Cana (24) «Vino non hanno»

Il racconto delle nozze di cana (24)

«La nuova alleanza nel mio snague, che è versato per voi»

Gv 2,3: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”».
(kài hysterêsantos òinou lèghei hē mêtēr toû Iēsoû pros autòn: Ôinon oùk èchousin)

Fatti i preparativi per lo sposalizio, preso atto che le nozze di Cana sono le sole in tutta la storia dell’umanità che si celebrano senza sposa, del tutto assente; conosciuti gli invitati importanti ai fini del IV vangelo, con il v. 3 entra in scena uno dei protagonisti eccellenti: «il vino», in greco «òinos». Nel racconto ricorre ben 5 volte: al v. 3 (2x), al v. 9 (1x) e al v. 10 (2x). Questa «abbondanza» di vino non solo materiale (sei giare per una capienza totale da un minimo di 240 a un massimo di 480 litri), ma anche letteraria (5 occorrenze) è indice di importanza e ci invita a prestare attenzione se vogliamo cogliere il significato inteso dall’autore.
Al «protagonista vino» abbiamo dedicato ben due puntate da due angolature diverse:
    – Il vino dalla prospettiva del Messia nel suo simbolismo cristologico (cf MC 10 [2010] 24-26).
    – Il vino dalla prospettiva di abbondanza nel suo simbolismo escatologico (cf MC 11 [2010] 21-24).
Rimandiamo a queste due puntate per non ripeterci. Sarebbe bene che i lettori interessati ad un approfondimento rileggessero i due testi perché sono utili per capire quanto diremo ancora. Chi avesse smarrito i nn. 10 e 11 del 2010 sopra citati, può consultare il sito della rivista MC on line sempre disponibile: https://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25  (consigliamo anche per chi ne avesse la possibilità di aggiungere l’exursus «Il vino nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica» in Aristide Serra, Le nozze di Cana, 249-273.
Un significato universale
Il testo del vangelo annota semplicemente che a un certo punto è «venuto a mancare il vino» (v. 3a). Qualcuno ha fatto male i conti o gli invitati ne hanno approfittato e quindi, nel pieno della festa, sorge un problema. Fermarsi a questa lettura però sarebbe molto banale. Il testo così come lo abbiamo è testimoniato dalla maggior parte dei codici e in particolare dai papiri Bodmer P66 (tra i sec. II e III) e P75 (tra i sec. VI e VII). Vi sono però alcune varianti che fanno capire l’importanza del tema. Il codice «Alpha*», risalente al sec. IV, legge: «E vino non avevano perché il vino delle nozze era stato terminato», che è una forma più estesa, esplicativa: vuole cioè chiarire il pensiero e spiegando allunga. Una regola della critica testuale è che tra due testi, in genere, è da scegliere quello più breve e più difficile, perché brevità e difficoltà sono segnali di maggiore antichità. Chi vuole spiegare le cose per chiarirle, certamente è successivo al testo.
Di fronte a questo fatto, la madre di Gesù che avevamo incontrato al versetto precedente per la prima volta prende la parola e fa notare la situazione: «Vino non hanno». Anche qui lo stesso codice «Alpha*» riporta un’altra variante che dice: «Vino non c’è». Apparentemente non c’è differenza tra i due testi, ma solo apparentemente, perché la variante semplifica molto e dal punto di vista teologico pone l’accento solo sul vino che è il soggetto della frase, mentre il testo accettato pone l’accento sulle persone, in questo caso, gli sposi in quanto sono essi che «non hanno vino», anche se la sposa è assente e lo sposo è figura secondaria che compare solo per essere rimproverato dal maestro del cerimoniale (architriclino). Proprio la particolarità di uno sposalizio senza sposa e con lo sposo che c’è e non c’è, ci apre a prospettive nuove e ci fa dire che essi sono espedienti per andare oltre le apparenze come molto spesso Giovanni ci costringe a fare. L’espressione «venuto a mancare il vino» in greco è un genitivo assoluto (funziona esattamente come l’ablativo assoluto in latino) che assume un valore generale, fuori dal contesto stesso in cui si trova. Il verbo «ysteré» in greco se riferito al tempo indica «essere ultimo/venire per ultimo»; se riferito allo spazio significa «venire dopo»; se riferito a persone o cose indica mancanza e privazione e quindi «manco/ho bisogno/sono escluso». L’uso di questo verbo in Gv è un «hàpax» cioè un termine usato una sola volta in tutto il vangelo per cui non si possono fare confronti, ma dobbiamo cogliee il senso solo in questo contesto.
Il genitivo assoluto, «venuto a mancare il vino», che in se stesso esula dal testo perché se ne potrebbe anche fare a meno senza modificare la struttura sintattica della frase, ha invece un valore importante perché l’autore lo usa fuori contesto e quindi con un senso universale, così universale che si può applicare a tutta l’umanità: non solo gli sposi, che hanno fatto male i calcoli, ma è l’umanità intera che è carente, manca, ha bisogno del vino nuziale.
Per questo motivo rifiutiamo le varianti testuali; «vino non c’è» è solo una costatazione povera del fatto che non si può continuare a fare baldoria perché manca il vino e non ha quindi la stessa forza del testo che sottolinea la tragedia della situazione: nessuno ha più vino, come a dire «non c’è il Messia» tanto atteso.
La madre/Israele non è in grado di dare la gioia della vita (il vino) ai suoi figli. Anche in un’altra circostanza e contesto il popolo sperimenta la mancanza di pane, quando di fronte alle folle che lo seguono, Gesù prende atto che «non hanno di che mangiare» (Mc 8,2) e più avanti i discepoli discutono che «pani non hanno» (Mc 8,16). Pane e vino sono gli alimenti esclusivi del banchetto messianico, secondo la regola della comunità di Qumran: «E quando (preparano la mensa per mangiare, o il) mosto (per bere, il sacer)dote sten(derà per primo la mano per benedire le primizie del pane) e del mosto (…)» (4Q258[4QSd], fr. I col. II [=1QS, V,21-VI,7]).
Il vino della Sapienza eucaristica
Sia la tradizione biblica che quella giudaica avevano identificato il vino con la Parola di Dio; Donna Sapienza, infatti, «ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» alla quale invita «chi è privo di senno: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (per voi”» aggiunge la LXX) (Pr 9,2.5). Il Sapiente è colui che si nutre della Parola del Signore perché «nella Toràh del Signore trova la sua gioia, la sua Toràh medita giorno e notte» (Sal 1,2; cf Dt 4,5-6; Sal 107,43; 119/118,99…; Gdt 8,26-27.29, ecc.).
Il pane e il vino della Sapienza sono quindi la Parola del Signore. Anche nell’Eucaristia, la Chiesa prepara la duplice mensa del Lògos che carne diventa (cf Gv 1,14) e del vino, alimenti che significano la Shekinàh/Dimora/Presenza della santa Trinità. Il vino preparato dalla Sapienza è quindi il vino della Toràh, cioè la natura stessa di Dio.
Nel libro del Siracide la Sapienza che parla in prima persona s’identifica con la vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli» (Sir 24,17) per concludere che «tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la Toràh che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,23).
Anche Gesù si identifica con la vite: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e il frutto che egli porta è «l’eucaristia della nuova alleanza (Mt 26,29 e parr.)» (Bibbia-Cei 2008, nota a Gv 15,1) dove si manifesta la volontà del Padre, cioè la sua Parola, cioè ancora il Figlio come progetto per l’umanità attraverso Israele e la Chiesa: «In principio era il Lògos e il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (cf Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2-6; Ez 19,10-14; Sal 80,9-16).
I rabbini amano raccontare che quando il sacerdote Melchisedek, uomo senza origini e senza ascendenti, accolse Abramo con i doni del pane e del vino (cf Gen 14,18), lo istruì anche nella Toràh del Signore Dio (cf Gen R 43,6 a 14,18). In questa ampia gamma di simbologia, è logico condividere la conclusione della tradizione giudaica che vede nel monte Sinai la cantina dove Dio ha conservato il vino della Toràh in vista dell’alleanza con Israele quando uscì dall’Egitto.  L’espressione della donna del Cantico dei Cantici: «Egli mi ha introdotto nella cella del vino» (Ct 2,4) è interpretata dal Targum (cf Tg Ct 2,4) e dal Midrash (Ct R 1,2.5; 2,4.1; 6,10.1) come il monte Sinai che Yhwh ha adibito a cantina del vino della Toràh. A riguardo abbiamo già scritto nella settima rubrica dedicata alle nozze di Cana:
«Il quinto personaggio è il “vino” che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la Parola di Dio al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: “Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh. Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai” (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5). In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora  (“tu hai conservato il vino buono [= bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon éôs àrti”)» (MC 9 (2009), 22).
A questo punto, prima di andare avanti, non è inutile una riflessione attualizzante sullo stato della Chiesa di oggi in rapporto a quanto detto sopra. Dal testo del vangelo apprendiamo che l’espressione assoluta «venuto a mancare il vino» ha un valore universale e quindi può e deve essere applicato anche a noi e al nostro tempo. L’AT aveva il Sinai come «cantina del vino della Parola», preparato prima ancora che Israele uscisse dall’Egitto; secondo altri testi che abbiamo esaminato nelle puntate precedenti, il vino delle nozze di Cana richiama il «vino del Messia», perché i suoi tempi saranno segnati da una abbondanza senza misura. Tutte queste tipologie di vino sono proiettate nel futuro, cioè aprono una dimensione non solo di speranza, ma spingono a procedere con lena e passione verso i tempi di domani, perché ci avvicinano sempre di più all’incontro con «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).
(24 – continua)

Paolo Farinella




Cana (23) «Ecco lo sposo»

Il racconto delle nozze di Cana (23)

«Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato (meta-kalèô) mio figlio»  (Os 11.1)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)
Parte seconda
Dall’Esodo a Cana, il verbo della vocazione: «kalèô – io chiamo»
Il capitolo 19 dell’Esodo è il capitolo dell’alleanza sul monte Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto: è l’atto di nascita di Israele in quanto popolo che Gv 2 commenta con il racconto delle nozze di Cana: questo intendiamo affermare dicendo che le nozze di Cana sono un midràsh di Es 19,1-2a (Alleanza del Sinai) e di Es 7,14-25 (l’acqua del Nilo cambiata in sangue).
In questo contesto si capisce bene che la prima parola portante del racconto di Cana è lo stesso verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» che mette in relazione due personaggi: Mosè e Gesù. Il primo perché è il mediatore delle nozze tra Dio e Israele ed «è convocato/chiamato» da Dio a salire sul monte, il secondo perché è lo Sposo dell’alleanza nuova che ha il suo «principio» a Cana di Galilea (cf Gv 2,11), dove «è convocato/chiamato/invitato» per «rivelare» il senso della sua presenza non tanto in un fatterello di un villaggio, quanto piuttosto nel cuore della «Storia»: egli è il Lògos divenuto carne (cf Gv 1,14).
Il rapporto tra Mosè e Gesù non è una forzatura perché è lo stesso evangelista che ci obbliga a leggere in questa chiave il racconto, sia perché è il primo verbo principale che scandisce la narrazione di Cana, sia perché troviamo altri riferimenti supplementari che accenniamo soltanto.
a) Vocazione come rivelazione
Il verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» ha un valore di rivelazione e di investitura (vocazione) e quindi assume un significato specifico teologico, perché in Gv 2,9, quando il capo del cerimoniale (architriclino) deve riprovare lo sposo anonimo per la questione della scelta tra vino buono e vino gramo, «chiama lo sposo», usando non il verbo «kalèō», ma il verbo che si usa ordinariamente per chiamare qualcuno: «phonèō». È lo stesso evangelista, dunque, a distinguere il significato dei due verbi.
Scrive l’esegeta francese, Marc Girard:
«Fermiamoci su un solo dettaglio: il verbo kalein, “chiamare” (v. 2). Di solito gli si attribuisce un significato banale: invito, convocazione. A fronte del vero “terzo giorno”, quello che è simboleggiato in tutto il racconto, c’è molto di più: l’espressione dell’appello fondamentale di Gesù – la sua vocazione –, consacrato sposo con la sua morte e risurrezione, e anche dei discepoli, rappresentanti e immagine della futura Chiesa-sposa» (M. Girard, Cana ou l’«heure» de la vraie noce …, 108).
Il verbo è nella forma passiva e gli studiosi rilevano che nella Bibbia molte forme di questi verbi vengono definiti come «passivi divini» ovvero «passivi teologici», perché esprimono un pensiero che va oltre il significato ordinario. Giovanni e Paolo sono maestri in questo uso. Il soggetto logico (o agente) del verbo passivo «eklêthē – fu chiamato» è Dio per cui non si tratta soltanto di un «invito» a un banale matrimonio, ma della «chiamata» di Dio che convoca Gesù, il Figlio, appositamente per inviarlo a celebrare le nuove nozze con Israele (sull’uso del «passivo divino» cf altri casi in Mt 5,4.6.7.9; 25,29.32; Lc 6,37-38, Rm 6,4; 11,17-24; Col 3,1.3 ecc.).
In base allo schema giovanneo, a cui siamo ormai abituati, dietro ogni parola vi sono di norma due significati: quello ovvio, ordinario, e quello nascosto, più importante. Le nuove nozze s’impongono perché le prime sono fallite sotto il peso del tradimento (cf Os 2,4-23). Infatti, il rapporto tra le due nozze è dato dal confronto tra i personaggi protagonisti dei due eventi, collocati entrambi «nel terzo giorno»: Mosè e Gesù.
Se la dinamica del «terzo giorno» è lecita, e noi crediamo che sia anche logica, allora il confronto tra Mosè e Gesù non solo è lecito, ma è necessario.
Il ruolo che svolge Gesù è simile a quello del responsabile (architriclino) della festa: è lui che procura il vino, è lui che dà ordini ai servi/diaconi, è lui che consente con il suo intervento lo svolgimento delle nozze. Non occorre più un architriclino, perché adesso è lo stesso sposo che prepara le nozze affinché vadano a buon fine. Mosè è chiamato sul Sinai per ritornare al popolo e consegnare le tavole della Toràh, Gesù è chiamato a Cana per «manifestare/rivelare» da sé la «Gloria – Dòxa/Kabòd» di Dio attraverso i suoi «segni» e il suo volto.
b) Il Padre è la sorgente della vocazione
Al Sinai è Dio che convoca (ekàlesen – chiamò: aoristo/passato remoto indicativo attivo del verbo kalèō) Mosè sulla montagna dell’alleanza (Es 19, 3.20); a Cana è Gesù ad essere invitato (eklêthē – fu chiamato: aoristo/passato remoto indicativo, passivo del verbo kalèō) alle nozze.
Il rapporto tra le nozze del Sinai e quelle di Cana è ancora più stringente se si considera anche che dopo avere ricevuto la Toràh, «Mosè scese verso/dal popolo» (Es 19,25; cf anche vv. 10.21.24); allo stesso modo a Cana, dopo il dono dell’abbondanza del vino nuziale del Messia, anche «[Gesù] scese a Cafàao» non più verso il popolo, ma «insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli» (Gv 2,12). In tutti e due i testi sia per Mosè sia per Gesù troviamo, in greco, lo stesso verbo: «katèbē – discese».
Gesù era arrivato solo «con i suoi discepoli», ora scende dal monte della nuova alleanza con un popolo numeroso: sua madre, i fratelli e i discepoli. Il confronto con Mosè continua ancora, come vedremo a suo tempo. Qui basti per sottolineare da un lato la convergenza tra Mosè e Gesù e dall’altro anche le grandi differenze che si possono sintetizzare in una: Mosè è sempre e solo il grande mediatore delle nozze, «l’amico dello sposo» che sovrintende alla riuscita del patto nuziale (cf Gv 3,29); Gesù è lo Sposo atteso nella notte e desiderato dalla sposa e finalmente giunto (cf Mt 25,6).
«Mosè è chiamato da Dio, che gli affida una promessa e un compito per il popolo. Gesù, il Figlio di Dio, è mandato da Dio e chiamato dagli uomini in mezzo a loro per adempiere e rivelare tra di loro la promessa e il compito che Dio gli ha affidato… L’arrivo a questo matrimonio non potrebbe essere segno di un nuovo matrimonio, fondato sulla rivelazione della gloria di Gesù e sulla fede obbediente dei suoi discepoli, un nuovo Sinai, il momento della nascita della Chiesa di Gesù Cristo?» (B. Dolna, Le nozze di Cana, 48.49).
c) La vocazione come «progetto di catechesi»
Il primo verbo del racconto sulla linea narrativa, cioè il verbo più importante, lo abbiamo già detto diverse volte, è il verbo «fu chiamato» che è lo stesso di Mosè «chiamato» sul monte Sinai. Il penultimo verbo, sempre sulla linea narrativa, del brano delle nozze di Cana è il verbo «katèbē – discese» (cf Gv 2,12). Abbiamo quindi lo schema: «Fu chiamato – discese / eklêthē – katèbē» corrispondente allo schema identico che descrive la consegna della Toràh a Mosè secondo il binomio «Salì – discese / anèbē – katèbē» (cf Es 19,3.20.25).
Gesù non sale a Cana, ma discende a Cafàao, la città immersa nella «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Questi movimenti fanno vedere la natura intrinseca della Parola di Dio, che non è solo una relazione di fatti, ma una chiave di comprensione del senso degli stessi fatti.
In Esodo, «Mosè salì (gr.: anèbē) verso Dio e il Signore lo chiamò (ekàlesen) dal monte» (Es 19,3); a Cana Gesù non deve salire «verso Dio» perché egli è il Lògos che «in principio era presso Dio e il Lògos era Dio» (Gv 1,1).
Ricevuta la missione sul monte Sinai, «Mosè scese – katèbē verso il popolo» (Es 19,25); a Cana, Gesù «sta» in mezzo al popolo e «scese – katèbē» a Cafàao per allargare l’orizzonte dell’alleanza del Sinai.
Sul monte dell’esodo, Mosè è in relazione esclusivamente con il popolo di Israele, il solo eletto per ricevere la Toràh come distintivo della propria identità: nessun altro popolo è presente. A Cana Gesù scende in una città che appartiene ad un territorio che è considerato alla stessa stregua di un territorio pagano, cioè impuro.
Il Sinai è per Israele, Cana è il monte del mondo, perché Gesù «scese» nel cuore dell’impurità per incontrare gli uomini direttamente.
Sul Sinai Mosè «sale e scende» come mediatore tra Dio e il popolo che resta al di fuori del recinto (cf Es 19,21.23); a Cana Gesù «prende in mano» le nozze e le porta a compimento e quando scende non porta le tavole di una legge di pietra, ma compie due fatti: «manifesta» la sua «gloria» ai discepoli, che così diventano testimoni ufficiali della vita del nuovo rabbi Joshuà, e contemporaneamente «consegna» se stesso all’umanità in attesa e ignara in una terra laica, quasi estranea alla religione ufficiale.
La chiamata di Dio a cui Gesù ubbidisce non è nuova nella sua vita, perché egli è intriso della volontà del Padre, di cui ha fatto la struttura portante della sua vita. Come Isacco, secondo la tradizione giudaica, incita il padre Abramo ad ucciderlo per ubbidire al volere di Dio, così Gesù fa dell’obbedienza al Padre la sua pietra angolare, l’asse portante della sua vita: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; 5,30; 6,38); «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42; Mt 26,42). Gesù non comunica parole sue, ma quelle del Padre (cf Gv 7,16; 8,26.40; 17,8.14); allo stesso modo le opere che egli compie sono quelle che gli ha affidato il Padre (cf Gv 5,17; 8,28; 10,25.37; 14,10; 17,4).
Ciò non vuol dire che Gesù si trova il progetto della sua vita impacchettato con fiocco, quasi che la sua venuta sia solo un adempiere passivamente la missione ricevuta; al contrario, egli, come chiunque altro vivente che vuole essere in comunione con Dio, deve «cercare» la sua volontà negli avvenimenti della sua vita e nelle persone che incontra, altrimenti non potrebbe crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40), non sarebbe un vero uomo, ma un Dio che finge di fare l’uomo.
È questo il motivo per cui Gesù, specialmente in Lc, a ogni tornante importante della sua vita sta sempre in preghiera (cf Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; 22,41.44; cf Mt 26,36). Egli prega per illimpidirsi lo sguardo del cuore e per capire gli eventi della storia come luoghi dell’incontro con il disegno del Padre.
Gesù corrisponde alla vocazione della sua chiamata cercando il senso della sua vita che il Padre gli ha affidato, ma che lui deve scoprire come ogni altro essere umano nella ricerca, con fatica e spesso anche nel dubbio.
È qui la grandezza della incarnazione che fa di Gesù l’uomo per eccellenza, perché Figlio di Dio. È profeta Pilato nel presentarlo al popolo nella pienezza della sua umanità: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5).
Gv non usa il verbo «salire», ma «chiamare/invitare» per sottolineare, oltre alla somiglianza, anche la differenza, pur nel loro reciproco influsso, tra Gesù e Mosè: c’è il paragone, ma anche la «singolarità» di Gesù, che non ha bisogno di «salire» perché già «è disceso» per restare fino alla fine del mondo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo» confida Gesù a Nicodemo nell’incontro notturno (Gv 3,13), perché la logica della «kenòsi – svuotamento/abbassamento» (cf Fil 2,7) esige un «discendere dal cielo» permanente, definitivo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38.41.42.51.58).
Se però in Gv 2,12 Gesù «scese a Cafàao», vuol dire che egli procede dall’alto verso il basso, da Cana a Cafàao per cui l’evangelista considera il villaggio come l’equivalente del monte Sinai, anche per via, come abbiamo già visto, del nome di «Cana» che significa «egli si è acquistato». Al Sinai Dio «si è acquistato un popolo», come cantano Mosè e gli Israeliti (cf Es 15,1.6), a Cana il Padre «acquista» il popolo del Regno nella persona del Signore Gesù che è la nuova Toràh dell’alleanza eterna (Per approfondire il tema della vocazione alla luce delle nozze di Cana e degli altri passi del vangelo [Gesù al tempio in Lc 2; il discorso della montagna in Mt 5, la scelta dei Dodici in Lc 6 e la trasfigurazione sul monte in Mc 9], cf A. Serra, Le nozze di Cana, 208-214).
Oltre Cana: le nozze paradigma della storia
Concludiamo l’esame di Gv 2,2 affermando con certezza che non è lo sposalizio di Cana l’evento di cui si vuole parlare, ma l’annuncio dell’autore che inizia una èra nuova sotto il segno e il sigillo delle «nozze» come  ripresa del tema e dell’esperienza dell’Esodo: come Israele si legò a Dio con un patto nuziale che nulla, nemmeno i tradimenti successivi, avrebbe potuto intaccare, allo stesso modo, «quando giunse la pienezza del “kairòs”» (Gal 4,4), cioè il tempo del Messia, non c’è più bisogno di un intermediario sponsale perché lo Sposo è presente direttamente, di persona per rinnovare le nozze con la Sposa/Israele – Chiesa. Israele infatti resta sempre Israele, ma ora include anche la Chiesa che si apre ai Gentili. La differenza tra l’alleanza del Sinai e quella che inizia a Cana sta in questo: al Sinai si tratta di una alleanza esclusiva con Israele, successivamente inviato ai popoli della terra; a Cana invece, che è già nella «Galilea delle Genti» (Mt 4,15), le nozze di Dio avvengono direttamente con Israele e con i Gentili: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A Cana si compie il desiderio e l’anelito della sposa del Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16), che secondo il Targum a Ct 2,8 è anche l’anelito di Dio che sospira di vedere il volto della sposa orante, presente/chiamata nell’assemblea: «Fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce nella santa Assemblea». Dio non può fare a meno di «vedere e sentire/contemplare e ascoltare» la sposa che «si è acquistato» al Sinai e a Cana nelle nozze dell’alleanza.
In questo contesto, la preghiera non è solo un elevare l’anima a Dio, ma una vera e propria «vocazione» per rispondere al bisogno di Dio di vedere il volto e ascoltare la voce di Israele/Chiesa che si raduna perché Dio possa compiere il suo anelito sponsale.
Quanto deve cambiare la nostra preghiera, confinata e limitata alla lode, alla domanda e al perdono! La Bibbia e la tradizione giudaica ci aprono invece alla preghiera come «vocazione» per consentire a Dio di esercitare il suo diritto di Sposo. Questa visione attraversa tutta la salvezza che cammina nella storia e si proietta nel futuro messianico, quando, al compimento del pellegrinaggio terreno, compiute le nozze e bevuto il vino del Messia, «lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni! … Sì, vengo presto! … Vieni Signore Gesù – Maranà thà”» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).

