«Offrirono olocausti con gioia e sacrificarono vittime di ringraziamento e di lode»

La parabola del «figliol prodigo» (18)

Il vitello dei patriarchi
Quasi tutte le volte che nella bibbia si parla dei patriarchi si aggiunge che hanno «greggi e armenti», che in ebraico suona «z’on ubaqàr», che la versione greca della Lxx traduce quasi sempre con «pròbata kài mòschoi». L’espressione indica bestiame adulto (buoi, mucche, vitelli) e minuto (pecore, capre, agnelli).
I patriarchi d’Israele possiedono «greggi e armenti» in abbondanza, perché sono sotto la benedizione di Yhwh. Possedere «greggi e armenti» è segno di potenza e dimostrazione di forza, come per Adonia fratello maggiore di Salomone (ma di diversa madre), che «immolò pecore, buoi e vitelli grassi» (1Re 1,9.19) per affermare pubblicamente la sua primogenitura nella successione al re Davide, vecchio, ma ancora vivo. Adonia si comporta come il giovane della parabola lucana: assume il regno quando il padre è ancora vivo, cioè lo uccide prima del tempo. Finirà male, ucciso per ordine di Salomone (1Re, 2,12-25).
Nel libro della Genesi in due racconti che narrano lo stesso fatto, ma in due modi diversi, troviamo presenti uno o più vitelli. Il primo (Gen 12,10-20) narra di Abramo che, giunto in Egitto, per paura di essere ucciso a motivo della bellezza di Sara sua moglie, su consiglio della stessa Sara, la fece passare per sua sorella. Di lei s’invaghì il faraone che la fece portare a corte per possederla: «Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini» (Gen 12,16). Il secondo fatto è simile, ma questa volta è Abram a fare passare Sara per sua sorella che così, per la seconda volta, sta per finire nelle mani di un altro. Ora è il tuo di Abimèlech, re di Gerar che se ne era invaghito. Quella notte, però, intervenne il Signore, fermò l’adulterio e fece restituire Sara al legittimo marito: «Allora Abimèlech prese greggi e armenti… li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara» (Gen 20,1-18, qui, v. 14). In Gen 21,27 Abramo sigilla un’alleanza con Abimèlech dandogli «greggi e armenti».
In tutti questi casi la bibbia greca della Lxx traduce il termine «armenti» con «mòschoi» (plurale): lo stesso termine che usa Lc 15,23: «mòschos» (singolare). Da ciò possiamo rilevare che il «vitello» segna in un certo senso la vita patriarcale. Ordinando ai suoi servi di «prendere il vitello», il padre della parabola lucana, si presenta come un patriarca che non ha più bisogno di nascondersi per paura, ma apre la sua casa per sigillare una gioia. Il padre continua la storia dei patriarchi, di cui la storia del figlio e del padre rappresenta una parabola e una sintesi.

Il vitello del sacrificio
Nel libro dell’esodo il «vitello» fa parte degli animali deputati al sacrificio di comunione: «Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi vitelli (mòschoi)» (Es 20,24). Il vitello è il segno della presenza di Dio perché gli è offerto e lo riceve in olocausto. Nel momento in cui il fumo del sacrificio si eleva sull’altare, esso diventa lo strumento della presenza di Dio che dopo averlo ricevuto lo restituisce come alleanza.
Il padre che chiede di prendere il vitello per il ritorno del figlio perduto, entra nella logica del sacrificio di comunione e celebra l’«eucaristia», nel senso più pieno e più profondo del sacramento: ringrazia Dio facendo festa. Il padre, attraverso il vitello, reintroduce il figlio nella storia patriarcale da cui si era tagliato fuori, andando via di casa, in un paese lontano, diventando figlio impuro e spurio del suo popolo. Il vitello diventa così il segno della riammissione del figlio nella santità della vita, nel-la purità del culto, nella realtà del suo popolo.
La traduzione italiana non evidenzia la particolarità della lingua greca: il padre non chiede di prendere soltanto un vitello, ma «il vitello, il grasso», che tutti conoscono, «quello grasso, tò siteutòn», quello e non un altro. Nell’espressione «il vitello, il/quello grasso», in greco si ha una costruzione per cui il soggetto con l’articolo è seguito dall’aggettivo anch’esso con l’articolo per dargli forza ed evidenza, ma anche eleganza stilistica.
Tale costruzione serve per mettere in evidenza che si tratta del vitello noto a tutti, forse tenuto all’ingrasso con cura speciale per un sacrificio (molto probabilmente) oppure per una circostanza particolare. Nulla ci vieta di pensare che il padre lo avesse tenuto in disparte per un sacrificio di comunione per il ritorno del figlio.
Nel libro dei Giudici (6,25-35) Gedeone costruisce un nuovo altare e vi immola «un vitello grasso» per riparare il peccato di idolatria dei suoi concittadini che avevano sacrificato a Bàal: un sacrificio di purificazione (v. 28). Il vitello, quello grasso, è una spia forse per dirci che in questo modo il figlio è reintegrato nell’ortodossia che aveva rinnegato, andandosene «in un paese lontano». Nel vangelo nulla è detto per caso o a casaccio. Il figlio aveva messo in moto un processo di morte, abiura, distruzione, blasfemia; ora tutto si annulla nel segno de «il vitello, quello grasso», sacrificato per la festa della risurrezione del figlio.

Il vitello dell’accoglienza ospitale
Altri due testi famosi ci sembrano più attenenti di ogni altro con il testo lucano. Il primo racconta la visita dei tre personaggi misteriosi ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Per dare risalto alla sua ospitalità accogliente: «All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e bello e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo» (v. 7). Il testo greco usa il termine «moschàrion», un diminutivo per dire «vitellino»; e per sottolineare la portata della scelta aggiunge due aggettivi che qualificano il vitellino come (letteralmente) «tenero e bello».
Qui il vitello è segno dell’ospitalità e accoglienza dello straniero, che nella cultura semitica è sempre il segno della Presenza di Dio. Rifiutare lo straniero è rifiutare Dio e porsi al di fuori della sua comunione. Prendendo «il vitello, quello grasso», il padre si mette sulla scia di Abramo e accoglie il figlio che torna come se accogliesse la Shekinàh di Dio. Ritorna da un paese lontano e straniero; ritorna da straniero perché aveva rinnegato il suo popolo; ora lo straniero è accolto da figlio e così il padre rende visibile la Presenza di Dio. Il Dio dei padri che il figlio aveva abbandonato, dilapidato, offeso, infangato con la sua vita di uomo «senza salvezza» (Lc 15,13), ora ritorna di nuovo nel figlio distrutto, che si presenta al padre non più come figlio, ma come servo, come straniero che chiede un salario per vivere. Il vitello non è solo lo strumento per la festa del ritorno del figlio, esso è il simbolo sacrificale di una gioia festosa perché è stata ricostituita la discendenza patriarcale e restaurata di nuovo la storia della salvezza che il figlio aveva spezzato. Il padre ritorna a essere il patriarca che riceve l’erede, mentre il figlio è il futuro che si riannoda al suo passato. Il figlio che era diventato «senza salvezza» (Lc 15,13) ora rientra a pieno titolo nella storia della salvezza patriarcale.

Il vitello dell’idolatria
Il secondo testo racconta del vitello d’oro (Es 32,1-6). La prima generazione che visse l’esperienza del deserto non esitò a lasciare il Signore durante l’assenza di Mosè che stava sul monte Sinai per ricevere la Toràh scritta e orale. Approfittando della lontananza del profeta, la folla riuscì a corrompere anche il sacerdote Aronne, che fuse l’oro raccolto tra la massa e costruì l’idolo per eccellenza, prototipo di tutte le prostituzioni future d’Israele e della chiesa: un vitello. Un vitello d’oro. In greco si usa il termine già visto: mòschos. Essi lo adorano come loro Dio e liberatore: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 32,4). La folla, complice il sacerdote Aronne, fece festa al nuovo Dio: «Domani sarà festa in onore del Signore. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere» (Es 32,5-6).
In Luca, nel banchetto di festa per il figlio ritornato, il vitello non è adorato, ma ucciso; non si fa festa «davanti al» vitello, ma perché il figlio minore è tornato alla vita. Con questo banchetto, il padre della parabola reintegra il figlio sottraendolo all’idolatria del vitello dietro al quale si era perduto, prostituendosi e lo restituisce all’adorazione del Signore e Dio di Mosè, il Dio dell’alleanza del Sinai. Colui che con un solo gesto aveva rinnegato la Toràh, ora nel sacrificio del vitello annienta tutte le idolatrie passate e si apre a un futuro da dove potrà fare festa davanti al Signore Dio suo e dei suoi padri.

Il vitello dell’odio
L’espressione intera «il vitello, il/quello grasso» ricorre tre sole volte e solo in Luca ed esclusivamente nella parabola del «figliol prodigo». Della prima ce ne stiamo occupando ora; la seconda volta è in bocca ai servi, che informano il figlio maggiore del ritorno del fratello e del fatto che «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso» (v. 17). In questa seconda citazione la costruzione in greco è uguale alla prima, cioè con la ripetizione dell’articolo si mette in evidenza la «singolarità» di «quel vitello».
Il figlio maggiore si arrabbia e si scoccia per il ritorno del fratello che viene a sconvolgere i suoi piani e accusa il padre con veemenza: «Per lui ha ammazzato il vitello grasso» (v. 30). In questa terza volta il testo greco cambia, non ripete più l’articolo davanti all’aggettivo. In italiano non si riesce a esprimere la differenza tra le due costruzioni: il vitello che nelle prime due citazioni precedenti era «quello e non un altro», qui, in bocca al fratello maggiore diventa «il vitello grasso», cioè un vitello qualsiasi, uno della mandria.
Al fratello maggiore da fastidio che il padre abbia preso «un» vitello per festeggiare il fratello. Anche se il padre avesse preso un pollo, o un uovo, o un dattero, per lui sarebbe stato sempre e comunque uno spreco perché il fratello non merita nulla. Il testo greco ci dice la diversità di atteggiamento interiore attraverso l’uso delle parole e per questo è importante studiare la scrittura e appropriarsi degli strumenti di lettura per cogliere anche le sfumature e non perdere il sapore della Parola che a noi giunge attraverso le parole. Per questo figlio maggiore, senza fede e senza umanità, il padre ha solo sperperato ancora una volta un pezzo del suo patrimonio per accogliere il figlio/fratello come ospite di Dio. In questo atteggiamento, il figlio maggiore è un vero ateo, un religioso praticante ateo: l’opposto del padre.
Il vitello della gioia
Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di ammazzare «il vitello, quello grasso» è «thýō» e significa «uccido/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5-7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale.
Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucaristico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spirituale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la risurrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte.
Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tradurre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la contemporaneità del mangiare con il giornire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occasione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è «euphràinō – giornisco/faccio festa», mentre il verbo «mangiare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende.
In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso senso di pienezza di soddisfazione, gioia irrefrenabile. A volte la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono andati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele della morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affamato (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individuale, ma per natura deve essere condivisa, perché è contagiosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ricco che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26).

Il vangelo della gioia
In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religione mettere in contatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il banchetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si esprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente.
La ragione del banchetto festoso è il figlio morto/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non giornisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’inizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza.
Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reintegrato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine perfetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10).

Una parabola della gioia perfetta
Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il padre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse.
Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece appena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è uno dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemosine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai davanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande peccatore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, mangiando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia penitenza, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso».
Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e disprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?».
Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono inginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo festa e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riammesso nella comunità».
L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fare un banchetto come si usa a pasqua.        (continua 18)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«Hai mutato la mia veste di sacco in abito di gioia»

la parabola del «figliol prodigo» (17)

22 Presto, portate qui il vestito più bello
e fateglielo indossare, mettetegli l’anello
al dito e i sandali ai piedi.

Presto
Alcuni codici, sia maiuscoli che minuscoli, eliminano l’avverbio iniziale «presto» (gr. «tachý»), che dà il senso del precipitare degli eventi, della frenesia del padre e di tutta la casa coinvolta nell’accoglienza del figlio ritornato. Con tale eliminazione si vuole ritardare il perdono del padre in attesa che il figlio faccia il suo atto di dolore. È disdicevole per un padre cedere all’emozione di fronte al figlio. Nella mentalità orientale solo dopo che il figlio si umilia il padre può «benignamente» concedere la sua benevolenza. Se lo fa prima, mette in discussione la sua autorità.
Il testo greco, invece, accettato e riportato dai codici più antichi, compreso il papiro 75 del sec. iii, mette l’avverbio «tachý, presto/veloce/subito» in principio di frase, conferendogli così importanza dal punto di vista sintattico, perché lo pone in posizione enfatica. Nello stesso tempo sottolinea la successione simultanea delle azioni e degli oggetti, perché mette in evidenza la fretta che il padre ha di dimostrare il suo amore sconfinato, capace di mettere in movimento tutto l’ambiente circostante.
«Presto… portate… rivestite… mettete… prendete» danno il senso plastico di un ritmo che crea un clima e rivela una verità: il padre non si cura della sua dignità di fronte al mondo, ma si occupa e preoccupa soltanto di suo figlio. Il perdono del padre è contagioso fino al punto da riuscire a trasformare l’immobilità precedente in una gioia senza fine dalla quale nessuno si può dispensare. Il padre fa sue le parole del salmista che esprimono molto bene la sua condizione e la sua gioia: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia perché io possa cantare senza posa» (Sal 130/129,12-13).
Il padre con questo comportamento condivide la stessa gioia degli altri due personaggi della parabola precedente nello stesso capitolo: del pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15,9). Gli atteggiamenti e le parole sono identiche:

v.6    (pastore)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la mia pecora
v.9    (donna)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la moneta
vv.23-24    (padre)    Facciamo festa    perché questo mio figlio è stato ritrovato

