Che dice su di noi il bilancio sociale

A giugno, abbiamo pubblicato il bilancio sociale sulle nostre attività del 2024. Per Mco si tratta del quinto. Vale la pena di fermarsi a riflettere su quello che abbiamo capito di noi grazie alla sua stesura.

Interventi multisettore, assistenza sanitaria in Africa, educazione allo sviluppo in Italia. Ecco quali sono gli ambiti di lavoro nei quali sono aumentati di più gli investimenti di Missioni Consolata onlus nel 2024.
Il dato emerge dal nostro Bilancio sociale pubblicato@ il mese scorso. Nel documento, consultabile sul sito di Mco, si dà conto ai donatori anche del complessivo aumento della raccolta fondi rispetto all’anno precedente. L’incremento è stato di quasi 712 mila euro, il 21% in più del 2023.

Sono i fondi per il sostegno generico quelli che hanno registrato il maggiore aumento: questo è dovuto al fatto che, rispetto al 2023, Mco ha ricevuto più donazioni libere, cioè senza indicazioni vincolanti da parte dei donatori su come utilizzarle. Con esse si è costituito un fondo che finanzierà interventi di emergenza e iniziative in linea con le priorità della onlus: sostenere, ad esempio, progetti significativi in Paesi dove la presenza dei Missionari della Consolata è più recente e le difficoltà delle comunità locali più accentuate.

I fondi sono andati a circa 230 missionari, che li hanno usati in venti Paesi, Italia compresa, per realizzare progetti, gestire il programma di sostegno a distanza, ma soprattutto per il funzionamento di strutture e attività ricorrenti.

Mettere in sicurezza i servizi

È questo, infatti, il dato che risalta guardando alla ripartizione dei fondi fra settori operativi: progetti, sostegno a distanza (di scolari e studenti, ndr), sostegno a opere e attività ricorrenti, attività religiose e rivista.

Nel 2024, quasi trentadue euro ogni cento raccolti hanno sostenuto il funzionamento di strutture e attività ricorrenti: alle scuole è andato il 29% dei fondi di questo settore, agli ospedali il 49%, agli impianti idrici il 3%, ai programmi consolidati di difesa dei popoli indigeni il 3% e altri costi che garantiscono la piena operatività dei servizi già presenti.

In altre parole, e semplificando un po’, grazie a queste risorse, un ospedale è in grado di effettuare almeno le stesse visite e gli stessi esami di laboratorio dell’anno precedente; una scuola non è costretta ad accorpare più classi per mancanza di insegnanti o perché la pioggia ha sfondato il tetto di un’aula; una comunità non rischia di restare senz’acqua perché la pompa del pozzo si è rotta.

A finanziare, invece, iniziative espansive dell’offerta di servizi attraverso progetti di cooperazione sono andati circa 25 euro ogni cento, oltre la metà spesi fra istruzione e sanità. Mentre i sostegni a distanza ne hanno assorbiti meno di quattro.
Una fetta cospicua, pari a circa 13 euro ogni cento, ha permesso alla redazione di Missioni Consolata di produrre informazione missionaria sia sul cartaceo che sul web, mentre quasi otto euro sono stati spesi in attività religiose, come il sostegno ai seminari in cui si formano i futuri missionari della Consolata o la costruzione di chiese e cappelle. Per i costi di amministrazione e funzionamento in missione e in Italia – cioè i costi di personale e di struttura sia della onlus che delle amministrazioni regionali Imc sul campo – si è speso circa il 13% dei fondi, mentre intorno al 3% sono andati al sostegno generico di cui abbiamo parlato sopra.

Bambini del doposcuola di Zuunmod in Mongolia

E allora la sostenibilità?

A ben guardare, questa preponderanza del sostegno a strutture e attività che già esistono non stupisce: il modo dei missionari di fare cooperazione prevede, infatti, che quest’ultima sia una delle attività che si svolgono in anni di permanenza sul campo, che, non di rado, porta i religiosi stessi a diventare parte integrante della comunità locale.

In molti casi, i missionari si trovano in zone dove, negli anni, lavorando con la gente locale, sono riusciti a garantire servizi di base in ambito educativo e sanitario – dispensari e scuole primarie – per fasce della popolazione che altrimenti ne sarebbero escluse, perché le locali autorità pubbliche non sono in grado di farsi carico dei costi per i servizi alla popolazione o perché la situazione globale è decisamente peggiorata sia per ragioni interne al Paese, per il cambiamento climatico o crisi internazionali. Così, a volte, le autorità governative fanno accordi ufficiali con i missionari perché essi offrano quel servizio al posto loro.

È il caso, ad esempio, dell’ospedale di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, che, sulla base di una convenzione quadro del 2007 fra il ministero della Sanità congolese e la diocesi di Isiro-Niangara, è incaricato di servire la zona sanitaria Ovest della città di Isiro, diventando di fatto uno snodo del sistema sanitario nazionale.

In questi contesti, non si tratta di costruire un ospedale, ma di mantenerne in piedi e funzionante uno già esistente. Eventuali nuovi servizi sanitari – ad esempio, restando a Neisu: la creazione di un reparto cardiologia – vengono aggiunti attraverso interventi progettuali circoscritti solo quando se ne ravvisano necessità, fattibilità e almeno parziale sostenibilità.

La comunità locale viene coinvolta in vari modi per coprire i costi ordinari, ad esempio richiedendo il pagamento di rette scolastiche nelle scuole, o di alcuni servizi sanitari negli ospedali e centri di salute. Spesso, però, queste strutture si trovano in zone dove una buona parte della popolazione non ha il reddito sufficiente per pagare tale servizio. I missionari scelgono di offrirlo comunque per evitare che le persone rinuncino a curarsi o smettano di mandare i figli a scuola. In questo modo, la sostenibilità, intesa come capacità di queste strutture di coprire in autonomia i propri costi, viene raggiunta solo in parte. Per questo le donazioni sono indispensabili.

Inoltre, un progetto è, per definizione, un’iniziativa innovativa che trasforma, a volte in modo profondo, il contesto in cui si realizza per offrire una soluzione duratura a un problema strutturale. In questo senso, tutte le opere dei missionari, alle quali Mco offre il suo sostegno, sono state «progetti» nella loro fase iniziale, ma sono passate poi a essere «strutture e attività ricorrenti» da mantenere e far funzionare sul lungo periodo.

Lavori di costruzione del pozzo di Luia a Tete in Mozambico

Progetti sì, progettifici no

Semplificando molto, la visione più rigida dello strumento «progetto» nella cooperazione allo sviluppo prevede che il progetto «virtuoso» sia quello che realizza un’iniziativa in grado di reggersi in piedi da sola dal punto di vista finanziario una volta che il progetto è concluso e i suoi fondi terminati.

Le spese di struttura, funzionamento, personale, attività ordinarie di una scuola o di un ospedale in un Paese del Sud globale, quindi, dovrebbero essere via via coperte grazie al ruolo crescente delle autorità pubbliche locali nel prendersi in carico i costi, o attraverso le entrate – rette scolastiche, pagamenti delle visite e delle terapie – che la struttura ottiene dagli utenti in grado di pagare, o, ancora, da una combinazione di queste due cose.

Dal 2020 a oggi, i bilanci sociali di Mco hanno messo in chiaro che il sostegno a opere (strutture) e attività ricorrenti per garantirne il funzionamento ordinario assorbe il grosso dei fondi di una onlus missionaria come Mco.

Questo qualifica il suo lavoro come non sostenibile? La sua capacità di lavorare per progetti ne esce compromessa? In definitiva sono queste le domande che ci si trova a porsi davanti al quinto bilancio sociale.

Per rispondere, è di aiuto affacciarsi sulla piazza dove si svolge molta parte del dibattito pubblico sulla cooperazione in Italia, cioè il blog Info-cooperazione. Nel 2018, un articolo dal titolo «Uscire dalla spirale del progettificio. La proposta della filantropia privata» riportava un contributo@ apparso sul giornale delle Fondazioni a firma di Carola Carazzone, segretaria generale di Assifero (Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale) secondo cui «in qualunque settore, le organizzazioni che investono sulle persone, sulle capacità, sui sistemi gestionali e tecnologici, sulla sostenibilità e lo sviluppo finanziario hanno più probabilità di successo. Ma nel terzo settore l’approccio ideologico cambia le carte in tavola» e i donatori vogliono finanziare solo i progetti, seguendo il «mantra che (…) tutti i finanziamenti debbano essere destinati ai progetti con la correlata formula magica della percentuale dei costi di struttura/costi generali come unico indicatore di efficienza». Secondo Carazzone, questo da decenni strangola gli enti del terzo settore, riducendoli in «progettifici».

Carazzone definiva già nel 2018 questo modo di lavorare obsoleto e inefficace in un’epoca storica di fenomeni che superavano i confini tra settori e che si caratterizzavano per «diseguaglianza crescente, popoli in movimento, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione, populismo, xenofobia». Per affrontare questioni come queste, concludeva la segretaria di Assifero, i singoli progetti non sono sufficienti. Occorre selezionare le organizzazioni del terzo settore e «investire sulle loro missioni, sui loro obiettivi strategici, espandendo e catalizzando le loro competenze e capacità».

Centro sociale dela Barrio Santo Agostino nel Barrio Caplanca a Luanda, Angola

Nessun posto è lontano…

Sette anni, trenta milioni tra rifugiati e sfollati, una pandemia e due guerre dopo, le considerazioni di Carazzone non potrebbero essere più attuali. Che qualcuno non possa curarsi in Costa d’Avorio o non possa andare a scuola in Colombia ha smesso da tempo di essere un problema solo locale. Questo per almeno due motivi: il primo è la mobilità umana, che è un tratto tipico della nostra specie e lo strumento a cui ricorrono le persone quando non trovano, nel luogo in cui vivono, le condizioni, compresa la disponibilità di servizi pubblici, per avere uno standard di vita che ritengono accettabile. Se la quota di popolazione che migra sul pianeta non è aumentata nemmeno di un punto percentuale dal 1990 a oggi, passando dal 2,9% al 3,7%, in valore assoluto le persone che si muovono sono raddoppiate: da 154 a 304 milioni@.

Il secondo motivo è che le diseguaglianze stanno aumentando anche nelle società del Nord del mondo, che stanno affrontando problemi sempre più simili a quelli del Sud globale: problemi che, in Italia, riguardano sistemi sanitari in affanno, una incidenza della povertà familiare cresciuta di tre punti percentuali in dieci anni@ e investimenti troppo bassi nel settore dell’istruzione@.

Bambini del doposcuola di Zuunmod in Mongolia

… e chi dona lo sa

Le persone reagiscono in modi diversi di fronte a questi fenomeni: uno di essi è percepire i problemi come questioni comuni a loro e a molti altri lontani e collegate tra loro, che si manifestino sotto casa o in un altro continente.

Molti dei donatori di Mco mostrano in modo chiaro questa sensibilità, quando donano a una struttura (ospedale, scuola) o addirittura a un’attività ordinaria che la struttura svolge (parti sicuri, stipendi per gli insegnanti) senza indicare altro.

Molti immaginano forse che un ospedale missionario come quello di Neisu, in Rd Congo, resterà non del tutto sostenibile a lungo.

Ma sanno che non è sostenibile nemmeno il fatto che in quello stesso Paese ci siano intere aree dove la guerra del 1997 – 2002 non è mai finita e dove i metalli necessari per produrre i nostri dispositivi elettronici vengono estratti dal sottosuolo da una forza lavoro che include bambini di sette anni pagati un dollaro al giorno@ e che a trarre i maggiori guadagni da questo commercio sia un gruppo armato, l’M23, che commette atrocità costanti contro la popolazione civile@.

In questo senso, allora, il sostegno a opere e attività ricorrenti è una voce che abbiamo creato per «etichettare» una parte importante delle risorse raccolte, e poi utilizzate sul campo, e che mostra la visione inclusiva e solidale che i nostri donatori hanno del mondo.

Formazione di donne vedove all’allevamento suino in Uganda

Una piccola galassia

Siamo certamente in buona compagnia: secondo i dati disponibili su Open Cooperazione@, la piattaforma di info-cooperazione che raccoglie i dati delle organizzazioni italiane del settore, le entrate di queste organizzazioni nel 2023 sono state 1,3 milardi di euro di cui il 40% da donatori privati.

A caricare i dati sono stati 143 enti. Secondo l’ultimo censimento Istat delle istituzioni non profit@, quelle che hanno come settore di attività prevalente la cooperazione e solidarietà internazionale sono 4.443 e portano avanti il loro lavoro grazie a 3.741 dipendenti e 70.262 volontari, di cui il 55% svolgono attività sistematica e il 45% saltuaria.

È difficile stabilire solo con queste informazioni quale sia il volume totale dei fondi raccolti da queste oltre 4mila organizzazioni e impiegati nella cooperazione.

Per quanto riguarda Mco, gli enti del terzo settore che ci hanno sostenuti nel 2024 sono stati 87, di cui sei hanno come obiettivo esclusivo, o almeno prevalente, il finanziamento alle opere dei missionari della Consolata, e forniscono oltre un terzo dei fondi che riceviamo da questa categoria di donatori.

Chiara Giovetti

Nota bene:
alla data di chiusura di questo articolo, il bilancio sociale era ancora in fase di stesura. Per questo potrebbero esserci delle piccole discrepanze fra i dati riportati qui e quelli definitivi.

Lavori al pozzo di Luia a Tete, Mozambico



Rifugiati, la crisi non rallenta

Il numero di rifugiati e sfollati nel mondo è aumentato per 12 anni consecutivi e oggi è pari a oltre due volte la popolazione dell’Italia. Sette rifugiati su dieci sono ospitati negli Stati confinanti il Paese d’origine, quasi sempre Paesi a basso o medio reddito.

Lo scorso 7 aprile, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr, riferiva che, a due anni all’inizio della guerra in Sudan, le persone costrette a fuggire dal Paese erano circa 12,7 milioni, di cui 8,6 milioni sfollati all’interno dei confini sudanesi e quattro milioni nei Paesi confinanti o vicini: Egitto, Sud Sudan, Chad, Libia, Uganda, Etiopia e Repubblica centrafricana@. Sul totale mondiale dei rifugiati, riportava l’agenzia, uno su 13 è del Sudan, che diventa così il Paese con il maggior numero di profughi al di fuori dei propri confini in tutta l’Africa. Fra le persone costrette a fuggire ci sono anche cittadini non sudanesi che erano già rifugiati da altri Paesi accolti in Sudan.
I livelli di insicurezza alimentare erano molto alti, fra il livello 3, che indica crisi, e il livello 4, di vera e propria emergenza, con una zona nella parte meridionale del Sudan dove la situazione era già in fase 5, quella della catastrofe umanitaria@.

La guerra nel Paese, raccontava Enrico Casale su MC dello scorso aprile@, è scoppiata nel 2023 «a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile», in seguito all’instabilità politica generata dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir, arrivato al potere nel 1989 con un colpo di Stato e deposto trent’anni dopo. Il conflitto vede opporsi l’esercito sudanese e le Rapid support forces (Rsf), eredi delle milizie Janjaweed responsabili delle atrocità nella regione sudanese occidentale del Darfur all’inizio di questo secolo.

123 milioni di profughi

Quella del Sudan è una delle peggiori crisi umanitarie in corso, ma il numero di profughi nel mondo sta aumentando da 12 anni consecutivi: se nel 2012 gli sfollati globali erano circa 43 milioni, alla fine di giugno dell’anno scorso erano triplicati: 122,6 milioni, provenienti da 179 Paesi@. Questo mese esce il nuovo rapporto Unhcr che fornirà dati più consolidati; intanto, quelli a disposizione dicono che una persona su 67 sul pianeta è costretta a lasciare il luogo in cui vive per sfuggire a persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.

Sul totale di quasi 123 milioni, oltre la metà sono sfollati interni al paese d’origine, 38 milioni sono rifugiati, 8 milioni sono richiedenti asilo – cioè persone che hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale, ma la cui situazione non è ancora definita – e poco meno di 6 milioni sono persone non incluse in queste due categorie ma probabilmente bisognose di protezione internazionale.

Due terzi dei rifugiati vengono da soli quattro Stati: Siria, Venezuela, Ucraina e Afghanistan; circa sette su dieci sono ospiti di Paesi a basso e medio reddito confinanti con quello di origine. I minori, cioè le persone sotto i 18 anni di età, sono 47 milioni.

