Il futuro dell’Ia e il nostro
Da poco più di un anno l’Intelligenza artificiale (Ia) è diventata tema quotidiano. Quali conseguenze comporta questa rivoluzione? E come si affronteranno gli altissimi costi ambientali che essa genera?
Quando, nel 1867, Joseph Thomson scoprì l’elettrone non poteva immaginare che la sua scoperta avrebbe aperto la strada a una valanga di ricerche scientifiche che avrebbero rivoluzionato il nostro modo di vivere e lavorare. Il tema di fondo è l’elettronica. Essa ha trovato così tanti ambiti di applicazione da avere dato vita a tantissimi settori, fra cui le telecomunicazioni, l’aereospaziale, le connessioni a distanza, l’elaborazione dati e, ultima arrivata, l’intelligenza artificiale (Ia). Ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria tecnologia, i propri materiali di base, i propri supporti tecnici, ma anche i propri tempi di evoluzione. E, mentre certi settori hanno ormai raggiunto un certo grado di maturità, altri sono ancora in piena evoluzione. Per questo sono terreno di scontro e di contesa non solo fra imprese, ma addirittura fra Stati. Perché controllare quelle tecnologie significa, di fatto, dominare l’intera economia in un sistema che non vive di ciò che ha raggiunto, ma di ciò che deve ancora venire. Non a caso il motore del capitalismo è l’innovazione, fondamentale non solo per accrescere gli spazi produttivi, ma anche per abbattere i costi di produzione e quindi vincere l’eterna battaglia per la concorrenza.
Dal militare al civile
Senza dimenticare che, quando l’innovazione non basta a garantire il predominio, l’arma di riserva è la supremazia militare dipendente anch’essa dalla superiorità tecnologica.
In effetti, i confini fra civile e militare si fanno sempre più sottili, non solo perché la sfera economica chiede aiuto a quella militare quando non ce la fa a dominare la situazione con le strategie classiche di tipo economico, ma anche perché le invenzioni nate in ambito militare si sono, in seguito, estese a quello civile. Ne sono una dimostrazione la storia del Gps o di Internet ma anche di molte altre tecnologie. Del resto, sono ormai tantissime le imprese informatiche inserite contemporaneamente in un campo e nell’altro.
Dati e data center
Fra le novità tecnologiche in via di definizione, che daranno forma al futuro, c’è senz’altro la gestione centralizzata dei dati e l’intelligenza artificiale. La gestione dei dati si riferisce alle tecniche per raccogliere, archiviare, organizzare, proteggere ed elaborare tutte le informazioni utili allo svolgimento della propria attività. Nei primi anni di utilizzo di massa del computer, la soluzione più naturale di gestione dei dati consisteva nel dotarsi, struttura per struttura, di apparecchiature proprie, sufficientemente capienti per le proprie esigenze. Con l’evolversi della tecnologia, la soluzione più utilizzata è diventata quella dell’immagazzinamento centralizzato, ossia il deposito dei propri dati in megastrutture, i data center. Questi sono gestiti da terzi che di mestiere affittano spazi informatici capaci di immagazzinare dati ed elaborarli secondo le esigenze dei propri clienti. Un esempio banale potrebbe essere la custodia di dati relativi a clienti e fornitori con annesso servizio di ragioneria per la tenuta conti, gestione dei pagamenti e incasso delle fatture. E, per imprimere un tocco di simpatia a questa nuova politica gestionale, il trasferimento a distanza dei dati e relativa lavorazione è stato battezzato cloud computing che potrebbe essere tradotto come «elaborazione fra le nuvole».
La convenienza delle aziende, o di chiunque altro deve gestire un numero importante di dati, a trasferire le proprie attività informatiche nei data center, piuttosto che gestirle in proprio, è una questione di risparmio economico e di efficienza.
In ambito informatico, la tecnologia evolve rapidamente, bisogna spendere in continuazione per essere al passo con le ultime novità. Alla fine, risulta più conveniente appaltare il servizio a un ente terzo che, in cambio di un affitto annuale, garantisce spazi adeguati e tecnologie aggiornate.