Padre, pastore e donna manifestano il sentimento profondo del Dio Padre/Madre che Gesù è venuto a «mostrare»: il Dio che mette in gioco se stesso pur di trarre in salvo i figli. Le tre figure delle parabole di Lc 15 sono veramente «il sacramento» del Dio di cui capovolge l’immagine abituale, diffusa dalla religione: «Il Signore è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Nm 15,18). 
Il Dio di Gesù, al contrario, si rallegra e fa festa, senza chiedere in cambio nulla, felice che il figlio perduto è ritrovato. Il padre della parabola lucana, infatti, non permette al figlio di finire la sua confessione, ma lo precede con il suo amore generante per rigenerarlo nuovamente. Egli è il vero erede del profeta Osea che continua ad amare la moglie Gomer, nonostante sia scappata tre volte per fare la prostituta (cf Os 1,1-9; 3,1-5). Dopo averla rincorsa e trovata, circondata dai suoi amanti, aveva il diritto di applicare la toràh e comminare una sentenza di morte (Lv 20,10). Secondo la tradizione giudaica «grande è la misericordia del Signore e il suo perdono per quanti si convertono a lui» (Sir 17,24), che è l’atteggiamento fatto proprio dalla religione per gestire la mediazione tra il peccatore e Dio. Il profeta Osea, invece, si pone su un altro piano e travolge di tenerezza la moglie/prostituta, assetata di amore, prima ancora che lei apra bocca o esprima il suo pentimento, offrendole un viaggio nuziale nei luoghi del loro primo amore: il deserto di Dio (cf Os 2,16-18).
Sulla scia del profeta Osea, anche Gesù offre il perdono di Dio prima della conversione, prima della stessa richiesta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8.10). Lc insiste su questo aspetto, che costituisce il cuore del vangelo e la novità apportata da Cristo. Spesso anche per noi cristiani, Gesù è uno dei tanti profeti (Lc 9,19), il cui messaggio è un ideale di vita, tanto grande da essere irraggiungibile e finiamo per farci da noi una immagine di Dio su nostra misura che rispecchi le nostre esigenze e miseria. Dio diventa ìdolo.
Il comportamento del padre rispecchia lo stesso comportamento di Gesù nei confronti della prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50). Lo scandalo è enorme: in un consesso di uomini perbene di giorno e frequentatori di prostitute di notte, l’ingresso della donna è un insulto. La donna che rende impuro tutto ciò che tocca si accucciola ai piedi di Gesù, glieli lava con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli (Lc 7,36-50). Nata per fare la prostituta, non ha altri gesti che quelli di una prostituta per dimostrare il suo interesse e attenzione all’uomo che la guarda con occhi nuovi e non giudicanti. Di fronte a una tale donna, da cui ogni uomo perbene deve stare lontano almeno due metri, Gesù si lascia toccare e baciare e, in contrasto con l’ambiente circostante, perdona la donna senza nemmeno chiederle di cambiare mestiere: «I tuoi peccati sono perdonati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,48.50).

Il vestito
Il primo ordine del padre riguarda il «vestito più bello» (in greco «il vestito, il primo»), non un vestito qualsiasi, ma quello della festa, quello importante. E non si tratta di liberare il figlio dagli stracci che addossa e dargli una sistemazione dignitosa. «Il vestito» ha un significato preciso. Il padre veste il figlio restituendogli la dignità, come Dio veste Adam ed Eva, liberandoli dalla loro nudità (Gen 3,21) che offuscava la loro trasparenza di figli del Creatore. Da notare che è il padre a vestire il figlio: la dignità di figlio nessuno può darsela da solo, ma può solo essere accolta o rifiutata. Andando via di casa il figlio ripudiò, insieme al padre, la sua identità umana e filiale, ora la riceve di nuovo dal padre, l’unico a potergliela restituire.
Per il vestito nel vangelo di Lc si usano due parole: «imàtion», che vi ricorre 11 volte (Lc 5,36; 7,25; 8,35, ecc.), e «stolê», che si trova solo qui: è una di quelle parole «esclusive» e per questo hanno una importanza particolare.
Il primo termine indica un vestito generico, comune, senza alcuna connotazione particolare. Il secondo invece è il vestito «della dignità», riservato ai ministri, autorità, a chi esercita una funzione pubblica di rilievo. In questi casi la «veste-stolê» indica la dignità della persona che la indossa. Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6,11), ma è anche il distintivo della folla immensa che nessuno poteva contare (Ap 7,9.13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22,14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è il segno visibile del popolo del regno di Dio, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15,13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre.
La qualifica del vestito, in italiano, è «il più bello». Il testo greco dice esattamente: «portate il vestito, il primo». Il padre non chiede di rivestire il figlio con un vestito qualsiasi, ma chiede che venga portato «quello che è primo».
L’aggettivo «prôtos-primo» ha tre significati: a) può avere valore temporale per cui significa «quello che aveva prima di andarsene» e che è stato conservato; b) può indicare la qualità del vestito, nel senso di «migliore/splendente» e quindi «il più bello»; c) nella bibbia è usato anche per definire «gli aromi migliori/preziosi», «olii raffinati» (cf Ez 27,22; Ct 4,14; Am 6,6); per cui, qualunque sia il significato, Lc nella parabola si riferisce a qualcosa di non usuale, ma di prezioso.
Per capire il comando del padre che ordina di portare il «vestito, quello migliore», bisogna tener presente che nella cultura mediorientale il «vestito» indica una dignità totale, anzi, moltiplicata: il vestito non solo era il migliore, ma è stato anche conservato per questa occasione, segno che il padre non si è mai rassegnato alla partenza del figlio. I tre significati sono intrecciati perché hanno il medesimo senso: reintegrare il figlio nella dignità filiale che il figlio aveva perduto, ma che il padre mai aveva rinnegato; il vestito è il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della dignità. Di più: è il segno della personalità, perché il vestito è prolungamento del corpo, estensione dell’anima. Nonostante la partenza, la dignità del figlio, simboleggiata dal vestito, è sempre rimasta in custodia presso il padre: il figlio dilapidava la vita in una terra impura e il padre custodiva la dignità del figlio, conservando gelosamente «il vestito, il primo».
In tutte le religioni e culture, il «rito dell’investitura» è il riconoscimento ufficiale di un servizio o incarico. Giacobbe per dimostrare l’amore di predilezione che provava per Giuseppe, figlio insperato avuto da Rachele, «gli aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37,3). Il faraone per onorare di fronte a tutto l’Egitto Giuseppe, che aveva interpretato i suoi sogni e salvato l’Egitto dalla carestia, «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41,42).
Per affermare la dignità di Eliakìm, che Dio sceglie al posto del maggiordomo Scebnà, Isaia ci informa che è lo stesso Dio a fae l’investitura ufficiale, per bocca del profeta: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22,19-21). Nel libro di Ester, quando viene scoperto l’inganno di Amàn contro Mardocheo, il re chiama il primo e chiede: «Che si deve fare a un uomo che il re voglia onorare? Amàn rispose al re: “Si prenda la veste (gr. stolê) regale che suole indossare il re… si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare….”» (Est 6,6-9). Qui la veste è un’onorificenza che attesta la benevolenza del re e riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita. Dai testi emerge con chiarezza che il vestito e la sciarpa sono simboli visibili di un’autorità trasmessa e ricevuta, segno di un onore tolto all’uno e concesso all’altro in forza della magnanimità di Dio.
Il figlio della parabola non si trova in nessuno dei casi biblici citati: egli non merita alcun riconoscimento o protezione; al contrario, egli merita solo disprezzo o, al limite, pena e compassione. Nulla è a suo favore, tutto è contro di lui. Possiamo meravigliarci che il padre della parabola lucana imiti il Dio di cui la scrittura descrive il comportamento? Togliendo gli stracci al figlio e rivestendolo della veste della dignità, il figlio giovane rappresenta Gerusalemme che finalmente depone «la veste del lutto e afflizione» per rivestirsi «dello splendore della gloria» di Dio (cf Bar 5,1). Il figlio che ha ricevuto la veste nuziale della dignità ora può entrare a pieno titolo nella sala di nozze e partecipare al banchetto dell’alleanza (cf Mt 22,11-12).

L’anello
Ancora oggi il sigillo dei re e dei papi è racchiuso nel simbolo di un anello. Quando un papa muore, il primo atto ufficiale, dopo la constatazione della morte, è la rottura dell’anello del pescatore, simbolo del potere e della autorità conclusi del defunto pontefice.
Nella bibbia vi sono 3 tipi di anello: a) anello-pendente (gr. hènōdrion) che si mette alle orecchie o al naso (cf Is 3,21). Il servo di Abramo, in cerca della sposa per Isacco, quando incontra Rebecca, le mette al naso un anello-pendente di «mezzo siclo» (circa 6 grammi d’oro) (Gen 24,22.47); b) anello-amo (gr.: ànkistron) che si mette alle narici delle bestie, ma anche al naso dei prigionieri di guerra come simbolo di sottomissione e schiavitù (2Re 19,28; Is 37,29; cf Am 4,2; Ez 19,4.9); c) anello da dito (daktýlios), oggetto prezioso che distingue la persona che lo indossa, come si legge nella Lettera di Giacomo: «Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro…» (Gc 2,2).
Qui l’anello è ostentazione di ricchezza, sbattuta in faccia ai poveri, ma anche segno del degrado di una comunità che si adegua ai costumi del mondo. Luca usa questo termine che prende dalla bibbia greca della Lxx e lo usa soltanto qui, per cui diventa anch’essa una parola «esclusiva» con un significato proprio e profondo.
L’anello al dito è segno di distinzione sociale, simbolo di autorità e reputazione di alto rango, un sigillo di potere. Prima ancora di dargli la veste di plenipotenziario, «il faraone disse a Giuseppe: “Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto”. Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe» (Gen 41,41-42). Portare l’anello del faraone significa rappresentarlo in tutto il suo regno: «Io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto». Mettere l’anello nella mano di Giuseppe è conferirgli l’autorità del faraone che così prolunga la sua persona in colui che porta il suo anello, è la stessa cosa: ogni decisione che Giuseppe prenderà e sigillerà con l’anello ricevuto, è la decisione del faraone stesso.
L’antenata di Gesù, Tamar, che si finse prostituta per esercitare il suo diritto di madre, al suocero Giuda che la mette incinta chiede come pegno del loro incontro «l’anello (daktýlion), il cordone e il bastone» (Gen 38,18.25).
Il padre che mette l’anello al dito del figlio, non solo gli riconosce la dignità di figlio, ma gli affida nuovamente l’amministrazione della casa, come suo fiduciario. Mettendo l’anello al dito, il padre di fatto e di diritto reintegra il figlio anche nell’eredità per cui significa che questo figlio, alla morte del padre, può ereditare di nuovo. È un comportamento scandaloso, perché ancora il figlio non dà alcuna garanzia, ma il padre gli affida la cassaforte di casa. Oggi è come se un padre desse il libretto degli assegni o carta di credito sulla parola e sulla fiducia. L’amministratore di casa conserva l’anello/sigillo con cui compra quanto è necessario alla famiglia: tutti fanno credito perché egli appone il sigillo dell’anello, una garanzia sicura.
Qualcuno potrebbe obiettare: il padre è ingiusto, perché reintegra il figlio che ha sperperato tutto; ereditando di nuovo, ci rimette il figlio maggiore. Teoricamente, alla luce dei comportamenti umani, l’obiezione ha un suo fondamento, ma nulla sul piano di Dio. È la stessa situazione del padrone che chiama gli operai per lavorare nella sua vigna: pattuisce un contratto e alla fine a quelli delle 5 della sera dà la stessa paga di quelli delle 6 del mattino; accusato d’ingiustizia, risponde che egli è libero di disporre dei suoi beni con generosità «o forse tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-15).
L’anello al dito ha anche un risvolto pubblico: tutti devono vedere che è il padre a reintegrare il figlio, perché d’ora in poi tutti devono riconoscere che quel figlio fuggito senza dignità, con quell’anello rappresenta il padre, e tutti gli devono tributare il rispetto che il padre merita ed esige. Questa investitura nella dignità e nella eredità si completa con la consegna dei «sandali».

I sandali
Nelle case dei nobili, solo gli schiavi vanno scalzi, mentre i padroni portano i sandali ai piedi, segno della loro autorità sulle proprietà. Camminare con i sandali significa dominare su ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo della persona libera e non schiava, che esercita il possesso legittimo sui propri averi. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà. Voleva chiedere di essere trattato come un «dipendente», il figlio perduto e ritrovato riceve la dignità di figlio (tunica), l’autorità dell’erede (anello) e la libertà di persona (sandali).
Colui che era diventato «dipendente» dei porci ora si ritrova senza sforzo a essere figlio a tutti gli effetti, uomo a cui il padre ha restituito la dignità, piena fiducia su ogni cosa e totale libertà senza condizioni. Non basta vivere in qualche modo, non è sufficiente vivacchiare, per vivere da figli sono necessarie alcune condizioni: si deve essere figli, avere la dignità, possedere la responsabilità dell’autorità. Il padre non vuole un figlio a mezzo servizio, dimezzato, tollerato: vuole un figlio nella pienezza umana e ufficiale della sua identità e quindi dei suoi affetti.
Nessuno può trattenere qualcun altro a forza o per bisogno: prima o poi scappa da dove è venuto. Il padre lo sa e, se offre al figlio la possibilità di riscattarsi, lo fa senza condizioni, ma con l’amore sconfinato che solo un padre sa nutrire. Gesù è venuto per questo: ci ha portato un vangelo che è «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), perché impariamo a pensare e vivere secondo la mentalità di Dio. Se ci scandalizziamo del suo modo di essere e agire, siamo lontani dal regno e navighiamo in un confuso mare di religiosità che esprime più i nostri bisogni che il senso della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Tutto ciò ci conduce nel NT dove Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), senza condizioni, senza contropartita. (continua – 17)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (16) L’amore precede sempre il pentimento

«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35)
«Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39)

Immobile, in corsa
Il ritorno del giovane figlio non è esaltante: in cuor suo non è sicuro dell’accoglienza del padre. Per non sbagliare, infatti, lungo il viaggio si prepara e impara a memoria il discorsetto con cui commuovere il «vecchio». Da questo suo modo di ragionare, implicito nel testo, si evince che il figlio non conosce il cuore del padre che considera come un padrone. Cominciamo a capire perché è scappato «dal padre»: non ne aveva mai conosciuto la personalità e il cuore. Egli ritorna lento nel passo e pesante nel cuore, consapevole di avere perduto ogni diritto legale. Il padre al contrario corre e si precipita «addosso» al figlio, consapevole di una cosa soltanto: il figlio gli ritorna vivo. Al figlio in partenza interessava «il patrimonio», al padre che resta interessa «la persona» del figlio.
Da un punto di vista etico, è il padre che prende l’iniziativa, rimettendo in moto il processo generativo per giungere a un nuovo parto. Non a caso, come abbiamo visto, Luca ricorre al vocabolario della gestazione e parto per descrivere gli atteggiamenti matei del padre che accoglie il figlio. L’incontro è drammatico; in pochi versetti l’autore costruisce una scena forte espressiva di contrasti, come in una scena drammaturgica: alla lentezza del figlio che torna si contrappone la frenesia del padre che corre.
È un comportamento contro natura: per la mentalità orientale correre è comportamento disdicevole. La persona che corre, specie se riveste un’autorità, «perde la faccia» e cioè mette in gioco il suo onore. Un padre o un maestro non corre verso il figlio o il discepolo: sono questi che devono andare e correre verso il maestro o il padre. La logica sottintesa è che la persona matura e saggia non corre, ma «sta» perché il saggio non ha mai fretta.
Per logica, sebbene estrema, semmai avrebbe dovuto essere il figlio in quanto giovane e inesperto a correre verso il padre e questi avrebbe dovuto aspettare ritto e fermo sulla soglia di casa. Non sappiamo quanto tempo è durata la vacanza del figlio giovane, ma nel capovolgimento dei comportamenti, noi scorgiamo la gravità e la pesantezza della realtà. Tutto si capovolge: il padre perde la dignità per affrettare il godimento del figlio.