Paolo Farinella
(23 – continua)

Paolo Farinella




Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella




Cana (21) «C’era là la madre di Gesù»

Il racconto delle nozze di Cana (21)

Gv 2,1c: «[Uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea] ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi)
Sapevamo già che Gesù ha relazioni parentali particolari o almeno interessanti: è il «Figlio unigenito che viene dal Padre» di cui viene a farci «l’esegesi» (Gv 1,14.17); è «il Figlio di Dio» testimoniato da Giovanni il battezzante (cf Gv 1,34) e riconosciuto da Natanaele che lo va a cercare di notte (cf Gv 1,49). Sapevamo anche che Gesù stesso si autopresenta come «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51) e dai «vangeli dell’infanzia» sia di Mt che di Lc sappiamo anche che ha due genitori: Giuseppe e Maria che egli tratta abbastanza malamente quando ricorda loro che devono stare al loro posto: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), non considerando l’angoscia e il dolore dei due malcapitati che credendolo scomparso si sono disperati a cercarlo. Si rivolge ai genitori contrapponendoli a un altro «Padre». Il testo di Lc è interessante perché probabilmente è la versione cristiana del rito ebraico della «Bar Mitzvàh – Figlio del Comandamento», il rito del passaggio alla maggiore età di ogni ebreo maschio al compimento del dodicesimo anno e all’ingresso nel tredicesimo. Da questo momento ogni Ebreo diventava maggiorenne e poteva leggere la seconda lettura (i profeti) nella liturgia della sinagoga. Noi ora non possiamo occuparcene.
Dalla sposa alla madre
L’autore del IV vangelo a sua volta ci informa che c’è una «madre» (cf Gv 2,1) che partecipa alle nozze: non sappiamo se come semplice invitata o come parente. Anche questa «madre» però in Gv ha una particolarità: è sempre senza nome perché non viene mai indicata ed è un altro indizio che ci costringe a salire di livello. Una precisazione è necessaria: nella letteratura Giovannea quando si parla di «madre» indica sempre Maria di Nàzaret definita secondo il costume orientale con la sua funzione (cf Gv 2.1.3.5.12; 19,25.26.27); quando si parla di «sposa» si indica invece sempre la Chiesa (Gv 3,29; Ap 18,23; 21,2.9; 22,17). È importante sottolinearlo, perché nel racconto di Cana abbiamo «la madre», ma non «la sposa», nonostante si tratti di «uno sposalizio»; bisogna intendere cosa vuole dirci l’autore.
Riguardo alla parentela, Gesù è descritto da Gv come «unigenito del Padre» (Gv 1,14.18), «Figlio di Dio» (Gv 1,34.49) e «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), per cui ora abbiamo un nuovo rapporto di parentela, preludio dei tempi nuovi: inizia l’èra della mateità della Chiesa, la sposa che genera la nuova umanità, immagine del Figlio.
Dal punto di vista delle relazioni umane, c’è chi pensa che la presenza della «madre di Gesù» sia dovuta a legami di parentela. Scrive a questo proposito Raymond E. Brown: «Esiste una tradizione apocrifa che Maria fosse la zia dello sposo, che un prefazio latino dei primi del III secolo identifica come Giovanni figlio di Zebedeo» (Giovanni, I,126). Un fatto è certo: la Madre è presente alla festa di nozze; anzi «doveva» esserci (v. più sotto la spiegazione dell’uso dell’imperfetto del verbo «essere»), ma anche perché da nessuna parte si dice che era stata invitata, come invece si afferma nel versetto seguente per Gesù e per i suoi discepoli.
Se il motivo della presenza fosse stata la parentela, anche Gesù avrebbe dovuto essere trattato come parente e avrebbe dovuto essere già là. Non si capisce perché per lui l’evangelista sente la necessità di dire che «era stato invitato» (Gv 2,2), mentre non sente questa necessità per la madre. Gesù e i suoi discepoli possono essere stati invitati da qualche conoscente, come Natanaele che era di Cana, il quale poteva avere interesse che la presenza di Gesù, personaggio noto, avrebbe dato certamente lustro e importanza al matrimonio.
Il motivo però della differenza tra la madre, che è «già» sul luogo delle nozze, e Gesù, che giunge all’inizio della festa, non bisogna cercarlo nel grado di parentela o in un invito interessato, perché ci porremmo sempre al livello immediato delle banalità; bisogna invece andare oltre le apparenze e penetrare il simbolismo che Gv ha inteso esprimere.
La semplice constatazione che «la madre di Gesù era là» potrebbe essere solo una notizia di cronaca, ma in Gv nulla è scontato e infatti dietro il senso domestico di una presenza materiale a una festa nuziale come tante altre, c’è la dimensione teologica che l’autore vuole mettere in evidenza.
Abbiamo detto spesso, e lo sottolineiamo di nuovo, che Gv usa lo stile della duplicità di significato: dietro le parole materiali di uso comune si nasconde la teologia cristologica. Non si tratta più dell’importanza del senso comune delle singole parole, ma del fatto straordinario che ciascuna di esse ha «settanta significati» per affermare la ricchezza inesauribile della Parola di Dio che nessun linguaggio, nessuna parola possono pretendere di contenere.
Qui ci troviamo espressamente di fronte a una «rivelazione» della personalità di Gesù, il Figlio di Dio. Se dal Sinai scendeva una Legge pietrificata, a Cana avviene la «manifestazione», l’epifania della persona stessa di Dio che si presenta alle nozze dell’alleanza nuova, come lo sposo atteso dall’amante del Cantico dei Cantici, e questo sposo è Gesù.
Significato dell’imperfetto «era»
L’abbinamento del verbo essere con l’avverbio «era … là» è tipica di Gv, che in tutto il vangelo la usa dieci volte, di cui due nel racconto di Cana (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26). L’uso, infatti dell’avverbio locativo «là – ekêi» con il verbo «essere» al tempo imperfetto, ritorna anche in 2,6: «C’erano poi là sei giare di pietra» (Gv 2,6). Questo richiamo ravvicinato, e identico sintatticamente, è fatto apposta per creare un parallelo tra la madre e le giare:
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
                (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
– Gv 2,6: «Poi erano là sei giare di pietra»
                (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).

Il verbo «essere» al tempo imperfetto ha valore qualitativo e indica una azione continuativa e duratura nel passato e intende dire che la madre stava «là» fin dall’inizio, come dire che «c’era da sempre».
Ogni volta che l’autore del IV vangelo deve introdurre un personaggio importante con un ruolo particolarmente significativo, usa sempre il tempo imperfetto:
– Gv 2,1: «C’era la madre di Gesù».
– Gv 3,1: «C’era tra i farisei un uomo di nome
                Nicodemo».
– Gv 4,46: «C’era un funzionario del re».
– Gv 5,5: «C’era lì un uomo che da 38 anni era malato».
– Gv 11,1: «C’era un malato, Lazzaro».
– Gv 12,20: «C’erano dunque tra quelli che erano saliti
                    per il culto, alcuni greci».

L’uso dunque dell’imperfetto del verbo «essere» è costante in Gv e forma quasi uno schema di presentazione importante (cf SERRA, Le nozze di Cana, 202-204).
La madre  e le giare
La sua presenza non è casuale: non è venuta per le nozze, ma c’era già come se aspettasse quelle nozze che sono il motivo della sua attesa. Lo stesso si deve dire delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» prima ancora che le nozze iniziassero. È evidente che Gv ci vuole comunicare un simbolismo particolare sia della madre che delle giare, perché l’una e le altre non sono coreografiche, ma hanno un ruolo preciso e una funzione determinante. La madre e le giare «erano là», cioè aspettavano che finalmente avesse luogo lo sposalizio. La madre rappresenta il popolo d’Israele in attesa di essere ripreso come «sposa» dell’alleanza nuova rinnovata, perché è reduce dalle nozze dell’antica alleanza sinaitica finita in esilio, cioè in corruzione.
Le giare sono il segno visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137) che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) le giare sono pronte per innovare la purificazione che il popolo dovette fare ai piedi del Sinai: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) la madre è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre qui assume un connotato di dirompente profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino coservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio ora scorre abbondante e invade la Chiesa, l’Israele fedele, il nuovo popolo che non è sostitutivo del primo Israele, ma ne è la continuazione nel segno del compimento.

L’espressione «la madre di Gesù» è una costruzione con un soggetto (la madre) e un genitivo (di Gesù) che tecnicamente si chiama «genitivo adnominale», perché riceve senso compiuto e pieno dal nome da cui dipende (cf R. Cantarella – C. Coppola, Nozioni di Sintassi Greca, Milano 1971, § IX,II,1). Senza il nome sarebbe semplicemente «la madre di…» nessuno.
Madre, Israele e Messia
Maria è chiamata sempre «la madre di…» Gesù, espressione che ricorre ben dieci volte su undici occorrenze (cf Gv 2,1.3.5.12; 6,42;19,25[2x].26[2x].27). La sola volta in cui ricorre il termine «madre» non riferito a Gesù è nelle parole di Nicodemo, alle prese con il tentativo di rientrare da adulto nel grembo di sua madre (cf Gv 3,4). Il motivo dell’anonimato è di due ordini: la madre è conosciuta e tutti sanno chi è, ma anche perché non è importante la sua persona, ma ciò che rappresenta, il simbolo che rappresenta. Approfondiremo questo aspetto nel commento al v. 4, quando Gesù si rivolge alla «madre» con l’appellativo di «donna».
Ancora oggi in oriente presso gli Arabi, «madre di…» è titolo onorifico, perché la mateità dà alla donna un nome nuovo, facendole assumere una personalità nuova che le fa perdere il nome proprio e subordinandola all’esistenza del figlio (G. Segalla, Giovanni, 160). Nel Cantico dei Cantici, lo sposo [il re Salomone], nel giorno delle nozze, è incoronato dalla madre (cf Ct 3,11; cf Manns, Jésus 72).
A Cana la madre «era là» per incoronare il figlio, l’«amato del Padre», che con le sue nozze conclude l’alleanza annunciata dal profeta Geremia (cf Ger 31,31) e porre fine al lutto di Rachele perché inizia la nuova vita dei suoi figli che tornano dall’esilio della morte. La madre deve incoronare il figlio nel segno dell’acqua-vino e accompagnarlo fino all’ora suprema delle nozze, l’ora del sangue e dell’acqua (cf Gv 19,34) quando sulla croce sarà spremuto come l’uva matura fino a dare il suo Spirito vitale all’umanità nuova rappresentata dalla madre/nuova Eva e dal discepolo/ nuovo Adam, consegnando loro lo Spirito (cf Gv 19,30).
In questo senso, per Gv «Madre di Gesù» è un titolo cristologico, come cristologica è la prospettiva di tutta la scena. Maria, figura del popolo nuziale dell’antica alleanza, ora è presente alle nuove nozze di Dio con l’umanità, simboleggiate nelle nozze di Cana.
Maria è la personificazione del popolo d’Israele che attende lo sposo e Gesù, suo figlio, è lo sposo che giunge per «prendere possesso» legittimamente del suo popolo. Il nome del villaggio «Cana», in ebraico «Qanàh», significa «acquistare/comprare»: il luogo geografico dell’intervento di Gesù è profetico perché esprime già il valore teologico dell’azione. Non si tratta di un matrimonio di routine, ma di un evento salvifico perché il Messia viene nel mondo «per acquistare» (redimere) non più Cana, ma la «madre» che rappresenta il popolo di Israele. Rachele era rimasta sepolta sulla via di Betlemme a piangere per i suoi figli che andavano esuli in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18). A Cana invece «c’è la madre» che accoglie il Figlio/ Messia per essere nuovamente resa feconda di figli.
Madre e popolo messianico
A Cana inizia la nuova mateità nella persona della madre, «consacrata» genitrice del popolo Israele rinnovato. Questo processo troverà il suo compimento ai piedi della croce, quando non sarà più simbolo di un Israele, ormai realtà troppo esigua, ma in rappresentanza di Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), riceverà dal Figlio suo, «l’amato dal Padre», la consegna del secondo figlio, «il discepolo che egli amava» (cf Gv 19,26; 20,2; 21,7.20), immagine e figura di Adamo e della nuova umanità «“ri-”creata». Ciò che comincia a Cana si perfeziona al Calvario, che è il vertice del vangelo, ai piedi della croce, là dove «l’ora» che a Cana vide «il principio dei segni» (Gv 1,11) esplode nella manifestazione/rivelazione al mondo della «gloria di Dio» nell’uomo crocifisso. Come a Cana la madre era già lì per consumare l’attesa del popolo orfano, così anche al Calvario, la madre è ancora già e sempre lì: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre …» (Gv 19,25).
Sinai, Cana e Gòlgota stanno insieme e si richiamano a vicenda: l’uno non può sussistere senza gli altri. Cana sta tra i due monti «salvifici» a fare da legame teologico. Al Sinai si celebra la nuzialità come promessa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7), sintetizzato dal profeta nella formula sponsale: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 11,4). Dal monte Sinai con le tavole di pietra discende, la volontà di Dio si essere il «Dio di Israele», l’identità di Israele, l’unità della nazione come popolo e il fondamento di questa unità che è la Toràh, la Legge come coscienza e come compito.
A Cana si compiono le nozze: lo sposo è accolto dalla madre. Cessa il lutto, finisce la vedovanza, inizia la nuova storia di Israele.
Al Gòlgota la Toràh non è più scritta sulla pietra, ma sulla carne viva del Figlio che versa il sangue della vita per dare vita all’acqua dell’umanità arsa dalla fame e sete della Parola di Dio (cf Am 8,11): «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscirono sangue ed acqua» (Gv 19,34). Come Eva uscì dal fianco di Adamo, così la nuova umanità esce dal fianco di Cristo, attraverso l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia che compiono quanto è stato visto e sperimentato a Cana con l’acqua trasformata in vino.
Il Sinai, come abbiamo già visto nel capitolo dedicato al vino, era considerato dagli Ebrei come la cantina di Dio, dove era conservata fin dalla creazione del mondo il vino messianico di cui la Toràh era la premessa e la promessa. Sulla croce il sangue di Cristo è versato tutto, consumando ogni riserva come aveva profetizzato il gesto di Cana, quando i servi riempiono le giare di pietra «fino all’orlo».
 (21 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (20) Tre villaggi per una sposa assente