Questi numeri provengono da tre fonti: Unhcr, Unrwa (United nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near East) e l’Idmc (Internal displacement monitoring centre) della Ong umanitaria Consiglio norvegese per i rifugiati.

Unhcr e Unrwa sono entrambe agenzie Onu, ma hanno mandati diversi e complementari. In particolare, l’Unrwa – che ha sotto il suo mandato circa 5,9 milioni di palestinesi – fornisce ai rifugiati servizi in cinque ambiti, fra cui sanità e istruzione, in attesa di una soluzione alla loro situazione, mentre l’Unhcr offre assistenza solo temporanea ma ha l’autorità di reinsediare i rifugiati palestinesi e cercare per loro soluzioni durature. Secondo l’Unhcr, però, ogni anno viene reinsediato meno dell’1% dei rifugiati@.

Boa Vista e rifugiati venezuelani

Anche la crisi venezuelana non registra miglioramenti: la situazione di mancanza di servizi di base, violenza, criminalità e violazioni dei diritti umani è tale che quasi un venezuelano su quattro ha lasciato il Paese. Secondo la piattaforma R4V, cogestita da Unhcr e Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), i rifugiati e migranti venezuelani nel mondo sono poco meno di 7,9 milioni, di cui 6,7 distribuiti in 17 Paesi dell’America Latina. I primi tre Paesi ospitanti sono Colombia, che ha 2,8 milioni di venezuelani sul proprio territorio, Perù (1,7 milioni) e Brasile (627mila)@.

Il Brasile si è dato una legislazione sulla migrazione che facilita molto l’accoglienza, attribuendo agli stranieri – almeno sulla carta – gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, senza grandi distinzioni legate allo status di rifugiato o migrante, e mettendo a disposizione rifugi, assistenza umanitaria e ricollocamento delle persone nei vari Stati brasiliani nell’ambito della Operação acolhida, operazione accoglienza. Ma le difficoltà restano tante: secondo l’analisi dei bisogni di rifugiati e migranti fatta da R4V nel 2024@, i minori immigrati che non erano iscritti al sistema scolastico formale erano circa il 17% nel Paese, ma un’ulteriore verifica condotta nello stato di Roraima, principale punto di ingresso dei migranti dal Venezuela in Brasile, alzava il dato al 54%. Quanto alla nutrizione, se a livello nazionale era il 22% delle famiglie immigrate intervistate a segnalare insicurezza alimentare moderata o grave, in Roraima la percentuale era di cinque punti più alta. La popolazione indigena – Warao, Pemon, Taurepang, E’ñepa, Kariña e Wayuu – ha difficoltà ancora maggiori: l’analisi cita il caso di un rifugio della Operação acolhida dove i bambini che non frequentavano la scuola erano 86 su cento.

Donna Warao che lava la sua roba a Boa Vista

Le difficoltà concrete

A Boa Vista, in Roraima, un’équipe dei missionari della Consolata assiste i migranti e rifugiati venezuelani che vivono negli insediamenti informali, cioè fuori dai centri governativi. Padre Juan Carlos Greco, missionario di origine argentina membro dell’équipe, ha lavorato anche nove anni in Venezuela con gli indigeni Warao.

«Non è facile capire chi è rifugiato e chi migrante», spiega Juan Carlos: spesso non dipende solo dal motivo per cui una persona ha abbandonato il proprio Paese – cioè se è o no in fuga da una persecuzione – ma dai documenti di cui dispone all’arrivo. «Immagina che marito e moglie arrivino con in tasca una carta d’identità venezuelana: a entrambi viene riconosciuto il diritto ad avere la residenza in Brasile e diventano così migranti residenti. Ai bambini con meno di 12 anni, il Venezuela non rilascia una carta di identità, perciò, se la coppia ha una figlio di quell’età è senza documenti e le autorità, per poterlo accogliere, devono riconoscergli lo status di rifugiato. Infine, se a questi genitori arriva un nuovo figlio mentre sono in Brasile, lo Stato brasiliano non può attribuire al nuovo nato la cittadinanza venezuelana, perciò lo riconosce come cittadino brasiliano. Ecco allora che hai famiglie con genitori migranti residenti, figli grandi rifugiati e figli piccoli cittadini brasiliani».

Alle questioni burocratiche si aggiungono poi altre difficoltà: ci sono persone – continua Juan Carlos – che sono venute dal Venezuela perché sono malate o disabili e nel loro Paese non possono più curarsi. Ma nelle loro condizioni non riescono a lavorare e possono solo “stare in un rifugio in attesa di un miracolo”». Spesso, poi, il cibo servito nei rifugi crea ulteriori problemi, perché è avariato o cucinato in modo scorretto e causa intossicazioni alimentari. «Prima, a fornire il cibo era la Caritas brasiliana, ma ora ha chiuso per mancanza di fondi: questi venivano infatti in larga parte dagli Usa, ma il governo statunitense a gennaio ha sospeso gli aiuti»@.

A volte, pur di lavorare, i migranti entrano in contatto con organizzazioni criminali. «Una donna warao aveva un marito, non indigeno, che si è messo nel traffico di droga ed è stato ucciso da due sicari in moto a colpi di arma da fuoco. Lui è morto sul colpo, la moglie, ferita al costato, è morta pochi giorni dopo. Il bambino di cinque mesi, che lei teneva in braccio, è stato ferito a una mano ma si è salvato. Ora lui e i suoi sette fratelli sono orfani e hanno solo i nonni ultrasessantenni che possono prendersi cura di loro. Il governo ancora non ha concesso loro la bolsa familia», cioè l’aiuto finanziario per le famiglie povere, «perciò per ora aiutiamo noi con latte in polvere e un po’ di cibo». Adesso sei dei bambini vanno anche a scuola: il nonno accompagnava quattro di loro usando Uber, ma non aveva i soldi per rientrare a casa e poi tornare a prenderli, perciò li aspettava fino alle 5 del pomeriggio fuori dalla scuola. «Qualcuno lo ha notato e, toccato dalla sua situazione, gli ha procurato un piccolo aiuto finanziario per coprire i costi di trasporto».

Malindza Refugee Reception Centre 2022
The eSwatini Council of Catholic Women (ECCW) visited the Refugee Centre for a time of prayer and to share their gifts (09 July 2022)

eSwatini e Sudafrica, emergenze vecchie e nuove

Oltre al Sudan, ci sono altre realtà in Africa che vivono da anni una situazione di emergenza. Il Centro di accoglienza per rifugiati di Malindza, nel Regno di eSwatini, ospita ad esempio molte persone provenienti dalla zona dei Grandi Laghi, che comprende fra gli altri la Repubblica democratica del Congo, dove il conflitto nella zona orientale va avanti da anni.

Il Centro è sotto mandato Unhcr, in collaborazione con il governo di eSwatini e con la Ong World Vision come partner. «Fino a dicembre scorso», spiega monsignor José Luis Ponce de León, vescovo di Manzini e missionario della Consolata, «a Malindza gli ospiti erano circa 400, la metà bambini. Poi, con lo scoppio della violenza in Mozambico, centinaia di persone hanno attraversato il confine». Caritas eSwatini ha reagito fornendo coperte, materassi e cibo. «Visitando il campo insieme ad alcune suore mozambicane», continua monsignor Ponce de León, «ci siamo resi conto che, sebbene arrivassero dal Mozambico, i profughi non erano mozambicani, ma di altre parti dell’Africa che erano scappati dai loro Paesi e si erano stabiliti lì».

Anche a Pretoria, in Sudafrica, un missionario della Consolata, padre Daniel Kivuw’a, collabora con la Chiesa locale per assistere migranti e rifugiati provenienti da diversi paesi africani. «Ad alcuni», spiega padre Daniel, «soprattutto a quelli provenienti da Paesi con un conflitto in corso – Rd Congo, Sudan e, ultimamente, il Mozambico – il governo ha concesso lo status di rifugiato». Ma le difficoltà per i migranti in Sudafrica continuano a essere legate all’ostilità della popolazione locale, che non è nuova ad atti xenofobi violenti e al rischio di cadere vittima del traffico di esseri umani e agli elevati livelli di corruzione. «Molti migranti», continua Daniel, «faticano a ottenere documenti perché non hanno denaro per pagare i funzionari dell’immigrazione. Se sono donne migranti, poi, rischiano anche di subire abusi sessuali».

Chiara Giovetti




Giustizia e pace, se non ora quando?


Diseguaglianze, guerra e crisi climatica sono le sfide a cui tentano di rispondere le iniziative del mondo missionario che vanno sotto il grande ombrello chiamato Gpic: giustizia, pace e integrità del creato. Dalle esperienze passate e presenti possono venire gli spunti per quelle future.

Giustizia, pace e integrità del creato (Gpic) è l’espressione con cui gli istituti religiosi indicano uno degli ambiti su cui si concentrano il loro lavoro e la riflessione teologica.

Le sue origini, si legge sul sito dell’Unione internazionale delle Superiore generali (Uisg)@, risalgono agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes del 1965 e al Sinodo dei vescovi sulla giustizia nel mondo del 1971. Un documento (la GS) e un’istituzione (il sinodo) nati entrambi  dal Concilio Vaticano II e dalla spinta al rinnovamento della Chiesa che esso raccolse. Nel 1967, papa Paolo VI istituì il Pontificio consiglio per la giustizia e per la pace, soppresso da papa Francesco nel 2017 per trasferire le sue funzioni e quella di altri tre Pontifici consigli al Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale@.

Il dicastero, si legge sulla sua pagina istituzionale, «ha il compito di promuovere la persona umana e la sua dignità donatale da Dio, i diritti umani, la salute, la giustizia e la pace», e «si interessa principalmente alle questioni relative all’economia e al lavoro, alla cura del creato e della terra come “casa comune”, alle migrazioni e alle emergenze umanitarie».

La definizione estesa aiuta a orientarsi nella varietà di temi che la Gpic copre, e a operare una sorta di traduzione verso il linguaggio della cooperazione allo sviluppo.

Forzando un po’ alcuni concetti – come è inevitabile quando si passa da un lessico religioso a uno laico -, possiamo dire che la Gpic rimanda alla lotta alle diseguaglianze, alla risoluzione dei conflitti e alla protezione dell’ambiente.

Temi, questi, che anche le Nazioni Unite ritengono prioritari: nel suo discorso all’Assemblea generale Onu dello scorso gennaio, il Segretario generale António Guterres ha indicato come sfide globali più urgenti per il 2025 i conflitti in continua ascesa, le disuguaglianze crescenti, l’intensificarsi della crisi climatica e l’aumento incontrollato della tecnologia.

E non è difficile rintracciare, nel testo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, i riferimenti (ad esempio al punto 13) all’interdipendenza di queste sfide e alla conseguente necessità di affrontarle insieme.

Ricordando padre Antonio Bonanomi a Toribio.

Toribio, dove tutto si incrocia

L’insieme queste tre dimensioni della Gpic si è manifestato fin dall’inizio nella realtà di Toribio, dove – ricorda padre Rinaldo Cogliati, che a Toribio ha lavorato dal 1986 al 2007 – i missionari della Consolata hanno iniziato il loro lavoro il 2 febbraio del 1985: quarant’anni fa.

Toribio si trova nel Nord del Cauca, regione sudoccidentale della Colombia sulla Cordigliera centrale delle Ande. Su Missioni Consolata del novembre 1996, padre Antonio Bonanomi, coordinatore dell’équipe missionaria dal 1988 al 2005, spiegava che i missionari della Consolata erano arrivati a Toribio per continuare il lavoro di padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote colombiano ucciso il 10 novembre 1984 a causa «del suo impegno evangelico per la giustizia».

Membro lui stesso del popolo indigeno dei Nasa, padre Alvaro aveva lavorato nella parrocchia di Toribio e nei vicini villaggi di Caldono, Jambaló e Tacueyó con la sua équipe di suore missionarie di Madre Laura e di laici indigeni dal 1975 al 1984. Frutto del suo lavoro era stato l’avvio del Progetto Nasa, che probabilmente sarebbe un caso da manuale – se ne esistesse uno – di impegno per la giustizia, la pace e l’integrità del creato.

Chi ha operato in quella zona fra gli anni Settanta e oggi, infatti, si è trovato ad affrontare l’effetto combinato dell’esclusione di cui sono vittime da secoli i popoli indigeni, del conflitto fra esercito e guerriglia, e degli effetti sull’ambiente e sulla sicurezza dell’espandersi prima del latifondo e poi dell’industria, con il corollario della violenza esercitata dai gruppi paramilitari al servizio di latifondisti e industriali.

A questa violenza, la comunità nasa ha opposto la guardia civica, gruppi di volontari che monitorano il territorio. All’epoca della sua istituzione c’erano molti dubbi sull’efficacia di persone armate solo di bastonie nel contenere gruppi con armi vere come i paramilitari e i guerriglieri. Ma, scriveva padre Rinaldo su MC del settembre 2001, la risposta fu che «la vera arma della guardia è l’appoggio della comunità», e la volontà di quest’ultima di difendere, anche con la vita, il proprio plan de vida, cioè il progetto di sviluppo che il popolo nasa ha elaborato per se stesso.

Sarebbe troppo complicato riassumere qui i risultati del lavoro avviato da padre Alvaro e portato avanti dai missionari della Consolata fino allo scorso febbraio, quando questi ultimi hanno lasciato Toribio alla Chiesa locale.

Vale però la pena di ricordare che, se nel 1984, poco prima del suo assassinio, padre Alvaro aveva condiviso con padre Ezio Roattino – missionario della Consolata amico di Alvaro e una delle ultime persone ad averlo visto vivo – la preoccupazione per una popolazione di 69mila persone che rischiava di ridursi fino a sparire, oggi, secondo il più recente censimento nazionale (2018),@ il popolo nasa conta 243mila persone, di cui l’88% nel Cauca.

Il «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale» della comunità, Cecidic, attraverso cui dal 1992 passano gran parte delle attività di istruzione e formazione del Progetto nasa, e al quale l’équipe missionaria ha dato un impulso fondamentale, offre corsi tecnici in agricoltura sostenibile, formazione su arti e saperi ancestrali, etno educazione ed economia, anche in collaborazione con la Pontificia università bolivariana di Medellin.

Ripasso di matematica elementare.

Oujda e i migranti

Se Toribio è un luogo dove si sovrappongono e incrociano, potremmo dire in presa diretta, le tre sfide della Gpic, Oujda, nella parte orientale del Marocco, è un posto che accoglie persone costrette ad affrontare un’impresa ancora diversa: trovare pace e benessere in Europa perché povertà, guerra e crisi climatica rendono impossibile avere queste cose nel proprio Paese d’origine.

«A volte fuggire è anche un atto di ribellione davanti a situazioni a cui non si può fare fronte», spiega, da Malaga, Silvio Testa, responsabile dell’associazione Uyamaa (dal kiswahili ujamaa, famiglia estesa, ndr) dei Missionari della Consolata in Spagna. «La voglia, non solo di aiutare la propria famiglia, ma anche di contribuire a cambiare il proprio Paese, emerge spesso nei racconti dei migranti che i Missionari della Consolata ricevono alla parrocchia di Saint Louis, con il loro servizio di accoglienza d’emergenza, attivo sette giorni su sette, 24 ore al giorno».

Nel 2024, riferisce Silvio, che con il team missionario di Oujda collabora in modo stabile, i migranti accolti dai missionari sono stati 3.744. «Di questi, l’80% circa veniva dal Sudan», il Paese africano dove è in corso la più grave crisi umanitaria sul pianeta, con 30 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti urgenti@.