Pateità preveniente
Da una parte c’è un uomo, partito da figlio per essere libero da ogni regola e costrizione anche affettiva, che ora ritorna solo con la disponibilità a fare il servo. Suo unico bagaglio è la richiesta di diventare un salariato che è meno di un servo. Questi infatti resta nella casa e fa parte del casato; il salariato esiste in funzione del lavoro: quando manca, il salariato viene mandato via. Dall’altra c’è il padre che non ha mai cessato di essere tale anche quando il figlio in un paese lontano sperperava la «sua vita». La pateità non si esaurisce mai: più i figli la sperperano più essa si rafforza e ingigantisce. È il segreto dell’essere di Dio e del conseguente suo agire: la pateità di Dio è preveniente perché anticipa sempre la debolezza dei figli e se ne fa carico. Il bacio del padre al figlio è il segno eloquente del ripristino dell’intimità senza riserve.
La conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo a Dio come pegno per ricevere il suo perdono; al contrario, essa è la conseguenza dell’amore di Dio che  perdonando prima ancora di essee richiesto, pone le condizioni e suscita la conversione del cuore che è sempre un dono e frutto della grazia. Nessuno di noi è capace di conversione, solo il Signore può convertire: «Facci ritornare e noi ritoeremo» (Lam 5,1). Non è il figlio che ritorna di sua spontanea volontà o iniziativa, ma è il padre che lo attrae e lo attira a sé, mettendo in movimento tutte le possibilità che condurranno alla salvezza definitiva.
Il Dio di Gesù non pratica la religione del «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te»; questa dinamica conduce soltanto alla logica della prostituzione, mentre quella di Dio è la salvezza della persona in vista della quale Dio previene anche il desiderio, come insegna pure Dante a proposito della intercessione di Maria: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso, xxxiii,16-18).

Quale peccato?
I versetti 21 e 22 sono tormentati: l’edizione critica riporta un’infinità di varianti di molti codici che a tutti i costi vogliono armonizzarli con il v.18, facendo ripetere al figlio l’intero discorso che si è preparato e rallentando così l’irruenza del padre «precipitoso». Questo tentativo di restaurazione è in funzione chiaramente ecclesiale: si vuole mettere in evidenza l’atteggiamento umile e penitenziale del figlio che chiede perdono e lo chiede in forma completa o come si direbbe in morale in «forma integra». In questo modo il perdono del padre viene dopo la richiesta di perdono del figlio: ciò rispecchia la prassi della confessione sacramentale o monastica che vede il perdono subordinato alla contrizione. Un caso evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chiarezza del testo lucano che antepone il perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio.
L’evangelista sottolinea che il figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli apparteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi…» (v.12), ora invece sottolinea che non è il «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato…» (v. 21). La stessa invocazione ha un suono diverso, perché pronunciata in circostanze diverse con atteggiamenti diversi e cuore diverso. Là il padre era un ostacolo da fare fuori, qui è il padre come rifugio e misura della colpa. Il figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua colpa non è morale, ma relazionale. Non ha peccato perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divertito – queste restano azioni ignobili e moralmente condannabili -, ma qui il suo peccato consiste nel non avere conosciuto il padre e nell’avere interrotto la relazione padre-figlio e figlio-padre.

Oltre l’integrità, la totalità
Del «peccato» abbiamo spesso una concezione materialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccupazione maggiore di un confessore era (o forse lo è ancora oggi?) salvaguardare l’integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l’entità dei peccati, lasciando spesso nel penitente il dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccato non è «una cosa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratelli. Non a caso Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comandamento con un duplice esito: l’amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell’amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,40 e 18,22). Peccare non è cosa facile e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, morire diventano il nostro stile di vita ed è la fede. Il contrario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha messo «un paese lontano» (v.13), cioè un abisso invalicabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre.
Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avrebbe potuto attendere sulla soglia di casa, mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. Il figlio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendolo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di figlio al ruolo di servo. «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «padre» senza alcuna connotazione ed è il segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l’altro termine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d’essere figlio».

«21Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di es-ser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto…».

Peccatori presuntuosi
Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccato contro il padre è anche un’invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienza che il suo peccato non è solo contro il padre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione totale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l’idolatria del vitello d’oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me» (Es 32,33). Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» il padre (Es 21,15.17) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora il padre (Dt 27,16; cf Pr 20,20) perché «chi deruba il padre è compagno dell’assassino» (Pr 28,24). È questo il contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all’interno di questo quadro di riferimento che risplende ancora più potente la figura del padre sia sotto il profilo legale che religioso.
Quando ancora era in «un paese lontano», solo e impuro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discorso da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi dipendenti» (Lc 15,18). Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il discorso che già è stato reintegrato prima ancora che chiedesse perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di essere ancora figlio che il padre gli tappa la bocca e il figlio non riesce a dire che accetta di essere trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere essere perdonati può costituire un grave peccato perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stessa richiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di averglielo chiesto.

Amare con le due tendenze
Spesso i nostri rapporti con Dio sono improntati a legalismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che patea. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto il perdono e spesso, come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficile da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giusto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che senso ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centimetro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? Agendo così noi proiettiamo in Dio il nostro modo di essere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi attribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimentichiamo che Dio è sempre più grande del nostro peccato, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro limite (cf 1Gv 3,20). Per questo i rabbini spiegano il motivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi sono due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, una verso il bene e una verso il male. Il vero credente è colui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quando abbiamo coscienza di fare il male, noi non possiamo cessare di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anche quando noi siamo infedeli perché il Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9).
Davanti al figlio che rinuncia al suo essere figlio, negando così al padre la possibilità della pateità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di significato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero.    (continua – 16)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliorl prodigo» (15) La corsa dell’amore senza decoro

«(Gesù) cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatornio» (Gv 13, 5)

Abbiamo lasciato il figlio giovane nella decisione di partire verso casa. Siamo giunti a una svolta che crea una condizione nuova: ogni decisione di vita, anche se motivata insufficientemente, genera sempre un cambiamento che coinvolge chi la compie e quanti ne sono interessati. In tutta la prima parte della parabola il «padre» è nominato solo tre volte (v. 12), mentre nel resoconto del viaggio del figlio «senza salvezza» (v. 13) non è più nominato, anche se noi sappiamo che la sua presenza costante e fedele segue il figlio fino al punto da costringerlo a tornare a casa. Chiedendo la porzione di vita del padre (v. 12), il figlio non si accorge che volendo abbandonare tutto si porta dietro la vita del padre che non lo abbandona mai.

L’amore sa vedere da lontano

La partenza, anzi il ritorno al padre, coincide con la «risurrezione» del figlio e la ripresa della vita. Al v. 20a, infatti, dice il testo greco alla lettera: «Dopo essere risorto, partì». Non è una partenza qualsiasi, ma un andare verso quel padre da cui non vedeva l’ora di allontanarsi. L’aspirazione più grande del figlio era di allontanarsi dal padre, mentre ora la necessità di vivere impone di tornare al padre come condizione minima e vitale di sopravvivenza: anche se per vivere bisogna fare il servo. La forza che attrae il figlio che è più forte della morte, è la presenza del padre che anima e sostiene le deboli decisioni del figlio.
Non è ancora partito, non è giunto ancora all’orizzonte che il padre «sa già» che suo figlio sta arrivando. Nel v. 20b si esprimono in una intensità drammatica cinque azioni del padre, il solo che «ancora lontano» sa rinascere il figlio senza vederlo: vide, fu commosso nelle viscere, corse, si gettò sul collo e lo baciò. «Tutto» il padre è coinvolto in questo processo di ritorno: occhi, cuore, gambe, braccia e mani, bocca. È la descrizione dell’amore senza tornaconto e senza misura, che quando si realizza coinvolge anima e corpo, cuore e sentimenti.
L’amore sa vedere da lontano e anche per sperimentare la misericordia bisogna «vedere». La visione di Dio è l’aspirazione di ogni religione e fede. «Vogliamo vedere Gesù» dicono i greci a Filippo e Andrea (Gv 12,21); «Venite e vedete» risponde Gesù ai discepoli di Giovanni il Battezzante, i quali «andarono e videro» (Gv 1,39). Mosè arde dal desiderio di contemplare il volto di Dio: «Fammi vedere la tua Gloria» (Es 33,18) allo stesso modo del giovane innamorato che brama l’innamorata: «Fammi vedere il tuo viso» (Ct 2,14).

L’amore vede lontano

«Il padre lo vide». In questa espressione non c’è solo la vista di uno che arriva e appare subito familiare. No! C’è la dimensione interiore del padre, che aspettava da sempre il figlio: prima di vederlo con gli occhi, lo vide con il cuore; anzi, prima ancora che comparisse all’orizzonte, sentì nell’anima che quel figlio non era perduto, ma stava tornando. L’amore non ha distanze e non teme ostacoli.
Quando diciamo di amare Dio, ci accontentiamo di uno sguardo distratto, di un rapporto razionale, ma forse non sappiamo andare oltre le regole del buon senso. L’avverbio greco «makràn» (lontano, distante) misura l’abisso dell’amore del padre che è inversamente proporzionale alla distanza del figlio: più il figlio è distante, più invade l’animo del padre. Il padre è una potente calamita che attira il figlio anche da lontano e lo attrae al suo cuore. Il figlio non sa, non conosce la forza che lo spinge, ma ne è coinvolto e quando è all’orizzonte, prima ancora di vederlo, il padre ne percepisce la presenza e corre, corre, corre precipitandosi verso di lui perché il suo cuore «sa già» che è lui.
Nell’impatto dell’incontro nessuna parola, solo una convulsa gestualità di affetto. Padre e figlio comunicano con la fisicità dei loro corpi, perché quando l’amore esplode, nessuna parola del vocabolario è sufficiente a esprimee la pienezza e totalità. Resta solo il silenzio d’amore che parla attraverso i gesti del corpo. In questo senso la corporeità acquista una valenza fortemente spirituale, perché diventa l’anima visibile e palpabile.
Bisogna vedere non solo da lontano, ma bisogna anche sapere vedere lontano per cogliere i segni di una presenza che solo nella profondità e lungimiranza si può scrutare. Che fare con quel figlio dato per morto? Agli occhi del padre deve essere apparso come uno spettacolo miserevole, un uomo ridotto in schiavitù, un figlio mezzo morto e perduto, eppure quegli occhi sanno vedere oltre, contemplano la visione del figlio in quanto tale, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Un padre comune, potremmo dire un padre «ovvio», a questo punto per prima cosa avrebbe fatto una predica al figlio e lo avrebbe inchiodato in un senso di colpa da cui difficilmente si sarebbe salvato. Il padre della parabola al percepire il figlio ancora prima di vederlo, mentre era lontano, ritrova la vita. Certo, il figlio ha sperperato la sua vita in un paese lontano, ma ora torna e riporta solo le briciole di quella vita che ha disperso senza senso e senza salvezza. Il padre sa che deve ripartorire quel figlio, se vuole che rinasca di nuovo. Anche il figlio, ora, lo sa.

L’amore rimette in moto la vita

Dopo la «visione» il padre «fu commosso nelle viscere». Luca usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthē» che traduce l’ebraico rahàm (da cui rèchem, utero, e il suo plurale rachamìm, uteri, viscere interiori). Da questo termine deriva anche ciò che noi esprimiamo con la parola misericordia. L’ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3): il soccorso dato a qualcuno, l’aiuto donato è sempre un gesto generante.
La traduzione della Bibbia Cei, che rende con «commosso», non fa giustizia al testo che invece intende e descrive un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore a perdere, che solo una madre e un padre sanno sperimentare: il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio, qui rappresentato dal «padre», non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Ecco lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona perché vuole fare rinascere a vita nuova.
Il sapiente Siracide aveva criticato il padre le cui viscere si sconvolgono a ogni grido del figlio (cf Sir 30,7), mentre l’innamorata del Cantico si sente sconvolta nelle viscere, quando l’amante cerca di forzare la porta per entrare da lei (Ct 5,4) e infine il profeta Isaia afferma l’impossibilità per una madre di abbandonare il figlio a se stesso: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15). Geremia invece ci ricorda che Dio, nonostante l’infedeltà di Efraim, prova per lui un amore di tenerezza: «Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza» (Ger 31,20).
In tutti questi testi in ebraico si usa il verbo o il sostantivo «rachàm, rèchem» e il Siracide che è scritto solo in greco usa il sostantivo corrispondente «splànchina», restando quindi tutti nel contesto del significato fondamentale: un amore generativo senza calcolo e senza aspettative che Davide invoca dopo il duplice peccato di omicidio e di adulterio: «Sii grazioso, o Dio nella tua tenerezza, nell’abbondanza delle tue rachamìm (viscere matee) puliscimi dalle mie ribellioni» (Sal 51/50,3).

