Un santuario al centro di una vita


Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».

Di indole e carattere diverso, i due sacerdoti si completano mirabilmente nell’avventura di rendere nuovamente il santuario della Vergine Consolata quello che, per secoli, pur tra alti e bassi, è sempre stato considerato la casa della Madonna del popolo torinese, dove in tempi di calamità si prega per ottenere la guarigione, in tempi di guerre si supplica per la pace, e ogni giorno nella preghiera la gente trova consolazione e coraggio, avvicinandosi a Dio attraverso la Vergine Maria.

I primi anni assieme risultano per i due sacerdoti di intenso lavoro e i risultati si notano subito, come afferma Lorenzo Sales nella biografia del beato Allamano: «Sante Messe a tutte le ore; confessionali provvisti sempre di confessori; comunione distribuita ai fedeli quasi di continuo; cerimonie ben fatte; pulizia della chiesa curata fino allo scrupolo; nella sacrestia, per turno, sempre un sacerdote a ricevere i fedeli; poi ordine e puntualità massima; poi ancora e soprattutto preghiera e santità di vita». E la gente accorre numerosa al santuario, non solo in occasione delle festività, ma tutti i giorni.

Incoraggiati dall’arcivescovo, i nostri due sacerdoti mettono poi mano, con entusiasmo, ai lavori di ristrutturazione del santuario che necessita di un restyling radicale e non solo di un abbellimento superficiale. I fedeli aumentano e c’è anche bisogno di un ampliamento, impresa non facile dato il sito angusto in cui si trova la chiesa. E don Camisassa, che segue ogni cosa, suggerisce, progetta con le maestranze perché il risultato sia il migliore possibile. Anche le offerte non vengono a mancare perché la gente nota subito in quei due sacerdoti zelo, impegno e tanto amore alla Vergine Consolata.

L’Allamano e il Camisassa sanno pure guardare lontano. Non solo Torino ma tutto il mondo ha bisogno di avvicinarsi a Dio, passando per la mediazione della Vergine Maria. Ai due Istituti Missionari, che essi fondano all’ombra del santuario, danno il nome di «Consolata» con la missione di annunciare Cristo a tutti i popoli e la consolazione di Dio ai più poveri.

Anche ora dal Cielo continuano a intercedere e proteggere.

padre Piero Trabucco


Anno del Confondatore

I missionari e le missionarie della Consolata hanno dedicato l’anno 2022 al ricordo riconoscente del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei loro istituti, nel centenario della sua morte (18 agosto 1922). Egli fu vicerettore del Santuario della Consolata, amico e fedele collaboratore, compagno nel cammino del rettore, il beato Allamano, per ben 42 anni.

Giacomo Camisassa (1854-1922)

Nacque a Caramagna Piemonte (To). Dopo aver frequentato la bottega di un fabbro, nel 1868 entrò nell’oratorio salesiano di Torino, quindi nel seminario diocesano di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, passò al seminario di Torino per la teologia. Qui ebbe assistente e direttore spirituale Giuseppe Allamano. Fu ordinato sacerdote nel 1878. Dal 1880 fu accanto all’Allamano come economo, poi come vicerettore del santuario e del convitto ecclesiastico della Consolata. Collaborò con l’Allamano alla fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata (1901 e 1910). Insieme all’Allamano fondò e diresse la rivista «La Consolata» che servì per far conoscere la vita del santuario e delle missioni. Dopo una breve malattia, morì il 18 agosto 1922. A buon diritto è riconosciuto «confondatore» degli Istituti dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Amico al suo fianco

Così si sono espressi i superiori generali dei nostri Istituti parlando del Camisassa: «Egli fu un vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere “la beatitudine di essere secondo” coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con colui che egli considerava “padre”, il beato Giuseppe Allamano».

Il Camisassa è una figura importantissima nella vita del fondatore e, di conseguenza, anche per la nostra storia missionaria; merita, perciò, di essere ricordato e celebrato con speciale riconoscenza. È lo stesso fondatore a ricordarcelo: «Se non avessi avuto al mio fianco il can. Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

«Faremo d’accordo un po’ di bene»

Sono parole scritte a Giacomo Camisassa, nella lettera del settembre 1880, con la quale Giuseppe Allamano lo invitava e lo incoraggiava ad accettare l’incarico come economo nel santuario della Consolata. Il delicato incarico come rettore del santuario della Consolata, il fondatore lo aveva accettato con la condizione di poter lui stesso scegliere un collaboratore. La scelta del Camisassa non gli fu difficile, conoscendo il giovane sacerdote da quando l’Allamano era direttore spirituale in seminario.

«Faremo d’accordo un po’ di bene»: un’espressione che porta in sé un programma su come avrebbero portato avanti insieme l’incarico a loro affidato di guardarsi attorno e cogliere i bisogni e i movimenti dello Spirito, per dare risposte concrete non rimanendo solo in quello che era il loro dovere. I due non hanno fatto solo «un po’ di bene» ma attraverso la loro grande intesa e profonda comunione, hanno compiuto tanto bene nei 42 anni alla Consolata (1880 – 1922), intraprendendo iniziative di vario rilievo sempre nella ricerca della volontà di Dio, attenti ai segni che provenivano dalla realtà, dalla chiesa, dalla missione, nella realizzazione del «bene fatto bene senza rumore», e così facendo hanno portato frutti che perdurano nel tempo.

Confondatore

Ciò consente di riconoscere e riflettere sul suo ruolo nella fondazione e sviluppo dei nostri due Istituti. Egli ha lavorato costantemente e in maniera accuratissima per aiutare a «fondare» i nostri Istituti; era attento, premuroso e delicato nel suo rapporto con ogni missionario e missionaria. Non era solo un collaboratore, ma un vero fratello di cui l’Allamano ha potuto fidarsi, confidandogli preoccupazioni, gioie, desideri e anche la sua stessa vita spirituale… e tutto ciò era vicendevole, perché del fondatore il Camisassa aveva una stima e una fiducia illimitata.

Il Camisassa era la persona che stava sempre a fianco dell’Allamano con la sua genialità inventiva, la sua ampiezza di vedute; mai attirava l’attenzione su di sé, ci teneva ad essere secondo in maniera umile e discreta, anche se l’Allamano lo incoraggiava a portare avanti le sue intuizioni e progetti, sia nella giovane missione del Kenya come a Torino dove aveva tanti impegni.

Un progetto pensato e realizzato insieme

Il Camisassa ha visto nascere e crescere i nostri due Istituti e si è impegnato con tutte le sue forze fisiche e spirituali perché si realizzasse quello che era il sogno dell’Allamano; anzi, hanno sognato, insieme, pianificato, pregato e valutato, prima di prendere ogni decisione; ma lui fece tutto questo, senza mai passare davanti al fondatore.

Nella sua visita in Kenya, effettuata fra il 1911 e il 1912, il Camisassa informava dettagliatamente l’Allamano sullo sviluppo e tutto ciò che accadeva nelle missioni, in modo che il fondatore potesse valutare l’operato dei suoi missionari, il loro stato di salute, il livello spirituale, i sentimenti, le reazioni nelle varie situazioni missionarie, sia nel progresso e nei successi, come anche nelle difficoltà, che non sono mai mancate.

Sicuramente l’Allamano, nei primi passi della missione in Kenya, trovò nel Camisassa la persona sicura per portare avanti l’esecuzione delle varie imprese dei missionari, un esecutore intelligentissimo, rapido, pratico, risoluto, instancabile, una persona che si intendeva di tutto, non trascurava niente e incoraggiava i missionari a fare le cose nel migliore modo possibile.

L’unità dei due era così profonda, da poter affermare che abbiano percorso le strade della missione insieme, anche se l’Allamano non ha mai potuto visitare le missioni a causa della sua fragile salute; ma, attraverso il Camisassa, ha trovato il modo di essere presente nella vita dei suoi missionari e missionarie.

Costoro, riconoscenti per la sua opera, chiedono al Signore che il confondatore interceda per loro e li guidi dal cielo in quello zelo missionario e fedeltà a Dio e alla missione, che mai gli sono mancati in vita.

Direzioni generali Imc/Mc


Due olivi e due lampade

Nell’anno centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa (18 agosto 2022), confondatore delle famiglie dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, padre Giuseppe Ronco, nella festa del beato Allamano celebrata il 16 di febbraio di quest’anno, ha parlato della loro amicizia durata tutta la vita.

Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda.Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale a Roma, n. 245

La vita del beato Allamano fu sempre orientata al Signore nell’ascolto della sua Parola, tesa alla realizzazione della sua volontà, per essere strumento del programma missionario che lo Spirito e la Consolata gli avevano stampato nel cuore. Fondò due istituti missionari per l’evangelizzazione dei popoli.

Gli fu accanto, nell’opera, il canonico Giacomo Camisassa, chiamato «Confondatore» quando l’Allamano era ancora vivo. Anzi, l’Allamano stesso attribuì al Camisassa la qualifica di «Fondatore» insieme con lui dell’Istituto missioni Consolata, e mons. Perlo, scrivendo al card. Willem Marinus Van Rossum definì l’Allamano e il Camisassa «Venerati Fondatori».

Mi pare opportuno, nell’anno centenario della morte del canonico Camisassa, riflettere sull’amicizia, fondata su Cristo, che si stabilì tra lui e l’Allamano. «Ci siamo sempre amati in Dio», diceva l’Allamano.

Tra loro, infatti, ci fu un’intesa straordinaria, sorgente di una stretta collaborazione che portò i due canonici alla realizzazione di opere grandiose. Il segreto di questa profonda amicizia è da ricercare nella loro spiritualità, fatta di concretezza e di carità semplice, ispirata alle intuizioni e agli esempi del Cafasso e volta al bene dei vicini e dei popoli lontani.

Fu un’amicizia che il canonico Nicola
Baravalle, nella sua testimonianza per il processo di beatificazione dell’Allamano, illuminò con un versetto biblico tratto dall’Apocalisse, descrivendone il senso più profondo: «Sunt duo olivae et duo candelabra lucentia ante Dominum», «Sono due olivi e due lampade che stanno davanti al Signore della terra» (Ap 11,4).

È risaputo come nella Chiesa l’amicizia spirituale tra due santi abbia sovente prodotto opere grandiose e tracciato itinerari di santità. Basti pensare ai legami di amicizia tra san John Henry Newman e Ambrose St. John. Entrambi inglesi e anglicani, insieme si convertirono al cattolicesimo, insieme entrarono nell’Oratorio di Filippo Neri, insieme vennero a Roma per studiare teologia e insieme furono ordinati sacerdoti. Insieme ritornarono in Inghilterra a lavorare, collaborando in tutto e abitando la stessa casa. La loro amicizia durò 32 anni e Newman volle essere sepolto nella stessa tomba di Ambrose.

