Porta santa
Se Gesù è la «speranza che non delude», come ricordava papa Francesco nell’esordio della Bolla di indizione del Giubileo, sappiamo che tale mistero di speranza è stato tessuto nel grembo della Vergine Maria. Senza il cuore e la carne di Maria non ci sarebbe stata la sorgente della speranza che è la certezza della compagnia del Dio con noi e per noi. Così Maria è il crocevia indispensabile, per volere divino, attraverso cui passa la comunione tra Dio e l’uomo.
San Giuseppe Allamano ogni sera si faceva «pellegrino di speranza» presso l’icona della Consolata che contemplava da un piccolo matroneo, chiamato «coretto», posto all’interno del santuario. Da quella posizione le poteva parlare stando quasi a tu per tu con lei. Si rivolgeva alla Madonna con espressioni piene di tenerezza e di confidenza, fino a immaginare che tra la Consolata e lui si fossero create un’intesa e una collaborazione speciali, quasi che Maria prolungasse la sua funzione di dispensatrice dei favori divini.
L’avventura missionaria di san Giuseppe Allamano, come pure quella dei nostri due istituti, iniziò indubbiamente da lì. È evidente che, anche in rapporto alla fondazione, Allamano si considerava solo collaboratore della Consolata. La sua attività di fondatore e di educatore di missionari e missionarie ha un senso solo a partire dalla Consolata e in relazione con lei. L’istituto era opera sua e, quindi, Allamano non si preoccupava per il suo futuro. Lui, come segretario, le presentava l’opera dell’evangelizzazione, le attese dei popoli che non conoscevano Cristo e l’attività dei missionari, le loro difficoltà e i loro progressi, i frutti gioiosi di tanto lavoro.
Per Allamano, il massimo della speranza era la fiducia. Una fiducia sempre ripagata fino a poter dire: «La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani, ha fatto parlare le pietre».
Grazie alla Madonna, durante la guerra non era accaduta alcuna disgrazia e non era venuto a mancare il pane quotidiano e «anche per questo, lascio l’incarico alla Madonna; per le spese ingenti della casa e per le missioni non ho mica mai perduto il sonno o l’appetito, glielo dico, pensateci voi, se fate bella figura siete voi, io me ne vado».
Per questo insegnava ai suoi missionari a essere uomini e donne di speranza. «La speranza è la virtù degli ardimentosi, di coloro che non accettano nella loro vita l’immobilità, che hanno orizzonti ampi, che con coraggio affrontano le sfide quotidiane come nuove opportunità. Il cristiano, infatti, non dovrebbe avere paura di allineare le proprie attese e i propri sogni a quelli di Dio che “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità”» (1 Tm 2,4).
Una speranza che fioriva all’ombra della Vergine che Allamano invocava come «Madre di speranza» per tutti coloro che avevano perso la strada del bene e desideravano tornare a Dio. E proprio nella casa della Consolata, questi, inginocchiandosi al confessionale dove lui trascorreva lunghe ore, trovavano in Maria la porta santa che introduceva a Dio. Una porta che i torinesi continuano a varcare numerosi ancora oggi.
Sergio Frassetto

La «sua Consolata»
San Giuseppe Allamano visse la maggior parte del suo ministero sacerdotale come rettore del Santuario della Consolata. Il suo amore per la Madonna lo spingeva a dichiararsi suo «segretario e tesoriere» e oggi spiega a noi perché abbia chiamato con questo nome i suoi missionari e missionarie.
Quarant’anni di consolazione
Giuseppe Allamano aveva solo ventinove anni quando fu nominato rettore del santuario della Consolata dall’arcivescovo di Torino nel 1880. Per lui, che custodiva nel cuore il desiderio di andare vicecurato ed eventualmente parroco in qualche paesello, fu questa un’obbedienza che gli costò assai, tanto da fargli venire la febbre, ma fin dal primo momento del suo arrivo al santuario si sentì avvolto dallo sguardo tenerissimo della Consolata che lo attendeva, e il suo cuore un po’ smarrito e trepidante si sentì al sicuro sotto il manto di quella Madre che l’avrebbe custodito e amato come pupilla degli occhi suoi.