Un Dio recidivo

È interessante notare come lo stesso verbo nella stessa costruzione sintattica è usato da Luca altre due volte sole. Nella parabola del Samaritano (Lc 10,25-37) che mentre si trova in viaggio passa accanto a un suo acerrimo nemico, «lo vide e n’ebbe compassione». Il secondo verbo in greco è reso da «esplanchnìsthē» (Lc 10,33). Un nemico che sperimenta un amore viscerale, generativo è un atto rivoluzionario che incrina la logica dell’odio e vendetta.
Nel racconto della vedova di Naim, Gesù «è scosso nelle viscere» (Lc 7,13) di fronte a una donna senza marito che perde anche il figlio. Qui lo scuotimento interiore previene una catastrofe: una donna in quelle condizioni poteva diventare schiava, perché senza protezione, senza uomo. In tutti e tre i casi Lc descrive un ritorno alla vita, una rigenerazione delle persone coinvolte.
Il padre, secondo l’usanza del tempo, avrebbe dovuto attendere il figlio fermo, in piedi sulla soglia di casa, invece troviamo un uomo che corre disordinatamente, perdendo la sua dignità: «Correndo cadde sopra il collo di lui e lo baciò (teneramente)» (v. 20). Con nove parole (in greco) l’evangelista riesce a dipingere una scena drammatica e straordinaria: il padre che corre, inciampa nel figlio nella foga di toccarlo, lo investe quasi a volerlo riportare dentro le sue viscere patee, lo bacia senza ritegno e senza fine. È un modo simbolico per esprimere il desiderio di «mangiarselo» per riportarlo dentro il suo cuore reintegrando la sua condizione di figlio rigenerato.
L’irruenza del padre che irrompe nella vita del figlio della parabola lucana, è espresso dall’autore con una co-struzione orecchiabile (tecnicamente si dice «onomatopèica, fare lo stesso nome-suono»): epèpesen epì tòn tràchēlon. Il verbo epèpesen (cadde) è costruito ripetendo due volte la preposizione «epì-», che in italiano significa «sopra» e non è assolutamente possibile rendere con tutta l’intensità del greco: «Cadde sopra, (proprio) sopra il collo di lui».

Perdere la dignità per restituire l’onore

L’accenno esplicito alla «corsa del padre» è significativa: secondo il costume del tempo (sia in Oriente che in Grecia, a Roma), l’uomo che «corre» compie un gesto ignobile, contrario alla sua dignità di uomo e di «capo» con una autorità legale e sociale. Avere fretta significa non rispettare il tempo necessario a ogni cosa e l’uomo che corre ha fretta e con ciò dimostra di essere ineducato e inferiore. L’uomo maturo, nobile non ha mai fretta perché tutto deve compiersi con onore e dignità. È terribilmente disdicevole che un padre corra verso suo figlio. Il padre sa tutto questo e, nonostante tutto, «corre»: preoccupato di restituire la dignità al figlio, non esita a perdere la sua. Il padre non tiene in alcun conto la sua dignità e decoro. È un elemento ulteriore della natura del padre come immagine del «Padre» dei cieli: davanti al recupero, nessun galateo o convenzione può bloccare la gioia incontenibile, che suscita atteggiamenti e comportamenti che all’esterno possono apparire anche come disdicevoli e non consoni alla dignità di chi li compie.
Un parallelo al femminile di questo comportamento si trova nel libro di Tobia dove l’autore usa le stesse parole. Tobia è di ritorno con l’angelo, portando il fiele di pesce per curare la cecità del padre. Egli è un figlio che lascia il padre per andare a cercare lontano una cura che lo guarisca. La madre di Tobia, Anna, sta seduta sulla soglia di casa a scrutare la strada da cui era partito il figlio. Ella ha la percezione di vedere il figlio e dopo averlo detto al padre Tobi, così continua il testo greco: «Anna corse avanti e si gettò sul collo del figlio» (Tb 11,5-13, qui v. 9). In greco vi è una corrispondenza straordinaria: sia il padre del figlio della parabola che la madre di Tobia non temono di perdere la faccia pur di andare incontro ai rispettivi figli che tornano salvi: il primo dopo avere ucciso il padre torna con un residuo di vita che vuole consumare nella servitù; il secondo per amore del padre che vuole guarire dalla sua cecità con l’aiuto di Dio.

Il bacio: sacramento del perdono

«Lo baciò». Baciare qualcuno non significa solo vicinanza e affinità, ma anche perdono. Il bacio è il segno del perdono totale, perché è un gesto d’amore totale. Insegna la psicologia che il bacio per sua natura tende al morso, perché esprime il desiderio di comunione assoluta: mangiare l’altro per fae la parte interiore più profonda di sé. È l’atteggiamento della mamma che colmando di baci il proprio bambino dice «ti mangio, ti mangio». Chi bacia esprime, chiede e offre intimità, comunione, condivisione, totalità.
Nella bibbia si hanno alcuni esempi di questa dinamica affettiva: «Cadere sul collo e baciare». Nel racconto dell’incontro tra Giacobbe ed Esaù, questi ha tutte le ragioni ambientali per odiare suo fratello che lo aveva scippato della primogenitura; invece «gli corse incontro, lo abbracciò, cadde sul collo di lui, lo baciò e piansero» (Gen 33,4). Anche Giuseppe, quando incontra il vecchio padre Giacobbe, «si gettò sulla faccia di suo padre, pianse su di lui e lo baciò» (Gen 50,1).
Anche Giuda «baciò» il suo maestro, ma solo per indicarlo come bersaglio dell’aggressione umana e ferocia assetata di morte (Mc 14,45). Lo stesso gesto può essere simbolo e sigillo di amore totale, ma anche di tradimento senza scampo. Il bacio del padre però non è disgiunto dal fatto che «cadde sul collo di lui», quasi a dire che intende raccoglierlo nel suo grembo e goderselo come figlio partorito per la seconda volta. L’azione del cadere indica che il padre lo copre con tutta la sua persona, facendo da scudo alla fragilità del figlio e rincuorandolo con i baci del cuore espressi dai baci della bocca.
Il figlio non fa in tempo a dire il suo pentimento che già si trova «baciato» dal padre, cioè perdonato: egli è perdonato prima ancora di chiedere perdono. Sta qui l’annuncio della parabola lucana, che ancora oggi facciamo fatica a capire, per cui non riusciamo nemmeno a incontrare Dio, perché ci incaponiamo di volergli attribuire modi umani di comportamento: il perdono del figlio, dato prima ancora che lo chieda, è la logica di Dio, è la rivoluzione delle religioni di ogni tempo, che si basano su una certa reciprocità. Qui non c’è alcuna reciprocità, perché chi ama non aspetta di ricevere in cambio qualcosa, non mercanteggia e non ha dignità da salvaguardare. Chi ama perde se stesso, perché vive per l’altro senza calcoli e interesse, ma con il solo obiettivo di essere strumento di nascita per la persona amata.

Di Paolo Farinella
(continua – 15)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (14) Le porte del perdono sono sempre aperte

«Dio è più grande del nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri»

Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20aPartì e si incamminò verso suo padre» (Lc 15,18-20).

Nulla può andare perduto
Nella puntata precedente (MC 9/2007, pp. 57-59) abbiamo lasciato il figlio giovane in preda di una solitudine esistenziale che aveva visto naufragare tutti i suoi sogni di autonomia. Solo, in terra straniera, sprofondato nella più abissale impurità (i porci con i quali avrebbe condiviso le carrube, «ma nessuno gliene dava»: v. 16). Abbiamo anche messo in evidenza che la motivazione del ritorno del figlio non può essere chiamata «conversione», perché le ragioni che lo inducono a ritornare non sono né il pentimento né l’amore per il padre, ma il suo tornaconto. Egli non soffre per il male fatto o perché il padre soffre, ma è terrorizzato di morire di fame. Il figlio giovane della parabola è un egoista cronico. È tutto centrato su se stesso e sui suoi bisogni immediati, per cui non può essere proposto come modello di conversione.
Eppure dentro di lui «accade» qualcosa di cui egli stesso è ignaro in un primo momento. Il testo greco dice che «dopo essere tornato in/dentro di sé, disse». Allontanatosi dal padre, non era finito solo «in un paese lontano» (v. 13), ma si era allontanato anche da se stesso: si era perduto geograficamente e spiritualmente. Aveva smarrito la dimensione di sé perché aveva perduto la sua identità di figlio. «Rientrare in se stesso», se in un primo momento non è sinonimo di «conversione» sincera, è l’inizio della consapevolezza del fallimento del suo progetto di vita autonoma.

Padre e figlio per sempre
Nessuno può abdicare dal proprio essere figlio e dall’essere padre/madre. Si è figli per sempre; si è padri/madri per tutta l’eternità. Nessuno è figlio del «nulla»; nessuno si fa da sé, ma ognuno di noi è sempre figlio di qualcuno e a sua volta è «genitore» di qualcun altro.
È la relazione che stabilisce l’identità personale: è quello che avviene all’interno della Trinità santa e accade dentro il mistero di vita di ciascuno di noi. Nemmeno il «figlio prodigo» può sfuggire a questa legge. Ciò significa una cosa sola: anche se la motivazione iniziale è imperfetta, può però costituire il primo passo verso un cambiamento che via via diventa consapevolezza, coscienza di vita. La motivazione egoista iniziale muterà in un processo evolutivo che si perfezionerà solo alla conclusione del cammino, cioè al punto di approdo.
In questo contesto si modifica la nozione stessa di «conversione» che di norma è intesa come un «atto unico» e irrepetibile, travolgente e traumatico, che cambia la vita, mentre alla luce della parabola lucana, essa è «un’attitudine al cambiamento», cioè un processo che inizia anche in modo imperfetto e s’illumina e si definisce lungo il processo di formazione. Abituarsi al cambiamento, ecco il vero senso della conversione, che in ebraico si chiama «teshuvàh». Il termine deriva dal verbo «shub» che ha in sé l’idea del ritorno sui propri passi e si riferisce al ritorno a Dio da cui si era allontanati (cf Dt 4,30).

Pentimento imperfetto
La tradizione giudaica insegna che la «penitenza/teshuvàh» fu creata da Dio prima ancora della creazione del mondo (Talmud, Pesachim-Pasque 54a) per concedere a Israele una possibilità supplementare di salvezza. Per questo la «penitenza/teshuvàh» s’innalza fino al trono di Dio, allunga la vita dell’uomo e guida alla redenzione del Messia (Talmud, Yoma-Gioo 86a-86b).
Il Midrash Deuteronomio Rabbàh-Grande (2,24) insegna che Dio impone a Israele il pentimento, ma non l’umiliazione, perché un figlio non può vergognarsi di ritornare a suo padre. Nel racconto di Luca, infatti, è il padre che è presente nella dissoluzione del figlio e lo spinge a compiere la sua «teshuvàh/ritorno» e come vedremo, lo accoglierà, ma non lo umilierà.

Motivazione nascosta del figlio
La «ragione/motivazione nascosta» che spinge il figlio al passo più difficile della sua vita, quella cioè di ritornare da suo padre, ma rinunciando alla sua condizione di figlio, rivela ancora una volta la superficialità di questo figlio che, nonostante tutto quello che ha passato, si ostina ad avere paura del padre: egli è terrorizzato di perdere la faccia, la dignità, l’onore.
Qui sta la prova finale che egli non ha mai conosciuto suo padre: nel momento in cui egli rinuncia a essere figlio, impone al padre di rinunciare alla sua pateità. Ciò sarebbe l’equivalente di un’altra morte. Ha preteso la morte del padre per affrancarsi da lui e ora si accontenterebbe di essere suo servo, credendo che il padre potrebbe fare finta di non essere suo padre. Ogni scelta, per quanto personale, implica sempre le scelte di qualcun altro.
Nel suo ragionamento assurdo, egli addirittura si paragona ai servi della casa di suo padre che stanno meglio di lui. Colui che voleva la libertà e la totale indipendenza, si considera inferiore ai servi di suo padre. In questo modo afferma indirettamente che il padre è la «garanzia» del benessere dei servi e quindi anche del figlio che vuole diventare servo. Questa considerazione è la presa d’atto di un totale fallimento, ma anche la certezza: quel «padre» che egli aveva voluto morto per avere preteso la vita in eredità, è ancora il peo della sua esistenza. Muore di fame e sogna suo padre come sua àncora di sopravvivenza. Il figlio non sa che il padre, portato via come «patrimonio», è stato il suo scudo e la sua difesa.

Motivazione nascosta anche al figlio
La ragione/motivazione che guida il figlio a ritornare, è il «padre» che come «patrimonio» ha seguito il figlio sulla via della dissoluzione e della perdizione. Sostenuto dalla presenza invisibile del padre che anima tutte le decisioni di vita, il figlio giovane si determina a intraprendere il suo cammino di ritorno. La vera ragione del ritorno del figlio affonda le sue radici nell’amore del padre che non è mai venuto meno.
In termini spirituali si può dire che ogni ritorno, inteso anche come conversione, non è mai frutto della volontà dell’interessato, ma azione di grazia che lo Spirito compie per realizzare la volontà salvifica universale di Dio. Nessuno è capace di conversione perché possiamo solo lasciarci convertire dallo Spirito di Dio. Veramente credere nel Dio di Gesù Cristo è il compito più facile che esista: basta abituarsi a sapere ricevere: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Il «richiamo» del padre è più forte della morte. Si capisce perché il padre si sia lasciato spogliare, derubare e «uccidere»: era l’unico modo per andare «con» il figlio e salvarlo da se stesso. Al padre non è mai interessato il patrimonio o «la proprietà». A lui interessa soltanto quel figlio che voleva perdersi a ogni costo e che bisognava salvare a tutti i costi, anche a costo della propria vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Il padre è l’immagine nuda e austera del Padre dei cieli, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Al fondo della sua abiezione e come risultato del suo fallimento, il figlio giovane può ancora una volta aggrapparsi al padre, la sua unica salvezza. Dice un detto della tradizione giudaica: «Le porte della preghiera possono essere chiuse (= Dio può anche non ascoltare), ma quelle del ritorno (pentimento) sono sempre aperte» (Talmud Jerushalmì, Makkot-Fruste, 2,7,31d).