Per l’Allamano e il Camisassa, l’amicizia fu uno stile di vita a cui sempre si ispirò il loro concreto modo di vivere e la loro attività.

Leggendo le lettere del Camisassa risulta che tra lui e l’Allamano l’intesa era piena. Nel loro vivere insieme si vedeva la complementarietà tra colui che pensa e colui che è capace di tradurre il pensiero nella vita quotidiana. Erano ambedue umili e tendenti a nascondersi.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare anche dalle affermazioni proferite durante la sua malattia: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Sperimentava la beatitudine di essere secondo!

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi «sempre la verità». La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, si manifestò in modo particolare nella fondazione dei due Istituti, rispettando ognuno il proprio ruolo, pur nella condivisione dello stesso ideale. C’era un desiderio ardente di comunione e di dialogo in vista di arrivare all’unità di intenti. Agivano insieme e concordi per il bene della missione e dei missionari. Ogni sera si incontravano e si comunicavano gli avvenimenti della giornata, non solo per un semplice scambio di notizie, ma nel desiderio di scoprire la volontà di Dio su di loro e sui loro progetti apostolici.

«Passavamo in questo mio studio lunghe ore… Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui». Dopo aver affiancato e sostenuto per 42 anni il canonico Allamano, il canonico Giacomo Camisassa fu il primo a cedere con la salute, e la sua sofferenza maggiore era quella di recare pena all’Allamano.

Erano circa le 20.00 del 18 agosto 1922; faceva caldo e umido: davvero estivo. Tutti erano a cena, quando nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi, barcollò e cadde: era morto.

Dice il canonico Nicola Baravalle: «Il canonico Allamano assistette all’agonia ed alla morte dell’amico senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio». È bello vedere l’Allamano piangere la morte dell’amico, portando davanti a Dio la ricchezza di una vita vissuta nell’amore.

Il 26 agosto 1922 ne diede notizia ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne. Fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a esso: è sacro! Egli viveva per noi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto».

padre Giuseppe Ronco




Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Correva l’anno del Signore 1922


In quell’anno moriva presso il santuario della Consolata, in Torino, il canonico Giacomo Camisassa. Ancora giovane sacerdote, non esitò a mettersi al fianco di colui che era stato suo direttore spirituale nel seminario, il canonico Giuseppe Allamano, e che era appena stato nominato rettore del santuario della Consolata, per offrire la sua collaborazione fedele e operosa. E lì  rimase per ben 42 anni, amico e aiuto prezioso del giovane rettore. Ad un gruppo di missionarie, giunte nel suo ufficio per porgergli le condoglianze, il canonico Allamano disse, con le lacrime agli occhi: «Tutte le sere passavamo qui lunghe ore… qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui. Ora non c’è più, cosa farò io?».

L’eredità lasciata da Giacomo Camisassa alla chiesa torinese e ai missionari e missionarie della Consolata è ancora oggi un tesoro a cent’anni di distanza. La sua testimonianza di vita interpella e stimola tutti ad aprirsi con coraggio verso la missione evangelizzatrice della Chiesa e a una solidarietà generosa nei confronti degli ultimi e degli emarginati. Per questo motivo, ritorneremo nel corso dell’anno 2022 a presentare aspetti esemplari della sua figura, sicuri di offrire ai lettori proposte capaci di rinfrancare i cammini che papa Francesco ci invita a intraprendere come «discepoli» e «missionari».

In questi giorni la Chiesa universale e quella italiana invitano a compiere un «cammino sinodale» fatto di coinvolgimento e dialogo, di collaborazione e operosità all’interno delle nostre comunità cristiane per risvegliare in tutti lo zelo missionario e attirare coloro che dalla Chiesa si sono allontanati. Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa, pur in epoche lontane, hanno saputo essere esempio di dialogo e discernimento, collaborazione e spinta ai lontani, mossi da un intenso fervore di vita spirituale. Utilizzavano soprattutto mezzi semplici, ma quanto mai efficaci. Leggiamo, ad esempio, nella sua biografia: «Dopo cena [i canonici Allamano e Camisassa] si trovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme. Due ore al giorno passano così nel dialogo. Quei due che si fanno scrupolo di non perdere un minuto, non ritengono sia sprecato quello speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Gli incontri danno tranquillità al Fondatore, perché chi gli sta accanto è un uomo sincero, capace di contestarlo per farlo riflettere, ma attento e fedele ai suoi cenni come se venissero da Dio» (Mina, «La beatitudine di essere secondo», pp. 73-74).

Che il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa aiutino anche noi ad essere oggi persone capaci di discernimento, dialogo e fattiva intraprendenza a favore dei poveri e dei lontani dalla Chiesa.

padre Piero Trabucco


Chiedete e vi sarà dato

«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7): questo invito di Gesù ha suscitato una profonda eco nello spirito del beato Giuseppe Allamano, il quale lo ha trasmesso ai suoi figli e figlie, esortandoli a pregare con fiducia e a vivere l’eucaristia in unione al sacrificio redentivo di Cristo.

Pregare con fiducia

La vera preghiera, sembra suggerire l’Allamano, nasce da un rapporto positivo con Dio. Nessuna paura, nessun dubbio, tanta confidenza e fiducia: sono atteggiamenti interiori che creano un clima di vera sintonia tra noi e Dio. L’Allamano ci fa capire che il Signore ci conosce nell’intimità, di conseguenza è logico fidarsi. Lo dice sotto tutti i toni: «Pensare sovente al Signore che può, sa, e vuole aiutarci». «Bisogna avere molta confidenza in Dio e voler sempre quello che egli vuole».

«Se uno domanda le grazie senza speranza d’ottenerle, non le ottiene sicuramente. Bisogna domandarle con fede, con quella confidenza da far miracoli. Bisogna importunarlo, nostro Signore, fare come quel tale della parabola del Vangelo che andò durante la notte a domandare del pane all’amico… a forza d’importunarlo glielo diede».

Pregare con perseveranza

L’Allamano insegnava a pregare con perseveranza, fidandosi senza tentennamenti, anche quando le circostanze sembravano suggerire il contrario. Di ritorno da Roma, dopo la beatificazione dello zio materno, Giuseppe Cafasso, riferì agli allievi che i cardinali, entusiasti del nuovo beato, gli avevano detto: «Ora tocca a voi farlo far santo, ottenendone i miracoli». Ma aggiunse subito un suo commento sapiente e concreto: «Questo è un buon principio. E voi domandate grazie spirituali, queste piacciono più a lui e le fa più volentieri. Ma siccome queste non bastano, domandate pure grazie materiali, soprattutto miracoli di chirurgia (si fa una novena, poi una seconda, una terza senza mai stancarsi). Soprattutto domandate vero spirito religioso».

Alle suore, nella conferenza del 9 maggio 1915 sulla «preghiera», così si espresse: «Generalmente quando per ottenere una grazia si fa una novena ai santi, non si ottiene subito dopo questa grazia (non sembra che sentano la prima volta); se ne fa una seconda (e il santo comincia a sentir di più); se ne fa una terza (ed il santo apre e ci ottiene la grazia). Quando non riceviamo quello che abbiamo chiesto, pensiamo che neppure un filo, una parola della nostra preghiera è caduta nel vuoto».

L’Allamano al santuario della Consolata (fotomontaggio)

La messa, primo amore dell’Allamano

L’Allamano sottolinea che l’eucaristia è il centro del culto della Chiesa, specificando che è proprio la santa messa la fonte di tutto il mistero eucaristico: «Certamente la prima, la più eccellente e potente orazione è la santa messa. In essa parliamo all’Eterno Padre con Gesù; è Gesù che si offre e prega per noi; e soddisfa ai nostri debiti. Guai al mondo se non vi fosse la santa messa. Al sacrificio della messa tendono come al centro tutte le altre orazioni dei sacerdoti».

Rivolgendosi ai suoi missionari diceva: «La santa messa, la comunione e la visita al Santissimo Sacramento devono essere i nostri tre amori»; «Gesù è veramente con noi là nel santo tabernacolo; e vi è come vittima, cibo ed amico; vittima nella santa messa, cibo nella santa comunione, ed amico nelle visite al Santissimo».

L’Allamano, secondo la fede della Chiesa, ha evidenziato il significato sacrificale della  messa: «Nella messa si ripete sempre il sacrificio della croce tale e quale; se nostro Signore non fosse morto sulla croce, morirebbe ogni giorno sull’altare. Il Signore si sacrifica all’eterno Padre per i nostri peccati, per ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno; si offre al Padre ed è sempre una vittima, un olocausto».

Nella teologia eucaristica ha un valore essenziale l’aspetto dell’offerta di Gesù al Padre come vittima in favore nostro e di tutta l’umanità. Ora, il dono di Gesù al Padre coinvolge la Chiesa chiamata a offrirsi assieme a Gesù. L’Allamano ha percepito bene questo significato dell’offerta sacrificale, vivendolo personalmente ed insegnando ai suoi missionari e missionarie a offrirsi al Signore con generosità, come «olocausti».

Sul Calvario con Maria

C’è da aggiungere un altro suggerimento interessante che l’Allamano ci offre: vivere la messa come se si fosse sul Calvario con Maria. Emerge qui il senso mariano dell’eucaristia. Non si dimentichi che al vertice dei misteri della luce del santo Rosario c’è proprio l’istituzione dell’eucaristia. Il papa Giovanni Paolo II così conclude la sua lettera apostolica per l’Anno (2004-2005) dell’Eucaristia Mane nobiscum Domine: «La Chiesa, guardando a Maria come a suo modello, è chiamata ad imitarla anche nel suo rapporto con questo mistero santissimo. Il Pane eucaristico è la carne immacolata del Figlio: Ave verum corpus natum de Maria Virgine» (n. 31).

La pietà mariana dell’Allamano lo ha portato a comprendere bene la partecipazione di Maria alla redenzione e, quindi, il suo speciale coinvolgimento nel mistero eucaristico. Nel suo quaderno spirituale da seminarista leggiamo: «Voglio assistere alla messa in compagnia di Maria Santissima sul Calvario ed accostarmi alla comunione con gli stessi sentimenti di Maria SS. al Verbum caro factum est» .

E, parlando della messa alle suore, disse: «La santa messa è certo la più gran cosa e per essere degna bisognerebbe che Dio stesso la celebrasse. È lo stesso sacrificio della croce; il sacerdote è solo ministro secondario; Gesù è la vittima e il primo ministro: è lui che si offre, che domanda perdono, che ringrazia, che impetra grazie! Dobbiamo figurarci di assistere al Calvario con la Madonna e san Giovanni».