Il racconto delle nozze di Cana (20)

Gv 2,1b: «[Uno sposalizio] avvenne a Cana di Galilea»
La Bibbia-Cei, ultima edizione (2008) fa spesso una scelta semplificativa nella traduzione, perché ha come obiettivo la proclamazione liturgica, e predilige quindi la comprensione immediata (orecchiabile) all’esattezza semantica del testo. Questo fatto crea problemi di notevole rilievo: da un lato esprime la coscienza che il popolo di Dio ha poca dimestichezza con la «Parola»; dall’altro rivela espressamente che si fa un uso strumentale della Bibbia che diventa così «supporto», ora della liturgia, come ieri lo fu della teologia. Sarebbe opportuno, anzi necessario, che la Bibbia fosse «incontrata» in se stessa indipendentemente dalla teologia o dalla liturgia o spiritualità. Sono queste che devono nutrirsi e «fondarsi» sulla Bibbia, non questa giustificare quelle. Se «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), noi ci troviamo non davanti a un libro, ma a una Persona che deve essere incontrata, frequentata e conosciuta.
Un esempio di questa scelta poco lungimirante è proprio Gv 2,1 che la Bibbia-Cei traduce con «Il terzo giorno “vi fu” una festa di nozze a Cana di Galilea». Dire che «vi fu» uno sposalizio significa dire una banalità, affermare il fatto in sé, neutro e senza alcuna incidenza nella vita di chi legge. Il testo della Cei guarda al fatto delle nozze come un fatto passato, occasionale, di quel tempo senza alcuna connotazione o conseguenza.
L’evangelista invece connota lo sposalizio e dice con solennità che vi sono conseguenze che ci riguardano. Il testo greco, infatti, riporta: «kài thê(i) hēmèra(i) thê(i) trìtēē gàmos eghèneto en Kanà thês Galilàias – E nel terzo giorno uno sposalizio “avvenne/accadde” in Cana della Galilea». Anche un lettore che conosce poco il greco si accorge immediatamente che il verbo «eghèneto – avvenne/accadde», in italiano un passato remoto, ha qualcosa di grandioso in sé, perché è la spia che qualcosa di nuovo e non previsto sta per accadere. Dal punto di vista della morfologia il verbo è una 3a persona singolare del tempo aoristo indicativo medio del verbo «ghìnomai – divento» che in forma impersonale si traduce con «accade/avviene». Si trova in due costruzioni: «kài eghèneto» e «eghèneto dé» che traducono l’ebraico «wayehî», espressione frequentissima nella Bibbia. Spesso è usata all’inizio di frase sia in ebraico che in greco per dare importanza narrativa alla frase che segue, che altrimenti sarebbe una frase secondaria.
Nella doppia forma l’espressione ricorre circa 60 volte nel NT (greco); si trova 619 volte nell’AT greco (versione della LXX), mentre nella Bibbia ebraica si conta 816 volte. L’espressione è pregnante, perché si trova sempre a inizio di frase compiuta e ha un valore narrativo, cioè, mette in primo piano quello che segue immediatamente, rendendolo necessario per la comprensione dei lettori o ascoltatori. Una cosa è dire: «Vi fu una festa di nozze» e altra cosa è affermare: «Avvenne uno sposalizio»; oppure, non è lo stesso dire: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse un censimento su tutta la terra» (Lc 2,1), perché è ben diverso dire o scrivere: «Avvenne che in quei giorni, un decreto di Cesare Augusto …».
La seconda forma annuncia con solennità che non si tratta di un fatto banale, ma di un evento portatore di senso e mette in guardia il lettore/uditore che qualcosa di unico e straordinario sta succedendo. Questo fatto spiega anche perché la Scrittura ne fa uso ricorrente, quasi costante: è un modo letterario per rendere imminenti, contemporanei e vivaci gli interventi di Dio che in questo modo entra nella storia con un passo che imprime cambiamenti e suscita eventi rilevanti: «Il Dio biblico imprime le orme del suo passaggio nell’argilla della nostra ferialità» (Serra, Le nozze di Cana, 191). Se lo sposalizio «storico» di Cana è un fatto banale in se stesso, non lo è più nella penna dell’autore del vangelo di Giovanni che ci avverte che quel fatto banale è portatore di un senso nuovo che bisogna scoprire.
La geografia di Dio
L’avvenimento che «accade», cioè lo sposalizio, si compie in una località geografica: Cana della Galilea, sulla cui identificazione da secoli si discute con altee posizioni. L’espressione «Cana della Galilea» nel vangelo di Giovanni ricorre 4 volte (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e viene a formare una inclusione, trovandosi sia all’inizio del vangelo (2 volte nel racconto delle nozze di Cana) sia alla fine (apparizione del risorto ai discepoli). In mezzo ritroviamo la stessa espressione «Cana della Galilea» all’inizio del racconto della guarigione del figlio del centurione romano (cf Gv 4,46), per cui potremmo dire che i primi quattro capitoli del vangelo si svolgono «da Cana a Cana», passando per Gerusalemme (cf Gv 2,13.23; 5,1), il Giordano (cf Gv 3,23), la Samaria (v. la donna dai cinque mariti + uno; cf Gv 4,4) e Cafaao (cf Gv 2,12).
È la geografia della salvezza perché senza geografia Dio non parla e non agisce: l’incarnazione e la rivelazione dell’alleanza deve avvenire nella «storia» cioè in «un luogo» che diventa sacramento dell’incontro con Dio. Nessun credente può vivere senza geografia, perché questa segna i confini della propria esperienza, unita alla storia come sviluppo degli eventi. Nessuna spiritualità è possibile al di fuori della geografia della storia individuale e di popolo perché il Dio di Gesù Cristo è «Emmanuel, Dio-con-noi», cioè Dio verificabile in un tempo e in uno spazio. Gv non cita questi luoghi per curiosità o per amore di cronaca, ma per ragioni teologiche: è il Lògos che vive «presso Dio, rivolto verso Dio, che era Dio» che opera da «Cana a Cana», che «sale a Gerusalemme», oppure «parte per la Galilea» oppure ancora si sposta «nella regione della Giudea».
È il Lògos eterno, la Sapienza esistente prima della creazione che «pianta la sua tenda» nella geografia e nella storia di Israele, il nuovo Tempio dove possiamo incontrare Dio faccia a faccia senza il terrore di dovere morire (Gen 33,31; Es 33,11).
Cana: una o tre?
Il villaggio di Cana, nel IV Vangelo, è sempre accompagnato dal complemento denominativo/specificazione «della Galilea», quasi un accorgimento necessario per distinguerlo da altre omonimie. Ancora oggi essa indica la località, custodita dai francescani e frequentata dai pellegrini che la tradizione indica come il luogo del «segno» dell’acqua trasformata in vino. Le ricerche archeologiche e gli studi delle fonti hanno però riproposto la problematica della sua identificazione, per la quale addirittura si sono ipotizzate tre località:
1- Qana: 12 km a sud-est di Tiro, di cui si parla nel libro di Giosuè, collocata nella tribù di Aser (cf Gs 19,28), nel Libano meridionale (antica Fenicia), che non ha nulla da spartire con la Cana del IV vangelo, anche se il Libano la sfrutta per motivi turistici.
2 – Kefr/Kafr Kenna: 6 km a nord di Nàzaret, a est di Sèfforis, nella regione della Galilea e che, ancora oggi, corrisponde alla Cana tradizionale.
3 – Khirbet Qana: 14 km a nord di Nàzaret nella valle di Battòf o Bet Netòfa, ai piedi del monte Asamòn.
Schematicamente si può affermare che le fonti antiche sono incerte; fino al Medio Evo i pellegrini conoscono e frequentano Khirbet Qana; dal XVII secolo i pellegrinaggi dirottano verso Kefr/Kafr Kenna, specialmente per impulso del francescano Francesco Quaresmi, uomo di grande cultura che, come responsabile della Custodia di Terra Santa, visitò tutti i luoghi scrivendo tra il 1619 e il 1626 l’opera «Historica Teologica et Moralis Terrae Sanctae Elucidatio» (Descrizione storica, teologia e morale della Terra Santa, in 2 volumi), ancora oggi considerata dagli studiosi l’opera più considerevole sui luoghi della memoria del Signore. In modo particolare, la tradizione di Kefr/Kafr Kenna si diffonde dal XIX secolo con l’edificazione di una chiesa, forse su una sinagoga preesistente. Per quest’ultima si schierano archeologi e studiosi di matrice francescana come padre Bellarmino Bagatti e il biblista, suo confratello, Emmanuele Testa1.
Secondo Eusebio di Cesarea (265-340, che riporta la testimonianza di Giulio Africano, morto nel 240)2 a 4 km a ovest da Khirbet Qana, esisteva al suo tempo un villaggio, Kaukàb, dove risiedevano ancora parenti di Gesù. Ancora oggi, è questa località a mantenere il monopolio di mèta indiscussa di pellegrinaggi identificata come la Cana delle nozze evangeliche.
Sulla identificazione archeologica, si crede che la parola definitiva sia stata detta dall’ultimo lavoro scientifico dovuto a un prete spagnolo, Júlian Herrojo3; non è un archeologo, ma ha svolto un lavoro straordinario di ricerca, analizzando criticamente tutti i testi letterari esistenti, pervenendo a una conclusione obbligata: la Cana evangelica non è quella dei pellegrinaggi abituali o Kefr/Kafr Kenna, ma è Khirbet Qana, nascosta ancora in parte sotto il terreno e che nascosta resterà, perché sarà difficile scalzare una tradizione ultramillenaria che continua a guidare i pellegrini all’altra Cana.
Fonti bibliche
L’esame delle fonti bibliche non è complicato in se stesso, ma pone qualche problema, perché l’interpretazione che ne danno i documenti posteriori di epoca cristiana non sempre sono univoci e chiari. Nell’AT il lemma «Qānāh» ricorre solo nel libro di Giosué: due volte per indicare il nome di un torrente (Gs 16.8; 17,9 che il greco della LXX traduce rispettivamente con «Chelkàna e Karàna») e una volta per indicare una località della tribù di Aser, localizzata in Libano: «La quinta parte (della terra) sorteggiata toccò ai figli di Aser… Il loro territorio comprendeva: …Cammon e Qānāh fino a Sidone la Grande» (Gs 19,25-30, qui vv. 24.25 e 28). Il nome Qānāh appare in una lista di località conquistate da Ramses II (ANET, 256; LOB, 181) e, con buona probabilità, corrisponderebbe al villaggio arabo di Qāna, 10 km a sud est di Tiro, cioè la Cana fenicia o del Libano (ABEL, Géographie II, 412), come accennato sopra. L’ortografia ebraica, Qānāh, è nota anche da una lista di località sacerdotali che, dopo la rivolta di Bar Kochba nella terza guerra giudaica (132-135), attesta la presenza a Cana della famiglia del sacerdote Eliasib (cf. GEIB, 244; DALMAN, Les Itinéraires 110). Lasciando da parte il Libano che dista non meno di 100 km dal luogo che ci interessa, restano le altre due località che sono contese dagli studiosi (v. nota 1).
Nel NT il villaggio di Cana è menzionato 4 volte e sempre nel IV vangelo (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e in tutte le 4 occorrenze, probabilmente per distinguerla dall’altra, è chiamata «Cana della Galilea».
Gv 2, 1.11: inizio e chiusura (inclusione) del racconto delle nozze di Cana.
Gv 4, 46: guarigione a distanza del figlio del centurione di servizio a Cafaao (cf Gv 4,46b).
Gv 21, 2: qui si dice che l’apostolo Natanaele è originario di «Cana della Galilea».
Nel racconto dello sposalizio di Cana, l’attenzione è centrata sulla trasformazione dell’acqua in vino: fatto così importante che l’autore sente la necessità di ricordarlo come evento quando parla della guarigione del figlio del centurione romano: «Andò di nuovo (dalla Samarìa) a Cana della Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Subito dopo l’autore aggiunge che il centurione romano si trovava (in missione?) a Cana, ma viveva di norma a Cafaao, la città dove Gesù era sceso con sua madre e i suoi discepoli subito dopo le nozze (cf Gv 2,12). Gesù dunque scende a Cafaao, va in Samarìa dove incontra la donna samaritana al pozzo (cf Gv 4,1-42) e risale a Cana. Qui incontra il centurione romano che è di Cafaao: questi indizi non ci dicono dove sia Cana, ma affermano che deve essere vicina a Cafaao se si verifica questo «via-vai» frequente.
In tutti e 4 i testi, quando l’evangelista nomina la località usa sempre l’articolo individuante: non dice «Cana “di” Galilea», ma è più preciso perché non vuole sbagliare né ingannare i suoi lettori; egli parla di «Cana “della” Galilea», con una denominazione specifica che indica una località ben conosciuta nelle vicinanze di Cafaao o comunque del lago di Tiberiade. Tutte e due le località sono vicine, se consideriamo che le distanze al tempo di Gesù non erano quelle odiee che seguono vie asfaltate e tortuose, ma erano più contenute perché strade che si percorrevano a piedi o mulattiere. C’è un diario di viaggio dell’«Anonimo Piacentino» (560-594) che è interessante perché ancora nel VI secolo accenna a una liturgia rituale di due idrie usate per offrire vino e all’usanza diffusa nei luoghi santi e in tutto il mondo di scrivere i nomi di chi si vuole ricordare sul tavolo di legno:
«Da Tolemaide (Akko), lasciammo il litorale e giungemmo ai confini della Galilea, nella città di Diocesarea, in cui adorammo in molti il cestello (testo incerto) della santa Maria. Nello stesso posto c’era la sedia di quando l’angelo venne a lei. Quindi, dopo 3 miglia, giungemmo a Cana, dove il Signore partecipò alle nozze, e ci sedemmo sullo stesso sedile, dove, indegnamente, scrissi il nome dei miei genitori. Delle due idrie che sono qui, una la riempii con vino e così piena la caricai sul collo e l’offrii sull’altare e nella stessa fonte ci lavammo in benedizione» (Recensio Prior Rhenaugiensis 73) .
L’excursus letterario, archeologico e geografico che abbiamo fatto potrebbe sembrare arido ed eccessivo nell’economia di una rubrica «giornalistica», ma solo ai superficiali, perché la Parola di Dio è sempre «Parola» sia in chiesa, sia in un libro, sia in una rivista e dovunque deve essere onorata e approfondita con lo stesso zelo e ardore. La geografia non è estranea alla fede, perché è il luogo dove ciascuno di noi ha incontrato il Signore e come gli innamorati conservano memoria viva dei luoghi e tempi del primo innamoramento, anche noi dovremmo conservare «memoria innamorata» degli spazi fisici dove il Signore a ciascuno di noi «manifestò la sua Gloria». La Bibbia ci insegna come fare.
 (20 – continua)