Quasi metà dei migranti che sono arrivati a Oujda l’anno scorso, continua Silvio, erano minori stranieri non accompagnati, il più piccolo dei quali aveva 13 anni. C’erano poi 44 donne con 20 bambini fra i due e i dieci anni, e molti di loro in condizioni di salute che richiedono cure. Le consultazioni mediche sono state, infatti, poco meno di 1.500 e in 14 casi c’è stato bisogno di un intervento chirurgico. Le ferite e le patologie dermatologiche sono una costante, a cui si sono aggiunti tre casi di tubercolosi, due di anemia falciforme, un’insufficienza cardiaca e una renale. I missionari attivi a Oujda sono i padri Edwin Osaleh, Francesco Giuliani e Patrick Mandondo. Le principali difficoltà che segnalano riguardano l’accesso dei migranti all’ospedale, sia per i costi che occorre affrontare per ricoveri e terapie, che per la mancanza di documenti di identità degli assistiti. Fra gli altri servizi che il centro di accoglienza offre, spiegava padre Edwin in una relazione del 2024, ci sono anche il vitto e alloggio per le persone in attesa di rimpatrio volontario, la formazione professionale, l’alfabetizzazione e il sostegno alle vittime di tratta, che prevede la protezione e l’accompagnamento nelle procedure presso la polizia e le autorità marocchine.

eSwatini, lavorare per il dialogo

Sempre in Africa, ma quasi 11 mila chilometri più a Sud, c’è un’altra realtà dove favorire il dialogo può essere un modo per provare a vincere le tre sfide della Gpic. Monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, porta avanti nella sua diocesi, assieme a un gruppo di sacerdoti e collaboratori, un intenso e delicato lavoro per creare spazi di confronto costruttivo e pacifico.

Questo impegno si è reso necessario specialmente dopo che, nel 2021, il Paese ha vissuto momenti di tensione e violenza in seguito alle proteste, soprattutto da parte dei giovani, per l’uccisione di uno studente universitario e alla repressione da parte delle forze di sicurezza. Anche il 2022 ha visto ulteriori episodi violenti, e nel 2023 è stato ucciso Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani, fondatore di Msf, una coalizione di partiti di opposizione.

Al di là dei singoli episodi, alla base della tensione vi è probabilmente la frustrazione per le scarse opportunità di lavoro: il tasso di disoccupazione fra i giovani, raggiunge il 58%@.

«eSwatini», riferiva monsingor Ponce de Leon a MC nel gennaio dell’anno scorso, «ha sempre avuto un buon sistema educativo. Anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro»@.

Per riflettere su questo e altri problemi, la diocesi ha avviato diverse iniziative. «L’esperienza dei disordini ci ha aperto gli occhi sulla necessità di riunirci e dialogare», scrive oggi il vescovo. «Una delle iniziative è stato la creazione di “club della pace” nelle scuole superiori, che ora stiamo estendendo alle parrocchie».

C’è poi la sensibilizzazione sulla violenza di genere, ad esempio le due tavole rotonde con i membri del governo organizzate su questo tema, e l’inizio di un lavoro sulla salute mentale e di sostegno psicosociale: «Il suicidio sta diventando una parola familiare nel nostro Paese, almeno a giudicare dalle statistiche ufficiali. È una grande sfida in una cultura che ha sempre rispettato la vita». Infine, c’è l’Ecplo – eSwatini catholic parliamentary liaison office, «un ufficio lanciato un paio di anni fa per dare al lavoro del Parlamento un contributo ispirato alla nostra dottrina sociale. È molto apprezzato perché i nostri documenti sono brevi e diretti al punto».

Grande área de garimpo com dezenas de barracões sao vistos na regão do rio Uraricoera na Terra Indigena Yanomami. ( Foto: Bruno Kelly/Amazôia Real).

Altre esperienze

Ci sono altre esperienze significative che i missionari della Consolata portano avanti nella giustizia, pace e integrità del creato, ad esempio l’esperienza nell’Amazzonia brasiliana a cominciare da quella di Catrimani. Qui da 70 anni i missionari fanno cooperazione allo sviluppo in ambito educativo e sanitario, ma fungono anche da forza di interposizione fra le comunità indigene e le varie istanze che, nel corso di questi decenni, si sono avvicendate (o alleate) per mandare via questi popoli e sfruttarne le terre.@

C’è poi l’impegno delle missionarie della Consolata, a cominciare da suor Eugenia Bonetti, nella lotta alla tratta di esseri umani@, ma anche il lavoro che padre Nicholas Muthoka e i suoi confratelli portano avanti alla Spera, la parrocchia Maria Speranza Nostra, nel quartiere torinese di Barriera di Milano, zona popolare e multietnica@.

Dal punto di vista del pensiero e della riflessione su Gpic, a cominciare dalle parole e dal loro significato, un contributo prezioso e una sintesi di grande efficacia è stata, dalla fine anni Novanta e per una decina di anni, la Scuola per l’Alternativa, un’iniziativa dei Missionari della Consolata a Torino, in particolare di padre Antonio Rovelli, in collaborazione con questa rivista e le Ong Cisv e Vis.

«Abbiamo bisogno di parole», scriveva padre Rovelli nel 2005@, «perché le vecchie parole sono diventate moneta fuori corso per certi versi. Termini come guerra, terrorismo, amico, nemico, patria, pace, occidente, sostenibilità, progresso, Europa, democrazia e partecipazione, hanno subito una pericolosa metamorfosi semantica.

All’interno delle mura protette del Palazzo gli strateghi fanno i salti mortali, come dei veri e propri funamboli sull’asse dei significati, mentre lontano, nei vari contesti del vissuto sociale, la gente cerca significato e senso alla propria esistenza».

Difficile non sentire delle assonanze sorprendenti con l’oggi.

Chiara Giovetti




Africa, come va la lotta all’Hiv/Aids


Venticinque anni fa una storica conferenza sull’Aids di Durban, in Sudafrica, fece emergere le proporzioni dell’epidemia da Hiv in Africa. Oggi preoccupa la scelta dell’amministrazione Trump di congelare i fondi Usa destinati agli aiuti, inclusa la lotta all’Hiv/Aids.

Secondo il più recente rapporto di Unaids, l’agenzia Onu per la lotta all’Hiv/Aids, il 2023 è stato il primo anno in cui ci sono state più nuove infezioni fuori dall’Africa che al suo interno. Su 1,3 milioni di contagi, infatti, 640mila sono avvenuti in Africa e 660mila nel resto del mondo. La riduzione dei contagi nel continente è un traguardo notevole per l’area del mondo che è stata di gran lunga la più colpita dalla diffusione del virus: in Africa subsahariana sono avvenuti, infatti, circa il 70% degli oltre 42 milioni di decessi dall’inizio della pandemia da Hiv, cioè dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi.

L’anno con il numero più alto di morti è stato il 2004: due milioni di vittime nel mondo, di cui un milione e mezzo nella sola Africa. «Arrivai a Ikonda nel 2002, in piena crisi dell’Hiv/Aids», ricorda padre Sandro Nava, missionario della Consolata responsabile fino al 2019 del Consolata Ikonda Hospital e oggi dell’Allamano Makiungu Hospital, entrambi in Tanzania. «Trovai interi villaggi decimati: mi ricordo benissimo di un villaggio tra Ikonda e Makete dove tutti i giorni c’erano dei funerali. La tradizione prevede che si faccia il kiliyo, cioè la cerimonia funebre con i pianti rituali, e si condivida poi il cibo fra tutti i convenuti. La comunità fu costretta sospendere tutto: la gente che moriva era talmente tanta che era impossibile mantenere il rito».

 

La conferenza di Durban

Nel 2000 c’era stata a Durban, sulla costa orientale del Sudafrica, la XIII conferenza internazionale sull’Aids (spesso abbreviata in Aids 2000): si trattò di un evento storico, racconta@ in un Ted Talk del 2016 Stefano Vella, ex direttore del Dipartimento del farmaco e poi del Centro per la salute globale dell’Istituto superiore di Sanità e, all’epoca, presidente della International Aids society@, l’associazione con sede a Ginevra che organizza le conferenze. Fino a quell’anno, l’evento si era sempre svolto nei paesi del Nord globale, ma l’area del mondo in cui l’Aids stava facendo più vittime era di gran lunga l’Africa.

Anni Duemila, l’Africa travolta

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Alla conferenza, ricorda Vella, si incontrarono migliaia di scienziati, medici, ricercatori, ma anche attivisti, pazienti, politici e un migliaio di giornalisti: il merito dell’evento fu quello di rompere il silenzio – come suggeriva il suo titolo, Breaking the silence – sulle enormi diseguaglian- ze fra il Nord e il Sud globale nell’accesso alla prevenzione, alla diagnosi e alle terapie.

La scelta del Sudafrica come nazione ospitante fu significativa: si trattava, infatti, del Paese più colpito al mondo con 3,6 milioni che avevano l’Hiv su 44 milioni di abitanti. Ci fu un accorato discorso conclusivo di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica e figura chiave della lotta all’apartheid, che esortò tutti ad agire subito. I politici si mossero, spiega ancora Vella: un anno e mezzo dopo, nacque il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, che ad oggi ha speso 68 miliardi di dollari nella lotta alle tre malattie, 35 miliardi solo per l’Hiv@.

Inoltre, Aids 2000 diede un impulso fondamentale alla salute globale, grazie a un approccio che si fondava non solo del miglioramento della salute ma anche sulla riduzione delle diseguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria.

Il Pepfar, acronimo per Piano d’emergenza del Presidente degli Stati Uniti per la lotta all’Aids (President’s emergency plan for Aids relief), fu lanciato dal presidente George Bush e dalla moglie Laura nel 2003. Sotto il suo coordinamento, diversi dipartimenti e agenzie governative Usa hanno investito finora oltre 110 miliardi di dollari grazie ai quali – si legge in una scheda@ dello scorso dicembre – 26 milioni di vite sono state salvate e 7,8 milioni di bambini hanno potuto nascere senza contrarre l’Hiv dalla madre. A settembre 2024, i pazienti che, grazie al Pepfar, ricevevano farmaci antiretrovirali – capaci di bloccare l’ingresso nella cellula e la replicazione del virus@ – erano 20,6 milioni, mentre i medici, infermieri e altro personale sanitario, i cui salari erano coperti dal programma presidenziale, erano 342mila.

I primi, difficili passi

«A Ikonda», dice ancora padre Nava, «grazie all’aiuto di alcuni donatori, nel 2004, aprimmo la clinica Hiv che, all’inizio, era tutta sulle nostre spalle. Ricordo che nel 2006 andai Monaco, in Germania, a visitare un’azienda che produceva le prime macchine per la conta dei Cd4», una proteina presente nel tipo di linfociti (globuli bianchi) che innescano la reazione del sistema immunitario alle sostanze estranee, come virus e batteri, e che vengono distrutti dall’Hiv. Contare i Cd4, dunque, dà una misura di quanto il sistema immunitario di un paziente sia «in difficoltà». «Il tecnico venne dalla Germania a Ikonda a installare la macchina e cominciammo così le prime conte dei Cd4.

Solo molto tempo dopo, il Governo sostenne l’installazione di attrezzature diagnostiche, come le macchine per misurare la carica virale, e iniziò anche a fornire farmaci. Nel frattempo, la clinica era giunta da avere quasi seimila persone registrate: ci aiutò molto il dottor Gerold Jäger, un dermatologo esperto di lebbra che aveva per questo una vasta conoscenza della sanità in Africa e che, una volta in pensione, venne con la moglie Elizabeth a lavorare per tre anni a Ikonda. Infine, arrivarono organizzazioni come Usaid», l’agenzia del Governo statunitense per lo sviluppo internazionale, uno degli enti che realizza il Pepfar, «a coprire i costi di una parte del personale della clinica Hiv che, per la quantità di pazienti, era di fatto un ospedale a sé».

«Quando alla prevenzione – racconta ancora padre Sandro -, cominciammo subito con la clinica mobile: andavamo nei villaggi con un generatore che alimentava un televisore, e mostravamo filmati per informare le persone su come evitare di contagiarsi». La provincia dove si trovava Ikonda, montana e senza attività produttive, era la più colpita del Paese: molti uomini migravano in altre regioni per cercare lavoro stagionale nelle piantagioni di tè, caffè o agave, e lì si infettavano; poi rientravano dalle loro mogli e le contagiavano. Le mogli, a loro volta, passavano l’infezione ad altri partner occasionali».

La situazione oggi e i tagli di Trump

Oggi, si legge nel rapporto 2024 di Unaids, dal titolo The urgency of now (L’urgenza di adesso), e nella scheda che mostra le statistiche globali@, le persone affette dall’Hiv sono 39,9 milioni. di cui 30,7 milioni hanno accesso alle terapie, mentre 9 milioni ne restano escluse. I decessi continuano a diminuire: da 2,1 milioni all’anno del 2004 sono scesi stabilmente sotto il milione nel 2014 e oggi sono circa 630mila, mentre le nuove infezioni – che negli anni peggiori, il 1995 e il 1996, erano state 3,3 milioni – sono ora due milioni in meno, una cifra che è comunque ancora tre volte sopra l’obiettivo di 370mila previsto per il 2025 dalla Stategia globale 2021 – 2026@ che mira a porre fine all’Aids entro il 2030.

Dal punto di vista dei farmaci, poi, ci sono stati diversi progressi: ad esempio, a settembre 2024 l’Organizzazione mondiale della sanità definiva «promettenti»@ i risultati nella prevenzione dell’Hiv di un farmaco antiretrovirale, il lenacapavir, che con due iniezioni l’anno impedirebbe al virus di replicarsi. Promettenti erano anche i risultati del lavoro dell’Unità di ricerca sulla terapia genica antivirale dell’Università del Witwatersrand, in Sudafrica, che applicava le tecnologie a mRna – su cui si basano alcuni dei vaccini contro il Covid – alla ricerca di un vaccino per l’Hiv. Lo studio, finanziato da Usaid con 45 milioni di dollari (più o meno il costo di 15 missili Patriot, ndr), è ora bloccato a causa della decisione@ del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di sospendere il lavoro dell’agenzia per valutare un suo eventuale smantellamento e l’attribuzione delle sue funzioni al dipartimento di Stato, l’omologo del nostro ministero degli Affari esteri@.

La ricerca non è il solo ambito che sta risentendo delle scelte di Trump: sul sito di Unaids, lo scorso febbraio, una scheda@ aiutava a farsi un’idea delle conseguenze che il blocco dei fondi produrrebbe in 39 Paesi che rappresentano il 71% di quelli finanziati dal Pepfar: in 35 di essi l’attuazione dei programmi di lotta all’Hiv si è interrotta, altri 14 Paesi riferiscono discontinuità nelle terapie salvavita, in dieci sono sospesi i test Hiv ai neonati esposti al virus e la profilassi preventiva per le giovani donne e le adolescenti. Inoltre, in nove Paesi la prevenzione della trasmissione da madre a figlio (Pmtct, nell’acronimo inglese) non funziona regolarmente, in quattro non è possibile fare i test Hiv a tutte le donne incinte e le neo madri e ci sono difficoltà a procurare e distribuire farmaci per l’Hiv; in due Paesi le scorte di medicinali sono descritte come «pericolosamente scarse».

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Tagli al personale negli ospedali in Tanzania

«Da quando è arrivata la notizia dei tagli», scrivono gli attuali responsabili del Consolata Ikonda Hospital, i missionari della Consolata Marco Turra e Willam Mkalula, «i pazienti sono preoccupati. A nove persone dello staff è stato interrotto il contratto, e chi è rimasto cerca di rassicurare i pazienti. Con i farmaci e i test possiamo andare avanti qualche mese, ma per ora non ci è stato comunicato nulla sul futuro».

Gli iscritti al servizio della clinica Hiv dell’ospedale di Ikonda a febbraio erano 2.365. «Usaid assicura(va) farmaci, i test rapidi e quelli per misurare la carica virale», spiega padre Marco, «mentre i controlli su fegato e reni li fornisce l’ospedale, così come il cibo supplementare per alcuni pazienti». Lo screening si fa proponendo il test ai pazienti ritenuti più esposti o che hanno patologie compatibili con la sindrome da Hiv. C’è un servizio di counselling prima del test e, in caso di positività, una seconda sessione di counselling precede l’apertura della cartella clinica, cioè la presa in carico del paziente. «A quel punto interviene il medico, che prescrive altri esami e stabilisce la terapia. L’aderenza da parte dei pazienti oggi è molto alta: c’è chi tiene segreta la propria condizione, ma questo non porta all’abbandono».

La situazione non è molto diversa a Makiungu, quasi 800 chilometri più a nord di Ikonda, dove padre Sandro Nava, insieme alla dottoressa Manuela Buzzi, gestisce dal 2020 l’Allamano Makiungu hospital. «Alla clinica Hiv, lavoravano otto persone pagate da due fondazioni – la Elizabeth Glaser pediatric Aids foundation e la Benjamin William Mkapa foundation – finanziate da Usaid. Per tre mesi (da febbraio ad aprile 2025, ndr) le fondazioni non riceveranno soldi dagli Usa, perciò hanno licenziato o messo in aspettativa queste otto persone. Noi ne abbiamo assunte alcune, ma non possiamo farlo con tutte».