Condividendo i sentimenti della Madonna – sembra dirci l’Allamano – si partecipa alla messa non solo con la testa, ma anche con il cuore.

padre Francesco Pavese

Mons Martinacci (al centro) con i missionari della Consolata che celebrano i loro giubilei di ordinazione e professione religiosa


Maestro del clero

Monsignor Giacomo Maria Martinacci, rettore del santuario della Consolata, qualche tempo fa, ha incontrato i missionari che celebravano i 25 anni di ordinazione o professione religiosa e ha parlato loro del beato Giuseppe Allamano come «Maestro del clero». Di seguito riportiamo una sintesi del suo intervento.

Mi sembra importante, guardando al beato Giuseppe Allamano, vederlo inserito – pur con la sua inconfondibile originalità – nel contesto di un clero e di una intera comunità diocesana torinese segnato – particolarmente nei due ultimi secoli – da itinerari di santità esplicitamente riconosciuta dalla Chiesa stessa.

L’Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti nel 1851, dove prima di lui erano nati lo zio san Giuseppe Cafasso (1811) e san Giovanni Bosco (1815) e dove concluderà la sua breve vita san Domenico Savio (1857): una coincidenza storica davvero unica per un paese non grande come appunto era ed è tuttora Castelnuovo (Provincia di Asti e Arcidiocesi di Torino).

È certamente curioso che un sacerdote, il quale mai è stato addetto a una parrocchia venga affiancato ai giovani sacerdoti per aiutarli a diventare buoni viceparroci e parroci; altrettanto stupefacente è che uno che mai era stato nelle missioni e mai vi è poi andato, fondi due Istituti missionari e sia formatore e maestro di missionari e di missionarie. Eppure, questa è la storia del beato Giuseppe Allamano. A lui, dopo alcuni anni nel seminario teologico dell’Arcidiocesi – prima come assistente (1873-76) e poi come direttore spirituale (1876-80) -, fu affidata la responsabilità del Santuario mariano più importante di Torino, a cui si aggiunse due anni dopo quella di rettore del rinato Convitto ecclesiastico per i giovani sacerdoti e successivamente divenne fondatore di due famiglie religiose missionarie.

Padre Pavese, riferendo gli insegnamenti dell’Allamano come maestro nella formazione del clero diocesano nel Convitto ecclesiastico, nota una evidente differenza tra le conferenze ai sacerdoti del Convitto ecclesiastico e quelle tenute ai missionari e alle missionarie.

«Le prime sono di carattere ascetico, ma soprattutto pastorale. L’Allamano intendeva preparare i sacerdoti al ministero, insegnando loro come agire e come evitare i difetti che purtroppo si riscontravano. Le seconde, cioè quelle ai missionari, sono piuttosto di carattere ascetico. Intendeva preparare missionari “santi”, sicuro che il metodo dell’apostolato l’avrebbero poi imparato in loco».

Ai sacerdoti convittori (quelli dei primi anni del Convitto li aveva conosciuti nel seminario in quanto era stato il loro direttore spirituale, ma successivamente sarebbero stati sacerdoti che incontrava per la prima volta) manifestava accoglienza cordiale e aperta, presentando anche il Regolamento del Convitto, con cui intendeva mettere le basi alla vita di comunità. Insegnava poi ad essere fedeli al ritiro mensile e agli esercizi spirituali annuali; sulla necessità della meditazione quotidiana era irremovibile, la faceva precedere a qualsiasi altra preghiera, santa Messa esclusa. Privilegiava poi la visita al santissimo Sacramento: un tema ricorrente nei suoi interventi. Prendendo lo spunto da circostanze diverse, insegnava ai convittori come vivere certi avvenimenti ecclesiali, come compiere alcuni atti propri dei sacerdoti e, in particolare, quali fossero le virtù da curare, che indicava come «sacerdotali».

Circa le virtù sacerdotali raccomandava: l’ardore apostolico o zelo, come si diceva allora; l’educazione e la modestia; la castità; il disinteresse e il distacco dai parenti. Circa il modo di vivere certi eventi sottolineava: la novena del Natale e quella dello Spirito Santo; la presenza della Madonna e la pietà mariana; la consacrazione delle chiese. Per il modo di compiere gli atti propri del sacerdote insisteva su: celebrazione della santa Messa e della liturgia; visita al santissimo Sacramento; benedizione eucaristica. Non mancava di evidenziare la necessità dello studio, dell’esame di coscienza e della lettura spirituale.

Per parte mia devo riscontrare che tutte queste indicazioni e sottolineature io, che sono stato ordinato sacerdote 55 anni fa, le ho ancora riscontrate praticamente pari pari negli anni del nostro seminario e nell’anno trascorso qui al Convitto ecclesiastico. Se guardiamo al clero torinese, formato nel Convitto a partire dal fondatore teologo Luigi Guala – iniziato nel 1817 – e dal suo primo successore san Giuseppe Cafasso, per giungere al beato Allamano e al beato Luigi Boccardo che fu suo diretto e principale collaboratore per trent’anni nel Convitto (mentre il canonico Giacomo Camisassa lo fu per il Santuario e successivamente anche per missionari e missionarie), dobbiamo rilevare che la straordinaria fioritura di santità sacerdotale degli ultimi due secoli non può non essere anche conseguenza di quanto i sacerdoti avevano ricevuto nella formazione seminaristica e nel Convitto.

Non è mio compito entrare nel campo degli insegnamenti offerti dall’Allamano ai missionari e alle missionarie, tuttavia come attuale rettore del Santuario (qui sono il decimo successore del beato), desidero farmi eco dell’Allamano ricordando a voi, proprio in questo luogo santo, la caratteristica assolutamente indispensabile da lui costantemente richiesta e ribadita ai missionari e alle missionarie: la vostra santificazione.

Monsignor Giacomo Maria Martinacci


Pensando di fare cosa gradita ai nostri lettori, a cominciare da questo numero, presentiamo alcune pagine del volume «Giuseppe Allamano – uomo per la missione», edito da Edizioni Missioni Consolata a cura del defunto padre Francesco Pavese con l’apporto sostanziale di suor Angeles Mantineo, Missionaria della Consolata.

Il volume, che ha visto la luce nel 2009, è una sorta di autobiografia in cui l’Allamano comunica se stesso, raccontandosi volentieri e con semplicità, come un padre che si intrattiene con i figli, sicuro di essere capito e accettato. Per questo mantiene tutta la sua freschezza e immediatezza anche oggi.

Il testo è corredato da una ricca documentazione fotografica in cui vengono presentate tutte le foto del Fondatore assieme ai luoghi in cui è vissuto e le persone con le quali si è interfacciato.

Il titolo del volume «Uomo per la missione» è parso il più espressivo per caratterizzare l’identità profonda dell’Allamano fondatore di due istituti missionari, che voleva farsi missionario fin da quando era seminarista. Il sottotitolo «Adesso voglio parlarvi un po’ di me» riporta sue parole e indica il criterio con cui è stato realizzato il libro.

Giuseppe Allamano si racconta

Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, educava alla missione i giovani dei suoi due Istituti comunicando loro il proprio spirito con l’insegnamento e la testimonianza di vita. Il suo metodo pedagogico valorizzava grandemente l’esperienza quotidiana. In genere, la sua dottrina veniva esemplificata con fatti e vissuto personali. Ecco perché ai suoi figli e figlie parlava spesso di sé. Sono simpatiche e accattivanti certe espressioni con le quali introduceva o giustificava le sue confidenze, quali: «Adesso voglio parlarvi un po’ di me»; «Vi dico tutto come un padre di famiglia»; «Stasera voglio farvi il mio panegirico, a gloria di Dio».

Sono pure significative le parole con le quali invitava i suoi giovani a imitarlo: «Provate anche voi»; «Fate così»; «Felici voi se farete così».

A questa facilità di comunicazione fa contrasto la sua ritrosia a lasciarsi fotografare. Le sue fotografie sono relativamente poche e la maggior parte di esse sono in gruppo. Tuttavia servono per accendere la fantasia di chi lo ascolta e rendere più concrete le sue confidenze. Fa piacere vederlo, oltre che ascoltarlo.

Il presente volume offre la possibilità di ascoltare e vedere questo grande «Uomo per la missione». Esso può definirsi un’autobiografia fotografica dell’Allamano, proprio perché raccoglie e integra armonicamente moltissime espressioni dove egli parla di sé o manifesta il proprio pensiero, assieme a un gran numero di fotografie sue e di personaggi e luoghi a lui strettamente collegati. In certo

senso, l’Allamano si racconta e assieme si presenta e continua a proporre un particolare cammino di santità in vista della missione universale della Chiesa.


POSTULATORE – P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:

POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org
https://giuseppeallamano.consolata.org




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




Nodi da sciogliere

È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.

Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».

E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.

Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…

Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».

Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.

padre Giacomo Mazzotti


Un nome che impegna

Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.

Due nomi, ma uno solo basterebbe

Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».

Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».

Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.

Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».

Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.

Diventare ciò che il nome esprime

Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».

Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».

Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.

Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».

Figli prediletti e felici

Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.

Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».

Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.

padre Francesco Pavese

 


Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198

Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo

È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».

Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.

Biografia divulgativa

È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».

Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.

L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.

Il «mondo» torinese dell’Allamano

Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.

L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.

Apertura missionaria

Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».

Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.

Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».

padre Giacomo Mazzotti




Aria di miracolo

Nel mese di marzo scorso, è stata celebrata a Roraima (Brasile) l’inchiesta diocesana sulla guarigione «miracolosa» di Sorino Yanomami (un indigeno della foresta amazzonica), ottenuta attraverso la preghiera e l’intercessione del nostro beato Fondatore. I superiori generali dei missionari/e della Consolata hanno scritto: «Questo è un “miracolo missionario” molto in sintonia con lo spirito dell’Allamano per il quale santità e missione vanno insieme, sono facce della stessa moneta, nella missione la santità trova una casa, nella santità la missione trova il suo significato e i propositi più profondi. La speranza è che questo miracolo, così significativo per noi, sia riconosciuto dalla Chiesa e sia uno stimolo per noi e per tutti a crescere nell’amore per la missione ad gentes che il nostro Fondatore ci ha indicato come finalità specifica dei nostri Istituti e loro ragione di essere».

E il vescovo di Roraima, dom Mário Antônio da Silva, nella messa conclusiva dell’intensa settimana del «Processo diocesano», con commosso entusiasmo del cuore (e della voce), così ha ricordato: «Rivolgiamo lo sguardo al beato Giuseppe Allamano, ringraziando Dio per il dono della sua vita, della sua vocazione, e della sua opera missionaria. Egli, pur restando sacerdote diocesano a Torino, ha fondato gli istituti dei missionari e missionarie della Consolata. Molte volte mi hanno chiesto quante volte l’Allamano fosse venuto a Roraima e ho dovuto rispondere che storicamente non è mai arrivato fin qui. Ma lui è stato presente a Roraima per mezzo dei suoi missionari e missionarie per più di 70 anni, con il carisma, l’amore, l’impegno per la vita dei più poveri, dei popoli indigeni, dei popoli delle regioni più interne o che vivono lungo i fiumi, ai bordi delle strade e della periferia delle nostre città…

E questo “sacerdote diocesano” mi ha toccato il cuore, quando ho letto nei suoi scritti: “Maria, la Consolata, con la sua tenerezza penetra nelle intenzioni del suo Divino Figlio, sa quanto gli costiamo, sa che Gesù vuole la salvezza di tutti. Per questo, il desiderio più ardente della Madonna è che tutte le persone siano salvate; ed è per questo che Gesù è venuto nel mondo e lei, che è sempre stata unita a Lui, non può desiderare altro. E la Consolata – ci insegna ancora il beato Allamano – è nostra madre tenerissima che ci ama come la pupilla dei suoi occhi». Cos’è la tenerezza? La tenerezza è la capacità di amare, risvegliare la gioia nella persona amata, senza interesse, nella gratuità, nella vicinanza, nella docilità e – perché no? – nella gioia e nella santità».

padre Giacomo Mazzotti

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Tesoriere e segretario della Consolata

Per la rubrica «Cammino di santità» continueremo ad attingere ai numerosi e approfonditi scritti di padre Francesco Pavese, scomparso il 3 maggio 2020.

L’Allamano, più di una volta si è autodefinito «segretario» e «tesoriere» della Consolata. Ovviamente, sono termini che vanno presi in senso analogico, perché il tono con cui sono stati pronunciati era decisamente familiare. Esprimono, però, una convinzione dell’Allamano stesso, che possiamo capire dal suo pensiero sulla Madonna e poi dal contesto nel quale si è espresso parlando sia ai missionari che alla gente.

Non c’è dubbio che l’Allamano abbia vissuto un’intensa spiritualità mariana. Sapeva partecipare interiormente a tutti i misteri riguardanti Maria, e ogni sua festa, anche la più popolare, diventava motivo di riflessione e di incoraggiamento per impegnarsi nel bene.

La dottrina che sta alla base della sua spiritualità mariana risente molto della sua esperienza al Santuario della Consolata. Parlando della Madonna, infatti, ha spesso valorizzato la liturgia della festa della Consolata, e in particolare la colletta della messa, nella quale si leggono queste parole: «Signore Gesù Cristo, che nella tua ineffabile provvidenza hai disposto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria, tua SS. Madre, concedici benigno (ecc.)».

L’Allamano ha illustrato le parole di questa orazione richiamandosi alla mariologia di san Bernardo: «La Madonna, dice san Bernardo, è un acquedotto e una fontana. Una fontana perché tutte le grazie ci vengono di lì. “Hai voluto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria”. E poi un acquedotto perché tutto deve passare di lì. La Madonna è questo canale che porta a noi la grazia di Dio».

In altra occasione, parlando sullo stesso argomento, si espresse con termini simili: «Nessuna grazia il Signore ha voluto che venisse a noi, se non per mezzo di Maria, essa è tesoriera e dispensatrice». Ecco, per la prima volta, il termine «Tesoriere», ma riferito alla Madonna. Secondo l’Allamano, Maria è «tesoriera», in quanto ha l’incarico, per esplicita volontà di Dio, di dispensare le grazie ai fedeli.

Giuseppe Allamano credeva di avere un rapporto privilegiato di collaborazione con Maria, quasi prolungando questa sua funzione di dispensare i favori di Dio. La sua attiva e prolungata presenza di primo responsabile al Santuario, forse corroborata dall’esperienza personale di grazie ricevute, probabilmente lo induceva a convincersi che tra la Consolata e lui si erano come create un’intesa e una collaborazione speciali.

Si noti, però, che l’Allamano per lo più faceva precedere al titolo di «Tesoriere» quello di «Segretario», forse proprio per precisare questa sua funzione di totale subordine. In pratica, pensava di aiutare la Consolata a concedere i favori alla gente, prendendo nota delle varie necessità.

I contesti nei quali l’Allamano ha parlato di sé come «Segretario» e «Tesoriere» della Consolata aiutano a capire che cosa intendesse usan- do questi termini.

Nel 1922, durante la novena della Consolata, l’Allamano chiese alle suore che pregassero la Madonna per due intenzioni che in quel periodo gli stavano a cuore: perché la Santa Sede approvasse il miracolo per la beatificazione dello zio Giuseppe Cafasso e, perché approvasse definitivamente le Costituzioni dell’Istituto.

Ecco le sue parole, che sembrano quasi uno sfogo a motivo del ritardo che gli pareva di notare: «Pregate la Madonna che ci faccia questo regalo. Del resto, non perderemo la pace per quello se la Madonna non crede di darcelo. In sostanza io son qui [al santuario] tesoriere, segretario, e dovrei avere il diritto di prendere le grazie principali ed invece… Tutti vengono a dire: Io ho ricevuto questa grazia…; io ho avuto questa… Ed io? Io registro sempre, ma pregate che il Signore faccia la sua santa volontà: è poi tutto lì, vedete!». Come appare evidente, è un santo che si confida alle sue figlie, preoccupato sì, ma totalmente affidato alla volontà di Dio.

Due anni dopo, nel notiziario della Casa Madre inviato alle sorelle in missione, scrivendo sul miracolo del Cafasso che, a Roma, aveva avuto esito favorevole, si legge: «19 febbraio: giornata eucaristica alla Consolata per il ven. Cafasso. Tutti gli allievi e allieve di Casa Madre portano il loro contributo di preghiere fiduciosi di vedere presto innalzato agli onori degli altari il caro Venerabile.

L’amatissimo Padre [Allamano] lo troviamo così sollevato e lieto. Ci dice di averli già fatti lui i patti con la Madonna: “Tutte le preghiere – le ho detto – che oggi i missionari e le missionarie faranno per don Cafasso, rivolgetele a loro e fateli santi subito, incominciando dagli ultimi entrati, e credo che la Madonna avrà fatto così. Io sono il suo segretario, il suo tesoriere ed ho il diritto di essere ascoltato prima degli altri”. E noi ci siamo presentate alla Madonna sicure che la sua benedizione feconderà i nostri sforzi costanti per corrispondere ai grandi desideri dell’amato Padre». Questa volta, il suo rapporto privilegiato con la Madonna lo valorizzò in favore della qualità dei suoi figli e figlie che, in realtà, erano quanto di più prezioso egli avesse.

Questa autodefinizione dell’Allamano ci porta a credere che noi, missionari e missionarie della Consolata, abbiamo l’esperienza della continua ed efficace intercessione del nostro Padre Fondatore presso Dio e la SS. Consolata. Il suo benevolo aiuto ci fu stato assicurato da lui stesso, quando ci disse: «Per voi dal Paradiso farò più di quanto ho fatto sulla terra».

Questa non è stata solo la nostra esperienza. Quando era in vita, molti ricorrevano a lui, perché fosse lui stesso ad intercedere direttamente presso la Consolata. Padre Giuseppe Giacobbe, sacerdote dottrinario che riceveva le confidenze dell’Allamano, disse ai suoi confratelli che l’Allamano era un «Santo che consola e porta la Consolata in saccoccia».

padre Francesco Pavese


Processo di canonizzazione del beato Allamano

Dal 7 al 15 marzo 2021, si è svolta a Boa Vista (Brasile), nella diocesi di Roraima, la fase diocesana della causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, per il riconoscimento della guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, attribuita all’intercessione del beato.

Domenica 7 marzo, l’evento è iniziato nella parrocchia della Consolata di Boa Vista con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo diocesano di Roraima, dom Mário Antônio da Silva.

Alle 10 si è svolta la sessione pubblica di apertura del processo. Il collegio del tribunale era composto dal vescovo dom Mário Antônio da Silva, padre Lucio Nicoletto, vicario generale della diocesi, padre Raimundo Vantuir Neto, cancelliere della curia, padre Michelangelo Piovano, missionario della Consolata, notaio, Elizabete Sales de Lucena Vida, segretaria della curia e il dottor Augusto Affonso Botelho Neto, medico.

Oltre al collegio erano presenti padre Giacomo Mazzotti, missionario della Consolata, postulatore per la causa di canonizzazione del beato, il diacono Augusto Monteiro e le suore, missionarie della Consolata, Renata Conti postulatrice Mc e Maria José.

Iniziando la sessione, dom Mário si è detto onorato nell’aprire il tribunale diocesano per le cause dei santi con il compito di svolgere le necessarie indagini sulla causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Padre Giacomo Mazzotti ha quindi presentato ufficialmente la petizione per aprire il processo sul presunto miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, attribuito al beato Allamano.

Di seguito ha avuto luogo il giuramento dei componenti il collegio tribunalizio e, chiudendo la sessione, Dom Mário ha chiesto l’aiuto della preghiera a tutti coloro che avrebbero seguito il processo.

L’attività della Corte è proseguita per tutta la settimana con l’ascolto dei testimoni e ha avuto come momento particolare l’adorazione eucaristica e il canto dei vespri con il clero, i religiosi e le religiose locali, venerdì 12 marzo.

Lunedì 15 marzo, alle 8,30 si è svolta la sessione pubblica di chiusura del processo e alle 19 la celebrazione finale di ringraziamento nella cattedrale.

Ora, gli atti sono stati trasmessi alla Congregazione per le Cause dei santi, in Vaticano.

Suor Maria da Silva Ferreira

«È un momento davvero emozionante – racconta sr. Maria, missionaria della Consolata portoghese e testimone del presunto miracolo, avvenuto 25 anni fa -. Per certi aspetti si tratta di una data storica. Naturalmente, nessuno ha in animo di anticipare i tempi della canonizzazione di Giuseppe Allamano, ma vale la pena fin d’ora di raccontare le circostanze della presunta guarigione miracolosa. Era il 7 febbraio di 25 anni fa. L’indigeno Sorino, nella foresta, venne assalito da un giaguaro, che con forza gli strappò il cuoio capelluto. Ricordo che si ruppe in parte la scatola cranica, ci fu una fuoriuscita di materiale cerebrale e Sorino perse la vista. Furono momenti di grande concitazione, chiamammo i medici e non si pensava di poterlo salvare. Iniziava in quei giorni la novena del beato Giuseppe Allamano e lo invocammo per la guarigione di questa persona. Fu trovato improvvisamente guarito e già allora si gridò al miracolo».

All’epoca, i missionari e le missionarie della Consolata erano molto presi dall’attività con il popolo Yanomami e, stranamente, nessuno ha pensato di andare avanti con il riconoscimento della guarigione. Il Sinodo per l’Amazzonia è stato importante per risvegliare il ricordo di questo fatto. Tra il popolo Yanomami non ci sono quasi cristiani, e il riconoscimento del miracolo sarebbe anche un riconoscimento dal Cielo della nostra pluridecennale attività al fianco di questa etnia, nel nome del dialogo e della promozione umana. In ogni caso, il beato Allamano diceva di fare le cose “bene, senza rumore e senza fretta”. Ed è quello che accade con questa causa».

Don Lucio Nicoletto

missionario fidei donum padovano, vicario generale della diocesi di Roraima, e delegato episcopale nell’inchiesta diocesana sul presunto miracolo di Sorino Yanomami, conosce bene i missionari e le missionarie della Consolata e conferma: «Roraima è cresciuta assieme ai padri e alle suore, grazie alle loro istituzioni educative. Sono stati dei missionari a tutto campo per cui, domenica 7 marzo, inizio del processo diocesano, in una certa maniera si è celebrato un riconoscimento della presen-za dell’Istituto, si è vissuto un atto di fede; per noi “miracolo” non è un fatto fuori dal normale, è riconoscere l’azione di Dio nella vita di ogni giorno, che agisce quando trova il cuore aperto delle persone. La gratitudine si esprime anche attraverso questo segno, che ora viene analizzato e comprovato.

Sorino, infatti, pur non conoscendo il messaggio cristiano, riconosce il bene che ha ricevuto, soprattutto grazie alle cure e all’attenzione delle suore che lo hanno sostenuto e hanno pregato per lui, dandogli così la possibilità di riprendere la vita che conduce-va prima dell’incidente, dopo che il giaguaro gli aveva fracassato il cranio». Un fatto sul quale, dopo 25 anni esatti, si indaga, per scoprire se davvero Dio ha visitato, guarito e salvato Sorino, umile e fiero abitante dell’immensa foresta amazzonica brasiliana.

padre Sergio Frassetto




Sentirsi a casa

«Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia.
Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme,
per poi lavorare assieme per tutta la vita.
Una comunità in cui si mantiene questa unione, non può non fare del bene».

Giuseppe Allamano


Il 29 gennaio scorso, abbiamo celebrato, come missionari della Consolata, ben 120 anni di vita… con tanta gratitudine al Signore che, attraverso il coraggio e la fede del beato Giuseppe Allamano, ha «regalato» alla chiesa e al mondo i nostri due istituti missionari, per comunicare a tutti «la gioia del Vangelo». Ma, come ci ricordava il nostro Fondatore, più che in un istituto, noi missionari/e viviamo e lavoriamo insieme come «una famiglia» per tentare di trasformare anche questo nostro mondo in una comunità di fratelli/sorelle («Fratelli tutti»!).

Per questo ci hanno toccato il cuore le parole che padre Stefano Camerlengo, nostro superiore Generale, ha scritto nel messaggio di auguri per la festa del 29 gennaio, intitolato proprio «Sentirsi a casa». «Approfittando dell’anniversario della fondazione, vorrei portare l’attenzione al recupero del senso di sentirsi a casa, di sentire l’istituto come casa propria, “casa mia”. Solo se “indossiamo” la nostra casa, solo se “addomestichiamo e sposiamo” la nostra casa, con le persone che la abitano, possiamo sentirci realizzati e felici e allora saremo capaci anche di cambiare! La regola della comunità è l’amore, il bene dell’altro. Il bene degli altri non è mai un male per me; il bene è bene, sempre, per tutti. La dimensione comunitaria è una ricchezza, in ogni circostanza. Le cose fatte insieme sono più belle, più ricche, più varie, più divertenti, più efficaci e coinvolgenti di qualunque altra cosa. La comunità ha bisogno di tutti, tutti sono importanti e in questa importanza riscopriamo la nostra bellezza.

La comunità è un luogo, forse l’unico, dove si può sperimentare insieme la fatica della croce, ma anche la gioia, la luminosità, la freschezza, il profumo della rinascita, di una vita nuova. Una comunità vera è una ricchezza anche per le altre persone, per chi è esterno alla comunità; è una fonte capace di dissetare anche altri che ad essa si avvicinano, assetati e incuriositi; l’amore e la luce che nascono da una comunità scaldano e illuminano il freddo di molte tenebre. L’augurio, la preghiera, l’invito è che possiamo vivere questo anniversario di fondazione recuperando il nostro senso di appartenenza, di sentirci parte, protagonisti della nostra famiglia, della nostra comunità, conosciuti e chiamati per nome, costruttori di un istituto sempre più “nostro”, sempre più “casa mia”!».

Ed è sicuramente anche l’augurio che il Padre Fondatore, dal cielo, porge sorridendo a ciascuno/a di noi.

padre Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano Beato

7 ottobre 1990 – 7 ottobre 2020

Il 7 ottobre 2020 i missionari e le missionarie della Consolata hanno celebrato il 30° anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano loro fondatore. Per l’occasione, il superiore e la superiora generali dei due istituti fondati dall’Allamano, hanno scritto una lettera ai loro missionari ricordando il felice evento.

Carissimi missionari e missionarie, trent’anni fa, ripetevamo, gli uni agli altri, con gioia indicibile: «Questo è il giorno che il Signore ha fatto per noi!». Era il 7 ottobre del 1990, giorno di luce e di festa, quando il nostro amato Padre Fondatore veniva proclamato «Beato» da papa Giovanni Paolo II.

Rivisitiamo l’avvenimento richiamando le belle parole del padre Giuseppe Inverardi, allora superiore generale, in quel giorno: «Giorno in cui la nostra Consolata si è compiaciuta per l’onore tributato a suo figlio e servitore fedele.

  • Giorno in cui la Chiesa ha esaltato un altro testimone della fede proponendolo come modello di santità e intercessore.
  • Giorno in cui a Giuseppe Allamano sono state riconosciute la fecondità spirituale e apostolica.
  • Giorno in cui la missione è stata riproposta con nuovo vigore e responsabilità di ogni fedele.
  • Giorno in cui l’istituto ha cantato la sua gioia, ha proclamato la sua lode, ha detto il suo grazie.
  • Giorno in cui le missionarie e i missionari della Consolata hanno guardato compiaciuti alla “roccia da cui sono stati tagliati”.
  • Giorno in cui i popoli, molti popoli, hanno riconosciuto di essere stati amati e beneficati da un uomo mansueto e forte.
  • Giorno in cui tutti noi ci siamo ri-consacrati al Signore, ai fratelli e alla nostra vocazione, per essere “prima santi e poi missionari”».

Ovunque ci troviamo in questo anno, segnato dalla nube grigia di una pandemia che si è infiltrata in ogni angolo del pianeta, non possiamo non sostare in raccoglimento, ricordando e ringraziando per questo «evento di grazia», dentro il quale ci siamo sentiti orgogliosi di seguire le orme di questo umile sacerdote torinese che ci ha lanciati nel mondo, chiedendoci di essere semplicemente e autenticamente «sante e santi per la missione».

Tutti noi siamo consapevoli che la «beatificazione» che stiamo ricordando e celebrando, è stata resa possibile, perché il nostro Fondatore, nel linguaggio preciso e solenne della Chiesa, ha vissuto «in grado eroico» le virtù che costellano la vita di ogni credente e discepolo del Signore.

Sì, il Fondatore ha vissuto «eroicamente», ma nel suo stile tutto particolare, mutuato dall’esempio del suo santo zio, Giuseppe Cafasso: «Fare bene il bene», cioè con entusiasmo, zelo, passione, sollecitudine, umiltà, mansuetudine, libertà e saggezza… ricordandoci che il Signore «guarda il cuore» e «vede nel segreto»; che neppure un bicchiere d’acqua fresca sarà dimenticato; e che, alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore dato specialmente ai bisognosi e agli ultimi.

Quale emozione proviamo, allora, pensando che già due nostre sorelle hanno percorso, come l’Allamano, questo cammino di ordinaria santità: suor Irene, «madre tutta misericordia», e suor Leonella, «donna del dono e del perdono», raggiungendo ambedue la stessa «beatitudine» del Padre Fondatore, straordinarie nell’ordinario.

Ma accanto a loro, non possiamo dimenticare tanti nostri fratelli e sorelle che, senza titoli particolari o fama diffusa, hanno servito il Vangelo e la Missione in semplicità di cuore, operosità di vita, amore concreto ai poveri, diventando così portatori di consolazione e di pace. Forse con alcuni/e di loro abbiamo condiviso le fatiche e le gioie dell’apostolato missionario; ricordandoli ora, ci accorgiamo che sono stati «i santi/e della porta accanto – come ama ripetere papa Francesco – che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio». Tra di essi, anche il nostro «confondatore», Giacomo Camisassa, che ricorderemo particolarmente nell’anno 2022, nel centenario della sua morte.

Associamo, allora, ai nostri «tre beati» anche loro, conservandone nel cuore una grata memoria, facendo tesoro del loro esempio e della loro fraterna intercessione, contenti di averli avuti come compagni di strada, fratelli/sorelle nella stessa «vocazione missionaria consolatina».

Ricordando e celebrando la prima tappa del cammino verso la santità del nostro Fondatore, vogliamo condividere con tutta la nostra famiglia missionaria la gioia di un percorso verso la canonizzazione arrivato ormai molto avanti. Si tratta dell’inchiesta diocesana sul «presunto miracolo» della guarigione inspiegabile di Sorino Yanomami, un indigeno del Catrimani (Roraima, Brasile), per l’intercessione del beato Giuseppe Allamano.

Se l’esito della commissione medica e dei censori teologi sarà positivo, «il miracolo», a quel punto non più presunto, ma certo, verrà presentato a papa Francesco perché, con la sua autorità apostolica, vi riconosca «il dito di Dio» e stabilisca, così, la data della canonizzazione: giorno in cui anche noi, missionari e missionarie della Consolata, potremo cantare l’alleluia di ringraziamento al Signore.

Celebriamo, dunque, fratelli e sorelle, nella gioia e nella lode, questa data del 7 ottobre, e intensifichiamo ancora di più la nostra preghiera perché, con l’aiuto e l’intercessione della Consolata, nostra madre e fondatrice, e delle nostre «due sorelle beate», l’attesa e il desiderio di tutti noi vengano esauditi.

In comunione,

suor Simona Brambilla, superiora generale Mc,
padre Stefano Camerlengo, superiore generale Imc

Momenti della beatificazione di Giuseppe Allamano, a Roma 7 ottobre 1990 (foto Gigi Anataloni)

 


Novena e festa del beato Allamano

In preparazione al processo diocesano per il riconoscimento della guarigione miracolosa di Sorino Yanomami attribuita all’intercessione del beato Allamano, i missionari della comunità di Boa Vista (Brasile) e di alcune altre comunità Imc di Roraima, hanno celebrato in modo particolare la novena del Fondatore.

Novena del beato Allamano

Il 7 febbraio, primo giorno della novena, sull’altare per la messa, è posto un piccolo busto dell’Allamano assieme ai documenti finora raccolti (testimonianze, referti medici, disegni) riguardanti il processo.

Come parte integrante dell’équipe della postulazione, presiedo l’Eucarestia e ricordo come esattamente 25 anni fa (il 7 febbraio 1996), Sorino Yanomami fu aggredito da un giaguaro mentre era a caccia e venne trasportato nello stesso giorno a Boa Vista per salvargli la vita. Fatto che si risolse con una piena guarigione di Sorino da ritenersi miracolosa.

«Iniziamo questa novena “particolare” in comunione con tutto l’Istituto nella speranza di poter realizzare in breve il processo che aprirebbe la strada alla canonizzazione del nostro fondatore».

Grazie per il cammino fatto

Il Vangelo del giorno racconta che Gesù, a Cafarnao, prende per mano e cura dalla febbre la suocera di Pietro, mentre Paolo, nella prima lettera ai Corinti, dice: «Guai a me se non annuncio il Vangelo», e più avanti: «Mi sono fatto tutto a tutti».

«Come non leggere nel gesto di Gesù e nelle parole appassionate di Paolo la nostra chiamata alla vita missionaria nel carisma del beato Allamano? Curare, educare, annunciare, farsi prossimo degli altri, è lo stile tutto nostro, riassunto nel nome che portiamo e che dice “consolazione”».

Trovandomi in questi giorni con i confratelli che lavorano in Brasile, e in particolare a Roraima, terra indigena, mi viene spontaneo ringraziare il Signore per essere qui, come Istituto, da più di 70 anni, per il cammino fatto, per le battaglie affrontate e i successi ottenuti. Tra gli altri ricordiamo: la nostra presenza nelle comunità indigene, la demarcazione della terra, il progetto della Buona Notizia (Boa Nova) che porta ad un maggior impegno in favore della vita, della comunità e della condivisione, la formazione di nuove comunità cristiane e i primi frutti anche in campo vocazionale e missionario.

Nella stessa messa, infatti, abbiamo salutato Aparecido, un giovane indigeno macuxi in partenza per Curitiba dove continuerà il suo cammino formativo nel seminario filosofico.

Di fronte a queste grazie di Dio, viene da pensare che il presunto miracolo di Sorino Yanomami non sia altro che l’espressione più alta di un miracolo continuo del nostro fondatore e padre in questa terra mediante la vita e la dedizione dei suoi missionari e missionarie.

A Cantagalo fra i Macuxi

Continuando la novena, i missionari si sono alternati ogni giorno nella celebrazione eucaristica, aiutando i confratelli a leggere e meditare la Parola incarnata nella vita della missione e nella propria esperienza personale.

Merita ricordare l’ottavo giorno della novena che si è svolta nella missione di Cantagalo, una comunità indigena macuxi. Abbiamo celebrato l’Eucarestia all’aperto in un luogo molto ventilato onde evitare contagi a causa della pandemia. Vi hanno partecipato molti bambini, ragazzi e giovani. Il coro dei giovani, animato dal catechista, ha eseguito bei canti in lingua macuxi. Il Vangelo parlava di Gesù che, preso da compassione, ha curato un lebbroso.

È sempre la compassione che spinge Gesù ad agire, a fare il bene, a curare, a perdonare. Il Signore ancora oggi agisce e dimostra questa compassione anche attraverso grazie e miracoli. Così, ho invitato il nostro seminarista macuxi, Damasio, a raccontare la storia della cura miracolosa di Sorino Yanomami e come il Signore abbia avuto compassione della sua vita guarendolo grazie all’intercessione del beato Allamano. Il fatto miracoloso ha suscitato grande curiosità e interesse. Alla fine ho distribuito l’immaginetta del fondatore e abbiamo concluso con la supplica alla Consolata in tempo di pandemia.

Festa del beato Allamano

Il 16 febbraio abbiamo celebrato la festa del beato Allamano a Boa Vista. All’omelia ho detto che «il mandato missionario di Marco ascoltato nel Vangelo “dice” il nostro carisma e dice l’Allamano con la sua vocazione missionaria trasmessa a noi suoi figli. È il più bel dono che abbiamo ricevuto in vita dal Signore tramite il fondatore. “La più bella vocazione”, come soleva dire ai missionari in partenza per l’Africa».

Nel mese di marzo, qui a Boa Vista, si svolgerà il processo per la sua canonizzazione.

A 95 anni dalla sua nascita al cielo chiederemo che venga riconosciuto un miracolo che è segno di amore e cura dei più piccoli e che ci aiuti a comprendere come lo «straordinario» nella missione avviene anche mediante tanti piccoli gesti d’amore, di compassione e di consolazione nella quotidianità della vita. È da qui, infatti, che parte sempre l’annuncio del Vangelo.

padre Michelangelo Piovano

Momenti del processo diocesano tenuto a Boa Vista in Roraima, Brasile, per la canonizzazione del beato Allamano




Botta e risposta


È ormai passato anche il mese di ottobre, un mese missionario vissuto e celebrato in questo strano e confuso tempo di pandemia non ancora debellata, che ha scombussolato la vita non soltanto di qualche gruppo umano più sfortunato, ma di tutto il mondo. E capire che cosa Dio ci sta dicendo in questo tempo prolungato di disagio diventa una sfida anche per la Missione della Chiesa.

Nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020, papa Francesco scriveva: «La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga… E siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato».

In questo contesto, ritorna allora, provocante, la domanda che Dio ci rivolge: «Chi manderò?», e che attende, ovviamente, una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6, 8). Dio sembra non stancarsi di cercare chi inviare alle genti «per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male».

La chiamata alla missione diventa, allora, più incalzante in questo tempo e, mentre ci spinge a farci carico della sofferenza e della paura di tanti nostri fratelli, «guarisce» anche noi, «facendoci passare dall’io pauroso e chiuso, all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé». Il Beato Giuseppe Allamano era talmente entusiasta della vocazione missionaria, da farlo quasi «straparlare», quando diceva ai suoi missionari: «Considerate pure le varie vocazioni con cui una creatura può legarsi a Dio e non ne troverete una più perfetta della vostra. Il Signore per voi ha come esaurito il suo infinito amore in fatto di vocazione. Non saprebbe e non potrebbe darvene una più eccellente, perché vi ha dato la sua stessa missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. L’identica missione che Gesù ricevette dal Padre è da Lui trasmessa a voi».

Più chiaro di così…

padre Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Francesco Paleari

L’amicizia tra sacerdoti santi

Che l’Allamano abbia avuto un rapporto speciale con lo spirito e l’opera del Cottolengo è risaputo. Tra lui e Francesco Paleari (1863-1939), sacerdote del Cottolengo, maturò una buona amicizia sacerdotale. A questo riguardo sono significative le parole del missionario padre Alfredo Ponti: «Ma il vincolo di amicizia fra i Missionari della Consolata ed il Cottolengo si fece maggiormente vivo, maggiormente sentito nella stima grandissima e nella profonda amicizia che legava quei due santi uomini. Don Paleari e il Can. Allamano che sapevano comprendersi magnificamente, sapevano stimarsi, lavorare concordi per la gloria di Dio. Poche volte ebbi il piacere di scorgerli assieme, ma era sempre bello vederli parlare fra loro, discutere, sorridere e ridere anche, usando fra loro quella famigliarità ed anche quella franchezza che solo le grandi amicizie possono permettersi».

Reciproca collaborazione. La collaborazione tra questi due uomini di Dio fu abbastanza ampia. L’Allamano si servì molto del Paleari per le sue opere, a Torino, nel Convitto Ecclesiastico e nella Casa Madre dell’Istituto missionario, come pure al Santuario di Sant’Ignazio per gli esercizi spirituali ai sacerdoti.

Il primo biografo del Paleari, Ettore Bechis, parla di collaborazione riferendosi alle lezioni di filosofia che erano dettate nel seminario dell’Istituto. Ecco le sue parole: «Insegnò filosofia nel nascente Istituto della Consolata per le missioni estere, fondato dal Can. Allamano in Torino. La collaborazione di Don Paleari fu di molto conforto in quegli inizi e la serena calma dell’amico illuminò più che la scienza, i primi ardimenti missionari: tra i due sacerdoti correva una mutua e fraterna emulazione di virtù».

Che il Paleari collaborasse volentieri è confermato dal fatto che continuò finché gli fu possibile in questo servizio di insegnamento, anche dopo la morte dell’Allamano. Quando proprio non poté più, perché nominato Provicario generale, espresse così il suo rammarico a p. Gabriele Berruto: «Il mio rincrescimento è forse più grande del vostro, poiché sono affezionato ai missionari della Consolata e con questa piccola fatica mi sdebitavo alquanto verso la cara Madonna Consolata».

Il pensiero dell’Allamano sul Paleari.

Non c’è dubbio che per l’Allamano il Paleari era un sacerdote “speciale”. Il suo apprezzamento per il “pretino del Cottolengo” (come era chiamato il Paleari) è confermato anche da diverse sue espressioni. Per esempio, per quanto riguarda le lezioni di filosofia tenute dal Paleari agli allievi missionari, l’Allamano compiaciuto per i buoni risultati scolastici, disse: «È una grande fortuna per noi avere la filosofia da don Paleari».

Anche per la predicazione di esercizi spirituali nella comunità dell’Istituto il Paleari fu molto apprezzato. L’Allamano lo invitò a predicare il corso del 1919, subito dopo il rientro dei missionari che erano stati sotto le armi. L’Allamano dava somma importanza a questi esercizi, perché dovevano essere come un rilancio della vita di comunità. Ecco perché li affidò all’animazione del Paleari. La sua aspettativa non fu delusa, perché tutti furono grandemente soddisfatti.

Dopo un altro corso di esercizi, quando non era più lui a scegliere i predicatori, percependo tra i giovani una certa insoddisfazione, fece questo commento: «Hanno un bel cercare persone rinomate… ma uomini come Don Paleari non fanno forse tanta figura, c’è però lo spirito di Dio che parla in loro, ed è ciò che si sente e fa bene». «Di Don Paleari, a Torino, ce n’è uno solo».

La stima dell’Allamano per il Paleari è confermata anche da questo fatto: richiesto da Roma di indicare un nome per l’ufficio di direttore spirituale al Collegio Urbano “de Propaganda Fide”, l’Allamano pensò subito al Paleari. Egli, però, obbediente come sempre, gli disse: «Si rivolga al Signor Padre». Il Superiore della Piccola Casa fu di altro parere e così il Paleari fortunatamente rimase a Torino.

Il pensiero del Paleari sull’Allamano.

Per conoscere quanto il Paleari pensava dell’Allamano, basta leggere integralmente la testimonianza da lui inviata al P. L. Sales, quando stava scrivendo la biografia. Eccone qualche tratto: «Del Venerato Canonico Giuseppe Allamano io conservo tutt’ora viva e santa memoria. Da quando Lo conobbi, frequentando la Scuola di Morale al Convitto Ecclesiastico sino alla preziosa Sua morte, ebbi sempre per Lui grande stima ed affezione quasi filiale, tanta era la riverenza e la confidenza che m’ispirava la Sua Persona.

Nel 1893 Egli m’invitò a confessare i Sacerdoti Moralisti, e, sentendo la mia ritrosia, mi confortò dicendomi: “Quello che non saprà fare lei, lo farà la Provvidenza”. E incontrandomi qualche volta in sacrestia: “Ebbene, mi diceva con tutta familiarità, ebbene come va?” – “Mah!” rispondevo io. Ed Egli: “Avanti in Domino, come diceva il vostro Cottolengo”. Ed io prendevo quell’incoraggiamento come datomi da Dio, tant’era la mia fiducia in quell’Uomo di Dio.

Dieci anni dopo, m’invitò a predicare le Meditazioni al Santuario di S. Ignazio; e ricordo benissimo con quanta prudenza, vigilanza e affabilità dirigeva colà i SS. Spirituali Esercizi […].

Taccio le altre benemerenze nella ricorrenza del Centenario e allargamento del Santuario, nella fondazione dell’Istituto dei Missionari della Consolata, nella Beatificazione del suo Zio, il Cafasso, ecc. In una parola fu un vero Sacerdote, Sacerdote dell’Altissimo».

Che il Paleari si fidasse ciecamente dell’Allamano è sicuro. Lo dimostra anche questo semplice fatto con il quale concludo: quando, dopo la partenza dei primi quattro missionari, gli altri giovani, per diversi motivi, lasciarono l’Istituto, creando una situazione dolorosa e difficile per l’Allamano, il Paleari, pochi giorni dopo, volle accompagnare personalmente sette giovani Tommasini alla Consolatina, di modo che la vita della comunità riprendesse subito senza interruzione. Al vederli l’Allamano esclamò felice: «Oh! Bravi! La Provvidenza, di cui io ero sicuro, stavolta viene proprio dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza, quasi per conformarmi sempre più ad essa. Bravi, bravi! Andiamo a ringraziare la Consolata tutti assieme».

padre Francesco Pavese


Seconda conversione

Dal 25 gennaio al 29 febbraio, si è svolto a Roma un corso di formazione permanente a cui hanno partecipato 26 missionari della Consolata che compivano 25 anni di sacerdozio o di professione religiosa. Padre Ramón Lázaro Esnaola, spagnolo, racconta come ha vissuto quest’esperienza.

Riassumerei questo tempo di formazione in due parole: «Seconda conversione». Se finora ho vissuto innanzi tutto dei miei progetti, dei miei sogni, dei miei ideali e della forza che il buon Dio mi ha dato, ora mi sento chiamato a vivere soprattutto «di fede», a vivere cioè con un atteggiamento più teologico, più gratuito e contemplativo la missione, convinto che tutto è grazia e che i successi o i fallimenti possono essere assunti nella fede senza grandi alti e bassi, con la serenità di chi si riconosce chiamato e inviato, discepolo e missionario.

Durante il corso, ogni partecipante è stato invitato a scrivere la propria autobiografia come attestazione della storia salvifica di Dio nei suoi confronti e come esercizio di accettazione e assunzione di ciò che gli è stato donato: la famiglia, l’educazione e la cultura di origine; e di ciò che ha tessuto sul telaio della vita con le scelte compiute. Questa rilettura della vita mi ha fatto prendere coscienza delle mie debolezze e fragilità non come pericoli o tentazioni, ma come momenti di grazia, perché come dice San Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi: «Se sono debole, allora sono forte» (12,10).

In un secondo momento, alcuni biblisti ci hanno provocato con le esperienze dei profeti, del Cantico dei Cantici, del Vangelo e di san Paolo. Le loro conferenze sono state motivo di riflessione personale e poi di condivisione in gruppo e in assemblea.

Il terzo momento della nostra formazione è consistito nella visita ai luoghi originari dell’Istituto: Castelnuovo, il santuario della Consolata e Casa madre. La maggior parte di noi non era più tornata a Castelnuovo da quasi trent’anni e molti non avevamo visto la ristrutturazione della Casa madre avvenuta negli ultimi tempi.

Ho apprezzato molto la presenza di una comunità Imc accanto alla casa natale del beato Fondatore e l’attenzione e la cura con cui i missionari accompagnano i gruppi che vi si recano così come al luogo di nascita di san Giuseppe Cafasso. Suggestiva mi è parsa la cappellina allestita in quella che fu la stalla di casa Allamano: unione tra il Fondatore e l’Incarnazione che parla di uno stile missionario tutto nostro e che può essere descritto con parole come silenzio, semplicità, precarietà, vicinanza, opzione per l’umanità e la Casa comune.

Anche l’aggiornamento missionario che ha avuto luogo nella casa del Fondatore mi è sembrato molto suggestivo perché il suo carisma si è sviluppato nel corso degli anni a partire da qui e sono stati i suoi missionari che, come strumenti di Dio, l’hanno dispiegato facendolo diventare una ricchezza per la Chiesa e per il mondo.

Accanto alla casa natale del beato Allamano, significativa è anche la presenza delle Suore missionarie della Consolata che svolgono un servizio come centro di spiritualità e formazione per tutte le missionarie del loro Istituto.

Mi è piaciuta anche la visita alla casa natale di san Giuseppe Cafasso, zio materno del nostro Fondatore. La casa è stata completamente ristrutturata con gusto e, in questo, ho visto la scelta precisa dell’Istituto di voler valorizzare la figura del Cafasso, il quale ha rappresentato la principale fonte di ispirazione da cui Giuseppe Allamano ha bevuto e che si può riassumere in quel «Fare bene il bene e senza rumore» che permea tutta la sua spiritualità.

 

La visita al Santuario della Consolata è stato un momento carismatico, perché è lì che il beato Allamano ha ricevuto l’ispirazione di fondare i due Istituti. La condivisione dell’attuale Rettore del santuario ci ha fatto tornare al clima di santità che si viveva a Torino nel XIX secolo e ci ha reso consapevoli dell’influenza che il Fondatore ha avuto sulla formazione del clero nella diocesi di Torino.

Certamente, conoscere la sua stanza, il luogo dove ogni giorno parlava con Giacomo Camissasa e gli oggetti che gli appartenevano, così come quelli che appartenevano a san Giuseppe Cafasso, è stata una grazia per ognuno di noi.

Avere avuto l’opportunità di pregare ogni giorno e persino di celebrare l’Eucaristia sul sepolcro del Fondatore trasformato in altare, è stata occasione per ringraziarlo per il dono che ha fatto al mondo, alla Chiesa e a ciascuno di noi.

Contemplare l’icona della Consolata di fronte alla quale pregava; vedere l’urna del canonico Giacomo Camissasa che ha saputo vivere «la beatitudine di essere il secondo», e rimanere in silenzio davanti ai ritratti di quei missionari che hanno versato il loro sangue per la missione, è stata un’esperienza che ci ha riportato alle origini della nostra chiamata alla missione infondendoci coraggio e determinazione.

Ora è giunto il momento di attuare quella «seconda conversione» alla quale il Signore ci chiama nella vita quotidiana, vivendo con passione, semplicità e gioia il carisma del nostro beato Fondatore.

padre Ramón Lázaro Esnaola

 




Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco

 




La porta stretta

«Pregate bene, soprattutto adesso dopo la guarigione; guardate un po’, quasi tutte le comunità, qui a Torino, hanno avuto morti, da noi nessuno. Ringraziamo il Signore!».

Giuseppe Allamano


«Siamo in pieno sviluppo d’una malattia che non sanno né definire, né curare, ma fa, solo in Torino, centinaia di vittime al giorno. In altre città è peggio ancora… All’Istituto, con più di 100 persone, è quasi un miracolo che nessuno ne sia colpito, all’infuori di un sacerdote missionario che guarisce e partirà presto per l’Africa. Di comunità non colpite finora, come la nostra, il numero in Torino si conta tutto sulle dita di una sola mano.
Ringraziamo il Signore!».

È Giacomo Camisassa, primo collaboratore e amico del fondatore, a informare una missionaria della Consolata in Kenya, il 28 settembre 1918, sulle conseguenze a Torino dell’influenza «spagnola», che, tra il 1918 e 1920, uccderà decine di milioni di persone nel mondo.

Non vogliamo qui allinearci ai notiziari che ci bombardano ogni giorno con notizie sul coronavirus e le strategie per difenderci. Più semplicemente, vorremmo aggrapparci al ricordo del nostro fondatore che ha sperimentato, assieme ai suoi missionari e missionarie, la tragedia di una guerra «mondiale» e di un’epidemia che hanno scombussolato non poco il lavoro apostolico dei suoi due giovani istituti missionari. Le sue esortazioni a «pregare bene» e anche a «ringraziare il Signore», ci aiutano a ricordare alcune cose importanti, forse da noi sottovalutate. Per esempio, quella di «fermarci di fronte a Lui» (Sal 45, 11-12), riconoscendo che la presenza di Dio riempie ogni nostro istante e quindi soddisfa il nostro cuore, in qualsiasi circostanza o condizione ci troviamo. O che le vicende di questi mesi dovrebbero renderci più sensibili alle tante altre prove degli «altri» (popoli) che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza.

Ci ha scritto anche padre Stefano, successore dell’Allamano: «La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento, noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo, alla luce della Parola di Dio».

Riprendiamo, allora, il nostro faticoso cammino, smarriti o guariti, con coraggio, fiducia e… «Avanti, sempre, in Domino»!

Padre  Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Luigi Orione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Il rapporto tra il beato Giuseppe Allamano e san Luigi Orione (1872-1940) sembra che sia iniziato presto. Con tutta probabilità don Orione conobbe il nostro fondatore, rettore del santuario della Consolata, quando era allievo a Valdocco, presso i Salesiani, negli anni 1886-1889. Si sa che, in quel periodo, il giovane Orione si recava spesso al santuario della Consolata.

Reciproca collaborazione. Un’occasione importante per il rapporto tra i due uomini di Dio fu il terribile terremoto, che la mattina del 28 dicembre 1908 rase al suolo Messina. Avendo già una sua fondazione a Noto (Siracusa), don Orione andò subito in Sicilia e, a Messina, prestò una generosa opera di assistenza materiale e spirituale, tanto da essere nominato Vicario generale della diocesidal papa Pio X. Una sua iniziativa fu quella di costruire, davanti al cimitero, una chiesetta di lamiere dedicata alla Consolata, in suffragio delle 80mila vittime del terremoto. Per questa chiesa ottenne dall’Allamano il quadro della Madonna. Ecco come ne parla don Giuseppe Pollarolo in un articolo apparso sul bollettino del Santuario, in occasione della beatificazione di don Orione, dal titolo «Tre santi [Orione, Allamano, Pio X] e un quadro della Consolata»: «Il dramma di Messina diventava sempre più tragico. Cosa fare per confortare gli afflitti e per giovare ai morti? La sua mente corse a Torino, alle frequenti visite che faceva al santuario della Consolata quando era giovane allievo di don Bosco, ai conforti esperimentati ai piedi della Madonna e si persuase che Lei, soltanto Lei, la Madonna, la Consolata, poteva lenire tanto dolore e asciugare tante lacrime!

Era allora rettore del santuario della Consolata il beato canonico Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, nipote del venerabile, poi santo Giuseppe Cafasso. Don Orione si rivolse a lui pieno di fiducia (i santi fan presto ad intendersi), con la speranza di ottenere un quadro del tutto simile a quello in venerazione nel santuario di Torino. Il beato canonico Allamano lo accontentò subito mettendogli a disposizione il quadro richiesto». Questo quadro fu poi benedetto dal papa Pio X.

Il pensiero dell’Allamano sull’Orione.

Quello che Giuseppe Allamano pensava su don Orione si comprende chiaramente da ciò che disse dopo il primo vero incontro, di cui si ha notizia, documentato dal canonico Giuseppe Cappella sia al processo per la beatificazione di Allamano, sia nella relazione inviata in seguito agli Orionini in vista della beatificazione del loro fondatore: «Nei primordi del diffondersi del nome di don Orione negli ambienti della carità e delle moderne istituzioni religiose, un mattino si presenta nella sacrestia del nostro santuario della Consolata un sacerdote che, al primo aspetto, dà l’impressione di persona modesta e veneranda, non tanto per l’età ma pel portamento. Sentito il desiderio suo di parlare col rettore del santuario, il canonico Allamano, mi faccio premura di accompagnarvelo. Appena il rettore intese il nome del visitatore, ne fu come sorpreso, come di chi si trova improvvisamente avanti la persona di riguardo e di cui forse da tempo desiderava l’incontro. Il colloquio tra i due fondatori fu assai lungo.

E, siccome di don Orione già se ne era parlato tra noi sacerdoti del santuario, appena ci trovammo insieme raccolti nell’ora della refezione, mi presi la libertà di interrogare il nostro rettore quale impressione avesse riportata dalla visita di don Orione. Ed egli, quasi premuroso di farci conoscere un santo sacerdote, già tanto benemerito della Chiesa, subito rispose: “Don Orione mi ha fatto subito l’impressione di un uomo di Dio, investito del dono, della prerogativa di un vero ed autentico fondatore di un ordine religioso, che farà del gran bene nella Chiesa. Avendomi poi accennato don Orione a difficoltà, insorte già fin dai primordi della fondazione dell’opera sua, cercai di incoraggiarlo a continuare… ché, le difficoltà, le contraddizioni ed anche qualche incomprensione dei buoni, erano e saranno sempre il marchio delle opere di Dio. Tiriamo avanti, caro don Orione – gli dissi – nell’opera intrapresa, sicuri che il Signore, che ce l’ha affidata, non mancherà del suo aiuto, e avanti con la vicendevole promessa di preghiere per noi e per i nostri congregati, fidenti nella Divina Provvidenza e nell’aiuto della santissima Vergine, di poter fare un po’ di bene”».

Il pensiero di Orione su Allamano

La stima che don Orione aveva per il canonico Allamano la possiamo arguire da una minuta di lettera che lui stesso gli scrisse, o intendeva scrivergli, dopo la partenza dei primi missionari della Consolata per il Kenya (1902), in un momento molto critico della sua esperienza di fondatore: «Veneratissimo Signore e fratello nel nostro caro Padre e Signore Gesù Crocifisso, facciamo una cosa sola la casa della Consolata per le sante missioni e questa povera baracca? Perché mi pare che questa cosa sarà una consolazione per la Madonna, e così alcuni buoni soggetti e qualche buon chierico desideroso di andare alle missioni, ci andrebbe per mano della Madonna, e così io starei anche più tranquillo ed essi sicuri di andare bene. Dunque, o mio buon fratello, vi prego di pregare un po’ davanti alla Madonna e se vi pare che questa cosa sia nei disegni…». Non è certo se l’Orione abbia spedito questa lettera e neppure se intendesse fare una proposta di fusione o di collaborazione tra i due istituti. Unica cosa sicura che emerge dalla minuta della lettera è l’apprezzamento di don Orione per il nostro fondatore.

Concludo con quanto scrisse don Carlo Pensa, secondo successore di don Orione, nel 1954, nella lettera postulatoria per la beatificazione di Allamano: «I documenti provano che il rifiorire dell’ideale missionario del nostro fondatore don Orione risale al periodo in cui egli poté avvicinare a lungo il can. Allamano». Non c’è dubbio che san Luigi Orione abbia ammirato lo spirito missionario del beato Allamano e che da esso abbia ricevuto un impulso per sé e per la sua congregazione.

padre Francesco Pavese*

(*) Domenica 3 maggio, padre Francesco Pavese ci ha lasciati per il Paradiso. Con la sua predicazione e i suoi scritti, per lunghi anni ci ha fatto conoscere e amare il beato Allamano. Dal cielo, assieme al nostro fondatore, ha promesso di benedirci tutti. E, come lui desiderava, cantiamo il Magnificat in ringraziamento al Signore per la sua vita consacrata al servizio dell’Istituto e della Chiesa intera.


Giuseppe Allamano: ha fatto della sua vita un dono

Il 14 febbraio 2020, nel secondo giorno del triduo in preparazione alla festa del beatoGiuseppe Allamano, Loredana Mondo, laica missionaria della Consolata, insegnante elementare,
ha offerto la sua testimonianza sul significato della presenza dell’Allamano nella sua vita.

Anni fa, quando ho conosciuto le missionarie e poi i missionari della Consolata, mi sono chiesta che cosa ci fosse in loro che mi attirava e, in modo forse un po’ semplicistico, mi sono risposta l’accoglienza ricevuta e il sentirmi «casa» con loro.

In realtà, in questi anni di cammino di condivisione del carisma, mi sono resa conto che quegli aspetti che inizialmente mi avevano colpito, avevano delle radici molto più profonde della semplice cortesia. Il conoscere e il cercare di approfondire l’origine di tutto ciò, mi ha portata a scoprire la figura di un uomo che, ricevuto un grande dono dallo Spirito, ha fatto della sua vita un dono per gli altri.

È difficile riuscire a dare una definizione su chi sia per me il beato Allamano poiché, come uomo di Dio, racchiude in sé un grande tesoro che in questi anni mi si è rivelato un po’ per volta e che scopro sempre di più ogni volta che ho occasione di leggere qualcosa su di lui o posso sentire testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi vive il suo carisma.

Ci sono tre aspetti che mi colpiscono in modo particolare:

  • – lo sguardo sempre fisso in Dio
  • – l’accoglienza della persona e la capacità di agire
  • – lo spirito di famiglia.

Per il fondatore, il rapporto con Dio, con la Parola e con la Consolata erano centrali nella sua vita: questa sua grande confidenza e certezza che la sua vita fosse costantemente accompagnata e che l’Eucarestia fosse il suo punto di partenza e di arrivo per ogni cosa, era ciò che dava la giusta dimensione ad ogni suo atteggiamento, ad ogni sua scelta.  La sua familiarità con la Consolata poi era tale da coinvolgere la Madre di Dio in ogni sua scelta, anche quelle apparentemente più insignificanti, proprio come un figlio fa con una madre.

È dal suo sguardo sempre fisso in Dio, dal suo sentirsi consolato che nasce l’urgenza di portare l’annuncio di Cristo Figlio missionario del Padre, fino agli estremi confini della terra, con quello zelo di prima qualità per la salvezza delle anime che, come dice lui «viene dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio».

L’accoglienza della persona e la capacità di agire

Il beato Allamano sapeva lasciare nella memoria e nel cuore di chi lo incontrava un segno: una parola, un consiglio, un gesto, un sorriso, uno sguardo. Sapeva essere attento alla persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli materiali che quelli spirituali. La stessa delicatezza che voleva dai suoi missionari era la stessa con cui lui si rapportava con le persone sia che fossero semplici lavoratori, sia che fossero persone con incarichi importanti.

Sapeva guardare le persone con gli stessi occhi con cui lui si sentiva guardato da Dio.

Prima di prendere una decisione, di dare un consiglio, di iniziare un progetto, ponderava tutto seriamente. «In tutti i momenti più decisivi della sua vita…, la norma seguita era questa: riflettere, pregare, consultare e poi agire con illimitata fiducia nel divino aiuto» (Lorenzo Sales).

Lo spirito di famiglia

Questo è un aspetto al quale il fondatore teneva molto e per il quale ha spesso speso parole molto concrete perché una comunità che vive lo spirito di famiglia è testimone credibile di quello che annuncia.

Come cristiani e ancor più come missionari, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo con la nostra vita anche attraverso quei piccoli gesti di carità che sono segno dell’attenzione all’altro nella sua unicità.

Come dice San Paolo, siamo chiamati a vivere, a comportarci in maniera degna della nostra vocazione, come consacrati e come laici, cercando di conservare l’unità nello spirito perché una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione.

Tenere lo sguardo fisso in Dio, cercare sempre e solo la sua volontà, fare bene il bene senza rumore, l’attenzione particolare agli ultimi, sono alcuni degli aspetti che più mi colpiscono del carisma del fondatore e che cerco di vivere guardando all’esempio che lui mi ha dato con la sua vita.

Mi rendo sempre più conto che il mio lavoro di insegnante mi mette in una posizione in cui le relazioni umane sono predominanti e che in ogni situazione sono chiamata a dare una testimonianza coerente di ciò in cui credo. Non è sempre facile accogliere l’altro per ciò che è, ma il beato Allamano, come padre, mi insegna che attraverso quella premura e quell’attenzione verso l’altro posso rivelare l’amore di Dio.

In questo momento sento che il lavoro è la mia «terra di missione» principale, ma sento anche la necessità di vivere con uno sguardo attento alle realtà che a volte sembrano più lontane, ma che sono ormai sempre più vicine e interrogano il nostro stile di vita.

Loredana Mondo
(laica missionaria)