Da allora, sostenuto dalla Consolata, con la quale si intratteneva a lungo e alla quale tutto confidava, trovò sempre la forza per accogliere ogni situazione, anche le più scabrose e dolorose, con grande serenità, ripetendo con fede incrollabile, il suo fiat. Perciò verso la fine della sua vita, così si esprimeva: «Se avessi da fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione. Non è che non abbia avuto da soffrire; lo sa Iddio quanto! Ma lì, ai piedi della Consolata, si è sempre aggiustato tutto».
Ne parlava con tenera devozione
Fin da giovane seminarista, Giuseppe Allamano nutriva una tenera devozione per la Madonna e celebrava con gioia ogni sua festa, sotto tutti i titoli, ma poi, quale rettore del santuario e ancora di più quale padre di missionari e missionarie, con disarmante semplicità confessava che la «sua Madonna» era solo Lei, la dolcissima Consolata.
I suoi figli e figlie della prima ora hanno testimoniato che parlava della «sua Consolata» con una tenerezza indicibile, si commuoveva profondamente e si entusiasmava, tanto da trasfigurarsi; e non usciva mai di casa senza essere prima passato a salutare la Consolata.
Guida e sostegno del missionario
La devozione alla Madonna non era, però, fatta solo di pii sentimenti. Per tutta la vita, la Consolata rimase al centro del suo ministero sacerdotale, guidando, sostenendo, illuminando ogni sua scelta.
Alle suore confidava: «Chi è la Consolata per noi? È essa che ha fondato l’Istituto, che lo dirige, che ci manda il pane quotidiano». E ai missionari aggiungeva: «La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani; ha fatto parlare le pietre».
Di conseguenza, voleva che noi prendessimo la Madonna, che generò la nostra famiglia nel cuore della Chiesa, come custode, modello, guida e sostegno della nostra vita e della nostra missione: «Fare tutto con Maria, prendendola come nostro modello in tutte le azioni e agire come farebbe lei».
Segretario e tesoriere
Allamano, inoltre, si considerava suo segretario e tesoriere; si sentiva, cioè, dispensatore privilegiato delle tenerezze materne della Consolata, e nulla faceva senza di lei: «Se fai bella figura, sei Tu!», le diceva con amore filiale e sconfinata fiducia.
Pochi mesi prima di morire, durante un periodo di riposo a Rivoli, a un sacerdote che lo visitò disse: «Mi hanno mandato qui in riposo ed io mi sento in esilio. Andando ella domani a Torino, dica a miei sacerdoti che io lontano dalla Consolata non posso vivere!». Sì, la Consolata fu la «sua Madonna» sotto il cui sguardo visse per ben quarantasei anni, fino all’ultimo respiro.
Le ultime parole che i circostanti hanno raccolto dalle sue labbra in un soffio sono state un «Amen» e un’invocazione: «Ave Maria». Amen: l’atteggiamento di tutta la sua vita di fronte alla volontà di Dio, bussola unica e fermissima della sua anima in continua ricerca dei segni del cielo. Ave Maria: l’espressione di amore e di speranza di un cuore sacerdotale tutto fuoco, per il quale la Consolata è stata la stella soavissima d’ogni alba e d’ogni tramonto. Non ha avuto bisogno d’altro nella sua vita. Dio e la Madonna sono stati il suo «tutto» immenso.
Capiamo allora che Allamano, affidando i due istituti da lui fondati alla Consolata, non ci ha dato solo un nome, ma una madre: «Quanta gente viene a pregare e porta via le grazie e i miracoli, e noi che siamo i suoi figli prediletti? Ne portiamo il titolo come nome e cognome. Sotto questo titolo è nostra Madre particolare. Noi siamo Consolatini, figli prediletti della Consolata».
Guardiamo alla Consolata
Il nostro fondatore, quale figlio prediletto della Consolata, oggi risplende della santità di Dio, e anche la Chiesa così lo riconosce e proclama. La sua canonizzazione è per tutti noi un dono immenso, ma è anche una sempre più grande responsabilità perché ci chiama a rinnovarci con fedeltà e impegno, attingendo con abbondanza alla ricchezza della sua vita e della sua santità.