Paolo Farinella




Cana (19) Il matrimonio al tempo di Gesù, nella Scrittura, nel Giudaismo

Il racconto delle nozze di Cana (19)

La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata».
Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco.
Il sogno di Dio
Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Gen 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito1. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine.
Nella tradizione giudaica odiea, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Veni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23).
Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7).
Il matrimonio evento sociale
Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita.
Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi.
Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa.  
Il matrimonio festa popolare
Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un  anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio  era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni (v. sotto).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt).
I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio.
La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni  nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto.
Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretendee la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì.
Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c).
Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703).
Il matrimonio benedizione d’Israele
La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «oamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11).
Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa patea per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa patea, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia.
Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile3.
Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14).
Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte intea pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più intea del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33).
Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua.
Cana: farina scelta per un pane pregiato
Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel NT diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio  cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707).
Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine.  A questo scopo,  gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigee la lapidazione per adulterio.
Molto succintamente abbiamo descritto lo svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù con annotazioni, usi e scenari. In un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, c’è poco da discutere. Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna  e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno.
Tutti questi fatti estei dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli.
È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8).
Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici:
«Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi toò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici»4.
Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura.
(19 – segue)

Paolo Farinella

1 – Cf P. Farinella, Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli editori 2009, 37-47.
2 – Per l’approfondimento cf Dej ad «Lekhàh Dodì», 639.
3 – Cf Bibbia, parole, segreti, misteri, pp. 61-65.
4 – Cantico Zuta, 1,1; cf U. Neri, Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, p 54.

Paolo Farinella




Cana (18) Ecco il santuario della santa alleanza

Il racconto delle nozze di Cana (18)