L’Assente-Presente
I vv. 18-21 formano nell’economia del capitolo due sotto-unità, in cui si descrivono gli stessi movimenti: nella 1a unità (vv. 18-19), di cui ci occupiamo in questa puntata, il figlio parla con se stesso, immaginando di essere davanti al padre che materialmente è assente; nella 2a invece (vv. 20-21), che esamineremo la prossima puntata, si trova realmente davanti al padre al quale ripete le parole che aveva preparato. Le due unità sono strettamente connesse intorno alla figura del padre «assente-presente».
Questi versetti rivelano il mistero proprio di Dio, di cui facciamo fatica a capie la natura. Quando ci allontaniamo da lui, non acquistiamo autonomia e libertà, ma diventiamo schiavi di qualcuno o di qualcosa: è l’esperienza che facciamo ogni giorno. Il padre della parabola è l’immagine esemplare di Dio che è presente anche quando sembra assente e tutto appare perduto. Un’immagine plastica di questo dramma, si trova nel racconto della tempesta sedata di Mc. Tutto attorno crolla, la tempesta sopravanza e Gesù «se ne stava a poppa e dormiva», mentre i discepoli terrorizzati lo accusano di diserzione: «Maestro non ti importa che stiamo morendo?» (Mc 4,35-39, qui v. 38). C’è la tempesta e lui «dorme»; c’è la tempesta e lui c’è.

Un verbo per lasciare e due verbi per tornare
Il figlio che ha perduto ogni velleità, esausto nella sua fatica di vivere, riallaccia i contatti col padre, in modo flebile, interessato, ma reale: egli sogna la casa di suo padre come sicurezza, rifugio e protezione. Nonostante la motivazione insufficiente, bisogna cogliere l’evento di qualcosa di grandioso che accade. Quando abbandonò la casa, suo padre e Dio, dice l’evangelista: «Partì per un paese lontano» (v. 13); ora che ritorna, il testo greco dice: «E dopo essere risorto venne verso suo padre» (v. 20).
Per l’abbandono basta solo il verbo «partire», che in greco (apedêmēsen) indica l’allontanamento dalla società, dal popolo: è l’auto-ostracismo dalla condizione umana. Per il ritorno invece è necessario una decisione, un colpo di reni, che bisogna attuare con un gesto concreto.
La Bibbia della Cei (ed. 1997) rende abbastanza bene: «Si mise in cammino e ritoò da suo padre». Due sono le idee sottostanti: quella di risurrezione e quella del ritorno attuato: per ritornare bisogna cominciare a risorgere, anche se ancora le ragioni non sono del tutto sufficienti. Il cammino di conversione serve proprio a questo: fare prendere coscienza dell’evoluzione e dello sviluppo che la Grazia compie in chi si mette in cammino.
Si parte all’inizio con un atteggiamento e si arriva alla mèta totalmente cambiati, perché il cammino si apre camminando e il bisogno di cambiamento aumenta mano a mano che si cambia. Convertirsi è veramente abituarsi a lasciarsi cambiare.           (continua – 14)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (13) Nel pozzo profondo delle ragioni del cuore

«Cambiate mentalità/ pensiero e credete al vangelo, cioè a Gesù Cristo, il Figlio di Dio»

16 Avrebbe voluto riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno ne dava a lui. 17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».

Mangiare è comunicare l’anima
Per la cultura semitica «mangiare con qualcuno» significa condividee la vita in uno stato di uguaglianza. Gesù subito dopo l’ultima cena, dichiara espressamente questa condizione: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). La ragione di tale dichiarazione sta nel fatto che hanno mangiato insieme quel pasto «singolare», espressione unica dell’alleanza con Dio: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» (Lc 22,19-20).
Mangiare è diventare una cosa sola con chi si mangia. Il giovane figlio arriva fino al punto di «desiderare» di essere con i porci, come i porci, uno di loro pur di acquietare i morsi della fame: «Voleva riempire lo stomaco/saziarsi delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno ne dava a lui» (v. 16). Il livello della bassezza morale non può essere più profondo perché il giovane giudeo non solo dimentica la prescrizione della Toràh, che dichiara impuro il porco (Lv 11,7; Dt 14,8) e chiunque ne entra in contatto, ma fa addirittura «comunione» con l’impurità, volendo mangiare le stesse carrube che mangiano i porci.  

Simbologia del porco
La Mishnàh (VII,7) è tassativa nella proibizione di allevare porci: «In nessun luogo si possono allevare porci»; il Talmud babilonese (Baba Qama – Prima Porta 82b e Sotah – Adultera 49b) dichiara: «Maledetto chi alleva porci».
Al tempo di Gesù, il porco era anche simbolo dell’oppressore romano sia perché la X legione «fretense» aveva come mascotte un cinghiale, sia perché i soldati romani, quando potevano, mangiavano spudoratamente i maiali rastrellati nei villaggi greci. Mangiare porco significava quindi simbolicamente assoggettarsi all’invasore che derideva la sacralità dell’insegnamento della tradizione. Per un giudeo quindi finire tra i porci era peggio della morte.
Lontano dal Dio di suo padre, impuro fino al midollo dell’anima, senza più dignità umana, sprofondato nel peccato più radicale rappresentato dall’intimità che cerca con i porci, il figlio giovane ha raggiunto il fondo di se stesso. La libertà che cercava e per la quale aveva ucciso il padre, abbandonato Dio, lasciato il suo paese e la sua storia, ora diventa il suo abisso di desolazione e la sua condanna. Una condanna a morte, se perfino i porci sono nutriti meglio di lui.
Il suo «dio» è il ventre
Nel versetto si trovano tre verbi, tutti all’imperfetto indicativo attivo che indica un’azione continuativa, abituale o tentata nel passato. Non è il desiderio di una volta, ma il desiderio costante e sistematicamente espresso, divenuto ormai un’esigenza di sopravvivenza. È l’ostinazione di chi non vuole rassegnarsi a morire di fame. C’è tutta la disperazione di chi si trova nella disperazione, solitario e isolato nel mondo che bramava e non trova altro rimedio che sprofondare ancora più in basso.
Il primo imperfetto «desiderava» è certamente un imperfetto di conato, cioè un’azione sistematicamente ripetuta, ma sempre frustrata. Ci troviamo davanti a un uomo che tenta e riprova pur di raggiungere il suo scopo: calmare la fame. Il desiderio di «riempire lo stomaco» è permanente come durevole è la carestia e la fame.

Sfamarsi o riempire la pancia?
Alcuni codici antichi del sec. IV-V hanno una variante del v. 16: «Desiderava riempire il suo stomaco/la pancia», che pare sia la forma più originale, a differenza di altri codici di primissimo piano che invece cercano di addolcie la crudezza, modificando il testo in «desiderava saziarsi/sfamarsi». Quest’ultima espressione, da un punto di vista della sintassi, è più perfetta: l’imperfetto seguito dall’infinito [desiderava (di) sfamarsi] è una costruzione propria di Lc (cf 16,21; 17,22; 22,15; cf anche Mt 13,17).
Il biblista francese Jacques Dupont osserva che l’espressione riempire lo stomaco è così volgare che forse i copisti e i traduttori hanno cercato di sminuie la crudezza cambiandola con saziarsi, sminuendo anche il contesto di abiezione nel quale il giovane è piombato (Il padre del figliol prodigo in PSpV, n.10 pp.120-134).

La frustrazione dell’isolamento
Crollano tutti i sogni e progetti di indipendenza, sepolti nel porcile del proprio isolamento che nemmeno i porci vogliono condividere! «Riempire lo stomaco/la pancia» è l’ultima prospettiva che è rimasta al giovane figlio, ormai in balìa della fame più radicale, diventata ossessione del presente con la paura di non arrivare a domani. Il figlio che non ha esitato a uccidere il padre prima del tempo, per vivere alla grande, vede la vita sfuggirgli e si sperimenta impotente a trovare una soluzione.
«Nessuno ne dava a lui». In un paese lontano, scenario di futuro scintillante, sognato e solo assaporato, egli è nessuno. Non ha passato, non ha futuro e il suo presente è assenza d’identità. «Il ventre è il suo dio» (cf Fil 3,19) e tutto ruota attorno ai suoi bisogni che non è in grado nemmeno di cornordinare. A nulla è valsa la distruzione del padre, ora è il figlio a fare i conti con la morte e la morte di fame. Il suo viaggio finisce qui: da figlio a servo, da libero a mendicante, da spensierato ad affamato.

Non più figlio, ma schiavo disprezzato
Sperperato il patrimonio, ha consumato anche la sua dignità, libertà e la stessa identità: desidera diventare come i porci, pur di lenire la fame, ma senza risultato perché «nessuno ne dava a lui». Semplicemente non esiste.
Chi si allontana da Dio e dal padre, è isolato in mezzo all’umanità, perché il rifiuto della pateità è la premessa logica per non riconoscere la frateità. Colui che non si è riconosciuto come figlio è sconosciuto anche per gli altri, diseredato dall’esistenza stessa. Di fronte al peccatore anche il pagano in una terra lontana non è «prossimo»; anzi, può diventare lo strumento della giustizia. Il pagano, infatti, disprezza talmente il giovane da abbandonarlo alla mercé dei porci, cioè alla impurità radicale, inchiodandolo nel suo stato di indegnità esistenziale e morale. Semplicemente non esiste più!
Non esiste per il padrone che vede in lui solo l’occasione di uno sfruttamento senza spesa; non esiste per i porci, che non lo vogliono «dei loro» perché la sua impurità è maggiore e contagiosa; non esiste per se stesso perché non sa più chi sia, senza dignità né speranza. Davanti a lui c’è solo il terrore della morte e della morte per fame. Per uno che aveva «posseduto tutto» è un bel progresso.

Il giovane e Lazzaro povero
In Lc un altro personaggio si trova in una situazione alquanto simile: il povero Lazzaro, «desideroso di saziarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,21). Alcuni codici non importanti aggiungono la frase: «Ma nessuno ne dava a lui», che è certamente un tentativo di uniformare i due racconti dal punto di vista letterario.
La differenza tra il giovane della parabola e Lazzaro non sta tanto nella fame o povertà, ma nell’atteggiamento degli animali. Il primo è ripudiato dai porci, il povero Lazzaro è assistito dai cani; i porci non danno neanche le carrube al giovane affamato, i cani alleviano il dolore leccando le ferite di Lazzaro. Il figlio della parabola è disperato, Lazzaro è fiducioso; il primo è nel porcile, l’altro è in mezzo agli uomini; il giovane è isolato nel suo egoismo, Lazzaro è l’anello debole di una società opulenta e ingiusta.
I due racconti sono collegati insieme perché lo stesso Lc li colloca uno dopo l’altro, dandoci così una prospettiva unitaria e un insegnamento comune: non sono le cose «possedute» che rendono liberi, né la realizzazione passa attraverso le ricchezze che spesso sono la causa prima dell’abbrutimento del cuore.

Peccare è sradicarsi dalla vita
Il padrone dei porci, pur essendo un estraneo, tratta il giovane come un depravato, cioè un peccatore abbandonato da Dio. Nella mentalità ebraica, il peccatore è abbandonato a se stesso; nessuno è tenuto a soccorrerlo. Il libro del Siracide al riguardo è esplicito e tassativo:

«Se fai il bene, sappi a chi lo fai; così avrai una ricompensa per i tuoi benefici. Fa’ il bene al pio e ne avrai il contraccambio, se non da lui, certo dall’Altissimo. Nessun beneficio a chi si ostina nel male né a chi rifiuta di fare l’elemosina. Da’ al pio e non aiutare il peccatore. Benefica il misero e non dare all’empio, impedisci che gli diano il pane e tu non dargliene, perché egli non ne usi per dominarti; difatti tu riceverai il male in doppia misura per tutti i benefici che gli avrai fatto. Poiché anche l’Altissimo odia i peccatori e farà giustizia degli empi. Da’ al buono e non aiutare il peccatore» (Sir 12,1-7).
Nell’AT il senso del peccato ha anche una valenza sociale: il bene comune precede sempre il bene individuale, che spesso può e deve essere sacrificato a vantaggio della collettività. Ciò è incomprensibile per noi che abbiamo acquisito il concetto di «persona», su cui si basa la carta dei diritti e il valore della democrazia. Non così per gli antichi popoli nomadi e seminomadi: per essi il gruppo, clan o tribù è garanzia di sopravvivenza al di sopra e oltre ogni singolo individuo. E fuori del suo contesto sociale tribale, l’individuo è nessuno, perché ognuno vive in quanto parte di una «personalità collettiva».

