

Tuttavia, la minaccia di ultima generazione che più preoccupa si chiama cambiamenti climatici. Com’è noto, a causa dell’accumulo di anidride carbonica in atmosfera provocato dal nostro consumo eccessivo di combustibili fossili e dal numero spropositato di allevamenti animali che rilasciano enormi quantità di metano, negli ultimi 100 anni si è avuto l’aumento della temperatura terrestre di 1,1 gradi centigradi con ripercussioni sui venti, sugli spostamenti di aria fredda e aria calda e quindi sulle piogge. Nel 2015 tutti i paesi del mondo firmarono lo storico accordo di Parigi per impegnarsi ad agire per non fare crescere la temperatura terrestre oltre il grado e mezzo centigrado. Ma, a distanza di sette anni, non si vedono ancora passi significativi ed è alta la paura che il limite venga oltrepassato facendo avverare ciò che i climatologi hanno sempre pronosticato. Ossia il verificarsi di eventi estremi con zone del mondo che andranno incontro a inondazioni per eccesso di piogge e zone che invece andranno incontro a processi di desertificazione per assenza di precipitazioni. La zona del Mediterraneo, assieme all’Africa subsahariana e a vaste aree delle Americhe, sono le aree in cui le piogge si diraderanno sempre di più, come del resto l’Italia sta già sperimentando.

Senza pioggia, senza neve

L’Istat certifica che, nel 2020, la precipitazione totale annua nei capoluoghi di provincia è stata pari a 769 mm, in media 94 mm in meno sul valore medio 2006-2015. Differenze negative si registrano in 79 città con in testa Napoli (meno 423,5 mm), Catanzaro (meno 416), Pordenone (meno 401,3).

Sull’arco alpino, sopra il nord est e sulla pianura Padana, non cade seriamente acqua da oltre due anni. Nell’inverno appena trascorso la neve si è ridotta del 75% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Le temperature medie si sono alzate di oltre tre gradi e i ghiacciai si stanno squagliando.
Secondo il Comitato glaciologico italiano, negli ultimi 50 anni la superficie dei ghiacciai del nostro paese ha registrato una perdita del 30% con gravi conseguenze per la ricarica dei fiumi, soprattutto durante la stagione estiva. In questo 2023, già a febbraio, il Po ha registrato un calo della portata del 70% a causa della riduzione massiccia di piogge.

Di fronte ai problemi di difficile soluzione, la politica ha la tendenza a mettere la testa sotto la sabbia e, quando proprio deve fare qualcosa, si limita ad aspetti contingenti. Ad esempio, nell’aprile 2023, di fronte a una crisi idrica che aveva già procurato milioni di euro di danni all’agricoltura, il governo italiano ha deciso di intervenire nominando un commissario straordinario fondamentalmente incaricato di aumentare le riserve ripulendo dighe e invasi di acqua. E volendosi spingere un po’ più in là, attivando altri desalinizzatori oltre quelli già esistenti. Ma basterà? E soprattutto: funzionerà? La ripulitura degli invasi non aumenta la disponibilità di acqua, piuttosto cerca di evitare carenze catastrofiche durante i mesi più siccitosi. Quanto ai desalinizzatori, essi aumentano senz’altro la disponibilità d’acqua, ma a quale costo? Per togliere il sale dall’acqua marina ci vuole energia elettrica, una risorsa energetica a cui si fa sempre più riferimento per qualsiasi tipo di attività: non solo l’illuminazione, l’alimentazione di elettrodomestici e delle attività industriali, ma anche il funzionamento dei computer, il riscaldamento, la mobilità. Un’energia elettrica che dovremo ottenere esclusivamente da fonti rinnovabili, ossia sole e vento, se non vorremo finire travolti dai cambiamenti climatici o vivere nell’incubo degli incidenti nucleari. Ma riusciremo a produrne abbastanza per un fabbisogno che cresce?

In Europa l’energia elettrica da sole e vento rappresenta appena il 22% del totale, dunque c’è ancora molta strada da fare anche solo per sostituire i consumi attuali. E quanti pannelli e quante pale eoliche serviranno quando l’energia elettrica dovrà sostituire anche il gas e la benzina che utilizziamo per il riscaldamento domestico e per i motori delle nostre auto? Nel caso dei desalinizzatori, poi, c’è anche il problema dei sali che accumulano dietro di sé. Dove buttarli? In mare è la prima risposta. Ma per quanto tempo vorremo continuare a fare scelte di cui non conosciamo gli effetti nel lungo periodo? Evidentemente, la lezione dei cambiamenti climatici non ci ha ancora insegnato nulla.

Il ghiacciaio del Denali in Alaska. Anche qui i ghiacciai sono in ritirata. Foto Joris Beugels-Unspash.

L’acqua persa per strada

In ogni caso, prima di scomodare il mare, faremmo bene a recuperare l’acqua che perdiamo. Quella delle tubature idriche, prima di tutto. L’Istat certifica che, a causa di tubature fatiscenti, in Italia perdiamo il 42,2% di tutta l’acqua immessa in rete. Il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno. Secondo studi citati dall’Istituto Ambrosetti, l’ammodernamento del sistema idrico italiano richiede investimenti per 65 miliardi di euro, ma il Pnrr ne ha stanziati solo 2,9.

Fra le acque che perdiamo non dobbiamo dimenticare quelle piovane che scivolano sui nostri tetti e finiscono nelle fogne. Si tratta di enormi masse di acqua che potremmo recuperare dotando le case di cisterne. Una pratica che sta tornando in uso in vari paesi europei come mostrano i casi di Germania, Francia, Austria. Acqua utilizzata per annaffiare i giardini, per lavare le auto, ma anche per gli scarichi dei Wc.

Va comunque tenuto conto che nessun rimedio rispetto all’acqua può prescindere da un altro imperativo che è quello di ridurre, ricordandoci che consumiamo acqua non solo quando ci laviamo o cuciniamo, ma anche quando ci nutriamo, ci vestiamo, ci illuminiamo. Ci vogliono 1.500 litri di acqua per ottenere un etto di carne di manzo, 2mila litri per una maglietta di cotone, 14mila litri per un paio di stivali in cuoio. Se mettiamo insieme tutta l’acqua che sta dietro a ciò che consumiamo viene fuori una media giornaliera di 5mila litri al giorno pro capite per noi abitanti dell’emisfero benestante.

Il dopante della tecnologia

Dunque, l’acqua si salva anche accettando di produrre e consumare di meno in ogni ambito del nostro vivere civile. Ma da quest’orecchio non ci sentiamo, non solo perché siamo attaccati a un’idea di benessere che si misura solo in termini di consumi, ma anche perché la crescita è il motore di questo sistema, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale come mostra il tema dell’occupazione.

Non volendo affrontare il vero nocciolo della questione, ci arrampichiamo sugli specchi della tecnologia ormai elevata a livello di idolo: desalinizzare l’acqua marina, sequestrare l’anidride carbonica, riprodurre il sole in laboratorio.

Ma la tecnologia da sola non ci salverà. Al contrario, rischia di diventare il dopante che ci conduce alla morte. Meglio accettare il senso del limite e cominciare a chiederci come riorganizzarci in modo da garantire una vita dignitosa a tutti utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando quanto basta. Dobbiamo affrettarci, il tempo stringe.

Francesco Gesualdi

In Italia, le tubature idriche sono un anello debole della distribuzione dell’acqua: troppo perdite. Foto Daniel Kirsch-Pixabay.

 




Popolazione e ambiente


In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popolazione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Inumeri non sempre sono veritieri e niente lo dimostra meglio dell’argomento popolazione. Ad esempio, stando alle rilevazioni, la nazione più popolata del pianeta risulta essere la Cina che ospita 1 miliardo e 450 milioni di persone. Ma se mettiamo la popolazione a confronto con il territorio disponibile, scopriamo che lo stato a più alta densità, ossia con più alta concentrazione di popolazione, è il Principato di Monaco con 18mila persone per chilometro quadrato. La Cina arriva 84ª con 151 persone per chilometro quadrato. Un numero che la colloca dopo Malta (8ª), l’Olanda (27ª), la Gran Bretagna (52ª), la stessa Italia che si trova al 75° posto.

In conclusione, la popolazione la si può guardare sotto varie angolature, con graduatorie che cambiano di continuo.

 

L’equilibrio perduto

Con il passare dei decenni, un problema si è fatto sempre più acuto, quello che riguarda l’impatto della crescita demografica sull’ambiente. Salvo casi straordinari, come quello dell’isola di Pasqua che, attorno al 1400, fu deforestata per fare spazio alle statue note come moai, l’umanità ha sempre vissuto in equilibrio con il pianeta.

In altre parole, il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti avveniva in maniera tale da rispettare la capacità della natura di rigenerare le risorse rinnovabili ed assorbire le sostanze di scarto. Un equilibrio che però ha cominciato a rompersi nel corso del secolo scorso, come conseguenza di un sistema economico che, in maniera ossessiva, aveva come unico obiettivo la crescita di produzione e consumo noncurante dei limiti del pianeta. Un’ossessione che ci ha portato a tutti i disastri ambientali che conosciamo oggi. In particolare, all’esaurimento di risorse, sia di tipo rinnovabile che non rinnovabile, e all’eccesso di rifiuti, primo fra tutti l’anidride carbonica il cui accumulo in atmosfera sta provocando i cambiamenti climatici.

Lentamente, stiamo capendo che questi ultimi sono un problema serio, ma quello che ancora ignoriamo è che le conseguenze non saranno uguali per tutti. Qualche assaggio, è vero, lo abbiamo anche in Europa con perdita dei ghiacciai, lunghi periodi di siccità, straripamento di fiumi, ma i veri drammi stanno avvenendo e, sempre di più, avverranno altrove.

Geografi e climatologi ci avvertono che le aree più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici saranno quelle del Sud del mondo con effetti diversificati: in alcune regioni il problema maggiore sarà l’aridità, in altre l’eccesso di acqua.

Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e subsahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare.

Mentre metà della popolazione africana già vive in condizione di insicurezza alimentare, si teme che i cambiamenti climatici ridurranno le rese agricole del 30% entro il 2050. E, tuttavia, l’aumento di popolazione farà crescere la richiesta di cibo del continente del 50%.

L’Asia meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa.

In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione di tutto ciò che i venti troveranno lungo il proprio percorso. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avveleneranno le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità. Le zone più a rischio sono le coste solcate dai delta. In particolare, si teme per il Bangladesh, paese piatto e densamente popolato con una grande quantità di famiglie ancora dipendenti dall’agricoltura. Se il livello del mare dovesse innalzarsi di 45 centimetri, come potrebbe succedere se non si riuscisse ad arrestare la crescita della temperatura terrestre, l’11% del territorio bengalese potrebbe essere invaso dal mare, con gravissime conseguenze umane, sociali ed economiche. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

Ciò che stiamo imparando dai cambiamenti climatici, se mai ce ne fosse bisogno, è che i processi naturali trascendono i confini politici creati dagli umani. Effetto serra, venti, correnti marine, sono fenomeni di tipo planetario che possono avere la propria origine in un punto del globo e provocare i propri effetti in un altro.

Le emissioni di CO2

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione europea se ne intesta un altro 24%. In termini di popolazione, gli Usa rappresentano solo il 4,2% della popolazione mondiale, mentre l’Unione europea il 5,6%. Da un punto di vista storico la Cina ha contribuito solo per il 13% delle emissioni globali, mentre la sua popolazione rappresenta il 18% della popolazione complessiva.

Quanto all’Africa, la sua partecipazione alle emissioni di CO2 è stata appena del 2%, ma la sua popolazione rappresenta oltre il 16% di quella mondiale.

La dimostrazione pratica di come i ricchi abbiano inquinato e i poveri ne paghino le conseguenze.

Oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica in termini assoluti è la Cina che si intesta

il 27% delle emissioni annuali globali. Per correttezza dovremmo precisare che buona parte delle sue emissioni
andrebbero ascritte a consumatori di altre nazioni perché nella nuova geografia internazionale del lavoro, la Cina è stata ormai eletta a fabbrica mondiale.

Ma, pur sorvolando su questo aspetto, se distribuiamo le tonnellate di anidride carbonica emesse dalla Cina per i suoi abitanti, otteniamo un’emissione pro capite annuale di 7,3 tonnellate. Gli statunitensi, invece, ne producono mediamente 14,5 a testa, mentre gli europei 6.

Si calcola che, per rimanere in equilibrio con il pianeta, nessuno dovrebbe emettere più di 2,2 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno, per cui la Cina è come se avesse una popolazione 3,3 volte superiore a quella che di fatto ospita. La popolazione degli Stati Uniti, invece, è come se fosse 6,5 volte più alta mentre quella dell’Unione europea 2,7 volte più elevata.

In altre parole, prendendo come riferimento le emissioni ammissibili, è come se la Cina ospitasse 4,7 miliardi di individui invece di 1,4, gli Stati Uniti 2,1 miliardi invece di 332 milioni e l’Unione europea 1,2 miliardi invece di 447 milioni.

La conclusione è che, contando le teste, oggi la Cina risulta avere una popolazione quattro volte più alta degli Stati Uniti. Contando le emissioni pro capite di anidride carbonica è come se ne avesse solo il doppio. Quanto all’Africa, che emette anidride carbonica corrispondente a una sola tonnellata a testa, è come se avesse 650 milioni di abitanti invece di 1,4 miliardi.

L’impronta ecologica

Molti altri aspetti potrebbero essere presi in considerazione per valutare la dimensione reale di ogni nazione: il consumo di acqua, il consumo di risorse e di cibo, i rifiuti prodotti. Ma ce n’è uno che in qualche modo li ricomprende tutti ed è la così detta impronta ecologica. Un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla natura.

Più precisamente, l’impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. Purtroppo, noi abbiamo perso il contatto con la natura e abbiamo dimenticato che gran parte dei nostri consumi proviene dalla terra. L’esempio più evidente è il cibo. Ma anche la carta affonda le sue radici nella terra perché proviene dagli alberi. Perfino l’anidride carbonica che esce dalle nostre marmitte può essere espressa in metri quadrati di terra, perché è riciclata dalle piante. Ad esempio ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell’intervento di 5 metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza ogni anno 8 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,8. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari.

Se prendiamo l’insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un’impronta di 1,5 ettari. All’incirca un terzo della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l’impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è l’80% più grande di quella ammissibile. Come dire che un pianeta terra non ci basta più. Già ora ce ne servirebbero quasi due. Non a caso l’anidride carbonica si sta accumulando nell’atmosfera per l’insufficiente presenza di organismi vegetali capaci di assorbirla.

In conclusione, se valutiamo la popolazione delle singole nazioni in base alla loro impronta ecologica, cambia tutto.

La popolazione cinese si rivaluta dell’80% passando da 1,4 miliardi a 2,6 miliardi. Quella statunitense si rivaluta del 433%, passando da 332 milioni a 1,7 miliardi. Quella italiana si rivaluta del 146% passando da 59 milioni a 145 milioni. Al contrario, quella indiana si riduce del 20% passando da 1,4 miliardi a 1,1.

Fertilità versus eccessi

Troppo spesso attribuiamo la responsabilità degli squilibri naturali a chi fa molti figli. Ma dimentichiamo che le popolazioni ad alta fertilità sono anche quelle con tassi di consumo e di inquinamento al di sotto della soglia di sostenibilità.

Per risolvere i problemi dell’umanità, piuttosto che puntare il dito contro di loro faremmo bene a mettere in discussione i nostri eccessi.

Francesco Gesualdi
(seconda puntata – fine)