Quando padre Sandro arrivò a Makiungu, la clinica Hiv era già in funzione «ma aveva pochi pazienti. Potenziandola, i pazienti sono aumentati». Nel 2024, i test sono stati più di 8.000, 169 i risultati positivi. A ricevere cure e farmaci sono state 763 persone, di cui 33 bambini, mentre il programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio ha seguito 96 bambini.

«Il grosso dei pazienti frequenta la clinica ogni mese», dice ancora padre Sandro, «ma c’è anche chi viene ogni tre mesi o addirittura sei, magari perché vive lontano e il costo di un passaggio in moto per raggiungere l’ospedale è troppo elevato». Secondo i dati riportati dalla scheda Unaids, in Tanzania il 90% dei fondi per la lotta all’Aids viene dal Pepfar.

Kenya, ritirata anche l’ambulanza

«Qui c’è grande confusione», commenta preoccupato fratel Severino Mbae, missionario della Consolata incaricato del Wamba Catholic hospital della Diocesi di Maralal, nel nord del Kenya. «Ci aspettiamo di non poter più assistere oltre la metà dei pazienti che abbiamo in cura, che sono 146». Fratel Severino riferisce che, a causa della sospensione voluta dal governo Usa, si è interrotto il progetto di lotta all’Hiv Tujenge Jamii (dallo swahili: Costruiamo comunità) finanziato da Usaid, che garantiva – oltre ad assistenza tecnica, formazione del personale, sensibilizzazione dei pazienti e parte del materiale informatico – anche il salario di quattro persone: un medico, un responsabile del counselling per il test Hiv, un expert patient, cioè un sieropositivo che offre orientamento ad altri, e un incaricato per i giovani e gli adolescenti. «Wamba era una delle strutture sostenute dal progetto, grazie al quale avevamo anche un’ambulanza con cui fare le campagna contro l’Hiv e la tubercolosi, ma ora è stata ritirata».

Maraldallah e Neisu, farmaci scarsi

Il Centro di salute Notre Dame de la Consolata (Csndc) di Marandallah, nel nord della Costa d’Avorio, lavora da diversi anni con i fondi del Pepfar attraverso il ministero della Sanità e in collaborazione con l’Ong Santé espoir vie – Côte d’Ivoire (Sev-Ci). I pazienti sieropositivi in cura sono 294; nel 2024 sono stati fatti 4.800 test e i positivi sono risultati essere 18: un tasso di prevalenza dello 0,4%. I costi dei farmaci antiretrovirali, forniti dal sistema sanitario nazionale, sono stati finora coperti dal Pepfar, che – come in Tanzania – sostiene il 90% della spesa annuale in questo ambito.

«Lavorare con questi fondi ha diversi vantaggi», spiega padre Wema Duwange, che nel 2022 è succeduto a padre Alexander Likono nella gestione del centro. «Uno è quello di ricevere medicinali e sostegno sociale e psicologico per i pazienti. Inoltre, i fondi Usa garantiscono un salario a migliaia di persone in Africa e la formazione continua per tutti». La decisione di Trump ha avuto un effetto immediato, dice padre Wema: «Le medicine hanno iniziato a scarseggiare: tutto si è fermato in sole due settimane».

Interruzione nell’approvvigionamento dei farmaci si sono verificate anche a Neisu, in Repubblica democratica del Congo. «Ma non possiamo attribuirle con certezza ai tagli decisi dal governo Usa», dice Séraphine Nobikana, dottoressa direttrice dell’ospedale di Neisu. «Le difficoltà a trovare i farmaci sono frequenti nel nostro Paese», che da gennaio scorso ha visto aggravarsi la crisi nella zona orientale, dove i ribelli del M23 e le truppe regolari del Rwanda hanno occupato la città di Goma. Nel 2024 l’ospedale di Neisu ha seguito e curato 173 pazienti sieropositivi. I farmaci, riporta ancora Nobikana, li fornisce il sistema sanitario nazionale. La collaborazione con il governo statunitense viene gestita dal ministero della Sanità e per il biennio 2024/ 2025 avrebbe dovuto poter contare su 229 milioni di dollari@ per il Congo (il costo di due caccia F35, ndr).

Chiara Giovetti




Microfinanza, successi e correzioni


Il microcredito e, più in generale, la microfinanza sono strumenti spesso utilizzati nella cooperazione. Ma quanto sono serviti finora per fare uscire le persone dalla povertà? E cosa si potrebbe fare per renderli più efficaci?

Circa 1,4 miliardi di adulti nel mondo non hanno un conto presso un istituto finanziario o un fornitore di moneta mobile, cioè un servizio che permette di ricevere e inviare denaro con telefono cellulare anche senza un conto bancario di supporto. Lo riferisce il più recente rapporto (2021) della Banca mondiale sull’inclusione finanziaria@, che riporta l’analisi dei sondaggi effettuati su una popolazione di circa 128mila adulti intervistati in 123 paesi durante la pandemia da Covid-19.

Il rapporto sottolinea anche come questo dato sia in calo rispetto ai 2,5 miliardi del 2011 e agli 1,7 miliardi del 2017. Se nelle economie ad alto reddito quasi tutti gli adulti (96%) hanno un conto, le persone che non accedono a nessun servizio finanziario si concentrano nei paesi a basso reddito, nei quali ad avere un conto è solo il 39% degli adulti. Quasi la metà degli esclusi da questi servizi appartiene al 40% più povero delle famiglie e poco più della metà – cioè 740 milioni di persone – vive in sette paesi: India, Cina, Pakistan, Indonesia, Nigeria, Egitto e Bangladesh@.

Tre su quattro degli adulti esclusi dai servizi finanziari sono donne.

Uno degli strumenti con cui, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cercato di ampliare l’accesso ai servizi finanziari per la fascia più povera della popolazione, è il microcredito e, più in generale, la microfinanza. L’esempio forse più noto è quello della Grameen Bank fondata nel 1983 da Muhammad Yunus, economista, imprenditore, attivista insignito nel 2006 del premio Nobel per la pace e da agosto 2024 primo ministro del Bangladesh.

Secondo alcune stime, le persone che usano servizi di microfinanza sono fra 150 e 200 milioni.

Per mettere un po’ di ordine fra i concetti ci appoggiamo all’estesa conoscenza del settore di Matteo Pietro Cortese, socioeconomista specializzato in finanza rurale, oggi consulente Fao con passati incarichi all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), Fondazione Cariplo, KfW e all’Ong Cisv.

Chioschi di Mpesa e Airtel

Microcredito e microfinanza: definizioni

«Cominciamo dalla microfinanza», spiega Matteo al telefono, «che è uno strumento per fornire servizi finanziari a persone con basso reddito che hanno difficoltà ad accedere al settore finanziario tradizionale»: non riescono ad accedere a servizi formali (in particolare ai prestiti) perché, ad esempio, non sono in grado di fornire garanzie come un titolo di proprietà o un contratto di lavoro, condizione molto frequente nei Paesi a basso reddito.

Il microcredito, continua Cortese, è una parte della microfinanza; questa, però, oltre al credito include anche il risparmio, le assicurazioni e le rimesse inviate dai migranti alle proprie famiglie.

La microfinanza è generalmente associata al formarsi di gruppi di autofinanziamento, che nei Paesi a basso e medio reddito «prendono principalmente due forme: le associazioni di risparmio e credito a rotazione, e le associazioni di risparmio e credito ad accumulazione, rispettivamente Rosca e Ascra nell’acronimo inglese».

Su questa suddivisione lo studioso di riferimento è Frist J. A. Bouman, dell’università di Wageningen, Paesi Bassi, che in un suo lavoro del 1995@ spiega come la principale differenza fra i due tipi di associazione sta nel fatto che, nel sistema Rosca, il fondo si forma raccogliendo il contributo dei membri – che può essere settimanale, mensile o avere altra cadenza concordata – e incomincia subito a ruotare, cioè a essere utilizzato da un membro a turno; non ci sono interessi sul prestito e il sistema dura finché l’ultimo membro non ha concluso il proprio turno. Nel sistema Ascra, invece, i fondi non vengono subito ridistribuiti, ma vengono prima accumulati, in genere per un periodo tra i 3 e i 12 mesi, per poi essere presi in prestito anche da più membri contemporaneamente e con tassi di interessi mensili che possono variare tra il 5 e il 15%.

Rotazione e accumulo, alcuni esempi

«Un sistema Rosca tipico dell’Africa occidentale è la tontine e, semplificando molto, funziona così: cinque persone mettono cinque euro ciascuna sul tavolo, così da creare un “piatto” da 25 euro, che la prima persona prende subito in prestito.

Nel secondo giro le stesse persone mettono di nuovo cinque euro ciascuna e sarà un secondo membro a prendere il totale in prestito. Il meccanismo continua così per cinque giri di riempimento del “piatto”, finché non si arriva al quinto membro: mentre i primi quattro hanno avuto un credito, l’ultimo ha di fatto solo realizzato un risparmio, riprendendosi alla fine tutti in una volta i cinque euro che aveva messo a ogni giro».

«Un’altro esempio, più vicino al modello Ascra, è quello delle associazioni di risparmio e prestito del villaggio (anche dette Vsla, Village savings and loan association in inglese), promosse in particolare nei primi anni Novanta del secolo scorso da Care International», confederazione di Ong che coordina 19 Care nazionali e un affiliato. Sono gruppi di risparmio comunitari autogestiti, composti da un numero di persone fra le 15 e le 25, che si riuniscono per risparmiare il proprio denaro, conservarlo in uno spazio sicuro – la scatola verde a tre lucchetti, diventata il simbolo dell’iniziativa – e accedere a piccoli prestiti o ottenere assicurazioni di emergenza. Dal 1991, si legge sul sito di Care, il modello Vsla ha sostenuto più di otto milioni di membri di questi gruppi, per la maggior parte donne.

Chioschi di Mpesa e Airtel

La crisi del 2010

Diversi milioni – trenta per l’esattezza – erano anche i beneficiari del microcredito nello stato dell’Andhra Pradesh, India centro orientale, quando nel 2010 i media internazionali cominciarono a dare conto di quella che poi venne chiamata crisi del microcredito. Secondo il governo indiano, riportava la Bbc nel dicembre di quell’anno@, in pochi mesi più di ottanta persone si erano suicidate perché non erano in grado di rimborsare i micro prestiti ricevuti.

Che cos’era successo? In un articolo sul New York Times del novembre precedente, Lydia Polgreen e Vikas Bajaj spiegavano@ che, se alle sue origini il microcredito era basato su gruppi di autofinanziamento sostenuti da enti no profit e sembrava una promettente via d’uscita dalla povertà, in anni più recenti il settore della microfinanza aveva attirato l’attenzione di società finanziarie non bancarie con scopo di lucro. I loro agenti, con metodi di persuasione piuttosto aggressivi, erano riusciti a convincere molti indiani a prendere micro prestiti senza informarli in modo corretto sui tassi di cambio applicati, spesso molto alti, e senza verificare che le persone coinvolte avessero la capacità reale di ripagare il debito e la preparazione necessaria per intraprendere un percorso del genere. In quei mesi, spiegava sempre a novembre 2010 un’analisi@ del think tank statunitense Cgap, molti clienti di questi enti smisero di restituire i propri prestiti, anche incoraggiati dagli incitamenti populisti di diversi politici indiani, generando così un serio rischio di collasso dell’intero settore bancario indiano, da cui proveniva l’80% del denaro prestato dalle istituzioni di microcredito ai clienti, pari all’equivalente in rupie di circa 4 miliardi di dollari.

I più poveri sono esclusi

Con il passare del tempo la situazione rientrò anche grazie a un intervento del governo dell’Andhra Pradesh, che bloccò i nuovi prestiti e ridusse i livelli di rimborso@. Ma la fiducia che la microfinanza fosse la strada verso la fine della povertà ne uscì piuttosto ammaccata.

«Nella letteratura», commenta Matteo Cortese, «non sembra esserci consenso su una correlazione tra impiego della microfinanza e l’uscita dalla povertà». Sembra inoltre ancora molto attuale un’intervista del 2012 a tre studiosi dell’università di Yale, Dean Karlan, Tony Sheldon e Rodrigo Canales, in cui il professor Sheldon afferma che chiedersi quante persone sono uscite dalla povertà grazie alla microfinanza è una domanda fuorviante e che è più utile concentrarsi su altri aspetti. «È più che altro una questione di resilienza», precisa Sheldon, invitando piuttosto a chiedersi: «Quanto sono ancora vulnerabili queste persone? Sono in grado di preservare i propri mezzi di sostentamento? Riescono a coprire le rette scolastiche, le spese mediche o le spese funerarie? La microfinanza li ha aiutati a essere più resilienti?»@.

Altro elemento da riconoscere al di là della retorica, continua Karlan, è che la microfinanza non raggiunge i più poveri, o lo fa solo in rari casi. Questo avviene ad esempio perché le istituzioni di microfinanza non sono disposte a concedere prestiti e o gestire i risparmi per importi che giudicano troppo piccoli, o perché spesso ai beneficiari è richiesto di avere già una sorta di micro impresa, o almeno un’attività già avviata, e tipicamente i più poveri non hanno niente di tutto questo.

Correzioni necessarie

Un possibile approccio per raggiungere queste persone in povertà estrema, riporta un altro studio Cgap, è il Graduation model, applicato in Bangladesh dalla Ong internazionale Brac, (Bangladesh rural advancement committee). Il modello è basato su cinque elementi fondamentali: l’individuazione dei più poveri tramite una raccolta di dati sul campo approfondita e partecipativa, il sostegno al consumo attraverso la fornitura di cibo o di denaro, il risparmio reso regolare, sicuro e accessibile, la formazione sulle competenze accompagnato da un coaching costante e la fornitura di beni, ad esempio bestiame o strumenti agricoli. L’idea di fondo è quella di fornire prima soluzioni non solo al problema del mancato accesso al credito, ma anche a tutte le altre difficoltà che rischiano di costringere un nucleo familiare a usare le risorse ottenute con la microfinanza non per migliorare la propria condizione ma per soddisfare necessità di base o rispondere a emergenze.

Ci sono anche altri aspetti da correggere se davvero si vuole migliorare l’accesso ai servizi finanziari specialmente per i più poveri, riprende Matteo Cortese. Innanzitutto, benché molte delle persone che avrebbero necessità di accedere al credito siano attive nell’agricoltura, molte istituzioni sono restie a finanziare questo settore, perché è un’attività altamente rischiosa e poco redditizia.

Sarebbe necessaria una maggiore elasticità anche da parte degli enti regolatori del sistema finanziario (le banche centrali) per evitare di sfavorire gli istituti di microfinanza che finanziano i piccoli produttori agricoli e che hanno inevitabilmente un portafoglio a rischio (Par) maggiore delle banche classiche che lavorano in ambito urbano. Limitare le operazioni degli istituti di microfinanza significa togliere risorse esattamente ai settori e agli utenti che più ne hanno bisogno. E si tratta di un bacino d’utenza notevole: riportava proprio la Bceao (Banca centrale degli stati dell’Africa dell’ovest) a novembre 2024@ che nella zona dell’unione monetaria – che comprende otto stati e ha come moneta il franco Cfa – le istituzioni di microfinanza erano 539 e, attraverso una rete di 4.921 punti di servizio che raggiungevano 18.923.770 clienti.

«I meccanismi di finanza mista (blended finance mechanisms)», conclude Cortese, «possono fare la differenza anche riguardo alla gestione del rischio in settori come l’agricoltura rurale». In estrema sintesi, il blending consiste nell’abbattere, o almeno nell’attenuare, i rischi legati agli investimenti allo sviluppo in contesti svantaggiati collegando i finanziamenti forniti dall’aiuto pubblico ai prestiti da parte di istituzioni pubbliche o di investitori commerciali, in modo da superare l’avversione al rischio di questi ultimi. Naturalmente, i benefici sono massimizzati solo se gli eventuali investimenti così attirati non vengono usati dai governi come pretesto per diminuire la propria quota di aiuto pubblico allo sviluppo.

Chiara Giovetti


Il microcredito in Costa d’Avorio

È  in fase di avviamento, in questi primi mesi del 2025, un nuovo progetto di microcredito a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio.

Finanziato da donatori privati, il progetto coinvolgerà nella fase iniziale quindici donne che partecipano già ora alle attività del Centro di animazione missionaria e alla gestione dei locali commerciali del Consolata Shop, un negozio aperto nell’agosto del 2024 per promuovere la vendita di prodotti locali, sia di artigianato che alimentari.

Le donne sono già coinvolte anche in un sistema di risparmio annuale con una struttura detta tontine, che fornirà garanzie di solvibilità in caso di mancato rimborso.

Le partecipanti saranno divise in tre gruppi da cinque e ciascun gruppo riceverà l’equivalente di 765 euro in franchi Cfa, da dividere equamente fra tutte le donne. I crediti saranno concessi con un interesse del 10% e condizioni flessibili per il loro rimborso e si punterà ad aumentare gradualmente il numero delle persone coinvolte. Il progetto prevede anche due seminari di formazione su gestione finanziaria, marketing e sviluppo e il Consolata Shop sarà poi il punto vendita per i prodotti che le donne realizzeranno.

Chi.Gio.




Cop29, delusione annunciata


I dati definitivi mostreranno probabilmente che il 2024 è stato non solo l’anno più caldo di sempre, ma anche quello in cui la soglia di 1,5 gradi è stata superata. La Cop che si è svolta a Baku non è stata un fallimento totale, ma di certo non si è dimostrata all’altezza della sfida che il pianeta ha di fronte.

Era chiaro a tutti che la 29° Conferenza delle Parti sul clima (Cop29) di Baku, Azerbajian, sarebbe stata la Cop della finanza: come scriveva l’11 novembre Ferdinando Cotugno, inviato del quotidiano Domani a Baku, nella sua newsletter Areale@, «il risultato per cui sarà giudicata sarà un numero, espresso in centinaia o migliaia di miliardi».

E quel numero è 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035: circa un quarto di quanto richiesto dai Paesi che hanno meno responsabilità nella crisi climatica, ma ne subiscono più degli altri gli effetti.

È stata la terza Cop consecutiva in un Paese produttore di petrolio – dopo la Cop27 di Sharm el-Sheik, Egitto, nel 2022, e la Cop28 di Dubai, Emirati arabi uniti, nel 2023 – e anche a Baku si sono visti tratti già presenti nei due anni precedenti: innanzitutto una riduzione degli spazi di protesta per la società civile, a cui è stato vietato di manifestare al di fuori degli spazi della Conferenza – siamo lontanissimi da Glasgow, quando 100 mila persone manifestarono per le strade della città durante Cop26 – e di alzare la voce: per cui, riportava sempre Cotugno, i manifestanti hanno solo potuto schioccare le dita e mugugnare.

Altro tratto simile alle due Cop precedenti: la presenza di un numero consistente di lobbisti del settore dei combustibili fossili. Secondo la coalizione Kick Big Polluters Out, a Baku erano 1.773, meno dei 2.456 presenti a Dubai ma molti di più dei delegati totali dei dieci Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico@.

Il discorso di apertura di Ilyam Aliyev@, presidente dell’Azerbaijan – Paese che l’indice globale di democrazia dell’Economist colloca al 130° posto su 167 – ha sottolineato che petrolio e gas sono «doni di Dio». Nessun Paese, ha detto Alyev, «dovrebbe essere criticato perché ha queste risorse e le porta sul mercato, perché il mercato ne ha bisogno. Le persone ne hanno bisogno». Come presidenza della Cop29, ha aggiunto, sosterremo la transizione verde, ma allo stesso tempo «dobbiamo essere realisti». Non le migliori premesse per intavolare un negoziato a una conferenza sul clima.

COP29 President Mukhtar Babayev speaks at a first closing plenary of the COP29 Climate Conference in Baku on November 23, 2024. The Azerbaijani head of COP29 urged nations on November 23, to bridge their differences after two weeks of fraught negotiations at the UN climate talks over money to help poorer countries tackle global warming. (Photo by STRINGER / AFP)

Perché 1.300 miliardi?

Sul principale tavolo negoziale di Baku, quello della finanza, il punto di partenza era il vecchio obiettivo quantitativo di 100 miliardi di dollari all’anno in aiuti per affrontare la crisi climatica, stabilito alla Cop di Copenaghen nel 2009 e fissato in quella di Parigi nel 2015 come cifra minima da ampliare entro il 2025. I 1.300 miliardi che i paesi in via di sviluppo ritenevano adeguati alle loro esigenze e che volevano inserire come obiettivo vincolante all’interno dell’accordo, viene dalle stime@ che tre economisti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern – hanno indicato in vari studi pubblicati dalla London School of Economics e che numerose agenzie delle Nazioni Unite hanno poi adottato. Per realizzare queste stime, i tre studiosi e i loro team sono partiti dai costi per sviluppo e risposta alla crisi climatica affrontati nel 2019 dal gruppo di Stati più esposti ai danni del cambiamento climatico, cioè le economie emergenti (esclusa la Cina: poi torneremo su questo punto) e i paesi in via di sviluppo, riuniti sotto la sigla Emdc.

A partire da questi costi, si legge negli studi dei tre economisti, le proiezioni indicano che i Paesi Emdc avranno bisogno di 2.400 miliardi di dollari l’anno entro il 2030 e 3.200 entro il 2035: mentre è verosimile che 1.400 miliardi l’anno entro il 2030 e 1.900 miliardi l’anno entro il 2035 siano mobilitati direttamente da questi Paesi con risorse proprie, i restanti mille miliardi l’anno entro il 2030 e 1.300 miliardi l’anno entro il 2035 devono venire da fonti esterne, cioè devono essere fondi internazionali: pubblici, privati e di altro tipo.

Questa cifra, sottolineava poco prima della Cop un rapporto Unctad@, organo delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, sarebbe pari all’1,4% del Pil mondiale, una cifra più bassa dei 2.500 miliardi all’anno di spesa militare dei paesi Nato, pari all’1,9% del Pil.

A questo proposito, riportava Euronews, il delegato di Panama alla Cop, Juan Carlos Monterrey Gomez, ha commentato: «Per alcuni, 2.500 miliardi dollari per ucciderci a vicenda non sono sufficienti, ma mille miliardi per salvare vite è irragionevole. La cosa più ridicola è che stiamo causando la nostra stessa estinzione. Almeno i dinosauri avevano un asteroide. Noi che scusa abbiamo?»@.

La cifra richiesta dai paesi del Sud globale, continua il rapporto Unctad, è anche a pari circa un terzo del totale dei sussidi che nove paesi sviluppati (inclusa l’Italia) danno ai combustibili fossili e impallidisce di fronte alle risorse mobilitate per far fronte alla pandemia, pari a 16.400 miliardi tra spesa fiscale aggiuntiva e mancate entrate.

«Illusione ottica» e «barzelletta»

L’accordo sulla finanza climatica@ è stato raggiunto nella notte fra sabato 23 e domenica 24 novembre scorso, dopo un negoziato teso e nervoso, a più riprese sul punto di fallire. Stabilisce un nuovo obiettivo quantitativo sotto la guida dei paesi sviluppati di almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere i Paesi in via di sviluppo nell’azione per il clima con fondi provenienti da varie fonti, pubbliche e private.

Il riferimento alla cifra che i Paesi in via di sviluppo richiedevano è presente nel testo, ma come esortazione, come invito a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti «fino ad almeno 1.300 miliardi l’anno entro il 2035».

Subito dopo l’adozione, ancora in assembla plenaria, i delegati di India, Nigeria, Cuba e Bolivia hanno preso la parola per esprimere la loro rabbia: secondo la negoziatrice indiana, Chandni Raina, 300 miliardi sono una cifra di «abissale povertà», insufficiente per affrontare «l’enormità della sfida che noi tutti abbiamo di fronte»: per questo, ha detto, questo accordo è «poco più di un’illusione ottica». Non è stata più tenera la delegata della Nigeria, Nkiruka Maduekwe: che i paesi sviluppati rivendichino un ruolo di guida impegnandosi su una cifra così bassa «è una barzelletta. Non lo accettiamo»@.

Questi 300 miliardi non arriveranno subito: sono un obiettivo da raggiungere entro il 2035, non il volume degli stanziamenti immediati. Inoltre, non saranno solo fondi pubblici, ma anche fondi privati e risorse da reperire sui mercati, dove Paesi come questi, che spesso hanno già un debito molto alto, faticano a trovare fondi, specialmente visto che si tratta di interventi di adattamento alla crisi climatica che non sono, per loro natura, abbastanza redditizi da invogliare potenziali finanziatori privati.

Activists hold a silent protest inside the COP29 venue to demand that rich nations provide climate finance to developing countries, during the United Nations Climate Change Conference (COP29) in Baku on November 16, 2024. (Photo by Laurent THOMET / AFP)

Gli altri risultati

Un segnale positivo, registra tuttavia l’associazione Italian Climate Network (Icn)@, è che il testo dell’accordo lascia aperta la possibilità che altri Paesi, diversi da quelli sviluppati, forniscano – per quanto su base volontaria – il loro contributo per aumentare questi fondi. E questi Paesi sono la Cina, la Corea del Sud e i Paesi del Golfo membri Opec, che nella Convezione Onu sul clima a tutt’oggi non sono ufficialmente inclusi fra i Paesi sviluppati, perché è ancora in vigore la classificazione del 1992. Si tratta di Paesi con elevate emissioni e con economie non certamente comparabili, ad esempio, a quelle di molti dei Paesi dell’Africa subsahariana, come hanno fatto presente fra gli altri il ministro dell’ambiente nigeriano, Balarabe Abbas Lawal, e la sua omologa della Colombia, Susana Muhamad@.

Fra i risultati che Italian Climate Network elenca nella sua esaustiva analisi della Cop29 c’è anche l’adozione di accorgimenti per regolamentare meglio il mercato internazionale del carbonio: semplificando molto, quando un Paese compie un’azione – ad esempio di riforestazione – che aiuta ad assorbire gas serra, oppure un’azione che evita di emettere questi gas climalteranti, accumula crediti di carbonio e li può vendere ad altri Paesi che hanno bisogno di compensare le proprie emissioni.

A Baku si sono stabiliti nuovi metodi per il calcolo dei crediti e per la valutazione dei progetti che mirano a rimuovere gas serra dall’atmosfera. Inoltre, la Cop29 è intervenuta anche sui registri che raccolgono i dati sui crediti di carbonio, istituendone uno sotto l’ombrello Onu che però Icn definisce leggero, nel senso che riunisce i registri esistenti invece di istituirne uno unico e vincolante.

I fallimenti

Nel primo anno in cui il pianeta probabilmente ha superato la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento rispetto all’epoca preindustriale, la Cop di Baku non ha nemmeno affrontato il tema della mitigazione. Nel testo finale, riporta Icn, non si parla più di uscita dai combustibili fossili né di contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi o almeno sotto i 2 gradi.

Un dato che ha preoccupato molti riguarda le negoziazioni sul prossimo inventario globale – il Global Stocktake – che aveva rappresentato un successo della Cop di Dubai – e che sono state rimandate alla prossima conferenza sul clima, la Cop30 a Belém, in Amazzonia.

Uno dei motivi per cui non si è raggiunto nessun accordo è che l’Arabia Saudita ha messo in discussione il ruolo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento (Ipcc, nell’acronimo inglese), fin qui ritenuto il punto di riferimento scientifico su cui si sono basate le Cop, proponendo di utilizzare anche altre fonti scientifiche. In realtà, riportava a novembre il New York Times@, questa presa di posizione è solo uno degli atti di una strategia di demolizione dei negoziati sul clima che l’Arabia Saudita sta portando avanti già dalla fine della Cop28.

E questo ruolo dell’Arabia saudita richiama l’attenzione anche sull’elefante, anzi, sugli elefanti, nelle stanze negoziali di Baku: l’imminente uscita dall’accordo di Parigi degli Stati Uniti dopo la rielezione di Donald Trump, i numerosi teatri di guerra aperti nel mondo e le conseguenti tensioni che si sono insinuate anche alla Cop, un’Unione europea che ha tentato di guidare i Paesi del Nord globale e di insistere sulla riduzione delle emissioni, ma che era distratta dalle liti fra i Paesi membri sulla scelta dei commissari dell’attuale Commissione Ue, in corso negli stessi giorni a Bruxelles: sono tutti elementi che erano noti prima dell’inizio dei lavori e che avrebbero reso comunque questa Conferenza di difficile gestione. Una presidenza, come quella dell’Azerbaijan, che non sembrava davvero interessata a mediare in modo efficace per raggiungere accordi ambiziosi ha fatto il resto nell’appesantire, rimandare, affossare i negoziati.

Dopo Baku, e sulla scia di Dubai e Sharm El Sheik, sono in molti a chiedersi se ha ancora senso che il pianeta organizzi la propria azione per il clima intorno a un modello negoziale nato tre decenni fa da un trattato che rifletteva un mondo che non esiste più. «È ormai chiaro che le Cop non sono più adatte allo scopo per cui sono nate, ha scritto un gruppo di esperti di clima che include l’ex segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex responsabile del clima delle Nazioni Unite Christiana Figueres e lo scienziato del clima Johan Rockström. I futuri vertici, sostiene il gruppo, dovrebbero essere organizzati solo in paesi che mostrano un chiaro sostegno all’azione per il clima e che hanno regole più severe sulla lobby dei combustibili fossili. La Cop30 di Belem, che si svolgerà quest’anno a novembre, ha un’eredità pesante da raccogliere.

Chiara Giovetti

22 November 2024, Azerbaijan, Baku: Activists from Fridays for Future Germany demonstrate with other activists at the UN Climate Summit COP29. Photo: Larissa Schwedes/dpa (Photo by Larissa Schwedes / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP)




Disabilità e sviluppo, progressi insufficienti


Nel mondo, una persona ogni sei ha una disabilità significativa e i numeri sono in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione, delle pandemie, delle catastrofi naturali e delle guerre, mentre i progressi verso l’inclusione sono ancora insufficienti.

N el 2021, la principale causa di disabilità nel mondo sono stati i disturbi neurologici. Lo riportava lo scorso marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riferendo i risultati di uno studio@ pubblicato su The Lancet Neurology, autorevole rivista scientifica britannica, secondo il quale dal 1990 la quantità complessiva di disabilità, malattia e morte prematura causati da problemi neurologiche è aumentata del 18%.

Le prime dieci patologie neurologiche che hanno causato perdita di salute sono ictus, encefalopatia neonatale, emicrania, demenze, neuropatia diabetica, meningite, epilessia, complicazioni neurologiche dovute a parto prematuro, disturbi dello spettro autistico e tumori del sistema nervoso. Oltre otto su dieci dei decessi e della perdita di anni di salute per cause neurologiche si verificano nei Paesi a basso e medio reddito reddito dove il numero di professionisti di neurologia è 70 volte più basso che in quelli ad alto reddito.

Nel complesso, considerando anche patologie diverse da quelle neurologiche, la disabilità è diffusa nel 16% della popolazione mondiale. Una persona ogni sei, per un totale di 1,3 miliardi.

Concetto in evoluzione

La disabilità, si legge sul sito dell’Oms@, è un aspetto della condizione umana, una sua parte integrante. È anche un «concetto in evoluzione», chiarisce la Convenzione Onu del 2006 per i diritti delle persone con disabilità, ed è il risultato dell’interazione fra problemi di salute e fattori personali e ambientali, fra i quali atteggiamenti negativi, trasporti ed edifici pubblici inaccessibili e sostegno sociale limitato. Per questo l’equità sanitaria per le persone con disabilità – cioè il diritto di raggiungere il miglior stato di salute possibile per loro – è una priorità per lo sviluppo. La giornata internazionale delle persone con disabilità, che ricorre il 3 dicembre di ogni anno dal 1981, è nata per promuovere i diritti e il benessere di questo 16% dell’umanità e quest’anno ha come tema «Rafforzare la leadership delle persone con disabilità per un futuro inclusivo e sostenibile»@.

Gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) rilevanti per la disabilità sono almeno cinque e riguardano l’istruzione, il lavoro, la riduzione delle diseguaglianze, gli insediamenti umani e il rafforzamento del partenariato mondiale per raggiungere gli obiettivi.