Ritoo senza conversione
17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b«Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».
Bisogna subito sfatare una mitologia che vede in questo «ritorno/rientro in sé» il principio di una conversione, al punto da presentare il «figliol prodigo» come modello del convertito. Non è così! Questa è una prova che spesso la scrittura è interpretata in base al significato delle traduzioni e non a partire dal testo originario, come dovrebbe fare un lettore attento, per non rischiare di alterare il senso stesso della parola di Dio. Esaminiamo le ragioni del «ritorno in sé» del giovane figlio.
Il figlio fa il confronto tra sé e i salariati di suo padre. Abbiamo due idee sottintese: da una parte il figlio ammette che suo padre non è un padrone despota, come ha voluto farci credere all’inizio, quando non vedeva l’ora di andarsene; ma è un «padre» attento alle necessità anche dei suoi dipendenti, visto che «abbondano di pani» (si usa il plurale apposta). Se anche il salariato sta bene in casa di suo padre, vuol dire che quest’uomo non è così malvagio da volee la morte. Il motivo della fuga quindi non sta nel padre e nel suo autoritarismo, ma il problema è tutto nel figlio che ha una grande confusione in testa e nel cuore.
Dall’altra parte, il figlio non pensa al padre e al suo dolore; non è pentito di ciò che ha scelto e fatto, delle conseguenze che ha provocato; ma di fronte a tutte le porte chiuse, non gli resta che la possibilità di usare e sfruttare ancora il padre. Egli ha preso coscienza di non avere altro futuro che la morte: «Io me ne sto qui a morire per carestia», mentre i dipendenti di mio padre… È l’invidia, il confronto, la rabbia contro il mondo cinico e baro, perché questo giovane sicuramente pensa di essere stato sfortunato e quindi di non avere alcuna colpa, ma solo circostanze avverse. Nessun ragionamento potrebbe essere più egoista di quello del figlio giovane.
Il testo deformato
Ciò che inganna è l’espressione «ritoò in se stesso», che noi leggiamo alla luce della nostra esperienza razionale e forse mistica. È un tipico caso di «eis-egèsi», cioè di «immissione dentro» il testo di un senso e acquisizioni posteriori che il testo non ha. Il momento della conversione è ancora lontano; avverrà solo quando la gratuità di cui si era preso gioco lo avvolgerà e lo rigenera del tutto nuovo: allora non avrà nemmeno bisogno di chiedere perdono, perché il perdono lo aspettava già, prima che lui partisse.  
L’espressione «eis heautòn elthôn (da èrchomai) – verso se stesso venendo/tornando» (v. 17a) nella letteratura della fine del sec. I d.C. ha il senso di «valutare/ponderare/lamentarsi». In ebraico potrebbe significare «convertirsi», ma l’unico testo di riferimento è At 12,11, dove anche «Pietro rientrato in se stesso, disse…», ma il verbo è diverso, «ghìnomai – divento/faccio».
Abbiamo però una spia in un testo che appartiene alla duplice tradizione giudaico-cristiana, Testamento dei Dodici Patriarchi, apocrifo ebraico del sec. II a.C., rielaborato in epoca cristiana con contenuti cristiani, in cui si trova l’espressione «ritornare/rientrare in se stesso» nello stesso senso della parabola lucana.

Un parallelo apocrifo
In Gen 39,7-20 si narra del tentato adulterio della moglie di Potifar, «consigliere del faraone e comandante delle guardie» (Gen 39,1), che aveva messo gli occhi sullo schiavo giudeo Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, «bello di forma e avvenente d’aspetto» (Gen 39,6). Egli era stato venduto dai fratelli, condotto in Egitto e acquistato da Potifar. Nel Testamento di Giuseppe, la donna anonima nel racconto biblico ha un nome: l’egiziana Menfia, di cui il patriarca narra le insidie ostinate per indurlo all’adulterio. Giuseppe, che teme Dio, prega e digiuna per avere da Dio la forza di essere fedele agli insegnamenti di suo padre. Poi prosegue testualmente: «Ma io ripensavo alle parole di mio padre e, entrato in camera mia, pregavo il Signore… Capii e mi addolorai fino alla morte. Quando se ne fu andata, ritornai in me stesso e soffrii per lei per molti giorni» (III,3.9).
Sia il giovane figlio che il suo antenato, il patriarca Giuseppe, ritornano in se stessi, ma con intenti e progetti diversi, ciò che più conta, con atteggiamenti opposti. Il patriarca «si addolora fino alla morte» perché l’egiziana vuole commettere peccato e soffre «per lei». Il figlio giovane invece, è scocciato della piega che ha presa la «sua» vita: «Me ne sto qui a morire per carestia». Il giusto patriarca non gode della sventura che può capitare al suo nemico, ma si preoccupa della salvezza della donna; il giovane della parabola si preoccupa solo di sé e non ha il minimo slancio di altruismo. Confrontiamo più profondamente le ragioni intime di Giuseppe e del giovane.
Il giusto e l’egoista
Il patriarca entra in camera sua e prega (cf Mt 6,6), il figlio dissoluto «valuta, ragiona, pondera» la sua situazione e cerca una soluzione vantaggiosa. Il patriarca prega Dio, il giovane si è allontanato da Dio; il patriarca trova forza nel ricordo delle parole del padre, il giovane pensa come sfruttare ancora la generosità e la bontà del padre. Il patriarca digiuna a lungo, perché il dolore della fame non gli faccia perdere il senso morale della sua responsabilità, il giovane, così terrorizzato dalla fame da indursi a mescolarsi con i porci, non ha più un padre da ricordare, ma solo un padrone da sfruttare.
Il ragionamento del figlio giovane è spudoratamente egoista, frutto di calcolo di convenienza. «Verso se stesso ritornando» significa: preso atto della situazione disperata, pensò… non di ritornare dal padre, ma di trovare il modo di rimediare un «posto» tra i dipendenti di suo padre che hanno un trattamento di giustizia e vivono senza preoccupazioni. Il figlio è prigioniero ancora della sua superficialità e immaturità.
Il pensiero della casa del padre è tutto rivolto al benessere materiale: «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia». Il verbo «morire» nella parabola ricorre tre volte, qui in bocca al figlio e nei vv. 24 e 32 in bocca al padre, che ha un motivo in più per giornire: gli è stato restituito il figlio «morto», ma egli lo ha rigenerato e ridato alla vita.

Se la motivazione non è sufficiente
Un’ultima osservazione, a conclusione di questa riflessione che ci ha restituito il sapore del testo nella sua crudezza. Abbiamo detto che il figlio non ha un moto di conversione, ma una motivazione ancora egoista perché ossessionato dalla povertà e dalla fame. Ciononostante «inizia» a pensare al padre, anche se come padrone. La motivazione non è genuina né entusiasmante; è decisamente insufficiente, ma mette in moto un processo irreversibile.
Non sempre i grandi cammini o le grandi svolte nella vita accadono perché le motivazioni sono chiare, le idee limpide e gli interessi di tornaconto assenti. No! Siamo umani, fino al midollo delle ossa, impastati di contraddizioni, dubbi, paure, egoismi. Per questo una motivazione insufficiente o del tutto inadeguata all’inizio può essere lo stesso il motore di avviamento della vettura della vita. Basta saperla cogliere, lasciarsi stupire dalle novità che quasi sempre accadono gratuitamente. La domanda a cui dobbiamo rispondere è: chi e cosa mette in movimento il figlio verso il padre? Se le sue ragioni sono meschine ed egoiste, chi muove il figlio a riprendere il cammino a ritroso verso la casa del padre suo, anche se visto solo come padrone? Dove sta la vera ragione del ritorno del figlio? Lo scopriremo nel commento ai versetti seguenti.
(continua – 13)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (12) Un viaggio di schiavitù: dalla casa al porcile

«Per la libertà Cristo ci liberò: non sottomettetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1)

15E dopo essersi messo in viaggio andò a servizio di (lett.: si incollò, attaccò a) uno degli abitanti di quella regione, e (= che) lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno glie(ne) dava.

D ei 16 affreschi elencati nella puntata n. 10 dedicata alla parabola (cf MC maggio 2007) ne abbiamo preso in considerazione 10; ora ci apprestiamo a riflettere sui restanti 6. Li riportiamo di nuovo per facilitare la lettura e la riflessione:
11.    Colui che era figlio ora diventa servo (si mise a servizio).
12.    Il figlio sostituisce il padre con «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione).
13.    Il viaggio intrapreso dal figlio porta ad un abisso di impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci).
14.    Colui che si credeva ricco perché aveva «tutto» non ha neanche gli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube).
15.    Colui che era stato commensale del padre, ora è a mensa con i porci (che mangiavano i porci).
16.    Colui che fu il prediletto del padre è rifiutato anche dai porci (nessuno gliene dava).

Dopo essersi messo in viaggio
Il giovane figlio era partito da casa verso un paese lontano, a lungo sognato come regno della libertà, mèta della sua realizzazione: ora deve ripartire di nuovo. Non è ancora arrivato che deve ripartire: il viaggio fatto è già inutile. Anche se per raggiungere un obiettivo si percorre molta strada non significa che si approda a una mèta, perché questa deve coincidere con l’obiettivo del cuore, del proprio essere intimo. Il viaggio della maturità non è vagare a zonzo. Il giovane figlio è scollato dentro di sé perché non ha più punti di riferimento e la sua vita è stravolta perché sono crollati gli appigli che aveva scambiato per sicurezza: ricchezza, compagni, divertimento.
Immerso nella più totale solitarietà, è incapace di percepire la direzione della sua vita. La tracotanza diventa dispersione e la presunzione disperazione. Il giovane figlio non fa l’esperienza della solitudine che è l’abitudine a stare con la propria intimità, nel silenzio e in compagnia di Dio. L’essere solitario è il vuoto attorno a sé anche in mezzo a una folla: è il terrore.

In cammino o andare a zonzo. Aveva disperso «tutto» con allegria e si ritrova di nuovo sulla strada non più in cammino verso una mèta, ma in viaggio spinto dalla sopravvivenza e dalla fame, unica compagna rimastagli. Camminare è un atto religioso di pellegrinaggio, che conduce a uno scopo già conosciuto perché lo si è visitato nel proprio cuore: si cammina verso il proprio io profondo, verso l’amore, verso un amico, un’amica, verso Dio, anche verso la morte e oltre la morte. Qui, il figlio «senza salvezza», dissoluto, cioè sciolto e smembrato due volte, invece, si mette solo in viaggio perché non sa dove andare e alla fine prenderà quello che capiterà. Non guida più gli eventi, ora sono gli eventi anche occasionali e imprevisti che lo sovrastano.

Nota spirituale. Qui potremmo vedere la descrizione della nostra storia di fede: crediamo di essere in cammino, invece andiamo solo lontano; pensiamo di pregare, invece parliamo solo con noi stessi; c’illudiamo di avere Abramo come padre (Gv 8,39), mentre siamo solo figli senza storia. A volte succede di avere la presunzione di essere nella volontà di Dio solo perché siamo battezzati, consacrati, credenti; invece siamo solo «incollati a… uno qualsiasi» degli idoli che popolano il nostro orizzonte di vita e verso i quali viaggiamo spediti, allontanandoci, anche senza avee coscienza, sempre più dalla sorgente di vita che è pateità.
Il figlio giovane è spesso la fotografia a colori della nostra situazione precaria che si lascia riempire di cose e compagnie occasionali, ma si priva della relazione essenziale dell’amore che è sempre «mettersi in cammino verso…», non un «allontanarsi da…». Possiamo moltiplicare le nostre preghiere, esse spesso sono solo formule che ingannano noi e non commuovono Dio, perché siamo lontani, incollati a una terra dove nemmeno a Dio permettiamo di entrare. Tutto è confinato: noi lontano dalle nostre origini, Dio lontano dal nostro orizzonte, fratelli e sorelle lontani dal nostro amore. Possiamo fare finta, illudere la nostra illusione, non possiamo mai ingannare la nostra coscienza e lo Spirito che, anche se sepolto, è presente in noi e nelle nostre scelte.
A volte pensiamo di dare gloria a Dio, mentre invece celebriamo solo noi stessi. Non basta celebrare liturgie «perfette» e vestire panni liturgici sgargianti, od osservare materialmente regole, prescrizioni e orari; non è sufficiente essere preti, religiosi, osservanti e pii per essere «incollati» al Padre, al Figlio e allo Spirito fin nelle fibre più intime del nostro cuore.
Dentro di noi si agita un figlio che cerca salvezza, ma volendo salvarsi da solo, si ritrova a dissipare il «tutto» che è e che ha come se fosse «senza salvezza, da dissoluto: perduto due volte».

Conoscere ciò che si cerca. È un momento drammatico nella vita del figlio giovane. Egli ancora una volta si allontana dalla mèta che si era prefissato e che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa: egli che già si trova in un «paese lontano», va oltre, ponendo un abisso tra lui e suo padre. Non ha trovato ciò che cercava, perché non sapeva cosa voleva. La persona matura che si mette in cammino sa sempre quello che cerca.
Questo supplemento di viaggio significa un allontanamento ancora più radicale da suo padre e dalla sua casa, la cui distanza aumenta, mentre proporzionalmente diminuiscono le possibilità di un ritorno. Sembrerebbe che l’evangelista volesse dirci che questo figliolo ha oltrepassato il punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della sua consistenza. Cosa c’è più lontano di un «paese lontano»? C’è solo l’abisso dell’inferno, dove sta entrando il «figlio più giovane» che pretese la vita del Padre per dilapidarla in un commercio dissoluto senza salvezza.

Andò a servizio di (lett.: si incollò/attaccò a)
uno degli abitanti di quella regione
Senza padre, senza terra, senza eredità, senza ricchezza, senza prospettiva, senza dignità: egli semplicemente «non è». A lui si attanaglia a pennello la rassegnata dannazione del poeta: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Ossi di Seppia, «Non chiederci la parola»).
Non esiste la formula magica per scoprire mondi nuovi e lontani perché, se chi si mette in cammino non sa dove andare, può solo incontrare «ciò che non è, ciò che non sa» e non gli rimane che l’ultima spiaggia: aggrapparsi a «uno degli abitanti». Egli che voleva avere consapevolezza del proprio destino, dalla vita stessa è scaraventato nell’oblio dell’anonimato che è l’essenza del non-essere e il vertice del non-sapere.
«Uno degli abitanti»: non ha nome, né identità; addirittura non si dice che è «un uomo», ma che era solo «uno tra i tanti abitanti», un numero nella folla. Il testo greco è terribile nella finezza psicologica: usa il verbo kollàō, che significa «m’incollo/congiungo/aderisco/unisco».