Quante volte Allamano ha rivolto il suo sguardo alla Consolata e quante volte si è lasciato guardare da lei! Anche noi desideriamo contemplare il suo volto e lasciarci guardare da lei, qui sta la nostra forza e la forza dei nostri Istituti.
Guardiamola spesso, a lungo, con amore, in silenzio, preghiamola ogni giorno per noi, per l’istituto, per il mondo intero. O Consolata, madre della consolazione, entra sempre più nei nostri cuori e colmaci del dono dell’amore.
A cura di Sergio Frassetto

Celebrato nel suo santuario
In un clima gioioso e solenne al tempo stesso, domenica 16 febbraio si è celebrata la prima festa di san Giuseppe Allamano anche nel Santuario della Consolata di cui fu rettore per più di 45 anni (1880-1926).
A lui si devono l’opera pastorale per far crescere nei torinesi di allora la devozione alla Vergine Consolata e l’attuale struttura del Santuario: da lui ingrandito con l’aggiunta di quattro nuove cappelle e totalmente riplasmato con marmi e dorature, rendendolo – come qualcuno lo volle definire – un’autentica «reggia di Maria». A lui si deve il rilancio del Convitto Ecclesiastico che per decine di anni fu luogo e scuola di formazione per i giovani sacerdoti torinesi e piemontesi. A lui si deve la fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata, congregazione questa che può già gloriarsi per due suore proclamate beate: Irene Stefani, che fu accolta tra le suore dal Santo stesso, e Leonella Sgorbati, martire in Somalia.
La celebrazione delle 18 è stata presieduta dal cardinale Roberto Repole accompagnato dal clero locale e da numerosi missionari della Consolata. Le missionarie della Consolata e tantissimi torinesi riempivano tutti gli spazi del santuario.
Al termine della celebrazione, il Cardinale ha benedetto la nuova pala d’altare dedicata a san Giuseppe Allamano, collocata a destra, nella prima cappella delle quattro che circondano l’emisfero del santuario.
Monsignor Giacomo Maria Martinacci, rettore del Santuario della Consolata, prima della benedizione, ha presentato il grande quadro, opera del pittore milanese Antonio Molino, dicendo: «Davanti a noi possiamo vedere al centro, sotto l’immagine della Consolata, raffigurata con le preziose corone di stelle che Allamano volle aggiungervi, la figura del santo mentre tocca il mappamondo sul quale i confini dell’Africa sono quelli del tempo in cui egli vi inviò i primi missionari. Attorniano Allamano il suo santo zio Giuseppe Cafasso a cui egli costantemente volle ispirarsi; il canonico Giacomo Camisassa, da lui personalmente scelto, che per 42 anni fu il suo prezioso e insostituibile collaboratore sia per le molteplici opere compiute nel Santuario sia per la fondazione dei due istituti missionari; e il beato Luigi Boccardo, il quale per trent’anni fu il braccio destro di Allamano nella conduzione del rinato Convitto Ecclesiastico.
Con loro è sembrato giusto ricordare le due suore missionarie, ora beate, Irene Stefani, che fu accolta nella vita religiosa dal Santo stesso, e Leonella Sgorbati, prima martire dell’istituto. Nelle tante figure poste nella parte inferiore del quadro non è difficile identificare una rappresentanza dei destinatari dell’opera compiuta dal Santo e portata avanti in tutto il mondo dai suoi missionari e missionarie.
Mi auguro che, aiutati anche dal sostare davanti a questo quadro, i fedeli possano qui attingere quei valori a cui Allamano sempre si ispirò e che seppe trasmettere ai sacerdoti e ai fedeli, non solo torinesi, in tutta la sua non breve vita: la devozione alla Consolata, la grande dedizione per l’opera di evangelizzazione che Gesù volle affidare a ognuno dei suoi discepoli e l’impegno a formare una cordata che insieme cammina nelle vie del Signore, valorizzando il reciproco fraterno aiuto».
A cura di Sergio Frassetto