Iniziamo in modo sistematico l’analisi del testo, cercando di assaporare parola per parola, facendole risuonare nel contesto immediato, ma specialmente in quello più ampio dell’intera Scrittura e tradizione giudaica. Gli Ebrei, quando scrivono la Bibbia, sono soliti oare con coroncine ogni singola lettera dell’alfabeto, quasi per sottolineare che non solo ogni parola, ma anche ogni singola consonante (in ebraico non esistono le vocali) è venerata come una «regina». Questo senso di rispetto per le parole è dovuto alla loro funzione: sono il mezzo con cui si esprime «la Parola» di Dio. In ebraico il termine «Davàr» ha un doppio significato, quasi opposto: «Parola e Fatto». Quando Dio parla, agisce e la sua azione è un evento, come avviene nella creazione (cf Gen 1, 6-7.9-11.14-15.24.29-30).  
Gli Ebrei ritengono che le lettere del loro alfabeto sono state create al crepuscolo tra il sesto giorno della creazione e l’inizio del primo sabato e Dio stesso le ha conservate gelosamente in vista dell’alleanza del monte Sinai, dove con esse avrebbe scritto sulla pietra le lettere di fuoco della Toràh (cf Ger 23,29; Mishnàh, Pirqè Avòt-Detti dei Padri, V,6; Talmùd Babilonese, Sanhedrin 34a). Il lettore non si meravigli se saremo pignoli, gustando e assaporando quasi ogni parola: questo sarà il segno del nostro rispetto per il Lògos incarnato, ma anche il nostro modo di «stare sulla Parola» (cf Gv 8,31) che diventa Parola studiata, meditata e pregata, adempiendo il sacrificio perfetto, come rilevano i saggi di Israele:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo (anche fuori Gerusalemme), sono considerati da Me (il Signore) come se bruciassero offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan). Un altro rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio [= in diasporà?], come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te» (Urbach, Les Sages d’Israël, 627-628; 950, nota 402).
Chi si accosta alla Parola di Dio deve essere predisposto a mangiarla come dice il profeta:
«“Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 3,2-4).
Togliamoci i sandali dai piedi del nostro cuore (cf Es 3,5) ed entriamo nel santuario della parola del vangelo, e lasciamoci invadere e pervadere dal significato nascosto che l’evangelista ha tenuto in serbo per noi. Tralasciamo dell’espressione «terzo giorno», già abbondantemente esaminato nelle puntate precedenti (cf, p. es., MC 7/8 (2010) 25-26).
Gv 2,1b: «Uno sposalizio» – 1
Il termine «sposalizio», in greco «gàmos» al singolare, in Gv è usato solo 2 volte e solo nel racconto di Cana; si usa anche al plurale «gàmoi – nozze». In tutto il NT, oltre Gv 2, il termine è usato 7 volte al singolare (cf Mt 22,8.10.11.12; Eb 13,4; Ap 19,7.9) e 9 al plurale (cf Mt 22,2.3.4.9.10; Lc 14,8; 12,36; 16,18[2x]). Nell’AT si trova 15 volte al singolare e 3 al plurale.
Il termine «sposalizio – gàmos» nel racconto di Cana è ripetuto due volte: «Uno sposalizio avvenne…» (Gv 2,1,1); «fu chiamato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio» (Gv 2,2); le ricorrenze sarebbero però tre se si considera la variante del codice sinaitico (sec. IV): «Vino non (ne) avevano, perché era-stato-completamente-terminato il vino dello sposalizio» (Gv 2,3).
Questa insistenza «ostinata» non ha senso nel contesto generale del racconto per dire che c’era solo un matrimonio; ma acquisterebbe un significato straordinariamente forte se il riferimento fosse di natura teologica, con lo scopo di mettere in solenne evidenza il tema della nuzialità, che tra le esperienze umane è l’unica categoria che può descrivere la relazione tra Dio/Sposo e Israele/sposa e che Dio stesso ha assunto come espressione della sua relazione con Israele. La letteratura profetica è abbondantissima al riguardo (cf Os 2,16-25; Is 50,1; 54,48; 62,4-5; Ger 2,1-2; 3,1-13; Ez 16, ecc.).
Di per sé, sposalizio sarebbe un termine banale, se non fosse che Gv, nel testo greco, lo colloca in posizione centrale tra l’indicazione di tempo (terzo giorno) e di luogo (Cana di Galilea), quasi a volerlo mettere in evidenza tra tempo e spazio, due cornordinate che convergono verso «uno sposalizio»: «E il terzo giorno uno sposalizio divenne/accadde (ci fu) in Cana di Galilea» (Gv 2,1). La forma al singolare usata potrebbe significare che si tratti di un fatto proprio «singolare» per la sua unicità: in tutto il quarto vangelo non lo incontreremo più. È un evento unico e assoluto, sia nella vita di Gesù (e questo dovrà pur dire qualcosa!) sia nel vangelo (l’autore lo sottolinea).
La festa di nozze quindi ha un’importanza che supera il significato di un semplice matrimonio tra una ragazza e un ragazzo: esso piuttosto è il veicolo per un significato profondo e unico che l’evangelista vuole farci scoprire. Compito dell’esegesi è trovare questo qualcosa di più profondo, irripetibile.
Al tempo stesso dobbiamo collegare lo sposalizio unico e irripetibile di Gv 2,1 con la  prima conclusione del racconto (cf Gv 2,11), dove Giovanni stesso dice che questo fatto, ovvio per un verso e unico per l’altro, costituisce «il principio dei segni» e quindi indica qualcosa che si rinnova, come frutto di una sorgente zampillante. Se c’è un «principio», deve esserci anche una conseguenza logica di continuità, come un fiume che ha il suo «principio» nella sorgente di montagna e il suo naturale sbocco nel mare. Il «principio» non ha una valenza cronologico-temporale, ma si attesta sul fondamento dell’esistenza. Si tratta di un evento talmente unico e «singolare» che «accade» sovente. In altre parole: il significato che l’evangelista ci conduce a scoprire ha un valore permanente; lo sposalizio di cui parla non è un semplice matrimonio, ma un evento che determina una svolta decisiva, origine a sua volta degli avvenimenti della storia che si rinnova.
Il matrimonio è solo un espediente per parlare del senso nascosto di cui esso è un simbolo perché la realtà del racconto riguarda la persona stessa di Gesù, la sua natura e missione. Con il racconto di uno sposalizio reale, assunto a simbolo della nuova rivelazione che il Lògos compie per sempre, l’evangelista fa teologia per dire «chi è Gesù». Ci troviamo di fronte ad una cristologia alta.
È evidente che Gv fa riferimento allo sposalizio unico e irripetibile avvenuto nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, celebrata in forma solenne sul Sinai e dopo più volte compromessa. È l’alleanza l’ambito che spiega perché Gesù fa irruzione «nel terzo giorno» in cui confluiscono due versanti: il versante della storia passata «già» accaduta (monte Sinai) e quella che «ancora» deve avvenire (terzo giorno della risurrezione, monte Gòlgota).
a) Tra due monti, il Sinai e il Gòlgota, un solo Nome
Lo sposalizio di Cana sta tra questi due vertici che si materializzano in due monti, Sinai e Gòlgota, per unirli tra loro in un rapporto non di causa-effetto, ma di compimento: il Sinai è la rivelazione di Dio, anticipo assoluto della manifestazione della gloria che nella crocifissione e risurrezione troverà il suo culmine e massimo splendore.
Il legame tra il Sinai/alleanza e il Gòlgota/risurrezione non è una ipotesi, perché è lo stesso Gv che lo pone in maniera forte e indiscussa. Nella narrazione della cattura di Gesù nell’orto del Getsèmani, facendo attenzione al testo greco, scopriamo sfumature di altissimo valore che purtroppo le traduzioni, compresa l’ultima della Cei (2008), non colgono, ma alle quali l’evangelista dà enorme importanza. Leggiamo il testo nell’ultima versione Cei:
«2Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.  3Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie foite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lantee, fiaccole e armi. 4Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. 5Risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. 6Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra. 7Domandò loro di nuovo: “Chi cercate?”. Risposero: “Gesù, il Nazareno”. 8Gesù replicò: “Vi ho detto: sono io”» (Gv 18,2-8).
Per tre volte l’evangelista riporta l’espressione «Sono io!» e in Gv una parola o un senso ripetuto due volte contiene in sé un significato nascosto e più profondo; ripetuta tre volte deve essere un richiamo per un senso ancora più profondo.
L’espressione non è solo una risposta di identità come dire: «Eccomi qua!». Il testo greco suona esattamente così: «Egô eimì» (Gv 18,5.6.8) che non può essere tradotto semplicemente con «Sono io», che banalizza la risposta: il testo greco, che raramente usa il pronome personale con i verbi, pone «prima» il pronome e solo dopo il «verbo». L’uso del pronome di prima persona singolare, «Egô», si spiega con l’intenzione di volere mettere una forte enfasi sull’espressione e quindi nella traduzione il pronome deve precedere il verbo. In altre parole bisogna mantenere la costruzione del greco. Il traduttore accorto deve rendere la pregnanza e intensità dell’espressione «Io-Sono!», che richiama la visione di Mosè ai piedi del monte Sinai, quando contemplò lo spettacolo del roveto ardente.
Alla domanda: «Chi cercate?», soldati e guardie rispondono che essi cercano l’uomo di Nàzaret, cioè uno come loro, anzi un sovversivo che da fastidio al potere religioso e politico. Nella risposta, invece, Gesù non dice: «Eccomi qua! Sono io!», ma si presenta con le stesse parole con cui nella Bibbia greca della Lxx, Yhwh presenta se stesso a Mosè nel roveto ardente: «Egô eimì», che correttamente deve essere tradotto con «Io-Sono», è il nome greco di Dio che traduce quello ebraico «’ehyèh». Lo ammette in nota la stessa Bibbia-Cei (2008): «Tre volte Gesù risponde Sono io, espressione in cui risuona l’eco del nome divino (cfr. Es 3,14; cfr. Gv 8,24)».
Se il riferimento è dunque alla prima manifestazione di Dio ai piedi del Sinai, allora bisogna tradurlo con lo stesso criterio e stesso modo e cioè: «Io-Sono» che è il nome proprio di Dio, il sigillo con cui Mosè deve presentarsi al popolo schiavo in Egitto: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14).
b) In ginocchio davanti a Gesù come davanti a Yhwh
Un altro elemento ci aiuta in questa prospettiva; quando Mosè si avvicina troppo al monte per vedere il roveto che brucia senza consumarsi, è interdetto da Dio che si svela: «E disse: “Io-Sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Mosè si copre il volto (nota della Bibbia-Cei spiega come sottolineatura della «trascendenza di Dio») e cade in ginocchio, perché quel nome «Io-Sono!» è carico della trascendenza e Presenza/Shekinàh di Dio, davanti alla quale bisogna coprirsi il volto, perché chi vede il volto di Dio muore.
Nel Getsèmani avviene la stessa esperienza: soldati ed emissari dei sacerdoti (potere religioso e politico) hanno la rivelazione del Dio di Mosè nell’uomo Gesù di Nàzaret. Appena i soldati e le guardie sentono pronunciare il Nome santo, «Egô eimì – Yhwh», hanno coscienza di non trovarsi più davanti all’uomo di Nàzaret, ma di fronte al Dio del Sinai e per questo «indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6), come Mosè che deve nascondere il volto, abbassandosi fino a terra davanti a Yhwh.
Nella cattura di Gesù ci troviamo davanti a una professione di fede: soldati e guardie del tempio vanno ad arrestare Gesù e incontrano il Dio di Mosè.
Se Gesù ha parlato in aramaico deve avere detto: «’anàh denàh» che significa «Io (sono) questo»; ma poiché Giovanni sottolinea la reazione dei soldati identica a quella di Mosè, con ogni probabilità Gesù ha detto in ebraico solo il pronome «’anokî», letteralmente «Io/io(sono)»; ma se consideriamo che la forma è quella «piena», enfatica e solenne, è facile propendere che l’intenzione dell’evangelista è chiara: vuole porre Gesù, l’uomo di Nàzaret sullo stesso piano del Dio Yhwh dell’Esodo. Il testo che noi possediamo però è in greco, per cui il raffronto deve essere fatto tra il testo greco del vangelo e quello greco della Bibbia della Lxx che i primi cristiani usavano come loro Scrittura.
In questo ampio contesto che dà respiro a tutta la Scrittura, comprendiamo che non si possono più leggere i singoli episodi dei vangeli chiusi in se stessi, ma è necessario respirarli nell’ampio mare della rivelazione scritta presa nel suo insieme perché esprime un solo obiettivo, una sola promessa, una sola alleanza.
Per Gv lo sposalizio di Cana è il raccordo, quasi la cerniera che unisce l’AT con il NT, il ponte gettato dal Sinai fino al Calvario: la rivelazione di YHWH sul Sinai si compie e si consuma definitivamente sul Gòlgota, dove l’impotenza suprema del Figlio fa da specchio all’onnipotenza cosmica del Dio del Sinai. Tra i due monti che iniziano e completano l’alleanza nuziale, vi è la cittadina di Cana che offre il simbolo povero di uno sposalizio come «segnale» dell’intera storia della salvezza, o meglio della storia che si fa realmente salvezza.
Resta però anche vero il fatto che tutto parte da un  matrimonio reale tra un uomo e una donna, sebbene anonimi, e uno sposalizio in Palestina è occasione di festa per il villaggio. Ad esso è invitata la madre di Gesù. Forse Gesù è di passaggio e, come era usanza, partecipa alla festa. È probabile che sia un fatto vero, perché il matrimonio è un evento civile comune nella Palestina di Gesù e non ha alcuna valenza religiosa, anche nello svolgimento, perché tutto avviene tra la casa della sposa e la casa dello sposo. Nessun richiamo alla religione e nessun simbolo religioso è visibile in un contratto di matrimonio.
Partendo da un fatto o da un racconto, l’evangelista costruisce non la teologia del «matrimonio cristiano» che, come abbiamo già detto altre volte, è totalmente assente dal suo orizzonte, ma impone una teologia cristologica: Gesù è Yhwh che nuovamente riprende le fila dell’alleanza nuziale per portarla a compimento come aveva annunciato il profeta Geremia: «Ecco verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò una alleanza nuova» (Ger 31,31). Attraverso un fatto banale l’autore ci conduce in profondità a scoprire la personalità di Gesù che ha appena presentato come «Lògos» divenuto «carne» (cf Gv 1,1.14) per «compiere» le nozze del Regno.
Come si svolgeva il matrimonio al tempo di Gesù? Nella prossima puntata in una nota storica, descriveremo brevemente le modalità dello svolgimento del matrimonio e della festa che ci faranno gustare di più il valore antropologico e teologico del racconto dello sposalizio di Can. [continua – 18]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (17) Simbologia del terzo giorno

Il racconto delle nozze di cana (17)

Abbiamo ripetuto tante volte che l’espressione «terzo giorno» con cui inizia il racconto di Cana corrisponde al «sesto giorno» del Sinai, giorno della consegna della Toràh ad Israele e tramite Israele a tutti i popoli. Il valore del numero «6» è importante nella Bibbia e nel vangelo di Giovanni per cui ne diamo qualche indicazione essenziale.