Incollarsi alla vita. Il verbo è forte: indica una profonda intimità di condivisione di vita ed esprime anche il rapporto coniugale tra uomo e donna, per definire la fusione sponsale, che elimina la dualità di maschio e di femmina, per fare l’unità del nuovo soggetto coniugale. Il verbo kollàō elimina l’io e il tu per dare vita alla novità del noi: è un verbo che fa nascere una nuova personalità. In questo senso lo usa Matteo per affermare il principio della creazione, nella Genesi, che narra come l’uomo abbandona/si separa da suo padre e madre (cioè dalle relazioni esistenziali ed essenziali alla vita) per «lasciarsi incollare» alla propria donna ed essere così «due in una carne sola» (Mt 19,5; cf Gen 2,24). Qui il verbo esprime il suo significato più profondo, perché l’adesione dell’uomo alla donna produce l’unità più radicale della natura umana.
Luca stesso usa questo verbo per descrivere la polvere «che si è incollata/attaccata» ai piedi degli apostoli, divenendo parte di essi (Lc 10,11). In At 8,29 lo Spirito suggerisce a Filippo di «incollarsi al carro» dell’etiope sovrintendente della regina Candàce, per spiegargli l’identità del Servo. In At 17,34 lo stesso verbo è usato per descrivere l’adesione alla fede predicata da Paolo: «Ma alcuni uomini, essendosi incollati a lui, credettero». In Ap 18,5 invece è usato per indicare i peccati di Babilonia che «si sono incollati al cielo».
Questi pochi esempi sono sufficienti per soffermare la nostra attenzione su questo verbo che ha un senso decisivo e pone in atto un contrasto radicale tra la situazione di prima e quella di dopo. Non si tratta solo di mettersi a servizio per sbarcare il lunario in un tempo di carestia. La posta in gioco è molto più alta.

Conoscenza o anonimato. L’evangelista parla di un rapporto d’intimità che riguarda la vita e il suo destino, anzi le condizioni della vita stessa: colui che era figlio, ora è schiavo; colui che era libero di amare e di essere amato, ora è «incollato» a un anonimo; colui che voleva vivere a modo suo, ora è costretto a vivere a modo di un altro. Si è liberato di un padre, uccidendolo anzitempo per trovare un padrone a cui non esita di affidarsi incondiziona-tamente, incollando la sua vita a quella sua, instaurando, cioè, con lui una conoscenza così profonda da alienarsi per sempre: diventerà anonimo anche lui non solo per gli abitanti di quella regione, ma anche per gli animali, per i porci che non lo riconoscono.
La tragedia di questo figlio è terribile, se rapportata a quella dei suoi antenati, anch’essi in terra lontana (in esilio), che preferiscono morire, piuttosto che deturpare il nome e i canti di Gerusalemme: «Possa incollarmisi (kollàō) al palato la lingua, se non mi ricordassi di te (Gerusalemme)» (Sal 137/136,6). L’esule a Babilonia si strugge per essere stato costretto a separarsi dalla sua casa che è anche l’abitazione di Dio; mentre il giovane figlio ha scelto di separarsi dalla casa del padre per aderire/attaccarsi al vuoto del suo futuro senza salvezza. Egli si strappa dalla consacrazione al Dio di Gerusalemme e s’incolla, cioè si consacra a un padrone di morte. Essere incollato a uno qualsiasi degli abitanti di quella regione ha in questo contesto un valore profondamente religioso perché corrisponde anche a un atto di fede: egli accetta la legge, regole e comandamenti di «uno qualsiasi», compiendo un atto di apostasia dal suo Dio e dalla fede di suo padre. «Incollarsi a qualcuno» è accettae la prospettiva e dimensione di vita, quindi diventare come lui.

Lontano dalla Shekinàh. Non va verso l’anonimo come espediente per sopravvivere, ma è una conversione alla rovescia: abdicare da figlio d’Israele per diventare suddito di «uno degli abitanti di quella regione»; rinunciare alla sua identità di figlio del Dio di Abramo per essere servo di un impuro e sfruttatore; abbandonare le norme religiose del suo popolo per essere immondo e senza salvezza «in quella regione» che è «lontana» dal tempio, da Gerusalemme, dalla Toràh, dalla Shekinàh/Dimora del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Nel giovane figlio Adam ed Eva hanno toccato il fondo del loro costante e sistematico allontanamento dall’Eden.
Abramo credette contro ogni speranza; il giovane figlio rinnega con tracotanza; Isacco si offre in olocausto e si fa legare all’altare del sacrificio pur di restare fedele al padre suo e al Dio di suo padre; il figlio della parabola si scioglie da ogni obbligo e lega il padre all’altare del suo egoismo; Giacobbe si mette al servizio (gr.: doulèuō/io servo: il verbo conserva ancora un senso di dignità) di Labano per avere Lia e Rachele come mogli, restando distinto dal suocero e contestandone l’arroganza perfida (Gen 29,25.30), al contrario del giovane figlio, che invece prende l’iniziativa per vendere se stesso, abdicando alla sua stessa esistenza e alla sua dignità di persona. Lontano dal Dio d’Israele, come può essere vicino al senso della sua identità? Voleva vivere da parassita, ora è a rischio la sua stessa esistenza che non-vita.

E lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci
Da un punto di vista letterario il versetto 15 contiene un «anacoluto», cioè viene cambiato il soggetto logico. Si sta parlando del figlio giovane che s’incolla a un abitante della regione e il versetto continua trasformando quest’ultimo in soggetto, contro ogni logica grammaticale: «Andò (il giovane è il soggetto) a servizio di uno degli abitanti della regione e lo mandò (uno degli abitanti è il nuovo soggetto) nei suoi campi a pascolare i porci».

Figlio di Beelzebùl. Pascolare i porci è proibito a un ebreo dalla Toràh: «Fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti… il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo» (Lv 11,4.7; Dt 14,3-5.7-8).
Tale proibizione, più che a un motivo di igiene (il porco si nutre di ogni immondezza), si deva a una ragione mitologica: nella mitologia antica, il porco è associato al diavolo, è l’incarnazione di Beelzebùl (ancora oggi nella iconografia il diavolo viene raffigurato spesso con il piede di porco), che è la fonte dell’idolatria e impurità, perché egli è l’opposto di Dio, anzi il nemico. Il suo nome in babilonese è «Baal Zebul», cioè «Signore/Padrone della casa», che gli Ebrei storpiarono in «Baal Zebub – Signore delle mosche» (cioè degli escrementi). Un indizio forte di ciò lo troviamo nei vangeli sinottici, quando Gesù libera l’indemoniato addirittura da una «legione» di spiriti maligni, i quali dopo essersi arresi chiedono il permesso, che Gesù concede, di traslocare in un branco di circa duemila porci (Mt 8,28-34; Mc 5,1-14; Lc 8,26-34).

L’impurità sessuale. Pascolare i porci significa quindi mettersi sotto il dominio di Satana e del suo influsso malefico, accettare di passare dalla fede in Dio alla religione del maligno, dal comandamento della Toràh alla legge dell’ateismo. Nel 2° libro dei Maccabei si narra del vecchio scriba Eleazaro, che, viene costretto a mangiare carne di porco per avere salva la vita, preferisce la morte atroce e lasciare un esempio di fedeltà al Dio dei padri che avere salva la vita e condannare le generazioni future con un esempio di morte (2 Mc 6,18-31). Lo stesso avviene per i sette fratelli figli dell’eroica madre che preferisce lei stessa consegnare i figli alla morte pur di non trasgredire la legge di Dio (2 Mc 7,1-41, specialmente i vv. 1-3).
Il giovane della parabola accetta addirittura di «pascolare» i porci, cioè di allevarli per altri, e quindi partecipa alla corruzione del futuro, diventando strumento di morte anche per le generazioni seguenti. Un altro elemento di impurità del porco dipende dalla cultura greca che lo associa alla sfrenatezza sessuale (Aristotele, Historia animalium, V,14,546a,8-28).
Siamo sicuri che sia questo il contesto del vangelo di Luca, perché troviamo anche nella tradizione rabbinica la controprova che al tempo della chiesa nascente, questo era il sentire ebraico. La Mishnàh, infatti, prescrive che «nessuno può allevare porci in qualsiasi posto (beqòl maqòm)» (trattato Baba Kama/Prima Porta 7,7), mentre nel Talmud di Babilonia in modo ancora più esplicito si commina la maledizione a chi alleva porci e diffonde i costumi della cultura greca, mettendo così in stretta correlazione il porco e il pensiero greco, associandolo alla sfrenatezza sessuale: «Maledetto sia l’uomo che alleva porci e chiunque insegna la saggezza greca» (trattato Bekoròt/Primogeniti 82b).

La carruba e la speranza. Il giovane figlio non poteva cadere più in basso di così: dalla casa patea alla porcilaia, dal tempio all’impurità totale, dalla terra promessa benedetta alla maledizione in terra straniera, dall’obbedienza della parola di Dio alla schiavitù di un anonimo qualsiasi, dalla dignità di figlio alla schiavitù in terra lontana, dai sogni di grandezza all’abisso dell’abiezione.
Lui che era pastore di greggi nella casa del padre, ora è schiavo di porci che non gli riconoscono nemmeno la dignità di commensale. Volle affrancarsi dall’obbedienza del padre, per scrollarsi qualsiasi forma di dipendenza, e si trova davanti un padrone che «lo inviò nei suoi campi» e accetta la «missione» di essere impuro, senza protesta, alimentando l’impurità e sprofondando in essa sotto il peso della maledizione del suo popolo.
Lui che aveva aspirato a desideri di libertà, tanto da comprarla con la ricchezza iniqua, ora aspira a un solo desiderio: sfamarsi delle carrube che implora dai porci stessi al cui livello ormai si considera, ma i porci lo escludono dalla loro intimità e non lo vogliono nel loro porcile, perché egli è andato oltre l’abisso e ogni speranza che nessuna carruba potrà mai sfamare. Oltre l’immondezza della porcilaia, c’è appunto il giovane figlio che ha degradato la vita del padre incollandola a quella di un impuro e senza Dio. Non resta che una prospettiva, l’unica soluzione, la sola possibilità: la morte come pietra tombale sul vuoto che soffoca anche il desiderio di essere porco tra i porci. Come è lontano il padre adesso! Come è lontano il figlio da se stesso!  (continua – 12).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (10)

Si allontanò dal suo popolo verso un paese lontano

«13Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolto tutto, se ne andò via
per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto
[lett. da (uomo) senza salvezza]. 14Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò
e si mise a servizio [lett. si incollò/attaccò] di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15,13-16).

L a sequenza narrativa dei vv. 13-16 descrive la prima parte dell’agire del figlio «più giovane» che si potrebbe chiamare «il distacco». La sequenza è drammatica, perché con una sintesi straordinaria descrive sedici affreschi che possiamo così ricomporre:
1.    la fretta di scappare e togliersi da una situazione diventata pesante (dopo non molti giorni);
2.    l’attore è il figlio più giovane, quasi a mettere in evidenza la sua condizione di privilegiato;
3.    l’illusione di una ricchezza senza fine e autosufficiente (raccolto tutto);
4.    il distacco, il taglio definitivo con il proprio passato e la propria radice (se ne andò via);
5.    la mèta come realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni (per un paese lontano);
6.    l’ingordigia di essere finalmente libero (sperperò la sua natura/le sue sostanze);
7.    la piena soddisfazione dei bisogni a lungo repressi e finalmente realizzati (vivendo da dissoluto);
8.    la fine della ricchezza considerata «tutto» e fonte di libertà (quando ebbe speso tutto);
9.    il paese lontano, la mèta diventa un incubo di sopravvivenza (in quel paese venne una grande carestia);
10.    l’inizio di una nuova vita: l’indipendenza diventa bisogno (cominciò a trovarsi nel bisogno);
11.    quello che un tempo era figlio ora diventa servo (si mise a servizio);
12.    il padre da cui ci si affranca ora diventa «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione);
13.    il fondo dell’abisso dell’impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci);
14.    chi aveva «tutto» si accontenta degli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube);
15.    chi era commensale del padre, ora aspira a diventare commensale dei porci (che mangiavano i porci);
16.    il prediletto del padre è respinto anche dai porci (nessuno gliene dava).
Queste sedici pennellate formano l’affresco dei quattro versetti che abbiamo citato e che formano una unità letteraria che descrive le prime tre tappe del «viaggio» verso la libertà del figlio più giovane: la partenza in ricchezza, lo sperpero in baldoria, la schiavitù nella fame.
Iniziamo a esaminare più da vicino il v. 13, sezionandolo in più parti per potee cogliere meglio la portata e riflettere ad un livello più profondo per cogliee il messaggio di salvezza per noi.

V. 13:  Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose se ne andò via per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Traduzione letterale: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolto tutto, si allontanò/separò dal [suo] popolo verso un paese lontano e là disperse la sua natura da [uomo] senza salvezza.

«Dopo non molti giorni»
L’espressione «dopo non molti giorni» significa «dopo pochi giorni» ed è una figura retorica che in letteratura si chiama «litòte» (dal gr. litòs = semplice). Essa attenua la durezza di un contenuto o di un’affermazione, negando il contrario (pochi = non molti; appena sufficiente = non è poi così male). Lc non vuole calcare la mano: invece di dire che se ne andò via quasi subito, afferma che se ne andò «dopo non molti giorni», ponendo l’accento sull’aggettivo «molti» che induce a riflettere. Questa figura letteraria è molto presente in Lc specialmente negli Atti degli Apostoli (Lc 21,9; At 1,5; 12,18, ecc.).
La manciata di ore intercorse tra la richiesta del figlio minore, che pretende la vita del padre, e la sua partenza verso la libertà devono essere carichi di emozioni e imbarazzo, impregnando di emotività la casa che già appare vuota: vuota per il padre, che vede il figlio esigere la propria morte per affermare se stesso, e vuota per il figlio, che con la testa è già nel suo mondo virtuale e lontano. Domina un silenzio carico di sconfitta, scandito dalle lacrime mute del padre, che impotente assiste alla propria morte pur restando in vita e col pensiero immagina gli scenari veri di morte certa in cui si sta avventurando il figlio.
«Dopo non molti giorni» è una pausa musicale in un rapido fugato di note che si arrampicano correndo verso la fine: come se Lc volesse concedere un attimo di respiro in una situazione di soffocamento e prima della tragedia che si sta preparando.

«Raccolto tutto»
Il figlio che col corpo è in casa, ma con il cuore e la testa è già «lontano», si premura di passare in rassegna tutta la casa per  non lasciare nemmeno le briciole di «quanto gli spetta» (v. 12) della metà della vita che il padre gli ha donato.
Il testo greco non dice «raccolte le sue cose», ma «raccolto tutto», suggerendo l’idea che il figlio passa in rassegna ogni angolo con una accurata ispezione. Anche tutto quello che ha è di suo padre, ma queste sono sottigliezze di cui uno spirito libero non si cura. Questa sottolineatura è importante, perché l’autore vuole metterla in relazione al v. 14 dove ci avverte che spese «tutto».
Gli sforzi per liberarsi del padre, l’anelito della libertà, l’aspirazione a una vita autonoma e senza freni, tutto ciò per cui ha vissuto svanisce in un baleno: tutto è inutile, perché come aveva raccolto «tutto», così ora spende «tutto»: nudo è nato da sua madre e nudo resterà senza suo padre (cf Gb 1,21).

«Si allontanò/separò dal (suo) popolo»
Il testo greco usa il verbo apo-dēmèō che è composto dalla preposizione di allontanamento «apò-» e «dêmos-popolo». L’idea soggiacente è molto più che un andare via da casa. Il figlio più giovane, andandosene, «si allontanò/separò dal [suo] popolo», tagliando dietro di sé ogni radice e ogni riferimento.
Per un orientale, allontanarsi dal clan, dalla tribù, dalla famiglia, rappresentata dal padre, significava andare incontro alla morte, perché vuol dire andare allo sbaraglio, senza alcuna protezione. Esaù, per es., quando vuole separarsi dal fratello Giacobbe, non parte da solo, ma raduna tutta la sua tribù, il gregge, il bestiame e tutti i suoi beni per andarsene «lontano dal fratello» (Gen 36,6-9). Parte con il suo popolo.
Il figlio più giovane della parabola lucana, invece parte senza popolo: ha già perso la sua identità prima ancora di sperperarla in un «paese lontano».
Egli è l’opposto di Abramo che, in Gen 12,1-4, «deve» lasciare il paese, la patria e il padre per ubbidire al Dio che chiama e convoca per un progetto di popolo nuovo con una prospettiva missionaria. Abramo, infatti, andrà «verso una terra» non ancora conosciuta, che Dio stesso gli indicherà per donargliela come promessa ed eredità (cf Gen 15 e 17). Abramo non si preoccupa di conoscere la mèta «verso cui andare», perché a lui basta sapere «da dove» parte. Egli non si allontana «da» qualcuno, ma va «verso» qualcosa, un futuro, una promessa, un’alleanza. «E Abramo partì» (Gen 12,4). La partenza di Abramo è solenne e maestosa, perché è la risposta a una chiamata e quindi la realizzazione di una vocazione. Il «partì» è un progetto.
Il figlio giovane della parabola invece «si allontanò» quasi di nascosto, fuggendo, in fretta: egli non ha un progetto, ma sa esattamente «dove vuole andare». Come Abramo lascia il suo paese, la sua patria e suo padre, ma solo per egoismo e interesse. Abramo è aperto alla fecondità sconfinata («padre di molti popoli»); il giovane figlio è chiuso nella sua grettezza. Abramo si affida alla parola del «Padre», sulla quale soltanto fonda il suo futuro («farò, benedirò, renderò, diventerai, maledirò»); il giovane figlio ha soltanto la certezza di lasciare il suo passato per andare incontro «ad un paese lontano», dove non c’è salvezza. Abramo aspira l’eredità della «terra promessa»; il figlio giovane, aspirando al suo egocentrismo, erediterà soltanto una porcilaia e una fame da schiavo.
Usando il verbo «apo-dēmèō» l’autore sottolinea che il figlio giovane non si mette solo in cammino verso un suo destino, ma che egli «lascia» dietro di sé tutti i fondamenti della vita: si separa dalla «comunità» di cui non è più membro e resta un solitario che cammina isolato verso un destino di morte. Fuori della comunità o del proprio popolo, non si dà vita, ma solo illusione, che presto si trasforma in morte. È l’apostasia che conduce all’inferno dell’isolamento e dell’egoismo.

«Per un paese lontano»
In tutto il NT un’altra volta soltanto si trova questa espressione e cioè in Lc 19,12: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare». L’uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi definitivamente. L’uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra» per sempre, entrando in una diaspora senza fine.
Il viaggio del figlio minore è l’inverso dell’esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e sconosciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt 2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un solitario che emigra verso «un paese lontano» per essere straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, perché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comunità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6).
Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il figlio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega suo padre e il Dio di suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso.
L’espressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giovane figlio, che così non si mette in viaggio verso una mèta, ma s’incammina verso l’esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all’impurità.
Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur essendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «casa di sua madre» (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si rifiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi come suo Dio (Rut 1,16).  Nella parabola di Lc, invece, un figlio d’Israele rifiuta il padre, il paese e la patria  «per un paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l’impossibilità di cantare i canti del Signore (Sal 137/136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la pateità aspira all’impudicizia del paese lontano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto.

«E là disperse la sua natura
vivendo (uomo) senza salvezza»
Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consuma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo per acquisire la sua libertà. L’autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpizō» che in italiano è tradotto con «io sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scorpacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua natura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma della vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissoluto».
Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un avverbio tragico e definitivo: «asôtōs» è un avverbio che deriva dall’aggettivo «à-sōstos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sôstos» che a sua volta proviene dal verbo «sôzō» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l’avverbio con «senza speranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza».
La dissolutezza non è solo un comportamento immorale, come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «figlio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitute, ma è un atteggiamento interiore, un modo di accostarsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dissoluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale.
Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato», come forse si potrebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stesso istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consuma consumando.
Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita  nel vacuo e nell’effimero. La schiavitù più grande e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rinchiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento agli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé.
D’altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vita, che è «un paese lontano», che altro può fare se non perdere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà perdonato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Lc 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende» la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «come Dio», Adam ed Eva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di essere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tutti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono ancora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mezzo al deserto, terra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24).
Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall’Eden, alla ricerca di una libertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno.
Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi l’Adam e il figlio «prodigo»?                            (continua – 10)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»(9)

La pateità / mateità è scandalosa

Nel numero precedente di MC non avevamo esaurito del tutto il v.12. Lo riprendiamo per approfondie la portata alla luce della scrittura. Abbiamo visto che il versetto riporta la richiesta del figlio e il gesto del padre come risposta (12b-c: bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. cE il padre divise tra loro le sostanze).
Apparentemente tutto sembra pacifico e lineare, ma così non è perché ci troviamo di fronte a una tragedia.

Solo il primogenito eredita
La richiesta dell’eredità, infatti, da parte del figlio «più giovane», cioè non del primogenito, è contro il diritto e quindi illegale. Per la legislazione biblica il passaggio di eredità da padre in figlio avviene per testamento o per diritto naturale solo dopo la morte, pena l’invalidità (Eb 9, 16-17). Il diritto ereditario del primogenito supera qualsiasi altro legame, anche quello di amore tra marito e moglie:

Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiosa, e tanto l’amata quanto l’odiosa gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiosa, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiosa, che è il primogenito; ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiosa, dandogli il doppio di quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura (Dt 21,15-17).
L’eredità spirituale di Eliseo
Si può pensare che la stessa idea soggiaccia al racconto di Eliseo che insegue il suo maestro, il profeta Elia a cui, mentre è rapito in cielo da Dio, chiede in eredità due terzi del suo spirito per proseguire la sua stessa missione:

Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te». Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei». Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia, se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso»… Vistolo da una certa distanza, i figli dei profeti di Gerico dissero: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui (2Re 2,9-15).
La Legge enumera dettagliatamente gli eventuali passaggi in base alla parentela, perché lo scopo dell’eredità è quello di non frammentare il bene, ma di consegnarlo alle generazioni indiviso, sotto la responsabilità di un garante che è il primogenito:

Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia. Se non ha neppure una figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre, darete la sua eredità al parente più stretto nella sua famiglia e quegli la possiederà (Nm 27,8-11; per le figlie cf Nm 36,7-9).
Salvaguardia del patrimonio familiare
Al figlio primogenito dunque spettavano due terzi dell’eredità, mentre al minore solo un terzo. Egli però non poteva vendere il proprio terzo prima della morte del padre, che comunque mantiene il diritto dell’usufrutto. Il principio dell’unità del patrimonio è così forte che, anche al tempo di Gesù, se un figlio voleva vendere la parte del proprio patrimonio, vivo ancora il padre, il compratore ne sarebbe entrato in possesso solo dopo la morte del genitore del venditore. Il padre può fare una donazione in vita, ma è sconsigliata per le conseguenze negative che possono sopravvenire:

Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e c’è respiro in te, non abbandonarti in potere di nessuno. È meglio che i figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani (Sir 33,20-22).
 Il primo dato che emerge dalla parabola lucana è l’illegittimità della richiesta del «figlio più giovane» che diventa così una richiesta di morte anticipata del padre per potere godere del suo patrimonio. Nello stesso tempo «il figlio più giovane» viola la Toràh e le sue prescrizioni, dimostrandosi uno senza timore di Dio: per lui nulla ha valore, né il padre che vuole morto, né la Legge di Dio, che trasgredisce senza ritegno, rivelandosi non «figlio della Toràh», ma figlio pagano.

Amare da padre può significare perdere
Egli chiede la «parte di eredità che mi spetta» (v.12), sapendo bene che come «figlio più giovane», cioè secondogenito, non gli spetta alcuna eredità, ma solo quel terzo che nemmeno può alienare.
A rigore di legge, il padre avrebbe potuto buttare fuori di casa il «figlio più giovane» senza dargli nulla; oppure, come abbiamo visto, poteva condurlo in giudizio e chiedee la morte per lapidazione. Chi poteva dargli torto da un punto di vista giuridico?
Al padre però non interessa l’osservanza materiale della legge o avere riconosciuto il suo diritto al prezzo della vita del figlio; egli preferisce distruggere la propria vita, ma tentare di salvare il figliolo, piuttosto che non perdere la faccia, ma perdere il figlio. Non può obbligare con la forza della Legge ad amare con il cuore, perché nessuna legge può imporre i sentimenti e tanto meno l’amore. Non si ama perché si deve, ma si ama perché si vive.
Nel gesto del padre che prende la sua vita e la divide tra i due figli troviamo qualcosa di scandaloso: egli va oltre il diritto, oltre le convenienze, oltre le apparenze e pone se stesso come prezzo della colpa del figlio.
Il figlio pecca, ma è il padre che ne assume il peso e consapevolmente ne intende scontare la pena: «Divise la vita tra loro» (v.12). L’iconografia cristiana nel Medio Evo raffigurava il pellicano che si strappa il cuore per nutrire i suoi figli come simbolo del sacrificio di Cristo che il padre della parabola rappresenta perfettamente:

«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).

Vangelo puro, senza se e senza ma
Troviamo nel gesto del padre qualcosa di più dell’amore affettivo di un padre: il figlio è un pagano, nemico del padre, e il padre lo ama senza porre condizioni, svelando così nel suo anonimato il volto intimo del Padre dei cieli «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45):

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperae nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,32.35-36).
Il figlio chiede la «natura» del padre e questi va oltre la richiesta e dona tutta la sua stessa vita, con una abbondanza che va contro ogni logica e razionalità. Il padre ha un comportamento decisamente scandaloso: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,29-30).
Il padre che apparentemente sembra un remissivo senza spina dorsale, è invece un campione evangelico, l’esempio vivente dell’incarnazione del messaggio di Gesù:

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi  vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui (Mt 5,38-41).

Il padre e la vedova
Il figlio pretende la parte dei beni che non gli spettano perché non ne ha diritto, mentre il padre rinuncia al suo diritto e offre gratuitamente tutto ciò che è, perché sa che tutto ciò che ha proviene da Dio: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rom 3,23-24).
Egli è la controfigura della vedova che mette nel tesoro del tempio non quello che gli avanza, ma solo tutto ciò che è e tutto ciò che ha per vivere: due monetine, cioè la sua vita (cf Lc 21,2-4).
Chi rappresenta la vera «natura» di Dio è una vedova insignificante e un povero padre che si lascia depredare dal figlio non solo la proprietà, ma la sua stessa vita. Di fronte al figlio peccatore e parricida il padre si offre liberamente contro ogni logica, perché la misericordia non ha la logica della ragione, ma è la ragione dell’amore che genera e salva.
Il figlio è già salvo, anche mentre pecca, perché il padre lo ha riportato nel suo grembo per rifarlo nuovo, per redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le premesse della sua redenzione.
Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premurerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salvare il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Si è liberi quando si regala la propria libertà
Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo  non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo essere salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la libertà di regalare la propria libertà. L’espressione violenta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è anche troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla.
Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui riconosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il padre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale: dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo,  annullando così la pretesa del figlio di volere vivere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia.

L’Agàpe è Cristo
In greco il verbo «divise – dieîlen» è al tempo aoristo, che indica un’azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/definitivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli.
Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l’opposto del ricco stolto che accumula ricchezze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola considera le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio: egli è l’immagine incarnata dell’Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’Agàpe, niente mi giova. L’Agàpe è paziente, è benigna l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Agàpe non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’Agàpe; ma di tutte più grande è l’Agàpe! (1Cor 13,1-8.13).
Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l’Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Luca sa che l’Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (1Gv 4,8).
Qualsiasi morale, qualsiasi comportamento etico, qualsiasi osservanza di regole o precetti… tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell’amore a… perdere, nell’amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12):

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi Cristo, niente mi giova. Cristo è paziente, è benigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e Cristo; ma di tutte più grande è Cristo!
Non ci resta che tacere, adorare e amare, accogliendo anche noi l’invito di Gesù al dottore della legge: «Va’ e fa anche tu lo stesso» (Lc 10,37).           (continua – 9)

A cura di Paolo Farinella

Paolo Farinella