La rivoluzione dell’Ia

La tecnologia informatica che oggi sta di nuovo rivoluzionando la nostra esistenza si chiama intelligenza artificiale, che si può definire coma la capacità delle macchine di svolgere compiti che, normalmente, richiedono capacità di ragionamento, apprendimento e creatività tipiche dell’essere umano. Le sue applicazioni stanno avanzando in ogni settore: dalle auto senza conducente, ai robot che svolgono funzioni infermieristiche, fino ai call center addetti ai rapporti con il pubblico o agli studi di assistenza legale. In ambito quotidiano molti stanno conoscendo l’intelligenza artificiale tramite l’uso di piattaforme come ChatGPT capaci di conversare con chi le interpella, di rispondere a domande, di creare testi, di fornire immagini, di tradurre lingue e molto altro. Ed è inutile dire che l’intelligenza artificiale sta diventando un caposaldo anche in ambito militare, con tutti i rischi che possono esserci ad affidare alle macchine decisioni di morte che non dovrebbero essere affidate neanche agli umani. In effetti, l’intelligenza artificiale, tanto è strabiliante per ciò che è capace di fare, tanto pone problemi sul piano morale e politico, considerato che attenta alla democrazia stessa. Essa, infatti, è capace di generare e veicolare informazioni, foto e filmati falsi o di censurare, ossia bloccare la circolazione di opinioni sgradite al potere o non condivise dai gestori delle piattaforme social. Del resto, è già abbastanza inquietante che miliardi di informazioni – riguardanti strutture pubbliche, aziende, singoli cittadini – siano concentrate in poche strutture controllate da una manciata di aziende informatiche che possono usare i nostri dati come merce da vendere ai soggetti più vari: aziende pubblicitarie e commerciali, partiti politici, servizi segreti. La nostra intimità e i nostri valori violati per vile denaro.
Tutto in mani private
Gli investimenti mondiali nei data center sono quasi raddoppiati dopo il 2022 raggiungendo i 500 miliardi di dollari nel 2024. Il risultato è che, a oggi, si contano all’incirca 12mila data center a livello globale, per il 45% localizzati negli Stati Uniti. Palazzi interi ricolmi di milioni di componenti informatiche (computer, hard disk e memorie), che però non sono mai abbastanza per i bisogni di un’intelligenza artificiale in continua evoluzione. Per questo si vanno strutturando centri di elaborazione dati sempre più grandi e complessi, i cosiddetti data center hyperscale, che inducono un numero crescente di soggetti economici di tutto il mondo a trasferire i propri dati presso di loro al fine di ottenere servizi migliori in tempi più rapidi.
Il rovescio della medaglia di tutto questo è la concentrazione di potere: pochi gestori privati – Amazon, Google, Microsoft, Meta, TikTok, Alibaba, Apple – di fatto hanno il controllo di intere economie, con possibilità di decidere se farle funzionare o sabotarle (MC ha dedicato al tema un dossier ad agosto 2024, ndr). Un tema che, purtroppo, non sembra interessare i governi dal momento che in nessuna parte del mondo si è aperta la discussione sulla necessità di considerare i servizi informatici come servizi strategici da fare gestire a soggetti pubblici operanti sotto controllo democratico. Il massimo della preoccupazione espressa dai governi è la nazionalità dei gestori partendo dall’assunto che non presentano rischi se risiedono in Stati amici o, meglio ancora, se appartengono al proprio Paese. Una posizione in linea con il patriottismo produttivo oggi tanto in voga. E non per finalità ambientali o sociali, ma come strategia di difesa delle imprese di casa propria in un mondo sempre più dominato da scarsità di risorse e iniqua distribuzione della ricchezza che, di fatto, impedisce l’allargamento del mercato.
Per il dominio digitale
La battaglia per il dominio digitale si combatte essenzialmente fra Usa, Cina e Unione europea (ma un ruolo fondamentale lo ha Taiwan, ndr) e non riguarda solo i data center, ma anche la produzione di semiconduttori (i componenti base delle macchine informatiche) e il controllo delle materie prime utili a produrli. Ognuno cerca di garantirsi il primato nei tre ambiti tramite sovvenzioni alla produzione, dazi, tutela dei brevetti, accordi di approvvigionamento commerciale, limiti all’esportazione. In questa chiave vanno letti i fondi stanziati negli ultimi anni da Usa, Cina, e Unione europea a favore della propria industria elettronica, o i dazi imposti da Usa e Unione europea verso i semiconduttori cinesi o le restrizioni introdotte dalla Cina sull’esportazione dei minerali necessari alla produzione di materiale informatico, di cui ha grande disponibilità.
Il sistema insegue la tecnologia perché è funzionale alla logica concorrenziale delle imprese, ma, per farcela accettare, ci dicono che serve a garantirci una vita migliore. Su quest’affermazione si dovrebbe discutere ma, pur dandola per buona, sappiamo per esperienza che le innovazioni tecnologiche aprono sempre nuove problematiche di carattere sociale e ambientale, se non morale.
A maggior ragione la tecnologia digitale, rispetto alla quale le Nazioni Unite hanno istituito un organismo indipendente di esperti per individuare rischi e opportunità dell’intelligenza artificiale (Un office for digital and emerging technologies, Odet). La struttura, istituita nel corso del 2025, non ha ancora prodotto risultati, ma alcune problematiche sono già state accertate.
Consumi fuori controllo
Fra queste, c’è un elevato impatto ambientale per i bisogni esorbitanti di energia elettrica da parte dell’intelligenza artificiale e, quindi, dei data center.
Per la verità tutta la filiera informatica è altamente energivora, dall’estrazione dei minerali utili alla costruzione dei circuiti elettronici, fino al funzionamento dei computer ovunque siano dislocati. Ma l’intelligenza artificiale ha impresso un’accelerazione perché servono componenti sempre più complessi, e interconnessioni sempre più abbondanti.
L’Agenzia internazionale per l’energia (International energy agency) informa che, ad oggi, la produzione di semiconduttori assorbe l’1% dell’energia elettrica mondiale, mentre l’insieme dei data center assorbe l’1,5% del totale. Presi singolarmente i data center più grandi consumano la stessa quantità di energia elettrica assorbita da 100mila famiglie, mentre si stanno costruendo strutture che consumeranno quanto due milioni di famiglie corrispondenti a città come Los Angeles.
Dal 2017 a oggi l’elettricità assorbita dai data center a livello globale è cresciuta del 12% all’anno fino a raggiungere i 415 terawatt/ora nel 2024, consumati per il 45% negli Stati Uniti, il 25% in Cina, il 15% in Europa. Entro il 2030 l’assorbimento complessivo da parte dei data center raddoppierà alterando profondamente l’odierno rapporto fra settori produttivi.
Negli Stati Uniti, ad esempio, si prevede che i data center consumeranno un ammontare di energia elettrica superiore a quella assorbita dalle industrie dell’acciaio, del cemento e dell’alluminio messe insieme.
Per ragioni ambientali sarebbe utile che la maggiore quantità di energia elettrica richiesta venisse fornita solo dalle rinnovabili, ma considerazioni di carattere tecnico e finanziario spingono anche verso soluzioni di vecchio tipo come le centrali funzionanti con i tradizionali combustibili fossili e centrali nucleari. Con un aumento certo di emissioni di anidride carbonica e, nel caso del nucleare, di rischio radioattivo. Non a caso l’Agenzia internazionale dell’energia prevede che la CO2 mondiale collegata ai data center passerà da 175 milioni di tonnellate di oggi a 320 milioni di tonnellate nel 2030. E non è tutto.

La questione idrica
Quando si parla di elettricità, un elemento che si tende a trascurare è l’acqua. Essa svolge un ruolo fondamentale non solo nelle stazioni idroelettriche, ma anche nelle centrali termiche e nucleari (per il raffreddamento, ndr). Dunque, se aumenta la produzione di energia elettrica da fonti tradizionali, aumenta anche il consumo di acqua. L’Agenzia internazionale per l’energia stima che, allo stato attuale, il consumo mondiale di acqua collegato all’energia elettrica utilizzata dai data center corrisponde a 373 miliardi di litri all’anno. Ad essi vanno aggiunti altri 140 miliardi di litri per gli impianti di raffreddamento indispensabili al loro buon funzionamento e un’altra cinquantina di miliardi per la produzione di semiconduttori. Il totale fa 560 miliardi di litri all’anno che potrebbero diventare 1.200 nel 2030.
Un bilancio sicuramente pesante per un pianeta che si dimostra sempre più assetato e che vede crescere i data center proprio nei luoghi a maggiore criticità, com’è, ad esempio, lo stato della Virginia negli Stati Uniti. In un’intervista pubblicata dal Financial Times il 14 agosto 2024, la stessa Microsoft ha ammesso che il 42% dell’acqua che utilizza globalmente proviene da «aree a stress idrico», mentre Google ha dichiarato che il 15% dei suoi prelievi idrici avviene in «aree con alta scarsità di acqua».
Intelligenze
In conclusione, l’intelligenza artificiale è un’altra dimostrazione che nessuna innovazione tecnologica è priva di conseguenze. Dovremmo meditare se non sia meglio organizzarci per valorizzare a pieno l’intelligenza di tutti gli esseri umani piuttosto che affidarci all’intelligenza delle macchine che, per quanto sviluppata, è sempre ammaestrata e – quindi – stupida.
Francesco Gesualdi

