Perfezione imperfetta del n. «6»
Nel giardino di Eden, Àdam è creato nel giorno sesto: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza … E Dio creò l’uomo a sua immagine …”. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (Gen 1,26.27.31). Il giorno «6» è dunque il giorno dell’uomo, dell’umanità. Secondo il criterio biblico, il giorno «6» è calcolato in rapporto al giorno della pienezza e della totalità che è il giorno «7», giorno in cui «tutto è compiuto» e Dio si riposa: da questo punto di vista il giorno dell’uomo è «7 – 1 = 6». Se il giorno sesto è il giorno della pienezza dell’umanità, esso però è inferiore alla totalità divina, espressa nel «giorno settimo» perché giorno della perfezione di Dio meno qualcosa. L’uomo non può mai competere con Dio perché sono somiglianti, ma non sono sullo stesso piano: creatore e creatura, ma non «amiconi». Il giorno «6» tende, cammina, è indirizzato naturalmente al «giorno 7°» che è il suo fine e il suo approdo. Il compimento dell’uomo è Dio che si esprime nella pienezza di se stesso e attrae a sé l’uomo per sua natura per dare senso al bisogno di «compimento/pienezza» a cui l’uomo aspira.
Il numero «sei» quindi è il numero della perfezione imperfetta del mondo creato e dell’uomo che del creato è il vertice cosciente per questo è anche l’inizio del genere umano, perché nel giorno «6» l’umanità nasce e si rapporta con se stesso (Eva), con le creature (animali) e con le cose (terra). È l’idea di generazione e di origine, come spiega Filone di Alessandria (sec. I d.C.) nelle sue opere (De opificio mundi, 13-14 e Legum Allegoriae I,3; De Specialibus Legibus II,58; A. Serra, «Vi erano là sei giare…» in Nato da Donna 145-147).
Alla nostra mentalità occidentale il ragionamento di Filone potrebbe non interessare o apparire troppo contorto, eppure se vogliamo capire la Bibbia dobbiamo percorrere questi sentirneri che ci portano alla comprensione di mondi nuovi e modi diversi di lettura. Secondo Filone, dopo il numero «1» che è l’unità iniziale e quindi ha un valore a se stante, il numero «6» è il primo numero perfetto;  infatti se si scompone il «6» si ha: la metà che è 3; un terzo che è 2 e un sesto che è 1. Ne consegue che il «6» è uguale alla somma della sua metà (3), del terzo (2) e del sesto (1): 6 = 3+2+1. Lo stesso pensiero sviluppa sant’Agostino nel sec. V d.C., segno che questo approccio con la Scrittura è rimasto costante nella Chiesa dei primi secoli:
«A causa della perfezione del numero 6 si narra nella Scrittura che queste opere sono state condotte a perfezione in 6 giorni che sono il medesimo giorno ripetuto 6 volte. La ragione non è che a Dio fosse necessario uno spazio di tempo […]. La ragione è invece che mediante il 6 è stata indicata la perfezione del creato. Il numero 6 infatti è il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la sesta, la terza parte e la metà, che sono l’uno, il due e il tre e che addizionati danno il 6 […]. E in esso Dio ha compiuto le sue opere. E per questo non si deve trascurare il significato aritmetico. A chi riflette con attenzione appare evidente quale valore abbia in molti passi della sacra Scrittura. Non per caso è stato detto a lode di Dio: Hai disposto tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso» [Sap 11,21; cf Is 40,12; Gb 28,25] (Sant’Agostino, La città di Dio, XI,30).

Il n. «6» aspira al riposo del giorno
«settimo»
Il numero «6» è perfetto anche perché è il prodotto della moltiplicazione di 3 x 2 perché il 2 è il primo dei numeri pari e il 3 il primo dei numeri dispari. Una regola comunemente accettata presso i Giudei, compreso Filone, era la convinzione che i numeri dispari fossero numeri maschi e quindi buoni, mentre quelli pari fossero femmine e quindi cattivi  (cf E. Testa, Il simbolismo dei Giudei-Cristiani, 227). Il numero «6» contiene sia l’elemento maschile che quello femminile e quindi porta in dotazione il bene e il male. Ecco perché era conveniente che l’umanità fosse creata al «sesto giorno»: nascendo dall’accoppiamento tra maschio e femmina essa portava in sé il germe del bene e del male, intimamente mescolati come il grano alla zizzania della parabola evangelica (cf Mt 13,24-30).
Per questi motivi i kabalisti (cf Tiqouné Zohar 6) spiegano il motivo per cui la prima parola della Bibbia è «berešit – nel principio» (Gen 1,1). In ebraico è formata da «6» consonanti che essi dividono in due parole, giocando sulle assonanze con il verbo «barà – creò» e «shit» che richiama «shesh – sei» e quindi traducono: «creò il sei». Non solo, ma Dio crea l’universo e l’uomo in sei giorni. «Si comprende forse perché allora tutta la struttura del tempo ebraico è basata sull’esistenza di questo numero perfetto, il «6». Il mondo è creato in sei giorni. Poi segue lo Shabat. Lo schiavo lavora sei anni e il settimo acquista la libertà. Anche la terra può essere lavorata per sei anni, ma al settimo deve riposare (è la chemità). Il mondo creato durerà sei mila anni, e il settimo millennio inaugurerà il tempo messianico, ecc.» (M.A. Quaknin, Mystères de la kabbale, 361).
Donando la Toràh al «sesto giorno» (che come abbiamo visto corrisponde al «terzo» in base al computo complessivo, Dio consegna all’umanità il codice di discernimento, cioè la coscienza per decidere e scegliere tra bene e male, quella coscienza che Àdam ed Eva non seppero gestire. Ora la capacità di discernimento è contenuta entro i confini della «Legge» che non è una serie di norme da osservare o vietate, ma il binario di marcia verso il compimento del «settimo giorno», il giorno del riposo di Dio, cioè il giorno della perfetta somiglianza fallita nella creazione e ora rimandata nel contesto della storia. Sul numero «6» vi è una letteratura immensa sia nella letteratura apocrifa (cf P. Sacchi, Apocrifi dell’AT, vol. I, UTET, Torino 1981, 239-240; M. Erbetta, Apocrifi del NT. Vangeli I/2, Marietti, Torino 1981, 280-281) che nella patristica (cf p. es. Giustino, Dialogo con Trifone, 81, ecc.).

A Cana si riapre il tempo dell’amore
Nelle nozze di Cana, da una lato si precisa che è «il giorno terzo» che corrisponde al sesto della prima settimana di Gesù e dall’altro si mettono in bocca a Gesù le parole oscure che solo alla fine del vangelo troveranno luce e significato: «Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). Gesù si trova nel «sesto giorno», il giorno dell’uomo e della storia, ma ancora non è giunto il suo «settimo giorno», il giorno del suo riposo nella morte donata come offerta pura di obbedienza al Padre che vuole che il mondo sia salvo (cf Gv 3,17). La pienezza cercata da Gesù è la sua immersione nella volontà del Padre (cf Lc 22,44), recuperando così la disobbedienza dei progenitori che al Padre avevano preferito le lusinghe del serpente (cf Gen 3).
Tutta questa simbologia serve a mettere in connessione stretta sia dal punto di vista teologico che emozionale il Sinai e la creazione, rapporto che Giovanni prolungherà con «il principio» dell’attività di Gesù, il nuovo Sinai da cui non scende più la Toràh di pietra, ma il Volto e il Nome del Padre (cf Gv 1,18).
Le nozze di Cana sono così l’ingresso in questo vortice di Presenza e di salvezza che Dio sparge a piene mani sul mondo, davanti al quale il Figlio è venuto a dichiarare aperti ancora una volta i termini dell’alleanza nuziale. Nulla è perduto perché ora Dio è di nuovo in mezzo al suo popolo per riprendere le fila di quella alleanza sinaitica che non può andare perduta, perché Dio è fedele a se stesso e alle sue promesse. Il patto di Dio è eterno e poiché ha sedotto Israele, lo ha sedotto per sempre; per questo a Cana si riaprono i giorni delle nozze e l’oscura cittadina della Galilea quasi pagana, diventa il nuovo monte Sinai, testimone di una nuova «manifestazione/rivelazione»: le nozze etee tra il Dio di Abramo e di Mosè e il popolo santo, qui rappresentato dalle giare di pietra e dalla Madre che vuole assaporare il gusto del vino nuovo del tempo del Messia.

Cana: il «principio» della nuova bellezza
Il Targum e il Midrash al Cantico dei Cantici (Tg 2,3.5; Ct R 2,3.2; 2,3.5; 8,5.1; TB Shabbat 88a) descrivono il Sinai come l’albero che produce mele, cioè le parole della Toràh che sono «desiderabili per acquistare saggezza» (Gen 3,6) e dolci al palato della Sposa/Israele (cf Ez 3,3). Anche lo pseudo Filone (Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 [SC 229, 124; 230, 113]) paragona l’albero della vita dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Mosè sul Sinai. Nell’Eden Eva fu sedotta dal serpente e disobbedì al creatore, scoprendosi nuda nella sua opacità; al Sinai invece la sposa/Israele, si lascia sedurre solo dal suo Sposo/Dio e si veste dell’obbedienza alla sua Parola: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e obbediremo» (Es 19,8; 24,3.7). La bellezza perduta da Eva, la cui nudità deve essere coperta da pelli di animali morti (cf Gen 3,21) viene recuperata da Israele/Sposa che diventa «la più bella delle donne» (Ct 1,8; 5,9; 6,1).
Anche il vangelo di Giovanni dà importanza al numero «6»: nel capitolo 1 descrive la prima settimana di Gesù che culmina nel «sesto giorno», che corrisponde al «terzo giorno» quando avviene lo sposalizio di Cana (Gv 2,1). Nello stesso racconto al v. 6 troviamo «sei giare di pietra» che esamineremo a suo tempo; in Gv 4,6 l’incontro con la Samaritana avviene «circa l’ora sesta»; la stessa Samaritana ha avuto cinque mariti e il sesto «non è tuo marito»; a Betania, Maria sorella di Lazzaro e Marta compie l’unzione di Gesù con l’olio «sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1); Gesù viene consegnato alla morte di croce «circa l’ora sesta» (Gv 19,14) e infine Gesù consegna lo Spirito, morendo nel «giorno della Parascève» (Gv 19,31), alla vigilia del sabato, cioè nel sesto giorno (cf Gv 19,31.42).
È evidente che Giovanni vuole inserire il «terzo giorno» di Cana all’interno di un tessuto simbolico che dia al fatto una dimensione nuova e nello stesso tempo molto più ampia di quanto non possa essere un semplice e banale matrimonio.
In tutti questi passaggi c’è un disegno interiore, una spiritualità intima che lega eventi e fatti lontani con un filo rosso invisibile, che lo Spirito Santo può condurre e interpretare, perché a noi giunga il sapore dell’evento per eccellenza, il «compimento» che non ha più bisogno di pienezza: il Lògos eterno che assume il volto, la voce e la vita di Gesù di Nàzaret, «l’uomo nuovo» di cui parla San Paolo venuto a pacificare i due popoli, l’ebraico e il greco (Ef 2,15; cf anche 4,24).
A Cana si compie definitivamente la tipologia tra Adamo e Cristo, nuovo Adamo (1Cor 15,45; 22) perché mentre il primo fu causa della distruzione della prima alleanza cosmica, il secondo invece ha invitato tutta l’umanità alle nozze nuove della nuova giustizia, quella che cerca il Regno di Dio che è già storia e promessa insieme.
[continua – 17]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (16) Le nozze di cana, il futuro è dietro di noi

Il racconto delle nozze di cana (16)

L’indicazione temporale che apre il racconto di Cana è preciso e delimitato: «E nel terzo giorno» (Gv 2,1). Per comprenderne la portata straordinaria è necessario percorrere il passaggio logico degli eventi e non solo cronologico. Questa indicazione di tempo, così puntuale, come abbiamo più volte osservato, è la conclusione della prima settimana di attività di Gesù, descritta nel capitolo primo e culminante nella festa nuziale di Cana e, nello stesso tempo, è un preciso riferimento alla prima settimana della creazione, con cui Dio inizia la sua attività al di fuori di sé, come è descritta nel capitolo primo del libro della Genesi. Aggiungiamo che in Gv la prima settimana di attività pubblica di Gesù è strettamente connessa anche all’ultima settimana della sua vita terrena, che culmina nella crocifissione (Gv 12,1-19,42). Abbiamo dunque tre settimane da connettere e armonizzare: quella iniziale di Gesù, quella della creazione e quella conclusiva di Gesù. È questo legame che ora ci accingiamo a esaminare e che ci impegnerà anche per la prossima puntata.