Tuttavia, Ulrika Modéer dell’agenzia Onu per lo sviluppo, Undp, e José Viera, della International disability alliance, constatavano nel 2023 sul blog di Undp@ che i progressi sono deboli sulla metà degli obiettivi, mentre su un altro 30% degli obiettivi si registrano regressi. Ad esempio, riferisce il rapporto 2024 sui progressi verso il raggiungimento degli Sdg, solo la metà delle scuole primarie e il 62% delle scuole secondarie hanno infrastrutture di base per studenti con disabilità; inoltre, se i dati mostrano maggiori tassi di violenza da parte del partner nei confronti di donne disabili, la mancanza di dati statistici precisi impedisce di definire le reali dimensioni del problema@.

Disabilità e ferite di guerra

Anche i conflitti armati hanno un ruolo significativo nel generare nuove disabilità. Solo per fare alcuni esempi limitati alle guerre in Ucraina e a Gaza: lo scorso maggio il sito Politico.eu riportava@ che, secondo il ministero per le politiche sociali ucraino, dopo l’invasione russa del febbraio 2022 le persone con disabilità nel paese erano aumentate di 300mila e oltre 20mila avevano subito amputazioni. Il ministero che si occupa dei veterani, inoltre, calcolava che il numero di questi e i membri delle loro famiglie che potrebbero avere bisogno di assistenza a causa dei traumi fisici o psicologici arriverebbe a 5 milioni.

Anche a Gaza la guerra ha causato moltissime lesioni traumatiche: usando i dati raccolti e condivisi dai medici di emergenza dal 10 gennaio al 16 maggio 2024, l’Oms ha stimato@ il numero di lesioni gravi e calcolato che circa un quarto dei 95.500 feriti trattati – ovvero circa 22.500 persone – ha probabilmente bisogno di riabilitazione intensa e continua. Le lesioni agli arti sono quelle più numerose (15mila casi) e si stimano anche fra le 3mila e le 4mila amputazioni, oltre 2mila gravi lesioni alla testa e al midollo spinale e altrettante ustioni gravi.

Il conflitto armato non solo genera nuove disabilità, ma colpisce in modo più grave chi ne ha già una. Un rapporto@ sulla situazione a Gaza pubblicato a settembre di quest’anno da Human rights watch, Ong internazionale per la difesa dei diritti umani, riporta che 98mila bambini di Gaza vivevano con una disabilità già prima dell’inizio della guerra e racconta le storie di alcuni di loro. Ad esempio, quella di Ghazal, una quattordicenne con paralisi cerebrale, che ha dovuto fuggire con la sua famiglia dal Nord al Sud di Gaza senza i suoi dispositivi di assistenza, distrutti in un attacco che aveva colpito la sua casa. A inizio maggio, Ghazal era sfollata in una tenda a Rafah, senza accesso adeguato all’acqua, al cibo e ai servizi igienici e senza la possibilità di andare a scuola e alle sedute di fisioterapia.

Disabilità e clima

Anche il cambiamento climatico ha il doppio effetto di causare incidenti e ferite che possono provocare una disabilità e di peggiorare la vita di chi già ci convive. L’ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri (Undrr, nell’acronimo inglese) ha realizzato l’anno scorso un sondaggio@ che ha prodotto un totale di 6.342 risposte da 132 Paesi. Dal rapporto che commenta i risultati del sondaggio emerge che oltre otto persone con disabilità su dieci non hanno un piano di preparazione personale per i disastri e una su dieci non ha nessuno che la aiuti a evacuare. Solo un quarto degli intervistati ha detto che sarebbe in grado di evacuare immediatamente in caso di un disastro improvviso e solo il 15% ha partecipato alla definizione dei piani e delle strategie con cui la propria comunità organizza la risposta alle emergenze.

Nel sesto rapporto di valutazione dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, poi, si prevede che il cambiamento climatico causerà una diminuzione del contenuto di micro e macro nutrienti negli alimenti. Questo farà aumentare malattie infettive, diarrea e anemia, portando entro il 2050 un incremento stimato del 10% degli anni di vita condizionati da disabilità (Disability-adjusted life years, o Daly, vedi box) associati a denutrizione e carenze di micronutrienti.

Il lavoro nelle missioni

Nella Repubblica democratica del Congo, la perdita di anni in salute ha come prime quattro cause le infezioni respiratorie e la tubercolosi, la malaria e altre malattie tropicali trascurate, le patologie che riguardano la salute materna e neonatale e le malattie dell’apparato cardiovascolare@.

«Qui in ospedale noi rileviamo innanzitutto le malformazioni congenite», spiega la dottoressa Séraphine Nobikana, medica direttrice dell’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu, gestito dai missionari della Consolata nel Nord della Repubblica democratica del Congo. «Altre cause di disabilità sono poi poliomielite, benché l’Oms l’abbia dichiarata eradicata, la meningite e le conseguenze di incidenti stradali o sul lavoro, ad esempio le cadute da 10-15 metri di altezza dei lavoratori che raccolgono i frutti delle palme da olio». Alle persone con disabilità vengono forniti sostegno nutrizionale e farmaci, completa il responsabile dell’ospedale Ivo Lazzaroni, ma non ci sono attività specifiche rivolte a loro, diversamente da quanto accade al centro Gajen di Isiro, capoluogo della regione distante circa 30 chilometri da Neisu. «Qui le attività con le persone con disabilità sono iniziate circa vent’anni fa», conferma fratel Rombaut Ngaba Ndala, che dal 2023 ha affiancato fratel Domenico Bugatti, presente a Isiro dalla fine degli anni Novanta (cfr MC gennaio 2022). Una delle attività è la costruzione di sedie a rotelle, che avviene nel laboratorio del centro. Vi sono poi attività sanitarie e di lotta alla malnutrizione che permettono ad esempio a persone con epilessia – tredici nel primo semestre di quest’anno – di ricevere farmaci e assistenza nutrizionale.

Assistenza alle anziane

Anche in Kenya e Tanzania ci sono attività rivolte in modo specifico alle persone disabili.

A Sagana, in Kenya, i missionari della Consolata gestiscono il villaggio Saint Mary’s, una casa protetta per donne anziane. Il lavoro, spiega la responsabile dell’ufficio progetti in Kenya, Naomi Mwingi, è iniziato nel 1974 con quattrodici donne, e oggi le persone ospitate sono trentotto, di cui tre non vedenti e sedici con difficoltà motorie per le quali sono necessarie sedie a rotelle e deambulatori, mentre diciannove camminano se assistite dal personale. La più anziana ha 94 anni e la maggioranza ha problemi di salute mentale.

Produzione di protesi

L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, dal 2016 ha un laboratorio che produce protesi per pazienti che hanno subito amputazioni: fra il 2021 e il 2023 ha prodotto un totale di 149 protesi per le gambe, di cui 116 per pazienti che hanno subito amputazioni sotto il ginocchio e 33 sopra il ginocchio.

Produce, inoltre, altre protesi, ad esempio per piedi, ortesi (tutori), stecche, stampelle e altri ausili, per adulti e bambini. «Nel nostro ospedale», scrive da Ikonda il responsabile padre Marco Turra, «il servizio di assistenza protesica interviene ad aiutare soprattutto le persone che hanno acquisito una disabilità a causa di traumi o malattie croniche come il diabete. Sono in media una cinquantina le persone che si rivolgono a noi ogni anno con questo tipo di richiesta».

Chiara Giovetti

COME SI MISURA LA PERDITA DI SALUTE

Lo studio Global burden of diseases, injuries, and risk factors (Gbd) è il più grande e dettagliato sforzo scientifico mai condotto per quantificare i livelli e le tendenze della salute. Guidato dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, negli Stati Uniti, conta adesso oltre 12mila ricercatori provenienti da più di 160 paesi e territori. È nato nel 1990 come studio commissionato dalla Banca mondiale e la sua più recente edizione (2021) analizza dati e fornisce stime su 371 patologie e ferite e 88 fattori di rischio.I Disability-adjusted life years (Daly) sono gli anni di vita condizionati dalla disabilità: sono stati introdotti proprio dallo studio Gbd del 1990 per definire meglio il peso della malattia, perché la comunità scientifica riteneva che la mortalità da sola non fosse sufficiente per fornire un quadro completo. Un Daly rappresenta la perdita dell’equivalente di un anno di salute piena e si ottiene sommando gli anni di vita persi (Years of life lost, Yll) per morte prematura e gli anni di vita in salute persi per disabilità o per condizioni di salute non ottimali (Years of healthy life lost due to disability, Yld). Secondo il più recente studio Gbd la prima causa di perdita di salute a livello globale sono le malattie cardiovascolari: gli anni di vita corretti per disabilità di cui sono responsabili queste patologie sono 5.428 ogni 100mila abitanti.

Chi.Gio.

Fonti:
Ihme / Gbd: www.healthdata.org/research-analysis/about-gbd/history
Oms: www.who.int/data/gho/indicator-metadata-registry/imr-details/158




Progetti idrici, una panoramica


Il mondo non ha fatto sufficienti progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 dell’Onu, quello relativo all’accesso all’acqua e ai servizi igienici. Nelle missioni della Consolata si continua  a lavorare per garantire acqua pulita a famiglie, scuole e strutture sanitarie.

Nel 2023 i casi di colera nel mondo sono stati oltre 535mila, in aumento rispetto ai quasi 473mila dell’anno precedente, e le morti a causa della malattia sono passate da 2.349 del 2022 a 4.007 dell’anno scorso. Lo riportava a settembre un rapporto@ dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui quella in corso è la settima pandemia di colera dal XIX secolo a oggi. Nel complesso, riportava una scheda informativa dell’Oms a marzo@, le malattie diarroiche, tra le quali il colera, continuano a essere la terza causa di morte di bambini sotto i 5 anni: ogni anno a causa della diarrea muoiono circa 444mila bambini fra 0 e 5 anni e  altri 51mila fra i 5 e 9 anni.

Si tratta di malattie per le quali i trattamenti esistono e sono anche economici. A questo proposito, sul New York Times dello scorso settembre, Philippe Barboza, a capo del team che si occupa di colera nel programma delle emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, definiva inaccettabile che nel 2024 le persone muoiano perché non possono permettersi una bustina di sali per la reidratazione orale che costa 50 centesimi.

Prevenire le malattie diarroiche sarebbe poi ancora più semplice: basterebbe avere a disposizione acqua pulita per bere, cucinare e lavarsi le mani, eliminando batteri come il vibrio cholerae, l’escherichia coli e altri responsabili di queste patologie.

Ma, a oggi, il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quello che riguarda appunto l’acqua e i servizi igienico sanitari, non sembra vicino. Secondo il rapporto 2023 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile@, nonostante alcuni miglioramenti, più di 2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro e oltre 700 milioni sono privi di servizi idrici di base; 3,5 miliardi di persone non dispongono di servizi igienico sanitari adeguati e 2 miliardi non hanno le strutture per lavarsi le mani a casa con acqua e sapone.

Aggiunta di un serbatoio per l’acqua per l’asilo di shambo in Etiopia

C’è pozzo e pozzo

Le proposte di progetto in ambito idrico che i Missionari della Consolata hanno elaborato negli ultimi quattro anni, confermano che garantire acqua pulita continua a essere una priorità. Questo sforzo, infatti, ha assorbito in media almeno 100mila euro l’anno. Gli interventi, realizzati soprattutto in Africa, ma anche in America Latina, hanno riguardato perforazioni di pozzi per portare acqua a ospedali e dispensari, scuole e studentati, comunità e villaggi.

Ci sono diversi tipi di pozzi che possono essere realizzati: uno di questi è il pozzo artesiano, la cui caratteristica è quella di attingere da una falda artesiana, cioè da un accumulo di acqua fra le rocce del sottosuolo che nella parte superiore sono impermeabili e tengono l’acqua sotto pressione. A causa di questa pressione, una volta realizzata la perforazione, l’acqua risale in superficie in modo spontaneo e può essere attinta anche senza usare una pompa. I pozzi freatici attingono invece da falde freatiche, che hanno nella parte superiore rocce permeabili: l’acqua non è in pressione e per estrarla serve una pompa.

I pozzi non sono i soli interventi che i missionari si trovano a realizzare per garantire l’accesso all’acqua: a volte la perforazione esiste già, ma la parete di roccia del foro è crollata o danneggiata, oppure l’estrazione dell’acqua dipende da una pompa azionata da un generatore a gasolio, costoso e inquinante. O, ancora, non c’è un adeguato sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua, per cui servono cisterne sollevate da terra dove pompare l’acqua, e tubature collegate per distribuirla sfruttando la forza di gravità.

Inoltre, alcuni interventi idrici riguardano il collegamento di una sorgente – cioè il punto da cui l’acqua sotterranea sgorga spontaneamente in superficie – con le strutture e gli edifici dove verrà utilizzata.

Momento dell’uscita dell’acqua durante lo scavo del pozzo a Neisu, Congo Rd

Congo, tanta acqua ma non per tutti

La Repubblica democratica del Congo è uno dei paesi con maggiori risorse idriche del pianeta: circa due terzi del bacino del fiume Congo si trova infatti all’interno del suo territorio e la sua foresta pluviale è la seconda al mondo per estensione dopo quella amazzonica. Eppure, si legge@ sul sito dell’agenzia Onu per l’acqua Unwater, solo il 12% della popolazione – poco più di un congolese su dieci – dispone di acqua potabile sicura e solo uno su cinque ha la possibilità di lavarsi le mani con acqua e sapone a casa. L’acqua ha un ruolo fondamentale in servizi come quelli sanitari: per questo, negli anni, una delle priorità dell’ospedale di Neisu, che i Missionari della Consolata gestiscono nel Nordest del Congo, è stata quella di dotare non solo l’ospedale ma anche i 12 centri e posti di salute della sua rete sanitaria di almeno un pozzo. «Qui da noi in genere i pozzi sono profondi 13-15 metri», spiega Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata responsabile dell’ospedale. «La gente comincia a scavare con zappe e picconi e poi continua con il badile, scendendo fino a che non si trova l’acqua».

Una volta scavato, per rinforzare il muro di terra e roccia del foro – che ha un diametro di un metro o un metro e mezzo – i lavoratori preparano quattro o cinque cilindri di cemento (buse) e li calano uno dopo l’altro nello scavo, aiutandosi con un cerchione della ruota di un’auto e delle corde, in modo che si formi un condotto di cemento appoggiato al fondo. Si costruisce poi un muretto circolare di mattoni in superficie e si deposita sul fondo del pozzo uno strato di ghiaia, accompagnato a volte da un sacco di carbone spezzettato, per filtrare l’acqua.

Questi pozzi (freatici), tuttavia, rimangono asciutti quando la stagione secca è molto intensa e per questo Ivo, grazie al generoso sostegno di un donatore, ha deciso di realizzare un pozzo per l’ospedale a 40 metri di profondità (artesiano): «Per realizzare il pozzo, però, abbiamo chiamato il camion con la perforatrice meccanica: hanno fatto un forage (un buco) di 20 centimetri di diametro e inserito dei tubi di plastica a protezione del foro».

Ora la disponibilità d’acqua dell’ospedale dovrebbe essere garantita anche durante la stagione secca.

Scavare pozzi in Congo, si capisce dai racconti di Ivo, significa spesso anche venire a contatto con credenze e usanze locali: c’è ad esempio la convinzione che, una volta trovata l’acqua, occorra togliere il fango dal fondo del pozzo almeno cinque volte per far sì che questo non si asciughi più. Inoltre, c’è la credenza che la ricerca dell’acqua non può avere successo se i leader tradizionali non svolgono prima determinati riti per placare gli spiriti degli antenati. C’è poi chi fa ricorso alla rabdomanzia, una pratica che non ha però alcun riscontro scientifico: i rabdomanti sostengono di essere in grado di individuare il punto del sottosuolo nel quale si trova l’acqua «interpretando» le vibrazioni di un bastone di legno tenuto nelle loro mani.

Siccità nel Nord del Kenya.

Stress idrico in Kenya

Nelle nostre missioni in Kenya, scrive da Nairobi Naomi Nyaki, la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata, ci sono principalmente tre tipi di pozzi, qui definiti per il modo in cui vengono realizzati: i dug wells, scavati nel terreno con un badile a una profondità fra i 10 e i 30 metri, permettono di prelevare l’acqua con un secchio; i drilled wells, perforati con macchinari appositi, possono raggiungere i 300 metri di profondità e richiedono una pompa per portare l’acqua in superficie; e i driven wells, che sono pozzi in genere poco profondi realizzati inserendo un tubo nel terreno fino alla falda acquifera e collegando poi una pompa per portare l’acqua in superficie.

A volte, continua Naomi, il pozzo è sul terreno della missione o della parrocchia gestita dai missionari della Consolata, ma a beneficiarne sono comunque centinaia di persone: nella parrocchia di San Giovanni XXIII a Rabour, Kenya occidentale, il pozzo è a disposizione dei parrocchiani servendo così i due missionari che lavorano lì e i 1.700 abitanti dell’area.

E ancora: a Makima, città del Kenya centrale a circa 130 chilometri da Nairobi, il pozzo garantisce acqua a 14mila persone: «Profondo 280 metri, questo pozzo fornisce una grande quantità di acqua pulita, sufficiente per essere incanalata e raggiungere la township (insediamento informale) di Kitololoni, due scuole elementari, una scuola secondaria, un dispensario e la fattoria della missione cattolica di St. Paul».

Secondo i dati Unwater, in Kenya@ il 72% della popolazione dispone di una fonte di acqua potabile sicura: più del doppio della media regionale dell’Africa subsahariana, che è al 31%. Ma su altri indicatori il Kenya ha maggiori difficoltà, ad esempio quello dello stress idrico: quando un territorio preleva il 25% o più delle sue risorse rinnovabili di acqua dolce, si dice che è in «stress idrico» e il Kenya ne preleva il 33%.

Tanzania, acqua dalla montagna

Trivellatrice nel momento in cui raggiunge la falda acquifera a Irole, Tanzania

La Tanzania ha un prelievo idrico più contenuto del Kenya: estrae infatti solo il 13% delle sue risorse idriche rinnovabili e non è, quindi, in stress idrico. Ma la quota di popolazione che ha accesso all’acqua pulita, pari all’11%, è molto sotto la media regionale. Per garantire l’acqua alle comunità con cui lavorano, scrive da Iringa la responsabile dall’ufficio progetti Imc, Modesta Kagali, i missionari della Consolata hanno costruito diversi tipi di pozzi che vengono scavati a mano o con una perforatrice, a seconda delle situazioni, e hanno profondità comprese fra i 10 e i 150 metri. A volte, però, ricorrono anche alla raccolta di acqua piovana o alla canalizzazione da fiumi o da sorgenti montane.

Nella missione di Ikonda, ad esempio, i missionari hanno realizzato un acquedotto, convogliando l’acqua dalla montagna attraverso un sistema di tubature e canali per raggiungere l’ospedale, le case del personale e il villaggio circostante di Ikonda. L’ospedale può così servire migliaia di pazienti – nel 2023, i ricoveri sono stati quasi 18mila – e anche la popolazione del villaggio. Come in Kenya, anche in Tanzania i missionari usano l’acqua per irrigare i campi delle fattorie che gestiscono, ma anche gli orti di seminari e scuole per abbattere i costi di gestione, coltivando frutta e verdura per le mense scolastiche.

Fasi di lavoro per la costruzione del pozzo per il vaccaro del progetto bestiame

Pozzi artesiani in Amazzonia

L’acqua che proviene dai rilievi circostanti è stata a lungo la principale risorsa idrica anche per molte comunità che vivono nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (Tirss), nello stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. Negli ultimi anni, però, difficoltà nella manutenzione e stagioni più secche hanno reso meno costante la disponibilità di acqua.

Spiegava nel 2022 padre Jean-Claude Bafutanga, allora in missione nella Tirss a Baixo Cotingo: «Ci sono spesso interruzioni nel sistema idrico che porta l’acqua a valle. In inverno l’acqua c’è, ma se piove troppo i canali si intasano per l’accumularsi di foglie; d’estate, invece, abbiamo avuto siccità così intense che l’acqua non c’era più».

Nella Tirss, completa padre Joseph Mampia, che lavora alla missione di Raposa, non esiste un sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua come nelle città. Molti utilizzano l’acqua piovana accumulata negli igarapé, (ruscelli), che però si seccano d’estate e spesso portano acqua non potabile. Il garimpo, cioè l’estrazione mineraria illegale, infatti, ha peggiorato la situazione, inquinando l’acqua@. Per questo, concordano i due missionari, il pozzo artesiano è la soluzione migliore in questa zona: è abbastanza profondo da evitare le contaminazioni causate dal garimpo e l’acqua sgorga in modo spontaneo.

Chiara Giovetti

Contemplando l’acqua nel pozzo




Sviluppo e IA, molte incognite


L’intelligenza artificiale potrebbe aiutarci a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 e a contrastare il cambiamento climatico. A patto, però, che l’energia e l’acqua necessarie per farla funzionare non peggiorino il problema più di quanto lo risolvano.

L’intelligenza artificiale (Ia) può aiutare a prevedere carestie e inondazioni, a usare l’acqua in modo più efficiente, a monitorare e tagliare le emissioni di gas serra, a ridurre la mortalità materna e infantile e le disparità di genere, a colmare le lacune nella raccolta dei dati a livello globale e a fare molte altre cose utili al raggiungimento degli obiettivi si sviluppo sostenibile (acronimo inglese: Sdg) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

A patto, però, di trovare modi efficaci per renderla sicura, inclusiva e sostenibile.

Lo hanno affermato lo scorso maggio a Ginevra al vertice mondiale Ai for Good@ sia il segretario generale Onu António Guterres – l’intelligenza artificiale può «mettere il turbo allo sviluppo sostenibile» -, sia Doreen Bogdan-Martin, la segretaria generale dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell’acronimo inglese), l’agenzia Onu per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Bogdan-Martin ha riconosciuto il ruolo potenziale dell’Ia nel «salvare gli Sdg», ma ha anche ricordato che un terzo degli abitanti del mondo, cioè 2,6 miliardi di persone, rimane privo di connessione ed «escluso dalla rivoluzione dell’Ia».

L’intelligenza artificiale è affamata di elettricità e assetata di acqua, ha poi spiegato nel suo intervento Tomas Lamanauskas, il vice di Bogdan-Martin: quando si parla di clima, si è chiesto Lamanauskas, le tecnologie basate sull’intelligenza artificiale sono parte del problema o ci aiuteranno a trovare una soluzione?@

Progetto eolico, sulla strada per Loyangalani. e lago Turkana.

L’Ia per clima e sviluppo

Queste tecnologie, ha detto Lamanauskas, hanno un potenziale evidente nel contribuire a identificare soluzioni per affrontare la crisi climatica: possono, ad esempio, rilevare e analizzare cambiamenti anche minimi degli ecosistemi, e aiutare a pianificare le attività per la loro conservazione, monitorare le aree danneggiate dalla deforestazione, aumentare l’efficienza energetica e ridurre gli sprechi.

Secondo uno studio del Boston consulting group, società di consulenza con sede a Boston, Usa, l’uso dell’Ia potrebbe aiutare a realizzare un taglio delle emissioni di anidride carbonica fra il 5 e il 10%. Per dare una misura, si tratta di una quota non lontana da quella prodotta oggi dall’Unione europea. Anche nell’adattamento ai cambiamenti climatici le tecnologie basate sull’Ia potrebbero aiutare le città a individuare meglio le aree vulnerabili e a fornire stime realistiche sui costi che le amministrazioni cittadine dovrebbero affrontare se non agiscono in tempo.

Ad esempio, lo scorso aprile Preventionweb, un servizio dell’Ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri, riportava@ i risultati promettenti ottenuti da alcuni studiosi del California institute of technology nel prevedere con un anticipo fra i 10 e i 30 giorni le piogge monsoniche dell’Asia meridionale. I ricercatori hanno affiancato l’apprendimento automatico alla più tradizionale modellistica numerica (l’uso cioè di modelli matematici per simulare ciò che avviene nell’atmosfera), ottenendo un modello che si è mostrato più preciso e attendibile. Capire e prevedere meglio il comportamento dei monsoni è importante per i contadini di Paesi come India, Pakistan, Bangladesh, che devono programmare il raccolto, e per le autorità locali, che possono prepararsi per tempo a eventuali inondazioni. Ma anche per chi studia i fenomeni climatici a livello globale, poiché i monsoni hanno un’influenza sul clima del pianeta. Quanto al contributo potenziale dell’intelligenza artificiale allo sviluppo sostenibile, proprio l’Unione internazionale delle telecomunicazioni ha pubblicato di recente una lista di casi d’uso in cui l’Ia viene testata per capire quanto efficace può essere nel raggiungere gli Sdg. La selezione finale – 53 casi da 19 Paesi, scelti fra 219 casi da 38 Paesi – include progetti che usano l’Ia per fornire servizi di telemedicina in Cambogia, ottimizzare l’uso dell’acqua in agricoltura e ridurre la corruzione negli appalti pubblici in Tanzania, migliorare la salute e il benessere degli animali negli allevamenti avicoli in Rwanda e prevenire gli incendi nei terreni torbosi della Malaysia.

L’Ia ha fame di energia

Il consumo di energia da parte di centri dati (data centre) per l’Ia e il settore delle criptovalute potrebbe raddoppiare entro il 2026, passando dai circa 460 terawattora (TWh) nel 2022 a oltre mille. È un consumo di elettricità che equivale più o meno a quello del Giappone. Lo scrive nel rapporto Electricity 2024@ la Iea, Agenzia internazionale dell’energia, che riferisce anche che ci sono oggi circa 8mila centri dati nel mondo, di cui un terzo negli Stati Uniti, il 16% in Europa e il 10% in Cina. Negli Usa, 15 Stati ne ospitano l’80%, mentre in Europa si fa notare il caso dell’Irlanda che, anche grazie a un regime fiscale molto favorevole per le imprese, ha visto il settore espandersi rapidamente e oggi i centri dati hanno un consumo di energia pari a quello di tutti gli edifici residenziali urbani del Paese.

Ma che cos’è un centro dati? È uno spazio fisico dove vengono collocati i computer e i dispositivi hardware che servono per elaborare, archiviare e comunicare dati. L’intelligenza artificiale funziona e si «allena» proprio grazie alla enorme mole di dati elaborati in questi entri (necessari per internet a prescindere della Ia, che però ne aumenterà il numero, ndr). Il 40% dell’energia che usano, continua il rapporto Iea, serve per l’elaborazione dei dati, un altro 40% per il raffreddamento degli impianti e il 20% fa funzionare altre apparecchiature.

Lichinga. Villaggio con capanne di paglia e antenna relevisiva

Più efficienza e regole

Il consumo di elettricità dell’intelligenza artificiale rappresenta oggi una frazione del consumo energetico del settore tecnologico mondiale, a sua volta stimato intorno al 2-3% delle emissioni globali totali.@

Ma, ricordava a marzo sul Financial Times@ la giornalista, politica e consulente della Commissione europea, Marietje Schaake, molti esperti del settore, a cominciare dall’amministratore delegato del laboratorio di ricerca OpenAI, Sam Altman, sono convinti che il futuro dell’intelligenza artificiale dipenda da una svolta energetica. Anche per questo, continua Schaake, le aziende tecnologiche sono diventate grandi investitrici nel settore dell’energia: «Meta scommette sulle batterie, Google punta sulle fonti di energia geotermica, Microsoft afferma di poter mantenere il suo impegno a raggiungere emissioni zero e diventare autosufficiente dal punto di vista idrico entro la fine del decennio». Tuttavia, conclude la giornalista citando Christopher Wellise, vicepresidente dell’azienda di data center Equinix, la tecnologia si sta muovendo più velocemente di quanto si sia evoluta la nostra infrastruttura.

È presto per dire quale strada prenderà il settore tecnologico per garantirsi l’energia che gli serve, ma, sottolinea il rapporto Iea, per contenere il consumo dei centri dati sarà fondamentale sia migliorare l’efficienza energetica sia promuovere una legislazione che vincoli lo sviluppo tecnologico agli obiettivi climatici.

Il dibattito oggi sembra muoversi intorno a questi aspetti: le fonti rinnovabili possono dare un grande contributo alla produzione dell’energia necessaria, ma fonti come il sole e il vento hanno il limite di essere intermittenti e di non poter garantire da sole la continuità che i centri dati richiedono. Per garantire questa continuità servono soluzioni nuove che evitino di gravare sulle reti elettriche locali e di ricorrere alle fonti fossili, e c’è anche chi, come la Svezia, ipotizza la costruzione di centri dati alimentati a energia nucleare. L’Ia, poi, può e deve avere un ruolo sia nel migliorare l’efficienza dei centri dati da cui dipende sia nel trovare soluzioni utili alla decarbonizzazione globale.

La sete dell’Ia

L’intelligenza artificiale, riferivano tre studiosi dell’Università di Amsterdam sul sito The Conversation a marzo scorso@, consuma anche molta acqua. Questa serve sia per raffreddare i server che ne sostengono la potenza di calcolo sia per produrre l’energia che li alimenta. Una stima che è circolata molto negli ultimi mesi è quella indicata nello studio di Shaloei Ren, professore di Ingegneria elettrica e informatica presso l’Università della California, Riverside, e dei suoi colleghi@, secondo cui Gpt-3 – il modello computazionale alla base del software ChatGpt – deve «bere» (cioè consumare) una bottiglia d’acqua da mezzo litro per un numero di risposte che varia fra le 10 e le 50 a seconda delle condizioni: una tradizionale ricerca su Google consuma circa mezzo millilitro di acqua.

Sempre secondo Ren, il consumo idrico nei centri dati di Google nel 2022 è aumentato del 20% rispetto all’anno precedente, mentre quelli di Microsoft hanno registrato un incremento del 34% nello stesso periodo ed è molto probabile che sia proprio l’intelligenza artificiale la causa di questi aumenti.

Il prelievo complessivo di acqua da parte di Google, Microsoft e Meta, si legge nello studio, è stimato in 2,2 miliardi di metri cubi nel 2022, equivalente a due volte il prelievo totale annuo di acqua della Danimarca e, nel 2027, potrebbe collocarsi fra i 4,2 e i 6,6 miliardi di metri cubi, pari a metà del prelievo del Regno Unito. Un altro dato che colpisce nel rapporto è quello secondo cui circa 0,18 miliardi di metri cubi sono stati persi a causa dell’evaporazione: una quantità che supera il totale prelevato in un anno dalla Liberia per i suoi 5,3 milioni di abitanti.

Proteste di chi ha sete

Diversi investitori si stanno orientando proprio verso l’Africa subsahariana@: in Kenya, ad esempio, si prevede una espansione del settore dei centri dati dai 190 milioni di dollari di valore del 2021 ai 434 milioni previsti per il 2027. L’Africa, ricorda il rapporto 2024 delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche, è però anche il continente in cui circa mezzo miliardo di persone vive in condizioni di insicurezza idrica@.

In America Latina, poi, il progetto di Google di costruire un data center in Uruguay ha scatenato forti proteste: il consumo di acqua per raffreddare i server sarebbe di 7,6 milioni di litri di acqua al giorno, pari all’uso domestico quotidiano di 55mila persone. Nel 2023 il Paese ha avuto la peggiore siccità degli ultimi 74 anni. Le autorità pubbliche hanno cercato di affrontarla prelevando acqua dall’estuario del Rio de la Plata, acqua che però ha un sapore salato ed è sconsigliata a donne incinte e persone fragili. In un’intervista al Guardian, Carmen Sosa, della Commissione uruguaiana per la difesa dell’acqua e della vita, ha detto che la siccità ha evidenziato i limiti di un modello economico dove l’80% dell’acqua va all’industria e le risorse sono concentrate in poche mani.

Non stupisce che il progetto di Google non sia stato accolto con grande entusiasmo.

Raccolta di acqua nel letto di un fiume in secca a Baragoi, Kenya

Altri rischi da tenere d’occhio

Ci sono anche altri modi in cui l’intelligenza artificiale rischia di rallentare il cammino verso gli obiettivi dell’agenda 2030. A riassumerli è un documento@ del consorzio internazionale di statistica Paris 21, fondato da Nazioni Unite, Ocse, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale.

Il primo rischio è che le infrastrutture inadeguate e le minori competenze nei Paesi del Sud globale portino a un ulteriore aumento del divario digitale con il Nord del mondo. Vi è poi il problema dei pregiudizi che l’intelligenza artificiale potrebbe contribuire a propagare: gli algoritmi alla base dei modelli di Ia, infatti, «imparano» e si «allenano» su dati che spesso riflettono le diseguaglianze e gli stereotipi della società e tendono a riprodurli quando vengono utilizzati, ad esempio, per la selezione del personale o per assegnare priorità nell’assistenza ai pazienti in una struttura sanitaria.

Vi sono infine i rischi legati alla violazione della privacy e dei diritti umani, come nel caso dell’uso di droni per la raccolta di immagini o delle app di riconoscimento facciale.

Al summit Ai for Good, Sage Lenier, un’attivista per il clima, ha poi avanzato un’altra interessante osservazione@. La catena di fast fashion Zara, ha spiegato Lenier, è sotto accusa da anni per la sua sovrapproduzione di vestiti, le condizioni disumane delle sue fabbriche e l’enorme impronta di carbonio. Zara aggiunge 2mila nuovi capi al suo sito web ogni mese.

Da qualche anno, però, c’è una nuova catena che commercia online, la cinese Shein, che aggiunge 60mila nuovi articoli al mese e nel 2023 ha generato circa 32,5 miliardi di dollari di fatturato. Shein sembra a sua volta destinata a essere superata da Temu, piattaforma cinese di e-commerce nata a settembre 2022 e capace di generare, già nel 2023, 27 miliardi di fatturato. Shein e Temu, ha detto Lenier, sono ciò che accade quando lasciamo che l’intelligenza artificiale sia applicata a settori che stanno già distruggendo il pianeta e sfruttando le persone nelle loro catene di produzione: l’Ia permette a queste aziende di analizzare rapidamente le tendenze della moda e le preferenze dei consumatori, creare strategie di marketing iper-personalizzate e ottimizzare cicli di produzione accelerati.

Queste aziende non potrebbero produrre a un ritmo così veloce e a basso costo senza lo sfruttamento del lavoro, incluso il lavoro minorile e quello assimilabile alla schiavitù. La pressione resa possibile dall’intelligenza artificiale acuisce queste condizioni di sfruttamento.

Chiara Giovetti




Turismo: si è imparato poco dalla pandemia


Quest’anno segnerà probabilmente il ritorno dei flussi turistici ai volumi precedenti la pandemia. Le speranze che la pausa forzata potesse contribuire a un ripensamento del turismo e alla correzione di alcuni errori sembrano essere in gran parte deluse.

Gli introiti del turismo in Uganda sono cresciuti nel 2023 di quasi il 50%, superando il miliardo di dollari per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid-19. Lo riportava lo scorso marzo il sito di news Semafor@, aggiungendo che il settore dà lavoro a più di 600mila persone nel Paese ed è uno dei maggiori motori dell’economia. Sempre Semafor ad aprile riportava il dato, riferito da W. hospitality group, una società di consulenze con sede a Lagos, Nigeria, secondo il quale le catene alberghiere internazionali avevano in progetto di costruire 524 hotel con oltre 92mila camere in 41 Paesi africani. Due su tre di questi hotel erano progetti delle cinque maggiori catene del mondo: le multinazionali statunitensi Marriott, Hilton, Radisson, la francese Accor e la britannica Ihg Hotels@.

Ritorno ai livelli pre-pandemia

Questi dati di espansione del settore in Africa trovano conferma nelle statistiche ufficiali, in particolare nel Un turism barometer dell’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite che esce quattro volte l’anno@. Secondo Unwto, il turismo internazionale ha raggiunto il 97% dei livelli precedenti la pandemia da Covid-19 nel primo trimestre 2024; si prevede che eguaglierà e forse supererà quei livelli nel corso di quest’anno.

Il dato si riferisce agli arrivi internazionali, cioè alle visite da parte di viaggiatori che passano almeno una notte in un Paese diverso da quello di residenza, ed è una media fra i dati di tutti i Paesi del mondo.

Il Medio Oriente, segnala lo stesso Un turism barometer, ha registrato nel primo trimestre del 2024 la crescita relativa più sostenuta, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2019 (dato che probabilmente non riguarda però Israele, Libano e Palestina, ndr), mentre Africa ed Europa hanno già superato il livello pre pandemia del 5% e dell’1%. Per il resto dell’anno in corso, la previsione a maggio era di un possibile crescita del 2% rispetto ai livelli del 2019, trainata dallo sblocco della domanda accumulata a causa delle passate restrizioni e non ancora soddisfatta, dall’aumento dei collegamenti aerei e da una più forte ripresa delle destinazioni asiatiche, nonostante l’aumento globale dei costi.

Nel 2023, a livello generale, il recupero rispetto all’epoca pre Covid era già stato dell’88%, con poco meno di 1.286 milioni di arrivi internazionali a fronte dei 1.464 del 2019. In termini economici, invece, i dati preliminari indicavano che la meta era già raggiunta l’anno scorso: il prodotto interno lordo diretto del turismo, quello cioè legato alle industrie direttamente in contatto con i visitatori, era infatti stimato a 3.300 miliardi di dollari, cioè il 3% del Pil mondiale: lo stesso del 2019.

L’Unwto a fine giugno non aveva dati più recenti del 2022 circa il numero di lavoratori, ma World travel & tourism council (Wttc), forum degli operatori privati del settore turistico a livello mondiale, quantificava ad aprile in 348 milioni i posti di lavoro legati al settore del turismo e dei viaggi, con un incremento di quasi 14 milioni rispetto al 2019@.

La ripresa del settore turistico è dunque ormai nei fatti. Meno chiari, invece, sono i progressi verso il rispetto dei principi proposti ad esempio dal Global sustainable tourism council (Gstc) nel 2021@ con l’intento di approfittare della battuta d’arresto della pandemia per correggere alcune storture del settore.

AfMC / Adriano Coletto

Turismo e clima

A violare almeno la metà di questi principi è, ad esempio, il cosiddetto last chance tourism, il turismo dell’ultima possibilità. Su Futura network, il sito di dibattito promosso dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS), Flavio Natale commentava qualche mese fa un articolo del New York Times che descriveva questo fenomeno come un tipo di turismo nel quale i viaggiatori pagano cifre spesso molto alte per vedere luoghi che presto potrebbero non esistere più a causa dei cambiamenti climatici: ghiacciai, isole, barriere coralline. Un esempio di questi luoghi è la Mer de glace, cioè il ghiacciaio del Monte Bianco: un turista intervistato dal New York Times racconta che alla sua prima visita, 40 anni fa, il ghiacciaio arrivava appena sotto la piattaforma panoramica, mentre oggi è circa 240 metri più in basso. Natale cita anche un articolo del Guardian su Pond Inlet, un villaggio a maggioranza etnica Inuit nell’Artico canadese dove le principali attività di sussistenza sono la pesca e la caccia di mammiferi marini. A Pond Inlet i turisti vanno a osservare un paesaggio e una fauna in rapido cambiamento: l’Artico, infatti, sta scaldandosi quattro volte più velocemente della media globale, gli orsi polari stanno spostandosi e si prevede che nel 2050 il territorio sarà completamente privo di ghiaccio durante l’estate. Il paradosso di questo turismo è che se da un lato può contribuire ad aumentare la sensibilità delle persone rispetto ai cambiamenti climatici, dall’altro però rischia di accelerare i processi che stanno portando alla scomparsa di quegli stessi ecosistemi. A Pond Inlet il dibattito oppone chi ricava un reddito dalle attività di accoglienza a chi pensa che le navi di turisti spaventino la fauna marina, rendendo più difficile la caccia e aumentando così la dipendenza dell’economia locale dal turismo@.

Il settore del turismo e dei viaggi rappresentavano, in uno studio del Wttc pubblicato a fine 2023 su dati degli anni precedenti, una quota di emissioni di gas serra pari all’8,1% del totale globale nel 2019, diminuita poi a 4,2% nel 2020 e a 4,6 nel 2021. Oggi, con il ritorno degli arrivi internazionali ai livelli pre pandemici, è verosimile che la quota sia di nuovo vicina dal dato del 2019@.

AfMC / Sergio Parmentola

L’impatto su piante e animali

L’industria del turismo non solo emette gas serra, ma sacrifica i migliori alleati che abbiamo per ora a disposizione per catturare l’anidride carbonica: gli alberi. Semafor riferiva a marzo 2024@ che 7,3 milioni di alberi erano stati tagliati in Messico fra il 2019 e il 2023 per realizzare il Tren Maya, la ferrovia turistica e commerciale di 1.525 chilometri che connette Palenque a Cancún e di cui MC ha parlato a novembre 2023@.

Uno dei danni del treno, segnalava Semafor citando il sito messicano Animal Politico, è che il suo passaggio modificherà il sistema di cenotes (grotte) e canali sotterranei, sacri al popolo Maya e necessari per l’approvvigionamento idrico delle comunità dello Yucatán.

Come le piante, anche gli animali subiscono gli effetti del turismo: in Uganda, riportava la rivista Nature a febbraio scorso@, il 59% degli scimpanzé morti negli ultimi 35 anni nel parco nazionale di Kibale sono stati uccisi da agenti patogeni come il metapneumovirus umano, che si manifesta negli esseri umani con sintomi simili al raffreddore ma è spesso letale per gli scimpanzé.

Va meglio agli squali balena, la più grande specie di pesci esistente: ogni anno ci sono 25 milioni di persone in 23 Paesi del mondo che vogliono nuotare con loro. Questo alimenta un giro d’affari da 1,9 miliardi di dollari, ma fa anche crescere i timori riguardo all’impatto negativo che questa esposizione agli umani può avere sugli squali. Fortunatamente, un recente studio pubblicato sul Journal of sustainable tourism realizzato a Ningaloo Reef, nell’Australia occidentale, ha monitorato i movimenti dei pesci dopo aver applicato loro dispositivi biometrici e ha mostrato che gli impatti sono minimi. Lo studio conclude che il turismo legato alla fauna selvatica, se ben gestito – evitando di attirare gli squali con del cibo e di esporli per lungo tempo a grandi quantità di turisti – può essere sostenibile sia per le persone che per gli animali@.

Il turismo che divora

A non essere sostenibile è, invece, la situazione del lago di Como, come raccontava il giornalista Luigi Mastrodonato la scorsa primavera in un articolo@ e in un podcast@ di Internazionale dal titolo «Il turismo ha divorato il lago di Como».

Quello del lago è un ecosistema che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha definito fragile ed esposto a un alto rischio idrogeologico. Si tratta di un territorio selvaggio e impervio, sconosciuto al turismo di massa fino all’inizio degli anni Duemila, quando l’attore statunitense George Clooney ha comprato casa nella zona. Da quel momento, il territorio si è trasformato in una meta di lusso, con la ristrutturazione di ville d’epoca e la costruzione di nuove case per i personaggi famosi e di grandi strutture di accoglienza per ospitare turisti da tutto il mondo: nel 2023 il lago ha sfiorato i 5 milioni di pernottamenti.

Tutto questo ha sottoposto il territorio a stress, perché la cementificazione ha peggiorato la tenuta del terreno facendo aumentare le già frequenti frane. Inoltre, molti abitanti sono stati costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli immobili e per via dello stesso fenomeno che è all’opera da oltre un decennio in tante città del mondo, cioè quello degli affitti brevi per turisti, che i proprietari degli immobili preferiscono ai meno redditizi affitti a lungo termine per persone intenzionate a vivere in modo stabile nel luogo.

A sua volta, lo spopolamento ha fatto diminuire gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza del lago e delle montagne che lo circondano, creando ulteriori difficoltà quando le piogge, rese meno frequenti ma torrenziali dal cambiamento climatico, si abbattono con violenza su un territorio ormai provato.

Il lago di Como è già saturo, spiega Mastrodonato riportando le parole del sociologo Agop Manoukian, come una bottiglia piena che ci si ostini a voler riempire ancora. Eppure, le amministrazioni locali valutano tuttora progetti per la costruzione di un ulteriore complesso da 29mila metri quadrati con hotel, spa, darsene private, e per la creazione di una stazione sciistica a mille metri con neve artificiale sul vicino monte San Primo, così da estendere la stagione turistica anche all’inverno.

AfMC / Ennio Massignan

Convivenza difficile

La convivenza con le attrazioni turistiche è complicata anche altrove: in Tanzania, che deve all’industria del turismo il 5,7% del suo Pil, pari a 2,6 miliardi di dollari, una parte significativa delle attività riguarda i parchi nazionali e la fauna selvatica. Dal 2022 una legge stabilisce compensazioni economiche e materiali per le persone danneggiate da episodi di conflitto tra fauna selvatica e comunità umane. Ma, sosteneva ad agosto dell’anno scorso Laura Hood sul sito The Conversation@, questo conflitto e i suoi effetti sono gestiti in modo inadeguato e il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, come risulta dalle interviste fatte con alcuni abitanti dei villaggi di Kiduhi e Mbamba, al confine con il Parco nazionale Mikumi, il quarto più grande della Tanzania.

Anche i Maasai che vivono intorno al Serengeti, il parco nazionale più noto del Tanzania@ dove adiacente al cratere di Ngorongoro, sono da anni in lotta per mantenere i loro territori che hanno attirato l’attenzione dell’industria turistica internazionale sotto il paravento dell’ecologia e della conservazione.

Lo scorso aprile Stephanie McCrummen, giornalista vincitrice del premio Pulitzer nel 2018, ha raccontato ai microfoni dell’emittente radiofonica Usa Npr, che la presidente del Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha un approccio molto aggressivo nello sviluppo turistico e prevede il trasferimento forzato di circa centomila Maasai dall’area protetta di Ngorongoro ad altre parti del Paese e la creazione di una riserva di caccia di 600 miglia quadrate a uso esclusivo della famiglia reale di Dubai@.

AfMC / Ennio Massignan

Turismo e pace

Il tema della giornata mondiale del turismo, che cade il 27 settembre, quest’anno sarà «Turismo e pace» e a ospitare le celebrazioni sarà Tblisi, capitale della Georgia. Il turismo, si legge nella presentazione della giornata mondiale sul sito del Unwto, può svolgere un ruolo vitale come catalizzatore per promuovere la pace e la comprensione tra nazioni e culture e nel sostenere i processi di riconciliazione. Viceversa, che la guerra arrechi grosse perdite al settore turistico lo ha sottolineato a febbraio scorso l’Unesco in uno studio, che ha quantificato in 19,6 miliardi di dollari i mancati ricavi e in 3,5 miliardi i danni causati dalla guerra alle risorse culturali e turistiche di un Paese come l’Ucraina@.

Anche la guerra a Gaza, riportava già a dicembre Agence France presse, ha determinato un crollo dei flussi turistici verso Israele e una forte riduzione anche nei Paesi limitrofi, come la Giordania e l’Egitto@.

Chiara Giovetti

 




House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




Sudafrica, trent’anni dopo Mandela


Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.

«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994@.

Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.

«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).

Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica»@. Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».

L’ultimo miglio della long road to freedom

Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.

Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».

Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan@, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994@, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.

Aiuto ai migranti in Eswatini durante il Covid. (AfMC)

Dopo Mandela

La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.

Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.

L’attuale non rosea situazione del Sudafrica, scriveva lo scorso anno Roger Southall, dell’Università di Witwaterstand, sul giornale online The Conversation@, ha spinto diversi sudafricani a tentare di far ricadere sulle scelte di Mandela le responsabilità per i fallimenti successivi.

Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo@.

Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.

Lavoro minorile nelle miniere di Blaauw Bosh Kloof nell’Eastern Cape del Sudafrica (AfMC)

La xenofobia degli ex oppressi

In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022)@, i migranti presenti in Sudafrica sono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila@, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.

Rispetto al totale della popolazione sudafricana, che nel 2022 è arrivata a 62 milioni, i migranti quindi sono quattro ogni cento persone. Eppure, un sondaggio del 2021, riportato da Bbc lo scorso settembre@, mostrava che metà degli intervistati era convinta che i migranti presenti nel Paese fossero fra i 17 e i 40 milioni.

Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.

Nel settembre dell’anno scorso, spiega padre Samuel, a Dennilton, uno dei villaggi seguiti dai missionari, gli abitanti hanno cacciato diversi stranieri accusandoli di stregoneria@.

Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).

Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.

Periferia della città di Merrivale (AfMC)

Migranti per strada

«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.

Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.

«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».

Chiara Giovetti

Danza tradizionale degli Zulu (AfMC)