Una lettura a ritroso per scoprire Abramo
Il punto di partenza della storia di Israele non è la Genesi, ma l’Esodo. La storia del popolo scelto da Dio non inizia con la creazione, in Adamo, ma in Egitto, dove Israele è schiavo. Qui Dio interviene con Mosè attraverso una epopea di liberazione che nei secoli successivi sarà descritta in termini enfatici, facendo di questo intervento il vero «atto creativo» con cui inizia la storia della salvezza. L’esodo è il punto di partenza, storico e teologico insieme, perché segna «la genesi» di Israele, l’origine di tutto, anche di quello che «avviene prima»: i Patriarchi e la creazione stessa. Dopo l’esodo che si compie nella fantasmagorica traversata del Mare Rosso, degna di una rappresentazione cinematografica «kolossal», l’altro punto assoluto, fulcro centrale di tutta la vita sia di Israele che di ogni singolo israelita, è l’arrivo al Monte Sinai, scenario adeguato e solenne per una mirabile manifestazione, con tutti gli ingredienti della spettacolarità: vi partecipa infatti la natura tutta con tuoni, lampi, fulmini e nubi.
Qui viene consegnata la Toràh / la Legge come coscienza di identità che deve significare il senso profondo che essa esprime: il segno dell’alleanza sponsale tra Dio liberatore e Israele liberato. Da questo momento tutto acquista senso perché l’esodo e in particolare il Sinai diventano la chiave interpretativa di tutta la storia, sia quella futura (cosa ovvia), ma anche quella passata, di cui si sono perdute le tracce nella notte dei tempi, essendo sopravvissuti solo alcuni vaghi ricordi. L’epopea dell’esodo rimette tutto in movimento: il passato (chi sono i patriarchi?) e il futuro (quale terra promessa?).
Se guardiamo solo verso il passato, scopriamo che Israele ha compiuto un’opera di ricostruzione meticolosa e logica. L’esodo pone domande essenziali. Perché Dio ha liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto? Perché Dio ha voluto dare una Legge proprio a Israele tra tutti i popoli esistenti, anche molto più significativi? In altre parole, cosa c’era prima dell’esodo e del Sinai? Qual è il senso del presente, cioè di ciò che accade al Sinai?
La risposta è ovvia: Dio ha dato la Legge a Israele per essere fedele alla promessa che aveva fatto ad Abramo. Inizia così un processo di ricognizione storico-teologica alla ricerca dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe per scoprire le fondamenta  del proprio presente e la prospettiva del futuro. La figura del primo patriarca comincia a uscire dalla nebulosità del passato e si proietta maestosa e nobile sul futuro di Israele: egli diventa la prima pietra «angolare» che dà senso all’esodo, nello stesso momento in cui l’esodo dà un nome e un volto al patriarca fondatore. È un cammino a ritroso, alla ricerca delle proprie origini. L’esodo in sé sarebbe poca cosa se non fosse «una promessa» di un Dio, diverso da tutti gli altri «dèi» conosciuti; al contrario, esso è la conclusione del cammino di una «parola» detta nella notte dei tempi che non si è smarrita, ma è diventata un fatto: la parola di Dio ad Abramo ora «si fa carne» e diventa esodo, liberazione.

Alla ricerca di Àdam
Non basta. Cosa c’era prima di Abramo? Proiettando ancora una volta la luce dell’esodo all’indietro, come un faro che illumina il cammino, Israele scopre che prima di Abramo, c’era Adamo che diventa così la coice ancora più ampia della storia della salvezza. Dal padre di Israele al padre dell’umanità. Il processo avviene dal particolare all’universale. Riflettere sull’esodo come evento fondativo significa visitare il proprio passato per cogliere la direzione del futuro e il senso del presente. La liberazione dall’Egitto e la Toràh del Sinai non sono frutti anonimi fuori stagione, ma sono la conseguenza matura di un lungo percorso che è iniziato nella notte dei tempi, anzi nel cuore di Dio. Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva pensato Israele come suo popolo ed è per realizzare questa «elezione» che ha creato il mondo, poi ha chiamato Abramo, Isacco e Giacobbe perché «costruissero» il popolo che Dio avrebbe convocato per mezzo di Mosè ai piedi del Sinai per consegnare la Toràh, il codice dell’alleanza da portare a tutti i popoli della terra.
Alla fine si ha questo schema teologico: Dio ha creato l’universo per collocarvi l’umanità, che a sua volta diventa la coice dove avviene la promessa ad Abramo e agli altri patriarchi che diventano così la premessa all’evento principe dell’esodo che culmina nel dono della Toràh come garanzia dell’alleanza sponsale tra Dio e il suo popolo Israele. Il passaggio logico è: Mosè, Abramo, Àdam, non viceversa. Ciò spiega perché nella coscienza di Israele, l’esodo e la creazione non sono mai separati, ma sono i due aspetti complementari dell’intervento di Dio che ha creato il cosmo, formato Àdam e l’umanità, chiamato Abramo, un politeista pagano, solo per amore di Israele, «inventato» da Dio stesso come partner sponsale a cui dona in dote la Toràh, che non è solo una «legge», ma il sigillo dell’alleanza e della prosperità nuziale. Tutta la storia, da Àdam a Mosè ha senso solo se proiettata verso lo scopo e l’obiettivo che è il monte Sinai, il monte dove «nel terzo giorno» Dio consegna se stesso nella forma di Toràh, cioè di «Parola che si fa carne» (cf Gv 1,14) al popolo che ha scelto tra tutti i popoli.

I figli garanzia dei genitori
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di Israele interpellò tutti i popoli della terra ai quali offrì in dono la Toràh che tutti rifiutarono per un motivo o per l’altro. Quando giunse infine ad Israele, egli non volle nemmeno sapere ciò che vi era scritto perché l’accettò senza condizioni o riserve.

«Prima di donarla agli Israeliti, l’Onnipotente offrì la Toràh a ogni tribù e nazione del mondo perché nessuno potesse dire: “Se il Santo benedetto avesse voluto darcela noi l’avremmo accolta”. Si recò dai figli di Esaù e chiese: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”, risposero quelli. – “Non uccidere” (Es 20,13). – “E tu vorresti privarci della benedizione impartita al nostro padre Esaù, cui è stato detto: ‘vivrai della tua spada?’ (Gen 27,40). Non vogliamo la Toràh”. – Allora il Signore l’offrì alla stirpe di Lot dicendo: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non commettere adulterio” (Es 20,14). – “Proprio da atti impuri siamo nati! Non vogliamo la Toràh”. Allora il Signore chiese ai figli di Ismaele: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non rubare” (Es 20,15). – “Vorresti forse portarci via la benedizione impartita a nostro padre, cui fu detto: ‘La sua mano sarà contro tutti’ (Gen 16,12)? No, non vogliamo affatto la Toràh”. Così fece con tutti gli altri popoli, i quali parimenti rifiutarono quel dono dicendo: “Non possiamo rinunciare alla legge dei nostri antenati, non vogliamo la tua Toràh, dalla al tuo popolo Israele”. – Per questo Egli – benedetto sia il suo Nome – andò infine dagli Israeliti e disse: “Accettate la Toràh?” – Risposero: “Che cosa contiene?”. – “Seicentotredici precetti”. Quelli risposero a una sola voce: “Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo”»(1).

Israele prima mette in pratica la Toràh e solo dopo se ne domanda la ragione. La risposta degli Israeliti è disarmante e totale: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai nÈhassèh wenishmà’», che la LXX traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo». Prima si fa e poi si ascolta. È importante mettere in evidenza la risposta di Israele che non s’impegna soltanto a eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di conoscee «il peso». In questo atteggiamento di Israele vi è l’entusiasmo dei discepoli che sono affascinati dall’avventura e si buttano con tutta la loro generosità senza calcolare le conseguenze che è il comportamento degli innamorati. Solo in questo contesto «personale» si può spiegare il Midrash (Midrash Ct rabba 1,4; Midras Tehilliìm/Salmi a 8,76-77) che narra di Dio che dopo avere dato la Toràh a Israele resta ancora perplesso e chiede un garante supplementare. Israele risponde dando a garanzia i propri figli, cioè il suo futuro che Dio accetta come pegno:

«Fu così che il popolo portò le mogli con gli infanti al petto e quelle gravide i cui corpi l’Eteo rese trasparenti come vetro. Poi Dio si rivolse a tutti i piccoli con queste parole: “Ecco, sto per dare la Toràh ai vostri padri, siete disposti a impegnarvi perché l’osservino?”. Ed essi risposero: “Sì”… I bambini nel ventre risposero a ogni comandamento positivo con “si” e a ogni comandamento negativo con “no”. L’Eteo diede dunque la Toràh a Israele con la fideiussione dei suoi bambini; ecco perché tanti ne muoiono quando il popolo non la osserva»(2).

Dall’esodo al Sinai per giungere a Cana
Da questa prospettiva, scopriamo che l’evangelista Giovanni è intriso di questa storia, quando scrive il suo vangelo. Collocando lo sposalizio di Cana alla fine della prima settimana di attività di Gesù e all’inizio del suo ministero pubblico, automaticamente costringe ogni credente che conosce la Bibbia a leggere nel racconto un chiaro nesso tra Sinai e Genesi e, a maggior ragione ora nel Nuovo Testamento, tra Sinai, Genesi e «Principio» del «Lògos», che si rivela e si manifesta non più su una montagna del deserto, ma nel Vangelo che assume il volto e la figura di Dio stesso. Con questo racconto l’autore ci costringe a fare lo stesso cammino a ritroso che fece il popolo d’Israele quando formò il suo pensiero teologico e lo sistemò in un organico sistema di sintesi della sua fede.
Su questo rapporto tra Genesi-Esodo-Cana, l’esegeta italiano Aristide Serra, che di fatto ha dedicato l’intera sua vita al racconto delle nozze di Cana, espone una complessa ricerca documentata nel suo ultimo volume «Le nozze di Cana» (Edizioni Messaggero di Padova nel 2009), specialmente alle pp. 110-179. Serra esamina i capitoli 19-24 di Esodo, che egli definisce «come il vangelo dell’Antico Testamento», data «l’importanza sicuramente eccezionale» (p. 119), perché attinente alla rivelazione del Sinai, che ha per oggetto l’alleanza del Signore con Israele. Dall’ampia riflessione giudaica su questo evento fondativo, egli si sofferma sulla «articolazione della settimana», che ha per protagonista la consegna della Toràh e che ha attinenza con la settimana della creazione, evidenziando così un valore cosmico anche all’evento del Sinai.
In Gen 1,3-2,3 i giorni della prima settimana in assoluto, quella della creazione, si susseguono in modo monotono e lineare, scanditi dal ritornello: «E fu sera e fu mattino: giorno primo … secondo giorno … terzo giorno … quarto giorno … quinto giorno … sesto giorno (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Nel racconto del Sinai invece si ha un ritmo diverso che esaminiamo a partire dal testo di Es 19:

«1Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai…
10 Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo.
16 Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore».

Su questo testo la letteratura giudaica (targumìm e testi rabbinici) fanno lunghe e minuziose dissertazioni, inquadrando la rivelazione del Sinai in schemi  cronologici di sei, di sette e anche di otto giorni (cf A. Serra, Le nozze di Cana, 97-102 che riporta anche una ampia e accurata bibliografia di testi). In base a questi calcoli il ritmo della scansione della settimana sarebbe il seguente. Il terzo mese del calendario ebraico è il mese di Siwàn (che corrisponde a maggio-giugno). A partire dall’inizio di questo mese, come descrive dettagliatamente il Targum dello pseudo Gionata(3), si contano i giorni con la seguente progressione:

1 giorno:    Gli ebrei giungono al deserto del Sinai (TJ I a Es 19,1-2).
2 giorno:    Mosè sale sul monte e scende (TJ I a Es 19,3-8).
3 giorno    Il Signore preannuncia la sua venuta a Mosè (TJ I a Es 19,9).
4 giorno:    Ordine del Signore a Mosè di purificare il popolo «oggi e domani» e di tenersi pronti per il «terzo giorno», il giorno della Teofania (TJ I a Es 19,10-15).
5 giorno:    Corrisponde al «domani» del punto precedente.
6 giorno:    Corrisponde al «terzo giorno» del punto precedente: Dio si rivela, consegna la Toràh a Mosé che fa avvicinare il popolo ai piedi del monte per consegnargli «le dieci parole» (TJ I a Es 19,16-25).

Nel racconto della Genesi, al sesto giorno è creato Àdam e Eva, cioè la prima umanità; al Sinai al «sesto giorno» che, come abbiamo visto, corrisponde al «terzo giorno», è creato Israele che acquista la identità di «sposa» e nelle nozze di Cana «al terzo giorno» Gesù manifesta la sua gloria. È evidente che in questa progressione cronologica il giorno più importante è «il terzo», il giorno in cui Dio manifesta se stesso sia al Sinai che a Cana e questo «terzo giorno» del Sinai-Cana corrisponde al «giorno sesto» della creazione dove la prima coppia prende vita e contempla in assoluto il volto del Dio creatore                       [continua – 16]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella