Porta santa

Se Gesù è la «speranza che non delude», come ricordava papa Francesco nell’esordio della Bolla di indizione del Giubileo, sappiamo che tale mistero di speranza è stato tessuto nel grembo della Vergine Maria. Senza il cuore e la carne di Maria non ci sarebbe stata la sorgente della speranza che è la certezza della compagnia del Dio con noi e per noi. Così Maria è il crocevia indispensabile, per volere divino, attraverso cui passa la comunione tra Dio e l’uomo.

San Giuseppe Allamano ogni sera si faceva «pellegrino di speranza» presso l’icona della Consolata che contemplava da un piccolo matroneo, chiamato «coretto», posto all’interno del santuario. Da quella posizione le poteva parlare stando quasi a tu per tu con lei. Si rivolgeva alla Madonna con espressioni piene di tenerezza e di confidenza, fino a immaginare che tra la Consolata e lui si fossero create un’intesa e una collaborazione speciali, quasi che Maria prolungasse la sua funzione di dispensatrice dei favori divini.

L’avventura missionaria di san Giuseppe Allamano, come pure quella dei nostri due istituti, iniziò indubbiamente da lì. È evidente che, anche in rapporto alla fondazione, Allamano si considerava solo collaboratore della Consolata. La sua attività di fondatore e di educatore di missionari e missionarie ha un senso solo a partire dalla Consolata e in relazione con lei. L’istituto era opera sua e, quindi, Allamano non si preoccupava per il suo futuro. Lui, come segretario, le presentava l’opera dell’evangelizzazione, le attese dei popoli che non conoscevano Cristo e l’attività dei missionari, le loro difficoltà e i loro progressi, i frutti gioiosi di tanto lavoro.

Per Allamano, il massimo della speranza era la fiducia. Una fiducia sempre ripagata fino a poter dire: «La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani, ha fatto parlare le pietre».

Grazie alla Madonna, durante la guerra non era accaduta alcuna disgrazia e non era venuto a mancare il pane quotidiano e «anche per questo, lascio l’incarico alla Madonna; per le spese ingenti della casa e per le missioni non ho mica mai perduto il sonno o l’appetito, glielo dico, pensateci voi, se fate bella figura siete voi, io me ne vado».

Per questo insegnava ai suoi missionari a essere uomini e donne di speranza. «La speranza è la virtù degli ardimentosi, di coloro che non accettano nella loro vita l’immobilità, che hanno orizzonti ampi, che con coraggio affrontano le sfide quotidiane come nuove opportunità. Il cristiano, infatti, non dovrebbe avere paura di allineare le proprie attese e i propri sogni a quelli di Dio che “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità”» (1 Tm 2,4).

Una speranza che fioriva all’ombra della Vergine che Allamano invocava come «Madre di speranza» per tutti coloro che avevano perso la strada del bene e desideravano tornare a Dio. E proprio nella casa della Consolata, questi, inginocchiandosi al confessionale dove lui trascorreva lunghe ore, trovavano in Maria la porta santa che introduceva a Dio. Una porta che i torinesi continuano a varcare numerosi ancora oggi.

Sergio Frassetto

La «sua Consolata»

San Giuseppe Allamano visse la maggior parte del suo ministero sacerdotale come rettore del Santuario della Consolata. Il suo amore per la Madonna lo spingeva a dichiararsi suo «segretario e tesoriere» e oggi spiega a noi perché abbia chiamato con questo nome i suoi missionari e missionarie.

Quarant’anni di consolazione

Giuseppe Allamano aveva solo ventinove anni quando fu nominato rettore del santuario della Consolata dall’arcivescovo di Torino nel 1880. Per lui, che custodiva nel cuore il desiderio di andare vicecurato ed eventualmente parroco in qualche paesello, fu questa un’obbedienza che gli costò assai, tanto da fargli venire la febbre, ma fin dal primo momento del suo arrivo al santuario si sentì avvolto dallo sguardo tenerissimo della Consolata che lo attendeva, e il suo cuore un po’ smarrito e trepidante si sentì al sicuro sotto il manto di quella Madre che l’avrebbe custodito e amato come pupilla degli occhi suoi.

Da allora, sostenuto dalla Consolata, con la quale si intratteneva a lungo e alla quale tutto confidava, trovò sempre la forza per accogliere ogni situazione, anche le più scabrose e dolorose, con grande serenità, ripetendo con fede incrollabile, il suo fiat. Perciò verso la fine della sua vita, così si esprimeva: «Se avessi da fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione. Non è che non abbia avuto da soffrire; lo sa Iddio quanto! Ma lì, ai piedi della Consolata, si è sempre aggiustato tutto».

Ne parlava con tenera devozione

Fin da giovane seminarista, Giuseppe Allamano nutriva una tenera devozione per la Madonna e celebrava con gioia ogni sua festa, sotto tutti i titoli, ma poi, quale rettore del santuario e ancora di più quale padre di missionari e missionarie, con disarmante semplicità confessava che la «sua Madonna» era solo Lei, la dolcissima Consolata.

I suoi figli e figlie della prima ora hanno testimoniato che parlava della «sua Consolata» con una tenerezza indicibile, si commuoveva profondamente e si entusiasmava, tanto da trasfigurarsi; e non usciva mai di casa senza essere prima passato a salutare la Consolata.

Guida e sostegno del missionario

La devozione alla Madonna non era, però, fatta solo di pii sentimenti. Per tutta la vita, la Consolata rimase al centro del suo ministero sacerdotale, guidando, sostenendo, illuminando ogni sua scelta.

Alle suore confidava: «Chi è la Consolata per noi? È essa che ha fondato l’Istituto, che lo dirige, che ci manda il pane quotidiano». E ai missionari aggiungeva: «La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani; ha fatto parlare le pietre».

Di conseguenza, voleva che noi prendessimo la Madonna, che generò la nostra famiglia nel cuore della Chiesa, come custode, modello, guida e sostegno della nostra vita e della nostra missione: «Fare tutto con Maria, prendendola come nostro modello in tutte le azioni e agire come farebbe lei».

Segretario e tesoriere

Allamano, inoltre, si considerava suo segretario e tesoriere; si sentiva, cioè, dispensatore privilegiato delle tenerezze materne della Consolata, e nulla faceva senza di lei: «Se fai bella figura, sei Tu!», le diceva con amore filiale e sconfinata fiducia.

Pochi mesi prima di morire, durante un periodo di riposo a Rivoli, a un sacerdote che lo visitò disse: «Mi hanno mandato qui in riposo ed io mi sento in esilio. Andando ella domani a Torino, dica a miei sacerdoti che io lontano dalla Consolata non posso vivere!». Sì, la Consolata fu la «sua Madonna» sotto il cui sguardo visse per ben quarantasei anni, fino all’ultimo respiro.

Le ultime parole che i circostanti hanno raccolto dalle sue labbra in un soffio sono state un «Amen» e un’invocazione: «Ave Maria». Amen: l’atteggiamento di tutta la sua vita di fronte alla volontà di Dio, bussola unica e fermissima della sua anima in continua ricerca dei segni del cielo. Ave Maria: l’espressione di amore e di speranza di un cuore sacerdotale tutto fuoco, per il quale la Consolata è stata la stella soavissima d’ogni alba e d’ogni tramonto. Non ha avuto bisogno d’altro nella sua vita. Dio e la Madonna sono stati il suo «tutto» immenso.

Capiamo allora che Allamano, affidando i due istituti da lui fondati alla Consolata, non ci ha dato solo un nome, ma una madre: «Quanta gente viene a pregare e porta via le grazie e i miracoli, e noi che siamo i suoi figli prediletti? Ne portiamo il titolo come nome e cognome. Sotto questo titolo è nostra Madre particolare.  Noi siamo Consolatini, figli prediletti della Consolata».

Guardiamo alla Consolata

Il nostro fondatore, quale figlio prediletto della Consolata, oggi risplende della santità di Dio, e anche la Chiesa così lo riconosce e proclama. La sua canonizzazione è per tutti noi un dono immenso, ma è anche una sempre più grande responsabilità perché ci chiama a rinnovarci con fedeltà e impegno, attingendo con abbondanza alla ricchezza della sua vita e della sua santità.

Quante volte Allamano ha rivolto il suo sguardo alla Consolata e quante volte si è lasciato guardare da lei! Anche noi desideriamo contemplare il suo volto e lasciarci guardare da lei, qui sta la nostra forza e la forza dei nostri Istituti.

Guardiamola spesso, a lungo, con amore, in silenzio, preghiamola ogni giorno per noi, per l’istituto, per il mondo intero. O Consolata, madre della consolazione, entra sempre più nei nostri cuori e colmaci del dono dell’amore.

A cura di Sergio Frassetto

Celebrato nel suo santuario

In un clima gioioso e solenne al tempo stesso, domenica 16 febbraio si è celebrata la prima festa di san Giuseppe Allamano anche nel Santuario della Consolata di cui fu rettore per più di 45 anni (1880-1926).

A lui si devono l’opera pastorale per far crescere nei torinesi di allora la devozione alla Vergine Consolata e l’attuale struttura del Santuario: da lui ingrandito con l’aggiunta di quattro nuove cappelle e totalmente riplasmato con marmi e dorature, rendendolo – come qualcuno lo volle definire – un’autentica «reggia di Maria». A lui si deve il rilancio del Convitto Ecclesiastico che per decine di anni fu luogo e scuola di formazione per i giovani sacerdoti torinesi e piemontesi. A lui si deve la fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata, congregazione questa che può già gloriarsi per due suore proclamate beate: Irene Stefani, che fu accolta tra le suore dal Santo stesso, e Leonella Sgorbati, martire in Somalia.

La celebrazione delle 18 è stata presieduta dal cardinale Roberto Repole accompagnato dal clero locale e da numerosi missionari della Consolata. Le missionarie della Consolata e tantissimi torinesi riempivano tutti gli spazi del santuario.

Al termine della celebrazione, il Cardinale ha benedetto la nuova pala d’altare dedicata a san Giuseppe Allamano, collocata a destra, nella prima cappella delle quattro che circondano l’emisfero del santuario.

Monsignor Giacomo Maria Martinacci, rettore del Santuario della Consolata, prima della benedizione, ha presentato il grande quadro, opera del pittore milanese Antonio Molino, dicendo: «Davanti a noi possiamo vedere al centro, sotto l’immagine della Consolata, raffigurata con le preziose corone di stelle che Allamano volle aggiungervi, la figura del santo mentre tocca il mappamondo sul quale i confini dell’Africa sono quelli del tempo in cui egli vi inviò i primi missionari. Attorniano Allamano il suo santo zio Giuseppe Cafasso a cui egli costantemente volle ispirarsi; il canonico Giacomo Camisassa, da lui personalmente scelto, che per 42 anni fu il suo prezioso e insostituibile collaboratore sia per le molteplici opere compiute nel Santuario sia per la fondazione dei due istituti missionari; e il beato Luigi Boccardo, il quale per trent’anni fu il braccio destro di Allamano nella conduzione del rinato Convitto Ecclesiastico.

Con loro è sembrato giusto ricordare le due suore missionarie, ora beate, Irene Stefani, che fu accolta nella vita religiosa dal Santo stesso, e Leonella Sgorbati, prima martire dell’istituto. Nelle tante figure poste nella parte inferiore del quadro non è difficile identificare una rappresentanza dei destinatari dell’opera compiuta dal Santo e portata avanti in tutto il mondo dai suoi missionari e missionarie.

Mi auguro che, aiutati anche dal sostare davanti a questo quadro, i fedeli possano qui attingere quei valori a cui Allamano sempre si ispirò e che seppe trasmettere ai sacerdoti e ai fedeli, non solo torinesi, in tutta la sua non breve vita: la devozione alla Consolata, la grande dedizione per l’opera di evangelizzazione che Gesù volle affidare a ognuno dei suoi discepoli e l’impegno a formare una cordata che insieme cammina nelle vie del Signore, valorizzando il reciproco fraterno aiuto».

A cura di Sergio Frassetto




Rifugiati, la crisi non rallenta

Il numero di rifugiati e sfollati nel mondo è aumentato per 12 anni consecutivi e oggi è pari a oltre due volte la popolazione dell’Italia. Sette rifugiati su dieci sono ospitati negli Stati confinanti il Paese d’origine, quasi sempre Paesi a basso o medio reddito.

Lo scorso 7 aprile, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr, riferiva che, a due anni all’inizio della guerra in Sudan, le persone costrette a fuggire dal Paese erano circa 12,7 milioni, di cui 8,6 milioni sfollati all’interno dei confini sudanesi e quattro milioni nei Paesi confinanti o vicini: Egitto, Sud Sudan, Chad, Libia, Uganda, Etiopia e Repubblica centrafricana@. Sul totale mondiale dei rifugiati, riportava l’agenzia, uno su 13 è del Sudan, che diventa così il Paese con il maggior numero di profughi al di fuori dei propri confini in tutta l’Africa. Fra le persone costrette a fuggire ci sono anche cittadini non sudanesi che erano già rifugiati da altri Paesi accolti in Sudan.
I livelli di insicurezza alimentare erano molto alti, fra il livello 3, che indica crisi, e il livello 4, di vera e propria emergenza, con una zona nella parte meridionale del Sudan dove la situazione era già in fase 5, quella della catastrofe umanitaria@.

La guerra nel Paese, raccontava Enrico Casale su MC dello scorso aprile@, è scoppiata nel 2023 «a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile», in seguito all’instabilità politica generata dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir, arrivato al potere nel 1989 con un colpo di Stato e deposto trent’anni dopo. Il conflitto vede opporsi l’esercito sudanese e le Rapid support forces (Rsf), eredi delle milizie Janjaweed responsabili delle atrocità nella regione sudanese occidentale del Darfur all’inizio di questo secolo.

123 milioni di profughi

Quella del Sudan è una delle peggiori crisi umanitarie in corso, ma il numero di profughi nel mondo sta aumentando da 12 anni consecutivi: se nel 2012 gli sfollati globali erano circa 43 milioni, alla fine di giugno dell’anno scorso erano triplicati: 122,6 milioni, provenienti da 179 Paesi@. Questo mese esce il nuovo rapporto Unhcr che fornirà dati più consolidati; intanto, quelli a disposizione dicono che una persona su 67 sul pianeta è costretta a lasciare il luogo in cui vive per sfuggire a persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.

Sul totale di quasi 123 milioni, oltre la metà sono sfollati interni al paese d’origine, 38 milioni sono rifugiati, 8 milioni sono richiedenti asilo – cioè persone che hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale, ma la cui situazione non è ancora definita – e poco meno di 6 milioni sono persone non incluse in queste due categorie ma probabilmente bisognose di protezione internazionale.

Due terzi dei rifugiati vengono da soli quattro Stati: Siria, Venezuela, Ucraina e Afghanistan; circa sette su dieci sono ospiti di Paesi a basso e medio reddito confinanti con quello di origine. I minori, cioè le persone sotto i 18 anni di età, sono 47 milioni.

Questi numeri provengono da tre fonti: Unhcr, Unrwa (United nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near East) e l’Idmc (Internal displacement monitoring centre) della Ong umanitaria Consiglio norvegese per i rifugiati.

Unhcr e Unrwa sono entrambe agenzie Onu, ma hanno mandati diversi e complementari. In particolare, l’Unrwa – che ha sotto il suo mandato circa 5,9 milioni di palestinesi – fornisce ai rifugiati servizi in cinque ambiti, fra cui sanità e istruzione, in attesa di una soluzione alla loro situazione, mentre l’Unhcr offre assistenza solo temporanea ma ha l’autorità di reinsediare i rifugiati palestinesi e cercare per loro soluzioni durature. Secondo l’Unhcr, però, ogni anno viene reinsediato meno dell’1% dei rifugiati@.

Boa Vista e rifugiati venezuelani

Anche la crisi venezuelana non registra miglioramenti: la situazione di mancanza di servizi di base, violenza, criminalità e violazioni dei diritti umani è tale che quasi un venezuelano su quattro ha lasciato il Paese. Secondo la piattaforma R4V, cogestita da Unhcr e Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), i rifugiati e migranti venezuelani nel mondo sono poco meno di 7,9 milioni, di cui 6,7 distribuiti in 17 Paesi dell’America Latina. I primi tre Paesi ospitanti sono Colombia, che ha 2,8 milioni di venezuelani sul proprio territorio, Perù (1,7 milioni) e Brasile (627mila)@.

Il Brasile si è dato una legislazione sulla migrazione che facilita molto l’accoglienza, attribuendo agli stranieri – almeno sulla carta – gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, senza grandi distinzioni legate allo status di rifugiato o migrante, e mettendo a disposizione rifugi, assistenza umanitaria e ricollocamento delle persone nei vari Stati brasiliani nell’ambito della Operação acolhida, operazione accoglienza. Ma le difficoltà restano tante: secondo l’analisi dei bisogni di rifugiati e migranti fatta da R4V nel 2024@, i minori immigrati che non erano iscritti al sistema scolastico formale erano circa il 17% nel Paese, ma un’ulteriore verifica condotta nello stato di Roraima, principale punto di ingresso dei migranti dal Venezuela in Brasile, alzava il dato al 54%. Quanto alla nutrizione, se a livello nazionale era il 22% delle famiglie immigrate intervistate a segnalare insicurezza alimentare moderata o grave, in Roraima la percentuale era di cinque punti più alta. La popolazione indigena – Warao, Pemon, Taurepang, E’ñepa, Kariña e Wayuu – ha difficoltà ancora maggiori: l’analisi cita il caso di un rifugio della Operação acolhida dove i bambini che non frequentavano la scuola erano 86 su cento.

Donna Warao che lava la sua roba a Boa Vista

Le difficoltà concrete

A Boa Vista, in Roraima, un’équipe dei missionari della Consolata assiste i migranti e rifugiati venezuelani che vivono negli insediamenti informali, cioè fuori dai centri governativi. Padre Juan Carlos Greco, missionario di origine argentina membro dell’équipe, ha lavorato anche nove anni in Venezuela con gli indigeni Warao.

«Non è facile capire chi è rifugiato e chi migrante», spiega Juan Carlos: spesso non dipende solo dal motivo per cui una persona ha abbandonato il proprio Paese – cioè se è o no in fuga da una persecuzione – ma dai documenti di cui dispone all’arrivo. «Immagina che marito e moglie arrivino con in tasca una carta d’identità venezuelana: a entrambi viene riconosciuto il diritto ad avere la residenza in Brasile e diventano così migranti residenti. Ai bambini con meno di 12 anni, il Venezuela non rilascia una carta di identità, perciò, se la coppia ha una figlio di quell’età è senza documenti e le autorità, per poterlo accogliere, devono riconoscergli lo status di rifugiato. Infine, se a questi genitori arriva un nuovo figlio mentre sono in Brasile, lo Stato brasiliano non può attribuire al nuovo nato la cittadinanza venezuelana, perciò lo riconosce come cittadino brasiliano. Ecco allora che hai famiglie con genitori migranti residenti, figli grandi rifugiati e figli piccoli cittadini brasiliani».

Alle questioni burocratiche si aggiungono poi altre difficoltà: ci sono persone – continua Juan Carlos – che sono venute dal Venezuela perché sono malate o disabili e nel loro Paese non possono più curarsi. Ma nelle loro condizioni non riescono a lavorare e possono solo “stare in un rifugio in attesa di un miracolo”». Spesso, poi, il cibo servito nei rifugi crea ulteriori problemi, perché è avariato o cucinato in modo scorretto e causa intossicazioni alimentari. «Prima, a fornire il cibo era la Caritas brasiliana, ma ora ha chiuso per mancanza di fondi: questi venivano infatti in larga parte dagli Usa, ma il governo statunitense a gennaio ha sospeso gli aiuti»@.

A volte, pur di lavorare, i migranti entrano in contatto con organizzazioni criminali. «Una donna warao aveva un marito, non indigeno, che si è messo nel traffico di droga ed è stato ucciso da due sicari in moto a colpi di arma da fuoco. Lui è morto sul colpo, la moglie, ferita al costato, è morta pochi giorni dopo. Il bambino di cinque mesi, che lei teneva in braccio, è stato ferito a una mano ma si è salvato. Ora lui e i suoi sette fratelli sono orfani e hanno solo i nonni ultrasessantenni che possono prendersi cura di loro. Il governo ancora non ha concesso loro la bolsa familia», cioè l’aiuto finanziario per le famiglie povere, «perciò per ora aiutiamo noi con latte in polvere e un po’ di cibo». Adesso sei dei bambini vanno anche a scuola: il nonno accompagnava quattro di loro usando Uber, ma non aveva i soldi per rientrare a casa e poi tornare a prenderli, perciò li aspettava fino alle 5 del pomeriggio fuori dalla scuola. «Qualcuno lo ha notato e, toccato dalla sua situazione, gli ha procurato un piccolo aiuto finanziario per coprire i costi di trasporto».

Malindza Refugee Reception Centre 2022
The eSwatini Council of Catholic Women (ECCW) visited the Refugee Centre for a time of prayer and to share their gifts (09 July 2022)

eSwatini e Sudafrica, emergenze vecchie e nuove

Oltre al Sudan, ci sono altre realtà in Africa che vivono da anni una situazione di emergenza. Il Centro di accoglienza per rifugiati di Malindza, nel Regno di eSwatini, ospita ad esempio molte persone provenienti dalla zona dei Grandi Laghi, che comprende fra gli altri la Repubblica democratica del Congo, dove il conflitto nella zona orientale va avanti da anni.

Il Centro è sotto mandato Unhcr, in collaborazione con il governo di eSwatini e con la Ong World Vision come partner. «Fino a dicembre scorso», spiega monsignor José Luis Ponce de León, vescovo di Manzini e missionario della Consolata, «a Malindza gli ospiti erano circa 400, la metà bambini. Poi, con lo scoppio della violenza in Mozambico, centinaia di persone hanno attraversato il confine». Caritas eSwatini ha reagito fornendo coperte, materassi e cibo. «Visitando il campo insieme ad alcune suore mozambicane», continua monsignor Ponce de León, «ci siamo resi conto che, sebbene arrivassero dal Mozambico, i profughi non erano mozambicani, ma di altre parti dell’Africa che erano scappati dai loro Paesi e si erano stabiliti lì».

Anche a Pretoria, in Sudafrica, un missionario della Consolata, padre Daniel Kivuw’a, collabora con la Chiesa locale per assistere migranti e rifugiati provenienti da diversi paesi africani. «Ad alcuni», spiega padre Daniel, «soprattutto a quelli provenienti da Paesi con un conflitto in corso – Rd Congo, Sudan e, ultimamente, il Mozambico – il governo ha concesso lo status di rifugiato». Ma le difficoltà per i migranti in Sudafrica continuano a essere legate all’ostilità della popolazione locale, che non è nuova ad atti xenofobi violenti e al rischio di cadere vittima del traffico di esseri umani e agli elevati livelli di corruzione. «Molti migranti», continua Daniel, «faticano a ottenere documenti perché non hanno denaro per pagare i funzionari dell’immigrazione. Se sono donne migranti, poi, rischiano anche di subire abusi sessuali».

Chiara Giovetti




Fedele fino alla morte

Il popolo Tolai vive nella penisola Gazzelle nel nord est dell’isola della Nuova Britannia in Papua Nuova Guinea. è una delle decine di etnie dell’arcipelago che circonda l’isola principale. Lì è arrivato diversi secoli fa stabilendosi nella zona più fertile di tutta la Papua Nuova Guinea. Popolo di fieri guerrieri, avevano una struttura matriarcale e i bambini venivano educati sotto la responsabilità dello zio materno che insegnava loro le basi di agricoltura, pesca e caccia. I loro nomi sono caratterizzati dal prefisso «To» o «Ia»: «To» per i maschi, «Ia» per le femmine.

Colonizzazione europea

Il primo europeo ad arrivare in queste terre è un navigatore olandese nel 1616, e poi gli inglesi all’inizio del XVIII secolo che chiamano l’isola Nuova Britannia. Nel 1884 arrivano i tedeschi, che prendono il controllo dell’arcipelago. A fine 1800 ci vivono circa 190mila indigeni e 800 tedeschi.

Nel 1914 ritornano gli inglesi dall’Australia. Sconfiggono i tedeschi, e nel 1919, con il trattato di Versailles, l’arcipelago diventa parte dell’Impero britannico. La Papua Nuova Guinea diventa indipendente dall’Australia nel 1975.

I primi missionari

I primi missionari, sia cattolici che protestanti, cominciano a evangelizzare le isole a fine XVIII secolo partendo da Sidney in Australia. La Santa Sede istituisce due vicariati apostolici solo nel 1844: quello della Melanesia e quello della Micronesia, e li affida ai missionari Maristi che mettono la loro base nell’isola di Woodlark e da lì raggiungono le altre isole. Lavorano con coraggio, ma pagano anche un prezzo altissimo: di venti missionari mandati nella regione, sette muoiono per malattie tropicali e cinque diventano totalmente invalidi. Così nel 1850 i Maristi chiedono che altri missionari prendano la responsabilità del Vicariato della Melanesia.

Nel 1852 arrivano i missionari del Pime da Milano, ma anche loro si ritirano nel 1855, lo stesso anno in cui nell’isola di Woodlark è ucciso padre Giovanni Battista Mazzucconi, ora beato.

Nel 1875 entrano in scena con forza i missionari protestanti Metodisti che, nel giro di due anni, riescono ad aprire ben undici stazioni tra i Tolai.

Nel 1881 dall’Australia viene mandato padre René Lannuzel, un sacerdote associato ai Cappuccini. Arrivato nella penisola
Gazelle è subito ben accolto dai nativi e, in poco tempo, battezza 76 bambini.

Nel settembre 1882 sbarcano a Vunapope tre missionari francesi del Sacro Cuore. Nonostante le molte difficoltà (malattie, contese per la terra, restrizioni governative alla loro azione, incendi delle stazioni di missione), la missione comincia a dare i primi frutti. Nel 1887 ci sono 700 cattolici (100 europei e 600 nativi), quattro stazioni di missione, sette scuole con 600 bambini e nove missionari, sei suore e un fratello.

Rakunai e il capo To Puia

I missionari, bene accolti dai Tolai, aprono una stazione di missione a Rakunai, uno dei loro villaggi più importanti. è anche il luogo dove spesso le questioni tra i vari clan vengono risolte in combattimenti tra le parti.

I missionari sono sorpresi dalla rapidità con cui il popolo accoglie il Vangelo. Pur tra grandi difficoltà, fanno uno splendido lavoro di inculturazione ed entro la fine del 19° secolo i Tolai abbandonano pratiche ancestrali come cannibalismo, riti demoniaci, lotte, guerre e pratica della schiavitù.

Rakunai deriva da «ra kunai», che significa «campo di erba» ed è in una delle zone più fertili della regione e anche centro di mercato per i villaggi vicini. Qui troviamo la famiglia di Peter To Rot. Suo padre è Angelo To Puia, un leader del suo clan e capo villaggio di Rakunai. La mamma è Maria Ia Tumul. Peter è il terzo di sei figli: quattro fratelli e due sorelle. Gli ultimi due, i più giovani, muoiono ancora bambini.

Peter nasce probabilmente nel 1912. La sua famiglia è già cristiana. Il padre è stato battezzato nel 1898, ed è uno dei primi cattolici tra i Tolai. To Puia è un capo molto rispettato, un buon padre e un ottimo cristiano. Come capo è attento ai più poveri, soprattutto agli orfani che accoglie e cura nella sua stessa casa. È lui a invitare i missionari a vivere nel villaggio, a costruire  una chiesa e una scuola. È il capo della zona per circa 40 anni e muore nel 1938. La sua conversione al cattolicesimo, con quella della sua famiglia, segna la fine dell’influenza dei Metodisti nell’area, contribuisce ad allentare le discriminazioni governative verso cattolici e incoraggia altre conversioni.

Il prediletto di papà

Il Beato Peter to Rot (in foto elaborata dall’originale in bianco e nero
(Asia News)

To Rot è battezzato lo stesso anno della sua nascita. Riceve la sua formazione cristiana soprattutto dal papà. È un ragazzo tranquillo, gentile e molto obbediente. Ha un rapporto molto profondo con suo padre, di cui, proprio per il suo carattere, è il «prediletto». A sette anni è ammesso nella scuola primaria di Rakunai, che frequenta con regolarità. Sveglio, attento e pronto, partecipa attivamente alle lezioni, e fuori è l’anima dei giochi e anche di vari lavoretti. A scuola impara molto bene la Bibbia, memorizzandone tante pagine.

Visto il suo impegno, riceve la prima Comunione che ha solo circa 11 anni. Quando poi il missionario chiede volontari per servire la messa ogni giorno, lui è uno dei primi a offrirsi. Dato che la sua casa è molto lontana dalla chiesa, il papà gli dà il permesso di stare con dei parenti che abitano vicino a essa e così può andare a servire messa tutti i giorni senza doversi alzare prestissimo e fare una lunga camminata.

Il suo amore per Gesù nell’Eucarestia è il suo più intimo segreto e più grande tesoro. Sarà la forza di tutta la sua vita.

Un ragazzo responsabile

Peter è un ragazzo normale, vivace come tutti i suoi coetanei. Anche lui fa delle marachelle, ma ha un forte autocontrollo: quando le cose degenerano tra gli amici, ha la capacità di dire «basta», e sa farsi ascoltare. Ovvio che, come figlio del capo, è rispettato dai suoi compagni, ma questo non gli fa montare la testa, anzi è molto amichevole con tutti, e ha una speciale attenzione ai più poveri e agli orfani, come ha imparato da suo padre.

Passata l’adolescenza, dovrebbe lasciare la scuola, ma lui vuole continuare. Il parroco, che lo segue da vicino, conosce il suo amore per l’Eucarestia e pensa che To Rot potrebbe essere un buon prete per la sua gente. Ne parla con il papà, To Puia, ma questo gli dice: «Non credo che uno della nostra generazione sia pronto per diventare prete. È troppo presto per quello. Piuttosto mandalo alla scuola di catechisti».

Catechista

Così nel 1930, a 18 anni, Peter entra nel Saint Paul catechist training centre di Taliligap, un centro creato nel 1925 per tutto il vicariato della Melanesia. La scuola accoglie centinaia di giovani, provenienti dagli oltre trenta gruppi linguistici del vicariato, per preparare i futuri catechisti: formarli spiritualmente, insegnare i metodi per comunicare il Vangelo e quanto necessario per animare una comunità anche in assenza del sacerdote; organizzare e gestire una scuola elementare di villaggio, imparando la lingua locale, se necessario; apprendere metodi e contenuti sia per l’insegnamento religioso che per quello scolastico di base; tenere i registri e promuovere attività extra scolastiche.

Arrivato al centro, To Rot si sente subito a casa. Si butta nello studio e diventa uno degli studenti migliori. Sfrutta al meglio il suo tempo, diviso tra preghiera, studio, lavoro nell’orto, attività ricreative e sport. Naturalmente approfondisce anche la sua vita spirituale, e il suo amore per l’Eucarestia diventa sempre più sincero e il centro della sua vita. Per questo fa la comunione tutti i giorni, cosa non abituale allora.

Impiego anticipato

Il corso che frequenta dura tre anni, ma Peter, già all’inizio del 1933, viene mandato al suo villaggio, Ranukai, perché il catechista è andato via e non c’è nessuno ad aiutare il sacerdote. Ha 21 anni, è un giovane sano e robusto, un gran bel ragazzo, ben cosciente del suo stato sia di catechista che di figlio del capo. Servire con umiltà e dedizione creando una profonda collaborazione con il sacerdote, lavorando con lui, chiedendogli approfondimenti sugli aspetti della fede che non gli sono ancora chiari. Ha un solo pensiero nel cuore: essere un buon catechista e servire Gesù con tutto il cuore.

Attento alla vita della sua gente, non è indifferente di fronte ai problemi o a qualcuno che torna al paganesimo. Corregge con gentilezza, interessato al bene delle persone, come avrebbe fatto Gesù stesso: odia il peccato ma ama i peccatori.

Nella scuola è attento ai bisogni dei ragazzi, in particolare i più fragili. Non ama gli scontri, e usa tutta la sua influenza e il suo amore per ricondurre all’ovile le pecore disperse.

Se sa che qualcuno è malato, va a visitarlo nella sua casa e lo aiuta anche a trovare le medicine, oppure, nei casi più gravi, informa il sacerdote perché possa ricevere i sacramenti.

Sposo e padre

Nel 1936, l’11 novembre, si sposa in chiesa con Paula Ia Varpit che ha solo 16 anni. Arrivata a Rakunai a 14 anni, già battezzata, è diventata sua allieva nella scuola, dove è sbocciato l’amore.

Il matrimonio è preparato secondo i costumi locali senza però che siano le famiglie a scegliere sposo o sposa. In più To Rot rifiuta la convivenza di prova prima del matrimonio come previsto dai costumi locali. La celebrazione è quella del rito cattolico seguito poi dalle feste tradizionali a cui Peter ha diritto come figlio del capo.

Il matrimonio di Peter e Paula è esemplare per tutti, soprattutto perché i due si amano profondamente e pregano insieme mattina e sera, condividendo le fatiche quotidiane e superando con l’amore e il rispetto reciproco le tradizioni più negative della cultura Tolai.

Dopo l’invasione dei giapponesi del 1942, il loro amore diventa ancora più forte. Peter e Paula hanno due figli: Andreas To Puia nel dicembre 1939 e Rufina Ia Mama nel 1942. Un terzo nasce nell’agosto 1945.

Occupazione giapponese

Dal 4 gennaio 1942 i giapponesi occupano la Nuova Britannia cacciando gli australiani. Il 25 gennaio arrivano a Rakunai dopo aver bombardato la chiesa in cui sospettano siano nascosti dei soldati nemici.

In un primo momento i giapponesi permettono a padre Laufer, il parroco, di rimanere, ma poi, in ottobre, tutti i missionari sono internati, dapprima in un campo di concentramento a Vunapope, porto e capitale della zona, e più tardi a Ramale.

Così la cura dei cristiani ricade totalmente sui catechisti. To Rot, pur cosciente della gravità della situazione e dei rischi che corre, si prende la responsabilità di essere vicino ai cristiani e sostenerne la fede. Continua a guidare la preghiera domenicale, a battezzare i bambini, a formare le giovani coppie e benedire il loro matrimonio, ad aiutare i più poveri, a visitare gli ammalati e a seppellire i morti. Il tutto registrato accuratamente nei libri della parrocchia. Oltre a questo, visita regolarmente anche i missionari imprigionati e porta loro cibo e vestiario, che però spesso viene confiscato dalla polizia giapponese. Andando a Vunapope, a cinque, sei ore di cammino, coglie anche l’occasione per prendere nella chiesa centrale delle ostie consacrate per distribuire la comunione.

Controllati dalla polizia

Le cose cambiano nel marzo 1943. I giapponesi sentono il peso degli attacchi degli alleati e la Nuova Britannia passa dall’amministrazione civile a quella militare. Una delle conseguenze è che gli occupanti controllano di più i catechisti e ne riducono le attività. To Rot è convocato dalla polizia che gli proibisce di fare incontri con grandi gruppi di cristiani. Nello stesso tempo distruggono completamente la chiesa, con la scusa che è un edificio grande e quindi troppo visibile ai bombardieri alleati.

To Rot ottiene di poter costruire una cappella più piccola e più mimetizzata. Tutta la comunità lo aiuta. È la chiesetta di Palnalama, di rami di palma.

Nuove restrizioni

Nel marzo 1944 la situazione peggiora ancora. I giapponesi stanno perdendo la guerra e controllano solo la penisola Gazelle che è spesso bombardata dagli alleati e tagliata fuori da rifornimenti via mare.

La polizia convoca i catechisti cattolici e i pastori metodisti e comunica loro che tutte le attività religiose sono proibite. To Rot protesta, ma l’ufficiale giapponese, Meshida, lo zittisce brutalmente.

Tornato a casa non si arrende. «Vogliono toglierci la preghiera, ma io continuerò con il mio lavoro». Ormai è solo. I missionari sono nel campo di concentramento, i suoi compagni catechisti sono troppo spaventati e gli ordini dei giapponesi impediscono ogni attività pastorale. Non solo: gli occupanti requisiscono ogni simbolo religioso (libri, crocefissi, immagini) e confiscano e bruciano tutti i registri parrocchiali.

Prudenza e perseveranza

Così esce di notte a incontrare i cristiani radunati in piccoli gruppi in luoghi segreti, prega con loro, li istruisce, battezza i bambini e benedice matrimoni. Ha una cura particolare per gli ammalati e i moribondi. Per essi riesce perfino ad andare fino a Vunapope per riportare loro l’Eucarestia. Non abbandona i suoi amici catechisti, incoraggiandoli, istruendoli personalmente o inviando loro lettere con consigli e istruzioni. Ai suoi cristiani raccomanda la prudenza e li invita alla perseveranza nella preghiera senza mostrarsi in pubblico. È ben cosciente che rischia la prigione e la sua stessa vita.

Viva la poligamia

A giugno 1944 la situazione peggiora ancora. I giapponesi sono alle strette e cercano il sostegno della popolazione locale. Per questo offrono ricompense ai capi locali e, per ingraziarseli, decidono di ripristinare un’antica tradizione culturale dei Tolai: la poligamia, proibita dal cristianesimo e messa fuori legge dai governi precedenti. Non solo la legalizzano, ma puniscono chiunque obietti contro questa decisione.

La proposta è accolta con favore da diversi capi e perfino da uno dei fratelli di To Rot, Tatamai. To Rot non accetta la decisione. Continua così il suo servizio e la sua testimonianza che ha grande influenza sulla sua gente. Questo lo mette in contrasto diretto con i giapponesi, soprattutto con il capo della polizia, Meshida, e un poliziotto locale al loro servizio. Questi vuole prendere come seconda moglie una donna cristiana già sposata. To Rot interviene aiutando la donna davanti al capo villaggio, e questa riesce a tornare da suo marito.
Il poliziotto, To Metapa, diventa furioso con To Rot e cerca ogni opportunità per bloccarlo.

L’arresto

Nel maggio 1945, una sera è di pattuglia e ferma una giovane coppia. I due, interrogati su cosa facciano in giro a quell’ora, impauriti, raccontano che stanno tornando dalla fattoria di famiglia di To Rot, dove quest’ultimo ha appena celebrato alcuni matrimoni, tra cui il loro. To Metapa ha in mano la scusa che cercava e fa arrestare Peter To Rot e i suoi due fratelli la mattina dopo. Perquisiscono da capo a fondo la fattoria dove i tre fratelli vivono, e distruggono tutto il materiale religioso di Peter: Bibbia, crocefisso, catechismo, libri di canti, registri di battesimo e di matrimonio. Picchiano lui e i suoi fratelli. Questi sono condannati a un mese di prigione, e lui a due mesi. La sua chiara opposizione alla poligamia aggrava la situazione.

Viene portato al campo di prigionia di Vunaiara, una struttura molto spartana con capanne di pali circondate da fossati e una galleria scavata nel lato della collina. Viene chiuso in una piccola stanza sotterranea. Nel campo sono prigionieri anche i suoi fratelli, e per un certo tempo può frequentarli. Lui è trattato con più durezza di tutti. Mentre gli altri durante il giorno possono uscire a lavorare nei giardini dei vicini, lui è tenuto in isolamento o mandato a lavorare nella cucina del campo. Spesso di notte è chiuso in una cella sotterranea senza finestre. Può ricevere visite dalla vecchia madre, dalla sorella e dalla moglie con i figli. Lui li incoraggia. «Non piangete. Pregate. Sono qui per una buona causa. Ne sono felice, perché sono qui in ragione della mia fede». Ed è perseverante nella sua preghiera quotidiana.

I suoi fratelli sono rilasciati dopo un mese ma lui, finiti i suoi due, continua a essere internato senza una ragione specifica. L’odio di Meshida e To Metapa blocca ogni via alla libertà.

Gli ultimi giorni

Peter To Rot è ben cosciente che sarà ucciso, ma non ha paura. Due giorni prima di morire, sua moglie incinta va a trovarlo con i due bambini. Gli porta il crocefisso che lui le ha chiesto e aveva lasciato nascosto. Lei gli chiede di smettere di fare il catechista e di ritirarsi a una vita più tranquilla. «Non preoccuparti. È mio dovere morire per Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e per la mia gente», è la sua risposta. Lei insiste, e lui: «Non impedirmi di fare il mio lavoro. È il lavoro di Dio».

A sua madre venuta a visitarlo (probabilmente il 6 luglio) dice: «La polizia mi ha detto che stanno aspettando un medico giapponese che deve venire a darmi delle medicine. Penso che sia una bugia, perché non sono malato. Non so cosa questo significhi». Poi le chiede di pregare per lui e salutandola, in modo molto sereno, le dice: «Questa notte mi metteranno di nuovo nella buca».

Francobollo che rappresenta il momento dell’esecuzione di To Rot

Quella notte vengono due medici giapponesi e tutti i prigionieri, accompagnati dalla polizia indigena, sono mandati fuori, in una fattoria vicina, a giocare e divertirsi in occasione della luna piena, anche se piove. Tutti, tranne To Rot e un ragazzo di 15 anni più giovane di lui. Non ci sono testimoni in giro.

Il capo dei guardiani manda il ragazzo a chiamare To Rot e poi lo caccia via. Si nasconde sul fianco della collina poco distante e vede che un dottore fa un’iniezione a Peter e poi gli dà da bere. Lo fa poi sdraiare e gli riempie il naso e le orecchie di cotone. Peter vuole vomitare. Il medico gli copre la bocca, lo tiene giù e gli dà un colpo sulla gola con un bastone. Dopo un po’ To Rot si irrigidisce e muore. Il ragazzo corre a raccontare quello che ha visto agli altri. Tutti i prigionieri, quando tornano alla prigione vedono il corpo di To Rot, ma, impauriti, si ritirano in silenzio.

Il giorno dopo (7 luglio), dopo il solito appello mattutino, tutti vanno al lavoro. Quando arrivano alcuni collaboratori dei giapponesi, questi vedono il corpo di To Rot e danno l’allarme. Le guardie fingono di essere sorprese. Mishida copre il corpo con un telo e dice a tutti: «Il “ragazzo della missione” era molto malato ed è morto. Dite al capo Tata di Rakunai e ai suoi parenti di venirlo a prendere e portarlo via».

Il capo Tata arriva rapidamente e trova il corpo di To Rot ancora caldo. Naso e bocca sono pieni di cotone, una schiuma puzzolente esce dagli angoli della bocca, c’è un rigonfiamento sul collo, prova di una botta ricevuta, due tagli sanguinolenti nel retro della testa e il segno rosso di una puntura alla vena del braccio sinistro: è chiaro per tutti che To Rot è stato ucciso «per quello che conosceva e per la sua religione». Nessuno crede alla storia della malattia. Bisbigliano tra loro, ma la paura della polizia militare è troppo forte.

Portano il corpo di To Rot a casa dalla sua famiglia. La moglie, Paula, incinta del terzo figlio, scoppia in pianto. Viene preparata la bara. La gente accorre a vederlo. Il funerale è celebrato senza solennità e in silenzio per paura che la polizia faccia altri arresti. Lo seppelliscono nel cimitero della famiglia di sua madre, secondo le loro tradizioni.

Il cardinal Parolin con il quadro del beato il 31 marzo 2025, giorno dell’annuncio della canonizzazione di To Rot (Vatican Media)

Martire

Per riconoscere un vero martire, sono necessarie tre condizioni: che sia ucciso; che la persona sia ben cosciente di rischiare la vita rimanendo fedele alla sua fede; che questo avvenga in odio alla fede.

Nel caso di Peter To Rot questo è  chiaro fin da subito, così papa Giovanni Paolo II lo dichiara martire e beato il 17 gennaio 1995 senza bisogno di miracoli approvati. Lo stesso fa papa Francesco che, il 31 marzo 2025, tre settimane prima della sua scomparsa, ne ha autorizzato la canonizzazione. La data effettiva  sarà decisa da papa Leone XIV. Sarà il primo santo nativo della Papua Nuova Guinea.

Aggiornamento: Peter ToRot, il primo Santo della Papua Nuova Guinea, sarà canonizzato il 19 ottobre 2025, domenica in cui si celebrerà la 99ma Giornata Missionaria Mondiale. Lo ha deciso oggi (13 giugno 2025) Papa Leone XIV, durante la celebrazione del suo primo Concistoro Ordinario Pubblico.
Da Agenzia Fides

Gigi Anataloni

Testo liberamente tradotto e sintetizzato dal libro di padre Thomas Ravaioli, Blessed Peter To Rot, pubblicato dalla Catholic bishop conference of Papua New Guinea and Solomon Islands, 2020.

17 gennaio 1995, papa Giovanni Paolo II con il quadro del nuovo beato il giorno della beatificazione (Vatican Media)



I dazi dell’impero

Un tempo dominava la globalizzazione. Oggi sono tornati di moda nazionalismo e protezionismo. Cerchiamo di comprendere come l’economia mondiale è arrivata a questo punto e cosa può riservarci il futuro.

Qualcuno ha spiegato le scelte protezionistiche di Donald Trump come una strategia finalizzata ad aumentare gli introiti governativi senza aumentare le tasse ai più ricchi. In effetti, i dazi sono forme mascherate di tasse indirette che gravano su tutti i consumatori alla stregua dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto.

Tasse trasversali che non distinguono fra chi ha e chi non ha e, proprio per questo, maggiormente pagate dai poveri, perché questi ultimi consumano tutto ciò che guadagnano, i ricchi solo una parte.

A convalidare la tesi dei dazi accresciuti per fare cassa alle spalle dei poveri c’è anche la scelta di spazzare via l’Usaid, l’Agenzia statunitense di cooperazione internazionale, e di ritirarsi dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di cui gli Stati Uniti erano il primo finanziatore. Tuttavia, per quanto il risultato fiscale a costo zero per i più ricchi sia uno dei piccioni che Trump intende prendere, esso non può essere considerato il motivo principale, anche perché la strategia non è priva di rischi. Molti analisti, infatti, hanno fatto notare che l’aumento di prezzo dei beni importati è destinato a provocare inevitabilmente inflazione, ossia aumento generalizzato dei prezzi, soprattutto se a essere colpiti sono beni di consumo di massa o semilavorati che entrano nella filiera produttiva di molti prodotti. Una prospettiva, quella dell’inflazione, che i governanti vivono con apprensione perché è motivo di malcontento per tutta la popolazione. Anche Trump teme l’inflazione ma, se ha deciso di correre il rischio, è per qualche ragione di ordine superiore.

Il disegno di Trump

Ritratto di Donald Trump, il presidente Usa, che ha scatenato la «guerra dei dazi». Foto Library of Congress – Unsplash.

Nel suo primo discorso da nuovo Presidente, tenuto il 4 marzo davanti al Congresso americano, Trump ha affermato: «Ci sono paesi che da decenni usano i dazi contro di noi. Ora tocca a noi usarli contro di loro. Mediamente, l’Unione europea, la Cina, il Brasile, l’India, il Messico, il Canada e innumerevoli altre nazioni applicano nei nostri confronti tariffe molto più alte di quelle che noi applichiamo a loro. I dazi cinesi sono il doppio dei nostri e quelli della Corea del Sud addirittura il quadruplo, nonostante l’aiuto militare che le abbiamo fornito».

È difficile dire se le affermazioni di Trump rispondano al vero, ma poco importa. Ciò che conta sono le conclusioni a cui giunge: «L’aumento dei dazi ci farà incassare migliaia di miliardi di dollari e creerà un gran numero di posti di lavoro».

Ecco svelato il vero obiettivo di Trump: creare così tanti ostacoli all’ingresso di merci negli Stati Uniti, da spingere chi vuole entrare nel loro mercato a trasferirvi la produzione.

In altre parole, il vero obiettivo è il richiamo delle attività produttive come strategia per rafforzare l’economia statunitense e ottenere, a cascata, altri risultati. Non solo cioè la crescita dell’occupazione, ma anche delle entrate fiscali per avere di che pagare l’enorme debito pubblico accumulato dal Paese. E già si vedono dei segnali di successo di questa strategia.

Valga, come esempio, l’annuncio della multinazionale taiwanese Tsmc di volere investire almeno cento miliardi di dollari negli Stati Uniti per produrre semiconduttori, o le intenzioni di investimento oltre oceano espresse da colossi europei come Stellantis, Bmw, Volkswagen, Pirelli.

Vincitori e perdenti della globalizzazione

Protezionismo e richiamo della produzione in patria sono tutto il contrario della globalizzazione, il progetto perseguito da alcuni decenni che ha per obiettivo la costruzione di un mercato mondiale con piena libertà di movimento per merci e produzioni. Un progetto sostenuto da tutti i centri di potere, ed è sbalorditivo che, a voltargli le spalle, sia proprio un uomo come Trump che appartiene al mondo degli affari. Ma Trump è anche un nazionalista e questo cambia tutto.

Il punto è che tutte le politiche creano vincitori e perdenti. I vincitori della globalizzazione sono sempre state le imprese più votate alle vendite che alla produzione. O meglio, imprese che trattano merci dalla produzione flessibile, spezzettabile, collocabile un pezzo qua, un pezzo là, dove conviene di più. Se commercializzi vestiario o computer, la globalizzazione è perfetta, perché puoi usare il mondo intero non solo come mercato, ma anche come villaggio produttivo: ogni fase viene svolta nel Paese dove produrre costa meno, spesso senza dover neanche possedere gli stabilimenti produttivi perché puoi sempre rivolgerti a dei terzisti. Tuttavia, se produci e vendi acciaio è tutta un’altra storia perché l’impiantistica costringe a produzioni centralizzate. Tant’è che l’industria pesante – sia quella europea, che statunitense – non ha mai salutato la globalizzazione con grande favore. Al contrario, l’ha vissuta come una minaccia per l’intensificarsi della concorrenza dovuta all’arrivo di prodotti provenienti da Paesi come la Cina o l’India che riescono a produrre acciaio e alluminio a prezzi molto più bassi.

Una sensazione di minaccia vissuta anche da altri settori, ad esempio dalle imprese agricole, le quali, essendo legate alla terra, sono per definizione stanziali e, quindi, esposte alla concorrenza dei prodotti provenienti da Paesi con costi più bassi e regole ambientali più blande.

Containers di merci. Foto Yoav Aziz – Unsplash.

Grandi e piccoli

In ogni caso, il fronte degli imprenditori pro o contro la globalizzazione non è determinato solo dall’attività economica, ma anche dalla dimensione d’impresa. In linea di massima, i grandi operatori sono a favore, i piccoli contro.

In Occidente, molte piccole imprese sono nate come terzisti al servizio dei grandi complessi industriali dell’automobile, dell’abbigliamento, della meccanica, della chimica, delle concerie, del mobile, e quando si sono accorti che i loro committenti preferivano passare le commesse a terzisti asiatici piuttosto che a loro, ci sono rimasti parecchio male.

Alla fine, dovevano scegliere se chiudere o trasferirsi loro stessi all’estero, dove produrre costa meno. Questa, ad esempio, è stata la scelta fatta da molti padroncini del Nordest italiano che hanno preferito spostarsi in Serbia, Albania o addirittura in India, piuttosto che chiudere. Altri, invece, sono rimasti a casa loro e, in nome del nazionalismo, hanno chiesto alle forze politiche di proteggerli dai processi di internazionalizzazione a partire da quello europeo. Istanza recepita soprattutto dalla Lega che, non a caso, è il partito più antieuropeista.

Fra grandi e piccoli, anche negli Stati Uniti gli scontenti della globalizzazione sono tanti e Trump li rappresenta tutti con politiche che puntano a proteggere la produzione interna anche a costo di contravvenire alle regole classiche del libero mercato. Del resto, da un po’ di anni, la destra si contraddistingue ovunque per la sua capacità di trasgredire l’ortodossia di mercato, mentre la sinistra si presenta come il suo più strenuo difensore, facendo rimanere in campo due sole parti politiche: quella dei reazionari e quella dei conservatori.

I Paesi verso i quali Trump ha annunciato punizioni doganali sono essenzialmente cinque: Messico, Canada, Unione europea, Vietnam e Cina. Collettivamente sono accusati di essere i principali «invasori» del mercato americano, ma singolarmente ognuno di loro è perseguito anche per colpe particolari. L’Unione europea, ad esempio, è accusata di accanimento verso le imprese americane che operano sul suo territorio. Come esempio sono citate le multe milionarie applicate nei loro confronti per avere violato le regole europee in ambito fiscale e commerciale. Già nell’agosto 2024, la US Chamber of commerce, la più grande organizzazione imprenditoriale del mondo, aveva inviato una lettera aperta alla Commissione europea per protestare contro le multe a dodici zeri inflitte a Apple, Amazon, Google, Meta, Microsoft e altre imprese americane. Così, per mostrare riconoscenza a Trump che aveva annunciato battaglia all’Ue, nel novembre 2024 sia Bezos che Zuckerberg – l’uno patron di Amazon, l’altro di Meta – si sono affrettati a versare un milione di dollari ciascuno per sostenere le spese di festeggiamento in occasione dell’insediamento del nuovo Presidente.

La questione cinese

Più complessa appare la partita con la Cina, contro la quale, già durante il precedente mandato, Trump aveva ingaggiato un duro braccio di ferro. Fra tutti, la Cina è l’avversario più temuto, non solo per la sua capacità di competere all’interno del mercato americano, ma anche per lo spazio commerciale che ha conquistato a livello mondiale. Spazio che, se è occupato da Pechino, non può essere utilizzato dalle imprese statunitensi.

Va ricordato che l’aspirazione di ogni impresa capitalista è di impedire ai prodotti altrui di entrare in casa propria, ma di poter collocare i propri nei mercati degli altri. Per le imprese capitaliste l’allargamento dei mercati è una questione strategica ed esse hanno due possibilità per vincere la partita.

La prima, quella politically correct, è data dalla concorrenza, giocata sul piano dell’innovazione tecnologica e dell’abbattimento dei costi: la prima serve per sedurre i consumatori con nuovi prodotti, il secondo per sedurli sul piano dei prezzi. Tuttavia, la via della concorrenza non sempre è di facile percorribilità. Allora il capitalismo è tentato di passare alle maniere forti, al tentativo cioè di sopraffare i concorrenti con sanzioni economiche, con sbarramento delle vie commerciali, con intimidazioni militari.

Per questo tutte le grandi potenze economiche hanno sempre cercato di assicurarsi una forza militare capace di mettere paura agli avversari. Anche perché lo sbocco di mercato non è la sola sfida posta alle imprese capitaliste.

La sfida per i minerali

Altrettanto importante, e forse ancora più determinante, è la possibilità di disporre delle materie prime utili a produrre ciò che si intende vendere. E se, ai fini della conquista dei mercati, la forza militare è sempre stata usata in maniera velata, al contrario per il controllo delle materie prime è sempre stata usata in maniera manifesta. L’avventura coloniale ne è una dimostrazione (e oggi c’è il timore che quest’era possa riaprirsi, ammesso che si sia mai conclusa). Per la conquista delle ricchezze del sottosuolo tutt’oggi si combatte in Rd Congo e, in una certa misura, anche a Gaza e in Ucraina.

Non è un caso che, come prezzo per la pace, gli Stati Uniti abbiano imposto a Kiev la cessione dei suoi siti minerari.

In futuro, la guerra per le materie prime potrebbe coinvolgere perfino il Circolo polare artico. Lo ha paventato Trump a più riprese, sostenendo di non escludere l’uso della forza militare per annettere la Groenlandia, la più grande isola non continentale che, nel proprio sottosuolo, custodisce grandi quantità di risorse naturali.

Non solo petrolio e gas, ma anche numerosi minerali di importanza strategica per l’era che si sta delineando, dominata dall’informatica, dalle telecomunicazioni, dall’aerospaziale, dalle energie rinnovabili, dalla mobilità elettrica. Il problema è che i minerali utili allo sviluppo delle tecnologie moderne sono scarsi. Così, come succede ogni volta che si sente ostacolato dalla scarsità, il capitalismo ripiega verso l’imperialismo, la conquista dell’egemonia economica manu militari.

Trasporto merci ad opera di una nota compagnia. Foto Galen Crout – Unsplash.

Dal welfare al warfare

Ai nostri giorni, la chiamata alle armi risuona ovunque. Perfino l’Unione europea sta virando dal «welfare» al «warfare», ossia dalla spesa sociale alle spese di guerra (si veda articolo a pagina 19).

Pur di permettere agli Stati membri di accrescere il proprio arsenale militare, nel marzo 2025 la Commissione europea ha accettato di contravvenire al principio di basso deficit, autorizzando nuovo debito per 800 miliardi di euro. Una scelta che i nostri figli pagheranno a caro prezzo in termini di riduzione di diritti sociali, di mancata tutela ambientale, di perdita di beni comuni.

Nel suo libro «Le monde confisqué», lo storico ed economista francese Arnaud Orain definisce il capitalismo nella morsa della scarsità con l’appellativo di «capitalismo della finitudine» (sostitutivo del «capitalismo concorrenziale»), riconoscibile per tre caratteristiche: controllo militare delle vie marittime; uso della forza in sostituzione di regole condivise; affermazione di monopoli in settori chiave dell’economia mondiale.

Tutti aspetti già ampiamente presenti, come testimonia la corsa al controllo del Mar Rosso, del canale di Panama, dell’Oceano Artico. O il crescere di colossi mondiali in settori chiave come quello dei trasporti, delle vie informatiche, delle attività satellitari, del commercio online. O l’uso dei dazi come strumento di guerra economica in aperta violazione delle regole scolpite nei trattati interni all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Un’organizzazione questa che, fin dalla sua nascita (era il 1995), ha imposto un’ordine economico e commerciale foriero di sconquassi sociali.

Guerre commerciali

Nel burrascoso incontro dello scorso 28 febbraio alla Casa Bianca, Trump ha accusato Zelensky di scherzare con la terza guerra mondiale, senza rendersi conto che il primo a scherzare con il fuoco è proprio lui comportandosi da prepotente. Perché le guerre commerciali si sa dove cominciano, mai dove finiscono. Tanto più che Trump è del tutto imprevedibile cambiando idea ogni minuto, non si sa se per calcolo strategico o per instabilità caratteriale.

Fatto sta che, dopo avere ordinato dazi a doppie cifre per decine di paesi, il 9 aprile si è velocemente corretto decretando la loro sospensione per 90 giorni. Formalmente, dice di averlo fatto per permettere l’avvio di trattative con ognuno di loro, nei fatti doveva calmare il nervosismo dei mercati che stava facendo crollare le borse di tutto il mondo. Il solo Paese escluso dal beneficio è stato la Cina, l’altro grande colosso mondiale, sui cui prodotti gli Stati Uniti applicano un dazio complessivo del 145%, nel momento in cui scriviamo. Una misura a cui la Cina ha risposto con controdazi del 125%, mettendo in apprensione il mondo intero, perché il passo dalla guerra commerciale a quella militare è breve.

A questo punto, la domanda da porci è: come possiamo uscire da questo gioco al massacro, sapendo che il capitalismo è intrinsecamente violento per la sua tendenza alla sopraffazione.

Progettare un altro sistema

La mia convinzione è che dovremmo agire in due direzioni. Da una parte, dovremmo cercare di abbassare il livello di aggressività sostituendo le politiche di riarmo con il multilate- ralismo. Ossia rafforzando le sedi internazionali deputate a dirimere i conflitti e a dare al mondo regole di convivenza economica basate sulla cooperazione, la solidarietà, il rispetto dei diritti umani, la salvaguardia del creato.

Dall’altra, dovremmo riconoscere che, vivendo su un pianeta dalle risorse finite, c’è l’obbligo di porre un limite alla nostra voracità. Un vecchio proverbio indiano dice che «quando il cavallo è morto, la cosa più intelligente da fare è scendere», per cui dovremmo metterci al lavoro per progettare un altro sistema economico, non più orientato alla crescita sotto il dominio del mercato, ma finalizzato al benvivere di tutti nel rispetto dell’equità e del creato. Progetto possibile purché si sappia ripensare il lavoro, ridimensionare il mercato e rafforzare l’economia della solidarietà collettiva.

Francesco Gesualdi




Turchia. Minoranze e dialogo

Le minoranze afflitte da discriminazioni giuridiche. Le difficoltà post terremoto. I luoghi delle prime comunità cristiane, ormai quasi privi di cristiani. I pellegrinaggi come occasioni di incontro e dialogo tra fedi. La Turchia, sempre più islamista, di Erdogan.

«L’ecumenismo e il dialogo interreligioso, […] vengono vissuti da noi nella nostra quotidianità», ha detto monsignor Antuan Ilgit nel novembre scorso ai media vaticani. Il gesuita, amministratore apostolico di Anatolia, primo vescovo cattolico di nazionalità turca, da poco nominato da papa Francesco a succedere al confratello monsignor Paolo Bizzeti, fotografa così i rapporti tra le fedi in Turchia. Il dialogo tra le confessioni all’interno della minoranza cristiana, e con le altre fedi, a partire dall’islam sunnita, è parte della vita quotidiana in questo Paese centrale nello scacchiere geopolitico globale.

In Turchia, la libertà religiosa sulla carta è garantita, e, come constatiamo in prima persona, gli stranieri che vi arrivano sono accolti con favore. Ma, nella quotidianità dei cittadini, i problemi sono enormi. A partire dalla difficoltà di costruire nuove chiese o aprire seminari.

«La discriminazione sistematica delle minoranze religiose in Turchia è per lo più di tipo giuridico, non cruento, ma il risultato, a lungo termine, sembra essere ugualmente grave», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) nel suo ultimo rapporto sulla libertà religiosa nel mondo.

La popolazione turca, di circa 85 milioni di persone, conta una maggioranza assoluta di musulmani sunniti. Per il governo, questi rappresentano il 99%, benché circa 10-25 milioni di essi (secondo l’Uscirf, United states commission on international religious freedom) siano in realtà aleviti, il cui credo, di derivazione sciita, non è riconosciuto, ed è anzi osteggiato nel Paese. Il resto della popolazione, meno dell’1%, è costituita da cristiani ortodossi greci e siriaci, cristiani cattolici romani e caldei, cristiani armeni apostolici e protestanti, baha’i, ebrei, yazidi, testimoni di Geova e altri. Anche l’Uscirf spiega che «le condizioni della libertà religiosa in Turchia sono preoccupanti, con il perpetuarsi di politiche governative restrittive e intrusive sulla pratica religiosa e un netto aumento degli episodi di vandalismo e violenza sociale contro le minoranze. Il governo continua, inoltre, a interferire indebitamente negli affari interni delle comunità religiose».

Nicea, luogo (presunto) del concilio del 325 (foto Vicariato di Roma)

Nicea 325

A fine maggio, si celebrano nel Paese i 1.700 anni del Concilio di Nicea. Un’occasione per rafforzare il dialogo ecumenico tra le confessioni cristiane, e anche quello tra le diverse fedi.

«Le autorità della Turchia – riferisce il vescovo di Istanbul, monsignor Massimiliano Palinuro – ci hanno mostrato i loro progetti per Nicea. La zona, da questo 2025, sarà attrezzata per accogliere i pellegrini e rendere fruibile il sito archeologico del luogo nel quale si celebrò il primo Concilio ecumenico».

È chiaro che, al di là degli interessi storici o culturali, quello principale per la Turchia riguarda il turismo religioso. Quest’ultimo, infatti, dopo il 7 ottobre 2023, a causa della guerra tra Israele e Hamas a Gaza che ha reso più difficili i viaggi nella terra di Gesù, si è spostato verso l’Anatolia, la terra dove, per la prima volta, i membri della Chiesa furono chiamati cristiani.

Allo stesso tempo è vero che, come ci dice padre Alessandro Amprino, cancelliere dell’arcidiocesi di Smirne, «la Chiesa ha la possibilità di crescere nel dialogo con chi non è cristiano».

Il dialogo è sempre stato al centro della pastorale di monsignor Antuan Ilgit: «In questa terra, già da secoli – ha detto al momento della sua ordinazione episcopale nel 2023 -, si sperimenta il dialogo e il cammino tra le differenti realtà cristiane nella quotidianità, condividendo le stesse sorti, gioie e dolori. E lo stesso vale per il dialogo interreligioso con l’islam».

Suor Rebecca Nazzaro (foto Vicariato di Roma)

Pellegrinaggi e incontro

Un volano di incontro e dialogo sono i pellegrinaggi in crescita, soprattutto quelli cattolici.

L’Opera romana pellegrinaggi (Orp), per esempio, propone viaggi nella terra dei Concili e, in particolare, a Nicea.

Suor Rebecca Nazzaro, responsabile dell’Orp, sottolinea come Nicea sia «il luogo che papa Francesco ha indicato come importantissimo da ricordare. Quest’anno sono 1.700 anni dal Concilio nel quale è stata proclamata la divinità di Cristo Gesù nell’unità della Chiesa. […] è il fondamento del Credo che recitiamo tutte le domeniche a messa». Ma i pellegrinaggi interessano molte zone della Turchia. Il Paese è, infatti, ricchissimo di tracce delle prime comunità cristiane che qui si sono sviluppate grazie a san Paolo, san Nicola, san Pietro e san Giovanni.

La Madonna di Efeso, venerata dai musulmani

Efeso. Foto di Diego Allen su Unsplash

Visitiamo a Efeso, nella provincia occidentale di Smirne, un santuario cristiano, frequentato soprattutto dai musulmani: è quello di Meryem Ana, la Casa di Maria, il luogo nel quale tradizionalmente la Madonna visse dopo la morte di Gesù, insieme all’apostolo Giovanni.

Efeso è, dunque, un ponte tra islam e cristianesimo. Lo è Meryem Ana, ma anche il grande parco archeologico dove si trovano i resti della prima basilica dedicata alla Madonna, come anche l’anfiteatro nel quale predicava san Paolo agli efesini.

Oggi, nella terra dove si sono sviluppate le prime comunità di seguaci di Cristo, i cristiani sono pochissimi, non possono celebrare ovunque e, soprattutto, non possono svolgere una vera e propria opera missionaria.

Tuttavia, si vedono germogliare, anche grazie ai pellegrinaggi e al turismo religioso, semi di dialogo e rispetto reciproco.

A raccontarci la devozione delle famiglie islamiche per la Madonna di Efeso sono Caterina e Antonietta, laiche consacrate della famiglia delle Discepole di Maria e dell’apostolo Giovanni.

Entrambe hanno lasciato l’Italia, rispettivamente Salerno e Avellino, dieci anni fa per la Turchia, e da nove vivono a Efeso.

«Per i musulmani, questo posto è un “ibadet yeri”, un luogo sacro, benedetto. Infatti, nel Corano c’è una Sura – ricorda Antonietta – che dice che Maria è la donna più santa tra tutte le donne. E molti musulmani si affidano a lei per avere un bambino. Ci è capitato di incontrare alcune donne musulmane, venute qui per ringraziare la Madonna dopo aver chiesto la grazia di un figlio».

«La Casa della Madonna è un po’ come un ponte tra il cristianesimo e l’islam. Qui pregano sia cristiani che musulmani, e questo è un segno che nella casa di Maria c’è qualcosa di particolare», ci confidano le consacrate.

Antiochia, i segni del sisma

Antiochia, il cartello che indica la chiesa cattolica (© Manuela Tulli)

Il cartello stradale con l’indicazione «katolik kilisesi», Chiesa cattolica, porta in un vicolo stretto e anonimo di Hatay, l’antica Antiochia, all’estremo Sud del Paese. L’ingresso dell’edificio è sobrio come quello delle tante case basse del borgo.

Da qui, Aleppo, in Siria, dista un centinaio di chilometri. Istanbul, invece, 1.100.

Nel convento dei cappuccini vivono dieci frati, sia italiani che di altri Paesi.

Uno dei saloni della casa è stato sistemato con icone e altare per poter celebrare la messa. Questa casa chiesa, intitolata ai santi Pietro e Paolo, è l’unico luogo di culto cattolico in città.

Ad Antiochia, dove i discepoli di Cristo furono per la prima volta chiamati «cristiani», e dove vissero san Pietro e san Paolo, oggi i cattolici sono un centinaio, mentre complessivamente i cristiani sono poco più di un migliaio. Ci sono una decina gli ebrei, mentre, per il resto, la città di 1,2 milioni di abitanti è musulmana.

Oggi, a distanza di due anni dal terribile sisma che colpì l’area, Antiochia resta in gran parte un cumulo di macerie. Sulle rive dell’Oronte sono al lavoro gru per ricostruire la città, ma gran parte della popolazione vive ancora nei centri di accoglienza temporanei o nei villaggi vicini, ospiti di parenti e amici.

Quel 6 febbraio del 2023, quando la Turchia, insieme alla vicina Siria, fu colpita da uno dei terremoti più violenti della storia, la casa dei cappuccini rimase in piedi. Con molti danni, ma niente al confronto con la distruzione attorno.

In questo convento, ha vissuto in missione per quasi 35 anni padre Domenico Bertogli, che da qualche tempo si è trasferito a Istanbul: «Ad Antiochia c’è sempre stato dialogo e rispetto», ci ha detto il frate, oggi quasi novantenne, da 58 anni missionario in Turchia. Lui ad Antiochia ha celebrato «ventisei battesimi» in famiglie non cristiane. «La convivenza c’è sempre stata, è importante però che il dialogo parta dalla propria identità. Io dico sempre: questa è la mia fede. Ma senza proporre e imporre nulla».

Padre Bertogli conserva ancora oggi un Corano regalatogli da una donna musulmana.

Il terremoto del febbraio 2023 ha ridotto in polvere anche un’antichissima moschea di Hatay che, per la sua storia, rappresentava un simbolo di questo proficuo dialogo tra le fedi. Risaliva al VII secolo, ed era dedicata, forse unico caso al mondo, a un «santo» cristiano, Habib-i Nejjar, che, secondo la tradizione, fu punito e martirizzato perché cercò di proteggere e nascondere san Paolo e san Barnaba arrivati in città.

L’imam della moschea, che avevamo incontrato a novembre del 2022, tre mesi prima del terremoto, spiegava che Habib-i Nejjar era venerato dai musulmani proprio per il gesto di generosità nei confronti dei cristiani.

Anche a Iskenderun, a circa 50 km a Nord di Antiochia, restano le ferite del terremoto. «Non se ne parla più – dice monsignor Antuan Ilgit ai media vaticani -, ma la situazione rimane tuttora grave con una precarietà evidente anche qui, dove c’è la sede del nostro vicariato. Il governo turco sta cercando di fare la sua parte: il terremoto ha colpito una zona geograficamente enorme.

Noi abbiamo ancora la nostra cattedrale da ricostruire, e siamo costantemente in contatto con le autorità locali e centrali cercando di superare alcune difficoltà burocratiche».

Antiochia, il convento dei Cappuccini dopo il terremoto del 3 febbraio 2023 (foto Cappuccini Antiochia)

Tarso, città museo

Pozzo di San Paolo a Tarso

Conta i danni del terremoto anche Tarso, la città natale di san Paolo. La chiesa a lui dedicata è oggi un complesso monumentale usato per concerti ed eventi culturali, e per visitarla si paga un biglietto di ingresso.

Non è possibile celebrarvi la messa: i pellegrini cattolici, fino a qualche anno fa, potevano farlo nel convento delle suore della Congregazione delle figlie della Chiesa che avevano adibito una stanza della loro abitazione per il culto. Erano in tre fino al gennaio 2021, quando il Covid si è portato via una di loro, suor Maria Concetta Mustacciu.

Al momento a Tarso non c’è più neanche quella presenza.

«Dire cosa “facciamo” a Tarso – raccontavano le religiose sul portale della loro Congregazione -, città completamente islamica, non è cosa facile. Accogliamo i pellegrini che passano sulle orme di Paolo. Nessun altro tipo di attività è possibile qui, ma noi siamo convinte che la nostra missione non è quella di fare; è semplicemente una missione di presenza: esserci e basta».

Anche il pozzo di san Paolo, all’ingresso della città, è più un’attrazione turistica che un luogo di devozione. Un tempo, quando Tarso era a maggioranza cristiana, si credeva che quell’acqua potesse guarire.

La difficoltà di «vivere», e non solo visitare, i luoghi santi della cristianità resta un vulnus nei pellegrinaggi che spesso fanno riferimento solo alle pietre del passato più che alle «pietre vive» dell’oggi. Il contrario di quello che accade, per esempio, in Palestina, dove i cristiani sono pochi, ma la memoria dei luoghi è vissuta anche grazie alla possibilità di pregare e partecipare alle celebrazioni.

Padre Domenico Bertogli (© Manuela Tulli)

Nonostante le difficoltà, comunque, il dialogo resta un obiettivo forte. È in questa ottica che la comunità francescana in Turchia ha organizzato per il prossimo autunno, dal 12 al 25 ottobre 2025, un incontro di formazione per il dialogo interreligioso ed ecumenico che si terrà presso il Convento di Santa Maria Draperis, a Istanbul.

«Questo programma – spiega fra Eleuthere Makuta – è stato iniziato dall’Ordine Francescano 19 anni fa per continuare il dialogo nello spirito di san Francesco, e coerentemente con gli sforzi di papa Francesco per promuovere la pace e l’armonia tra le nazioni e le religioni». Inoltre, fa notare il francescano, «il 2025 è l’anno giubilare nel quale si commemorano anche gli 800 anni del Cantico delle Creature di san Francesco. Avremo l’opportunità di ascoltare persone che condivideranno le loro esperienze, e i partecipanti stessi che visiteranno vari luoghi per acquisire esperienze di dialogo interreligioso ed ecumenico».

Monsignor Massimiliano Palinuro, vescovo di Istambul
(© Manuela Tulli)

I limiti alla libertà

In questa ricerca di concordia, non mancano gli attriti.

La trasformazione, a Istanbul, della basilica di Santa Sofia in moschea nel 2020 è stata uno di questi. Già basilica cristiana, nel 1453 Santa Sofia fu convertita dagli ottomani in moschea. Nel 1935, durante la repubblica laica di Atatürk, fu trasformata in museo. Nel 2020 è tornata a essere una moschea.

Il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, ad agosto 2020, qualche giorno dopo la decisione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha detto: «Siamo stati feriti dalla conversione della basilica di Santa Sofia e della chiesa di Chora in moschee. […] Questi due monumenti unici di Costantinopoli furono costruiti come chiese cristiane. Esprimono lo spirito universale della nostra fede».

Altra ferita è quella degli attentati nelle chiese da parte di fondamentalisti islamici.

Anche se sporadici, sono il segno di una certa insofferenza nei confronti della minoranza cristiana. Aiuto alla Chiesa che soffre, al proposito denuncia: «In Turchia, la piccola comunità cristiana, lo 0,2% della popolazione, è oppressa a causa della progressiva reislamizzazione della società. Attacchi contro le chiese, arresti ingiustificati, impossibilità di ottenere il pieno riconoscimento giuridico delle Chiese cattolica e protestante, proibizione di costruire i seminari delle Chiese cattolica, armena e greco ortodossa, ripetute offese contro la cultura cristiana: sono solo alcune delle preoccupanti manifestazioni di questo pericoloso connubio fra islamismo di Stato ed estremismo di alcuni gruppi sociali».

Ma ci sono anche altri ostacoli al dialogo: «L’educazione religiosa – si legge nell’ultimo Rapporto di Acs – è obbligatoria nelle scuole pubbliche primarie e secondarie, nelle quali viene insegnato esclusivamente l’islam sunnita. Gli studenti di fede cristiana o ebraica possono essere esentati […], previa esplicita richiesta dei loro genitori. Il governo continua a rifiutarsi di concedere tale possibilità anche agli aleviti e agli appartenenti ad altre fedi, che sono invece tenuti a frequentare le lezioni di islam sunnita».

A sottolineare la difficoltà di muoversi in queste ristrettezze giuridiche è anche monsignor Paolo Bizzeti, ex amministratore apostolico del vicariato di Anatolia, innamorato della Turchia fin dalla sua giovinezza. Ci confida che, durante i suoi tanti anni in Turchia, ha assistito a un crescente interesse dei turchi per il cristianesimo: «In ogni parrocchia ci sono dei turchi che chiedono di diventare cristiani». Questi processi, però, non sono facili, perché le persone «hanno bisogno di un accompagnamento e non sempre è possibile offrirglielo».

Bizzeti parla della libertà religiosa e spiega: «La Chiesa cattolica in Turchia non ha personalità giuridica, come non ce l’ha la Caritas. Non si possono costruire cappelle, erigere seminari, ed è anche difficile a volte ottenere permessi di soggiorno per gli operatori pastorali».

Tutto è ancora legato al Trattato di Losanna del 1923, firmato alla fine della prima guerra mondiale. In quell’accordo, la religione cattolica non venne parificata all’islam. «Questo Trattato ha oltre cento anni. Non credo che la Turchia lo voglia mettere in discussione – dice Bizzeti -. E noi?».

Manuela Tulli

Effetti del terremoto a Kahramanmaraş
© Croce rossa spagnola



Gesù, rivelazione del volto del Padre (Gv 12)

Gesù è ormai a Gerusalemme. Giovanni ha alluso diverse volte al fatto che le autorità religiose vogliono la sua morte, e lui ora è proprio lì, nel luogo dove il loro potere è più forte. Se ne fosse rimasto lontano, con buona probabilità, avrebbe evitato ogni problema, invece è andato a infilarsi nella città santa proprio in occasione di una festa significativa come la Pasqua che portava a Gerusalemme molti pellegrini. Cosa che poteva essere letta come una provocazione. Tommaso aveva già tratto le conseguenze definitive: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (Gv 11,16).

In questo contesto, Gesù con i suoi discepoli si prepara alla cena di Pasqua. Qui arrivano finalmente a piena chiarezza alcune sue considerazioni riguardo il suo rapporto con il Padre.

Il racconto

Il capitolo 12 del Vangelo di Giovanni è pieno di gesti e dialoghi e, se non tutti sono utili per la nostra indagine su come Gesù mostri il volto del Padre, sono però significativi per impostare lo sfondo.

«Sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1) Gesù si presenta a tavola a Betania, da Lazzaro e dalle sue sorelle. Una di loro, Marta, gli unge di olio i piedi, causando la protesta di diversi presenti. Non solo per lo spreco di denaro, ma anche, e soprattutto, perché il nardo purissimo con cui lei gli unge i piedi evoca le cure che si prestano ai cadaveri.

Poche righe più avanti, Giovanni parla della folla di giudei che accorreva da Gesù anche grazie alla presenza di Lazzaro, che Gesù aveva resuscitato dai morti, e lega questa descrizione con l’affermazione che i capi dei sacerdoti, «allora decisero di uccidere anche Lazzaro», oltre a Gesù.

Tutto, in queste righe, è segnato dall’incombere della morte.

Questo vale anche per due episodi seguenti, apparentemente scollegati tra di loro. Nel primo Gesù viene proclamato come il messia che viene: il grido di «Osanna» da parte della folla, nel suo entrare a dorso di un asinello e i rami di palma con cui è salutato, richiamano le attese messianiche. Un passaggio di gloria, di esaltazione, quindi. Ma, immediatamente dopo, Giovanni ricorda di nuovo i suoi nemici e la loro sensazione di dover agire presto.

Di seguito, l’evangelista racconta della richiesta di alcuni «greci» di voler conoscere Gesù, e di come Gesù stesso legga la loro richiesta come segno dell’arrivo della sua «ora», del momento decisivo in cui essere glorificato, che, nelle parole di Gesù, rimanda subito alla morte.

Neppure il lettore più distratto o che non sappia già quale sia stata la sorte di Gesù, può sfuggire a un senso di angoscia per ciò che potrebbe accadere. E il confronto con la morte non è mai qualcosa di banale, comporta sempre un’attenzione e una profondità speciali.

È a questo punto, e su questo sfondo, che Gesù torna a parlare del Padre.

La gloria del Figlio (Gv 12,23-28)

Se riuscissimo a leggere il Vangelo da ignari, senza sapere già dove va a finire, è probabile che resteremmo fortemente stupiti dalla logica del discorso di Gesù.

Egli viene cercato dei «greci», con tutta probabilità ebrei di lingua greca, arrivati a Gerusalemme in pellegrinaggio per Pasqua. È però vero che la formula, volutamente ambigua, potrebbe quasi lasciarci pensare che Gesù inizi a essere cercato anche da coloro che non fanno parte del suo popolo, il che avrebbe anche una valenza religiosa. In ogni caso, è facile pensare che la fama di Gesù inizi ad allargarsi oltre le sue frequentazioni. È logico, comprensibile, persino ovvio, che di lui si parli sempre di più in giro. E potrebbe sembrarci ovvio che, da questa constatazione, Gesù ricavi la spinta per muovere qualche sfida nuova, per porre un gesto simbolico, fare qualche passo ulteriore e allargare il proprio cerchio d’influenza.

E, invece, inizia a parlare della propria morte. Dice, ad esempio, che il chicco di grano deve morire, altrimenti non può donare la vita: un passaggio che pare illogico, a meno che non cogliamo che Gesù, parlando della propria morte, non la presenta come un’eventualità o una minaccia inevitabile, ma, nella prospettiva del dopo, come di un’opportunità. Il seme muore, ma morendo produce nuova vita (v.24). Il contrario di chi vuole conservare la propria vita e, così facendo, la perde (v. 24), come chi custodisce la propria vita per il mondo a venire, perdendola in questo (v. 25). Lo sguardo è propositivo, ottimista, rivolto al futuro: quella morte serve per avere altra vita.

Ma non sarà solo un’illusione? Qual è il fondamento di questa serenità? È solo lo sforzo morale di un martire convinto di essere nel giusto, e che confida in un domani nel quale ci si ricorderà del suo sacrificio e lo si saprà valorizzare? Ha un semplice valore di esempio?

Se così fosse, nulla costringerebbe Gesù a restare a Gerusalemme: potrebbe continuare a predicare in Galilea dove i farisei potrebbero, al massimo, impegnarlo in qualche discussione teologica. Oppure potrebbe anche lasciarsi incontrare da quei «greci» che forse gli organizzerebbero qualche tournée all’estero. Perché andarsi ad infilare nella tana del lupo?

Onorato dal Padre (Gv 12,29-36)

Proprio il modo con cui Gesù prosegue il discorso, però, ci aiuta a capire la sua logica: dopo l’accenno al chicco caduto in terra e alla custodia della vita per il mondo che verrà, invita i suoi servi ad andare là dove va lui (se ne deduce: offrendo la vita come lui) e, quindi, aggiunge che in quel modo il Padre li onorerà. Nel senso che il Padre non dimenticherà il loro sacrificio? Non solo.

Gesù va ancora avanti chiedendo al Padre di dare gloria al suo nome. E questo appello giunge come reazione all’ipotesi, che Gesù respinge, di chiedere di essere salvato da quell’ora. È a quel punto che arriva dal cielo una voce («non per me, ma per voi»: v. 30) che conferma che il Padre ha glorificato il proprio nome e ancora lo farà.

Proviamo a mettere ordine. Per noi «glorificare qualcuno» può significare esaltarlo, lodarlo, incensarlo. Per il mondo biblico è qualcosa di un po’ diverso: significa valorizzare qualcuno per ciò che davvero è, per le sue qualità autentiche, per le sue imprese effettive. Glorificare un atleta non significherebbe affermare che è il più forte del mondo, ma raccontare le sue gesta sportive.

Come può allora la morte di Gesù entrare nella glorificazione del Padre? Solo se quel dono della propria vita, cui Gesù invita anche i suoi discepoli, evita di essere un sacrificio in solitaria, di mostrare solo la propria forza morale. Solo se, invece, mostra il volto del Padre, la sua gloria, allora, non è l’esaltazione dell’«essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra», bensì del Dio che dona la vita creando, e continuando a donare la propria vita nel Figlio.

Quello che Dio sembra chiedere ad Abramo nel libro della Genesi, il dono del suo figlio, «il tuo unico figlio, che ami» (Gen 22,2), ossia non il sacrificio di se stessi, ma di una persona amata, il Padre non lo pretende dall’uomo, ma lo offre lui per primo.

Il dono di sé di Gesù è, allora, lo svelamento più autentico del volto del Padre, la sua gloria: il Padre non cerca la vita propria, ma quella degli esseri umani.

Ecco il motivo del grido di Gesù: «Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27). È chiaro il turbamento di fronte alla propria morte, ma nello stesso tempo è altrettanto chiaro che Gesù mostra appieno il volto del Padre e compie così la sua più autentica missione.

Giudizio del mondo

Anche noi continuiamo a pensare a Dio innanzi tutto come a colui che, alla fine, giudicherà il mondo. E c’è sicuramente un aspetto autentico in questa immagine che risale addirittura a prima della Bibbia: colui che è all’origine del mondo, lo ricondurrà a sé, premiando i buoni e punendo i cattivi.

Quest’immagine di un Dio giudice severo che abbiamo in testa da prima che Dio stesso inizi a raccontarsi agli uomini, va composta con quello che poi il Padre svela di sé nella Scrittura e in Gesù.

Nel Vangelo di Giovanni (12,31), il Figlio afferma che un giudizio ci sarà, e sarà contro «questo mondo», ma questo non vuol dire che l’intero mondo è malvagio e che Dio lo sterminerà. Sarebbe del tutto incoerente con troppa parte della Bibbia, e ancor più dei Vangeli. Tanto più con la volontà, espressa da Gesù, di donare la propria vita per l’umanità. Incoerente anche con l’immediata conseguenza  che, «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».

A cosa di riferisce allora Gesù quando parla del giudizio? In che modo Gesù e il Padre giudicheranno il mondo?

Intanto, dobbiamo ricordarci che per l’evangelista Giovanni la parola «mondo» rappresenta simbolicamente tutti coloro che rifiutano il messaggio divino: non tanto una descrizione, quanto un’etichetta. Peraltro, in Gv 12,48, Gesù precisa di non essere venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo.

Dobbiamo allora sforzarci di entrare nella logica dell’evangelista, che non ama darci tutte le conclusioni preconfezionate, ma preferisce lasciare che ci arriviamo noi, con le indicazioni che ci suggerisce.

In Gesù noi vediamo il volto del Padre. E ciò che vediamo è un Dio che si dona all’umanità, che vuole la vita delle sue creature, che davanti al rifiuto e all’ostilità del mondo manda suo Figlio, con l’intenzione di fare pace con esso. Il Padre è perfettamente consapevole di correre un grosso rischio: il Figlio potrebbe essere ucciso. Per entrare in comunione con gli esseri umani, il Padre di Gesù non risparmia niente.

A questo punto, chiunque voglia entrare nella logica divina non potrà che pensare come Gesù: vivere donando la propria vita per gli altri come ha fatto lui, consapevole che, se ha ragione Gesù, se il Padre è quello che lui mostra, donarsi agli altri significherà farci come Dio, come Gesù, vivendo la sua stessa sorte, che sarà di vita nuova.

Rifiutare questa logica, continuando a concentrarci su di noi, vivendo il rapporto con gli altri come se fossero nemici, accaparrandoci ogni vantaggio possibile, vorrà dire avvelenarci la vita e, in ultimo, allontanarsi dalla logica della vita che è quella divina. Sarà un giudizio, perché comporterà il rinunciare alla vita vera. Ma non sarà il decreto di un giudice severo che soppeserà dall’esterno le nostre azioni, saremo noi stessi a rinunciare alla vita vera (Gv 12,48-49).

Perché la parola del Padre, trasparente nella vita di Gesù, è solo parola di vita eterna (v. 50).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 14 – continua)




Il Signore della vita (Gv 11)


Con l’undicesimo capitolo, si chiude la prima parte del Vangelo di Giovanni, quella dei «segni», come li chiama lui. Fino qui, infatti, abbiamo letto dei miracoli di Gesù, segni che alludono ad altro e che spesso hanno aperto discussioni e ampie spiegazioni. Anche questo capitolo presenta un segno, un prodigio che allude a qualcosa di rilevante: Gesù, infatti, riporta in vita un morto.

Il brano, peraltro, è decisamente giovanneo: ci stimola molte più riflessioni e domande di quelle alle quali offra risposte. Proviamo a intuirne alcune.

Il racconto

La vicenda è semplice: qualcuno riferisce a Gesù che Lazzaro, suo amico residente a Betania, sta male (vv. 1-3). Gesù, che dovrebbe trovarsi al di là del Giordano (Gv 10,40), ossia non troppo lontano, sostiene che la malattia di Lazzaro non va verso la morte, ma servirà a mostrare la gloria del Figlio di Dio, vale a dire che illustrerà chi lui è davvero (v. 4). Dopo di che, aspetta due giorni prima di partire: perché? Può darsi che il motivo sia quello suggerito dai discepoli, che Betania è vicinissima a Gerusalemme (15 stadi, ossia circa due chilometri) e quindi sotto l’influenza di coloro che vogliono uccidere Gesù (v. 8).

A questo punto, però, Gesù e i discepoli si avventurano in un dibattito curioso sulla condizione di Lazzaro: è morto o si è solo addormentato (vv. 11-16). E nel lettore si insinua, in modo molto sottile, l’idea che la morte possa non essere un evento definitivo. Come fanno gli scrittori bravi, l’evangelista non ci svela la conclusione della vicenda prima di narrarla, eppure, se tornassimo a leggere quelle righe sapendo già come la storia va a finire, non potremmo non notare che in qualche modo l’esito è già anticipato qui.

Un altro dialogo che ci potrebbe lasciare perplessi è quello che Gesù sostiene una volta arrivato a Betania. Parla dapprima e più a lungo con Marta, riguardo a morte e risurrezione (vv. 21-27), e in un secondo tempo con Maria. È un caso che in tutto il capitolo Gesù sembri conversare con gli altri solo uno alla volta?

Quando Gesù ordina di aprire il sepolcro, Marta oppone resistenza affermando: «è morto già da quattro giorni e ormai puzza» (v. 39). Di fronte a questa obiezione, Gesù rimprovera l’amica per la sua mancanza di fede, quindi ripete l’ordine. A sepolcro aperto, il maestro sembra mettere in scena, e in modo teatrale, la reazione che forse si aspettava dai suoi amici, in quanto ringrazia il Padre prima ancora che dal sepolcro emerga qualcosa: «Io lo sapevo che tu mi ascolti sempre, ma l’ho detto per la folla che sta qui intorno» (v. 42).

Legami personali

La prima dimensione rilevante del racconto, che non può sfuggirci, è che Gesù non si trova di fronte a estranei: Lazzaro, Marta e Maria vengono definiti esplicitamente suoi amici (v. 5). Dai Vangeli sappiamo di altri due episodi in cui Gesù riporta in vita dei morti, il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17) e la figlia di Giairo (Mc 5; Mt 9; Lc 8). Entrambi gli erano sconosciuti e, alla domanda che può sorgere, «perché loro sì e altri no?», la risposta potrebbe serenamente chiamare in ballo il caso: l’incontro di Nain pare totalmente imprevisto, mentre quando Giairo chiede l’aiuto di Gesù, sua figlia è gravemente malata ma ancora viva.

Il caso di Lazzaro invece è diverso: ci verrebbe quasi da pensare che questo miracolo sia inopportuno. Ci saranno raccomandati e amici anche intorno a Gesù? E se Lazzaro non avesse avuto amicizie importanti, sarebbe stato lasciato nel sepolcro?

Per affrontare queste domande basta constatare che i Vangeli non perdono occasione di presentarci un Gesù che instaura con chiunque una relazione sempre centrata sulla persona, e mai su ruoli o formalità. Il Padre che Gesù rivela non guarda a titoli o precedenze o convenienze, ma incontra persone con storie e caratteristiche loro.

Notavamo poco sopra che, in questo racconto, Gesù sembra quasi parlare solo con singole persone, in modalità «uno a uno», come nei rapporti profondamente personali. Il Padre non conosce incarichi, ma chiama ognuno per nome. Tra il rischio di dare l’impressione di favoritismi e la rinuncia a valorizzare i legami personali, Dio non ha dubbio: le persone vengono prima!

Se sono le relazioni personali a smuovere Gesù, non sembra però che lui si astenga dalle proprie scelte quando invece queste stesse relazioni sono negative: quando ha deciso che si sarebbe partiti per Betania, i discepoli hanno tentato di dissuaderlo, visto che già i suoi avversari, di stanza apparentemente a Gerusalemme, avevano tentato di eliminarlo (v. 8), ma Gesù non ha cambiato idea. Ai discepoli, consapevoli del rischio, non è rimasto che commentare che ciò significava andare a farsi uccidere (v. 16).

Un Gesù, e un Padre, che si muovono per le relazioni personali, ma non si fanno bloccare dalle minacce.

Risurrezione

Centrale, in tutto il capitolo, è il rapporto tra vita e morte.

Le sorelle di Lazzaro sono convinte che Gesù avrebbe potuto guarire il fratello. E confidano nella risurrezione alla fine del tempo. Gesù non le smentisce, su nessuno dei due punti, né conferma le loro idee. La sua risposta, enigmatica come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, sposta altrove il centro dell’attenzione: è lui stesso a essere la risurrezione e la vita. La risurrezione smette di essere un evento o una condizione, ma si incentra sul rapporto con Gesù. In modo esplicito, a essere significativo non è più il tempo della risurrezione (alla fine del tempo, come crede Marta?) o la modalità, ma la relazione. Per viverla occorre credere in Gesù, affidarsi a lui, essere in relazione con lui (vv. 25-26). Cruciale non è la vita, ma essere in rapporto con Dio. Il contrario sarebbe come se ci concentrassimo sulla carta che avvolge un regalo invece che sul regalo stesso.

Due altri particolari ci colpiscono. Nel dialogo, Marta si espone con chiarezza: «Credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo» (v. 27). È la più esplicita tra le affermazioni di fede nel Vangelo e la prima che viene dopo l’affermazione che chi avesse riconosciuto Gesù come Cristo sarebbe stato espulso dalle sinagoghe (Gv 9,22). Marta entra in relazione personale con l’amico e quindi non si fa spaventare dalle minacce. Chi si affida a Gesù, impara, come lui, a vincere la paura.

L’altro particolare potrebbe farci venire la pelle d’oca. Al termine del colloquio con le due sorelle, Gesù chiede dove hanno sepolto Lazzaro. La risposta potrebbe anche sembrare semplicemente funzionale: «Vieni e vedi» (Gv 11,34). E, al limite, il pianto in cui esplode Gesù potrebbe indicare che finalmente anche lui ceda a una commozione e a un affetto che sono comunque percepibili in tutto il capitolo. Ma quelle parole sono chiaramente vicine a quelle che Gesù stesso aveva rivolto ai suoi due primi discepoli, che gli chiedevano dove abitasse: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). In quel frangente, l’invito era a coinvolgersi, a fare esperienza personale, e l’esito era stato che i due discepoli di Giovanni avevano iniziato a seguire Gesù. Nel capitolo 11, è come se la morte di Lazzaro invitasse anche Gesù a fare esperienza personale della fine della vita, per coinvolgersene fino in fondo. È ciò che accadrà pochi giorni dopo.

È però solo un anticipo, e imperfetto. Lazzaro, infatti, esce dal sepolcro legato e velato (v. 44) e ha bisogno di essere aiutato a tornare in vita, mentre Gesù lascerà il sepolcro con tutte le bende in ordine, senza alcun testimone (Gv 20,6-7). Lazzaro sarà ancora sottomesso alla morte, Gesù, dopo la risurrezione, non lo sarà più. Ma in entrambi i casi, il Padre chiama sempre alla vita, la sua intenzione è quella, quello desidera, quello prepara. Il Padre non lascia che vinca la morte.

Le conseguenze (vv. 47-53)

Giovanni lo aveva spiegato: Betania è molto vicina a Gerusalemme e molti «giudei» (ossia, nel linguaggio dell’evangelista, avversari di Gesù) erano venuti a consolare le sorelle di Lazzaro. Anche Tommaso (v. 16) aveva preannunciato che avvicinarsi alla città santa avrebbe significato rischiare la vita. Il che puntualmente succederà. I giudei non possono ancora mettergli le mani addosso, ma i capi sacerdotali e i farisei decidono che bisogna far tacere Gesù. Anzi, Caifa, sommo sacerdote, afferma che conviene che sia un uomo solo a morire per tutto il popolo.

Giovanni fa notare che, essendo sacerdote, le sue parole erano profetiche, e attestavano già che la morte di Gesù sarebbe andata a vantaggio di tutti, anzi addirittura anche di coloro che del popolo non facevano parte (v. 52).
È un esempio dell’ironia giovannea: qui Caifa intende semplicemente dire che conviene mandare a morte Gesù anziché lasciare che avvii una eventuale rivolta politica che attirerebbe la reazione dei romani. In effetti, però, anticipa già il senso che la sua morte potrà avere per l’umanità. Allo stesso modo, i capi dei sacerdoti si dicono preoccupati che, se la gente credesse in Gesù, Gerusalemme potrebbe essere distrutta, cosa che (i lettori di Giovanni lo sanno già) accadrà davvero nel 70 d.C., nonostante  la folla avesse scelto di far crocifiggere Gesù (cfr. Gv 19,6.15). Se vogliamo, c’è un esempio di ironia anche nel fatto che lo stesso Lazzaro, appena tornato alla vita, rischia di nuovo di morire presto, stavolta ammazzato per mano delle autorità religiose anziché nel suo letto, accudito dalle sorelle (Gv 12,9-11).

Ma in fondo è tragica ironia anche il senso di tutto questo paragrafo. Le autorità religiose, che dovrebbero avere a cuore la vita del popolo, mentre dicono di interessarsene, riescono soltanto a progettare la morte. La vita viene tramite Gesù, e attraversando la morte stessa.

Ormai siamo verso la fine della vicenda umana del Signore, ci è sempre più chiaro il volto del Padre che Gesù ci sta mostrando (come si era detto in Gv 1,18). È il volto di chi vuole la vita, di chi si commuove e piange di fronte alla sofferenza degli amici, di chi vede negli uomini persone con cui entrare direttamente e profondamente in relazione. È un Padre che ama la vita di tutti.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 14 – continua)

da Jesus Mafa- risurrezione di Lazzaro




Le «armi dei piccoli»


L’iniziativa di un missionario porta a nuovi orizzonti. Trova subito le condizioni per una missione «ad gentes». Poi la presenza si espande. Ma la crisi socio economica in cui versa oggi il Paese interroga.

L’esperienza dell’Istituto Missioni Consolata in Venezuela comincia nel 1971, grazie all’iniziativa di padre Giovanni Vespertini.

Vespertini era in missione in Colombia ma, stanco e in difficoltà, decise di recarsi in Venezuela e prendere contatti con alcuni vescovi. La risposta dell’episcopato del Paese fu molto positiva, tanto da indurre i missionari della Consolata della Regione Colombia a inviare altri sacerdoti e stabilire una comunità nella diocesi di Trujillo. Erano i primi anni dopo il Concilio Vaticano II, quando, su suggerimento del Capitolo del 1969, ovunque nell’istituto si studiavano possibilità di aprire nuovi campi di lavoro missionario, attraverso la costituzione di piccoli gruppi.

I superiori accolsero la proposta della Colombia e nel 1974 iniziarono a inviare personale. Tra i primi ci fu padre Francesco Babbini, che sarebbe rimasto un missionario emblematico del Venezuela.

Una prima riflessione che sorge è che, talvolta, le nuove aperture in Paesi sconosciuti sono fatte dopo grandi discernimenti, ma non sempre. Altre volte, invece, l’indicazione te la dà la vita, un qualche malessere, il bisogno di andare altrove. E ancora, spesso aspettiamo sconvolgimenti e cambiamenti fatti da masse, ma la storia ci insegna che a volte basta una persona che crede in qualcosa, e che inizi a fare dei passi, e da lì cambiano le cose.

Popoli indigeni e afro

Nel 1982 la presenza di Imc in Venezuela assunse il nome di Delegazione e fu dedicata alla vergine di Corogoto.

Come istituto ad gentes, l’opzione fu da subito quella dei popoli indigeni. Così le prime missioni furono nella Guajira, la striscia di terra al confine con la Colombia, nelle tre comunità di Guarero, Paraguaipoa, Sinamaica. Il lavoro dei missionari diede vita a numerose piccole comunità.

Terminata quell’esperienza una decina di anni dopo, i missionari furono sollecitati per una nuova missione tra i Warao, il popolo delle canoe, nel delta dell’Orinoco. Iniziato negli anni 2000, il lavoro tra loro continua ancora oggi.

Il secondo pilastro dell’intervento Imc in Venezuela è l’accompagnamento degli afrodiscendenti. Nel 1986 fu aperta, tra queste popolazioni, una comunità a Barlovento. Occorre dire che gli afrodiscendenti del Venezuela sono piuttosto diversi da altri con cui i missionari lavorano in America Latina.

Qui è difficile ricavare qualcosa, essere significativi, anche dopo tanti anni di presenza. In Colombia, ad esempio, gli afro portano avanti una ricerca identitaria, culturale. In Venezuela si tratta di gruppi che vivono in zone periferiche. Esercitano il controllo del territorio e, con le loro bande, fanno entrare solo chi vogliono. La situazione è dura. Sono quasi gettizzati. Si fa fatica a riunirli e a camminare con loro. Gli sforzi di promozione umana sono difficili. È un terreno abbastanza arido.

Il merito dell’istituto è quello di essere lì con continuità da 40 anni a condividere un cammino missionario fatto di quotidianità.

Quartiere di Carapita, periferia di Caracas

Con gli ultimi delle periferie

Dal 1999, inoltre, i missionari si interessarono anche alle periferie povere delle grandi città. Così nacque l’accompagnamento della comunità di Carapita. Si tratta di una baraccopoli formata da un impressionante alveare di mattoni, lamiere e cartoni, dove le abitazioni poggiano l’una sull’altra, fino a raggiungere la sommità della collina. Le strade, poche e strette, si inerpicano su per la montagna, tra strapiombi mozzafiato. In molti luoghi si può andare solo a piedi. Qui vivono 100mila persone soggette a ogni sorta di stenti e potenziali vittime di ogni tipo di violenza. Questo habitat pone svariate sfide al lavoro pastorale: mancanza di spazio per strutture parrocchiali; eterogeneità del tessuto umano quanto a provenienza e nazionalità; pochi i giovani che frequentano la chiesa; molta violenza, droga, assenteismo nelle iniziative pastorali.

L’ultimo pilastro della presenza Imc in Venezuela è l’animazione missionaria e vocazionale. Nacque presto, come naturale espressione del carisma missionario dell’istituto e come dono alla chiesa venezuelana. I frutti sono stati molteplici: vocazioni di speciale consacrazione al servizio della Chiesa locale e anche dell’istituto; laici che hanno accolto la dimensione missionaria dentro la loro specifica vocazione laicale nelle loro comunità cristiane, non disgiunta anche da servizi temporanei alle chiese dell’Africa; parrocchie e seminari sensibilizzati a un nuovo stile di evangelizzazione.

Il dubbio

Nel desiderio di recuperare l’ad gentes originario, fatto cioè di ricerca dei «non cristiani», alcuni missionari hanno iniziato, alcuni anni fa, a riflettere se fosse giunto il momento di lasciare il Paese per andare altrove.

Anche la crisi sociopolitica, oramai acuta nel Paese, portava in questa direzione.

La missione in Venezuela si era anche fatta una cattiva fama tra i nuovi missionari, per cui i seminaristi preferivano non andarci.

Proprio per queste difficoltà si è invece pensato che non era il momento di lasciare, ma piuttosto di rimanere come segno di consolazione. Questa si esprime anche attraverso a una comunità aperta. Come dimostra l’attività di accompagnare i poveri per le strade: c’è un gruppo di giovani che sabato e domenica vanno nei quartieri a portare cibo e consolazione agli abbandonati. È un’esperienza molto forte.

Nel 2018 i missionari presenti in Venezuela hanno scritto una lettera a tutti i confratelli nella quale ricordano la crisi che il Paese sta vivendo ma ribadiscono che «in Venezuela, la missione di consolazione e liberazione è oggi più necessaria che mai», e dichiarano: «Siamo disponibili ad accogliere qualsiasi giovane in formazione che desideri fare una esperienza missionaria in Venezuela e fare qui i suoi studi di specializzazione».

Voglio concludere citando una frase di san Francesco, che calza con la presenza «piccola», perché non numerosa, dei missionari della Consolata in Venezuela:

«Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? […] Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere a servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Stefano Camerlengo


La serie

 Le missionarie e i missionari della Consolata sono presenti in 35 paesi di quattro continenti: Africa, Americhe, Asia, Europa. È questa l’opera di san Giuseppe Allamano oggi, iniziata nel 1901 e tramandata da generazioni di donne e uomini che hanno raccolto la sfida. Questa serie è realizzata insieme alla rivista Andare alle genti, e al sito delle missionarie della Consolata. missionariedellaconsolata.org

Barrio Carapita




Rimettiamo i loro debiti


In apertura del 27° Giubileo indetto dalla Chiesa cattolica, papa Francesco è tornato su un tema già oggetto di una campagna internazionale in occasione del precedente Giubileo dell’anno 2000.

Il tema è quello del «debito del Sud del mondo» o – meglio – delle somme che le nazioni a reddito medio basso (Cina inclusa) devono ad altre nazioni.

In tutto, si tratta di 135 paesi, genericamente definiti «Sud globale». Nel 2023, questi paesi avevano un debito complessivo verso l’estero pari a 8.800 miliardi di dollari, per il 57% a carico dei governi e il 43% a carico di soggetti privati, principalmente imprese. Due entità giuridicamente ben distinte fra loro, ma economicamente connesse perché entrambe attingono alla stessa fonte per pagare i propri debiti esteri. Il bacino comune si chiama introiti da esportazione, il principale canale di ingresso di dollari, euro e altre valute forti che i creditori esteri pretendono come forma di pagamento. Se il sistema paese non dovesse avere abbastanza valuta estera per tutti i pagamenti, toccherebbe al governo trovarne aprendo nuovo debito.

I numeri del debito

Nel primo scorcio di questo secolo il debito estero del Sud ha conosciuto un andamento a singhiozzo. Mentre dal 2000 al 2007 è rimasto abbastanza stabile passando da 2.000 a 3.100 miliardi di dollari, nei 15 anni successivi è praticamente triplicato, sfiorando, nel 2023, i 9.000 miliardi di dollari.

Secondo i dati forniti dall’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite, se nel 2010 il debito este-ro rappresentava mediamente il 19% del prodotto lordo dei paesi del Sud, nel 2022 era salito al 28%. Debito che, messo a confronto con gli introiti da esportazioni, nel 2010 rappresentava il 71%, nel 2022 il 92% dell’importo incassato. Situazione ancora peggiore per il gruppo dei 45 paesi più poveri del mondo (per la maggior parte africani) il cui debito estero rappresenta il 54% del Pil e il 250% delle loro esportazioni.

Borse e speculatori

L’ultimo evento che ha fatto crescere il debito dei 45 paesi più poveri, quelli che l’Unctad definisce «paesi meno sviluppati», è stato l’aumento del prezzo dei cereali.

Spiegato ufficialmente come un effetto della guerra in Ucraina, in realtà la variazione è stata il prodotto della speculazione finanziaria sempre pronta a trasformare le sciagure in occasioni di arricchimento. In effetti non c’è stata proporzionalità fra la quantità di grano che la guerra aveva fatto mancare e l’aumento dei prezzi che, in poche settimane, erano cresciuti del 50%.

Il fatto è che il prezzo delle risorse commercializzate a livello mondiale si forma nelle borse merci, luoghi popolati più da soggetti che usano i prezzi come strumenti di scommessa che da imprese interessate a comprare realmente le materie prime trattate. Peccato, però, che le puntate degli scommettitori si ripercuotano sui prezzi reali produ-

cendo sconquassi a tutti i livelli, ivi compresa la fame, la recessione e l’indebitamento dei governi.

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, il mondo stava appena uscendo da un altro periodo difficile, questa volta prodotto da un virus, il Covid-19 che, oltre ad avere provocato ovunque una battuta d’arresto delle attività produttive, aveva costretto tutti i governi del mondo ad accrescere le proprie spese sanitarie. Le due emergenze messe assieme avevano fatto crescere il debito pubblico che, a livello mondiale, è passato da 75mila miliardi di dollari, nel 2019, a 97mila nel 2023. E benché più dell’80% del nuovo debito pubblico sia stato generato dai governi dei paesi ricchi, i problemi più seri li stanno incontrando quelli poveri.

Nel 2023 il debito pubblico complessivo del Sud del mondo ammontava a 29mila miliardi di dollari, con conseguenze poco gravi per paesi con economie in crescita come Cina, Indonesia o India, ma un vero flagello per quelli stagnanti come sono la maggior parte dei paesi collocati nell’Africa subsahariana.

Anche perché i paesi con minori capacità finanziarie finiscono per pagare di più.

La spesa per interessi

Debito estero e Giubileo 2025. Foto PublicDomainPictures – Pixabay.

È la legge del mercato. L’argomentazione è che il prestito comporta un rischio per il creditore. Questo rischio va compensato, e poiché il povero ha più probabilità del ricco di non riuscire a restituire le somme ricevute, deve accettare di pagare interessi più alti. Teoria confermata dai fatti.

Secondo i dati riferiti dall’Unctad, il tasso medio pagato sui titoli del debito pubblico fra il 2020 e il 2024, è stato dello 0,85% per la Germania, del 2,5%  per gli Stati Uniti, del 5,35% per i paesi asiatici e del 9,8% per quelli africani.

Il risultato è che nel 2023 la spesa per interessi dell’insieme dei paesi del Sud ha raggiunto gli 847 miliardi di dollari, il 26% in più rispetto al 2021. Con ricadute pesanti sulle popolazioni di molti paesi dove la spesa sanitaria o per istruzione è inferiore a quella per ripagare gli interessi del debito. Ad esempio, in Asia (Cina esclusa), nel periodo 2020-2022, la spesa per interessi è stata mediamente di 84 dollari pro capite, quella per la sanità di 62 dollari. Quanto all’Africa, è stata di 70 dollari la spesa per interessi, di 39 dollari quella per la sanità.

La conclusione è che 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per interessi sul debito che per sanità o istruzione, mentre nei paesi ricchi la situazione è all’inverso.

Valga, come confronto, l’Italia che, pur avendo un debito pubblico di 3mila miliardi di euro, nel 2023 ha registrato una spesa pubblica pro capite per la sanità pari a 3.400 euro contro 1.300 per interessi.

La raccolta fiscale

Il punto è che i paesi del Sud hanno una scarsa capacità di raccolta fiscale, per cui basta un minimo aumento di spesa imposta dall’esterno per peggiorare i già fragili bilanci. Basti dire che, mentre nell’Unione europea la raccolta fiscale rappresenta mediamente il 40% del Pil, nei paesi del Sud si attesta su una media del 29%. Percentuale che scende addirittura al 12% nei 45 paesi più poveri.

Un fenomeno dovuto a una varietà di fattori fra cui una pubblica amministrazione debole e male organizzata, un’alta percentuale di economia informale, una massiccia evasione fiscale (anche da parte di grandi complessi multinazionali).

Purtroppo, quella per interessi non è l’unica voce di spesa del debito. Agli interessi vanno aggiunte le quote di capitale da restituire annualmente. Queste ultime più gli interessi sono definite «servizio del debito». Nel caso del Sud del mondo una parte importante del servizio del debito è verso l’estero. Nel 2022 è stato di circa 1.400 miliardi di dollari, dei quali 406 per interessi.

Messo a confronto con le entrate governative, si scopre che nel 2023 il servizio del debito estero nel Sud del mondo ha assorbito mediamente il 17% delle entrate pubbliche con punte che hanno raggiunto il 65% in Angola, il 52% in Laos, il 43% in Pakistan ed Egitto.

Il tutto mentre povertà e cambiamenti climatici pongono sfide finanziarie enormi.

Rinunciare a 353 miliardi

Secondo lo studio condotto nel 2023 da un gruppo di esperti per conto del G20, da qui al 2030, al Sud del mondo (Cina esclusa) servirebbero ogni anno 5.400 miliardi di dollari, di cui 2.400 per affrontare la crisi climatica e 3.000 per combattere la miseria.  Ciò nonostante nel 2023 i governi del Sud hanno speso per il servizio del debito 12 volte e mezzo in più di quanto non abbiano speso per difendersi dai cambiamenti climatici.

Lo sostiene un rapporto della Misereor tedesca secondo il quale mediamente i governi del Sud destinano al totale del servizio del debito il 33% delle risorse pubbliche mentre ai cambiamenti climatici solo il 2,5%.

Considerato che una quota rilevante del servizio del debito del Sud è verso creditori esteri, la parte più sensibile della nostra società insiste affinché vengano annullati almeno i crediti vantati verso i paesi più poveri. In tutto 45 nazioni che ospitano il 13% della popolazione mondiale con un reddito pro capite inferiore ai mille dollari all’anno e bassissimi livelli di sviluppo umano.

Basti dire che, nell’insieme di questi paesi (33 dei quali africani), vive la metà dei poveri assoluti del mondo, persone che campando con meno di due dollari al giorno, non si nutrono abbastanza, non hanno una casa degna di questo nome, muoiono di malattie banali come una bronchite o una dissenteria. Il 22% dei bambini di questi paesi non va a scuola, mentre il 44% della popolazione non dispone di corrente elettrica e il 63% non ha l’acqua corrente né adeguati servizi igienici.

L’Unctad ci informa che, complessivamente, i governi di questi 45 paesi detengono un debito verso l’estero di 353 miliardi di dollari, una cifra irrisoria per i nostri livelli economici, ma una vera e propria condanna a morte per loro che, messi tutti assieme, hanno introiti governativi di appena 160 miliardi di dollari.

Nel 2023 ne hanno dovuti accantonare una trentina per ripagare il loro debito verso le ricche istituzioni estere. Ne sono rimasti all’incirca 130 per soddisfare i bisogni sociali e sanitari di oltre un miliardo di persone, sen-

za contare tutte le altre spese che ogni governo del mondo normalmente sostiene.

«Chi deve a chi?»

Come termine di paragone il governo italiano utilizza più di 800 miliardi di euro all’anno per una popolazione che non raggiunge i 60 milioni. Insomma, 353 miliardi di dollari per paesi così malandati sono un’enormità, ma non altrettanto per i loro creditori.

Certo, spacchettando la somma, si scopre che uno dei principali creditori è la Cina che vanta all’incirca 50 miliardi di crediti, il 14% del debito totale dei 45 paesi più poveri. Il resto, però, fa capo ad altri governi per lo più del Nord (21%), alla Banca mondiale e ad altre istituzioni finanziarie multilaterali (42%), a banche commerciali e ad altri soggetti privati (23%). Anche l’Italia compare fra i creditori con 1,2 miliardi di dollari. Paesi che non andrebbero falliti se depennassero i crediti vantati verso i «dannati della terra».

Invece, succede che sei dei 45 paesi più poveri hanno già conosciuto momenti di bancarotta, mentre altri quindici ne sono sull’orlo.

La richiesta di annullamento del debito è sostenuta anche dal fatto che, analizzando bene le cose, si scopre che non è il Sud  povero, bensì il Nord ricco, a essere in debito. Un debito formato nel corso dei secoli da politiche di oppressione e mal sviluppo che hanno provocato danni sociali e ambientali così alti al Sud del mondo, da gettarlo nello stato di fragilità economica che oggi lo costringe ad indebitarsi.

Un rapporto pubblicato recentemente da Action Aid, dal titolo emblematico Who owes who? (Chi deve a chi?), sostiene che fra danni ambientali, danni da colonialismo, danni da scambio ineguale e danni da esportazione illecita di capitali, il Sud dovrebbe ricevere un indennizzo pari a un milione di miliardi di dollari, cifra che corrisponde a dieci volte il prodotto lordo mondiale.

L’appello di Francesco

Un quadro ben chiaro a papa Francesco che, nel suo discorso tenuto il 1° gennaio 2025, in occasione della 58a giornata dedicata alla pace, ha dichiarato: «Debito estero e debito ecologico sono due facce della stessa medaglia, figli della stessa logica di sfruttamento che ha portato alla crisi del debito. Nello spirito di questo Anno giubilare, sollecito la comunità internazionale a lavorare per l’annullamento del debito estero come riconoscimento del debito ecologico esistente fra Nord e Sud del mondo. Un appello di solidarietà che è prima di tutto un’esigenza di giustizia».

Appello accolto dalla Caritas internazionale che, in apertura dell’Anno giubilare, ha lanciato la campagna «Trasformare il debito in speranza», ricordando che, negli ultimi dodici anni, le nazioni ricche hanno speso per sovvenzioni ai combustibili fossili sei volte di più di quanto non abbiano versato ai paesi vulnerabili per aiutarli ad arginare le conseguenze prodotte dai cambiamenti climatici.

Quei soldi avrebbero potuto fornire quasi metà del denaro di cui i paesi più vulnerabili hanno bisogno per iniziare a proteggersi.

La campagna è presente anche in Italia con cinque richieste fondamentali: ridimensionare o annullare la spesa per interessi dei paesi più poveri, convertire il loro debito in spese a favore delle popolazioni, aiutare i paesi del Sud a lottare contro l’evasione fiscale specie quella attuata da parte delle multinazio-

nali, portare la cooperazione dei paesi del Nord almeno allo 0,7% del Pil come richiedono le Nazioni Unite, riformare l’assetto finanziario internazionale in un’ottica non predatoria. Obiettivi raggiungibili che contribuirebbero a ottenere un mondo più giusto e quindi la pace.

Francesco Gesualdi




Giustizia e pace, se non ora quando?


Diseguaglianze, guerra e crisi climatica sono le sfide a cui tentano di rispondere le iniziative del mondo missionario che vanno sotto il grande ombrello chiamato Gpic: giustizia, pace e integrità del creato. Dalle esperienze passate e presenti possono venire gli spunti per quelle future.

Giustizia, pace e integrità del creato (Gpic) è l’espressione con cui gli istituti religiosi indicano uno degli ambiti su cui si concentrano il loro lavoro e la riflessione teologica.

Le sue origini, si legge sul sito dell’Unione internazionale delle Superiore generali (Uisg)@, risalgono agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes del 1965 e al Sinodo dei vescovi sulla giustizia nel mondo del 1971. Un documento (la GS) e un’istituzione (il sinodo) nati entrambi  dal Concilio Vaticano II e dalla spinta al rinnovamento della Chiesa che esso raccolse. Nel 1967, papa Paolo VI istituì il Pontificio consiglio per la giustizia e per la pace, soppresso da papa Francesco nel 2017 per trasferire le sue funzioni e quella di altri tre Pontifici consigli al Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale@.

Il dicastero, si legge sulla sua pagina istituzionale, «ha il compito di promuovere la persona umana e la sua dignità donatale da Dio, i diritti umani, la salute, la giustizia e la pace», e «si interessa principalmente alle questioni relative all’economia e al lavoro, alla cura del creato e della terra come “casa comune”, alle migrazioni e alle emergenze umanitarie».

La definizione estesa aiuta a orientarsi nella varietà di temi che la Gpic copre, e a operare una sorta di traduzione verso il linguaggio della cooperazione allo sviluppo.

Forzando un po’ alcuni concetti – come è inevitabile quando si passa da un lessico religioso a uno laico -, possiamo dire che la Gpic rimanda alla lotta alle diseguaglianze, alla risoluzione dei conflitti e alla protezione dell’ambiente.

Temi, questi, che anche le Nazioni Unite ritengono prioritari: nel suo discorso all’Assemblea generale Onu dello scorso gennaio, il Segretario generale António Guterres ha indicato come sfide globali più urgenti per il 2025 i conflitti in continua ascesa, le disuguaglianze crescenti, l’intensificarsi della crisi climatica e l’aumento incontrollato della tecnologia.

E non è difficile rintracciare, nel testo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, i riferimenti (ad esempio al punto 13) all’interdipendenza di queste sfide e alla conseguente necessità di affrontarle insieme.

Ricordando padre Antonio Bonanomi a Toribio.

Toribio, dove tutto si incrocia

L’insieme queste tre dimensioni della Gpic si è manifestato fin dall’inizio nella realtà di Toribio, dove – ricorda padre Rinaldo Cogliati, che a Toribio ha lavorato dal 1986 al 2007 – i missionari della Consolata hanno iniziato il loro lavoro il 2 febbraio del 1985: quarant’anni fa.

Toribio si trova nel Nord del Cauca, regione sudoccidentale della Colombia sulla Cordigliera centrale delle Ande. Su Missioni Consolata del novembre 1996, padre Antonio Bonanomi, coordinatore dell’équipe missionaria dal 1988 al 2005, spiegava che i missionari della Consolata erano arrivati a Toribio per continuare il lavoro di padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote colombiano ucciso il 10 novembre 1984 a causa «del suo impegno evangelico per la giustizia».

Membro lui stesso del popolo indigeno dei Nasa, padre Alvaro aveva lavorato nella parrocchia di Toribio e nei vicini villaggi di Caldono, Jambaló e Tacueyó con la sua équipe di suore missionarie di Madre Laura e di laici indigeni dal 1975 al 1984. Frutto del suo lavoro era stato l’avvio del Progetto Nasa, che probabilmente sarebbe un caso da manuale – se ne esistesse uno – di impegno per la giustizia, la pace e l’integrità del creato.

Chi ha operato in quella zona fra gli anni Settanta e oggi, infatti, si è trovato ad affrontare l’effetto combinato dell’esclusione di cui sono vittime da secoli i popoli indigeni, del conflitto fra esercito e guerriglia, e degli effetti sull’ambiente e sulla sicurezza dell’espandersi prima del latifondo e poi dell’industria, con il corollario della violenza esercitata dai gruppi paramilitari al servizio di latifondisti e industriali.

A questa violenza, la comunità nasa ha opposto la guardia civica, gruppi di volontari che monitorano il territorio. All’epoca della sua istituzione c’erano molti dubbi sull’efficacia di persone armate solo di bastonie nel contenere gruppi con armi vere come i paramilitari e i guerriglieri. Ma, scriveva padre Rinaldo su MC del settembre 2001, la risposta fu che «la vera arma della guardia è l’appoggio della comunità», e la volontà di quest’ultima di difendere, anche con la vita, il proprio plan de vida, cioè il progetto di sviluppo che il popolo nasa ha elaborato per se stesso.

Sarebbe troppo complicato riassumere qui i risultati del lavoro avviato da padre Alvaro e portato avanti dai missionari della Consolata fino allo scorso febbraio, quando questi ultimi hanno lasciato Toribio alla Chiesa locale.

Vale però la pena di ricordare che, se nel 1984, poco prima del suo assassinio, padre Alvaro aveva condiviso con padre Ezio Roattino – missionario della Consolata amico di Alvaro e una delle ultime persone ad averlo visto vivo – la preoccupazione per una popolazione di 69mila persone che rischiava di ridursi fino a sparire, oggi, secondo il più recente censimento nazionale (2018),@ il popolo nasa conta 243mila persone, di cui l’88% nel Cauca.

Il «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale» della comunità, Cecidic, attraverso cui dal 1992 passano gran parte delle attività di istruzione e formazione del Progetto nasa, e al quale l’équipe missionaria ha dato un impulso fondamentale, offre corsi tecnici in agricoltura sostenibile, formazione su arti e saperi ancestrali, etno educazione ed economia, anche in collaborazione con la Pontificia università bolivariana di Medellin.

Ripasso di matematica elementare.

Oujda e i migranti

Se Toribio è un luogo dove si sovrappongono e incrociano, potremmo dire in presa diretta, le tre sfide della Gpic, Oujda, nella parte orientale del Marocco, è un posto che accoglie persone costrette ad affrontare un’impresa ancora diversa: trovare pace e benessere in Europa perché povertà, guerra e crisi climatica rendono impossibile avere queste cose nel proprio Paese d’origine.

«A volte fuggire è anche un atto di ribellione davanti a situazioni a cui non si può fare fronte», spiega, da Malaga, Silvio Testa, responsabile dell’associazione Uyamaa (dal kiswahili ujamaa, famiglia estesa, ndr) dei Missionari della Consolata in Spagna. «La voglia, non solo di aiutare la propria famiglia, ma anche di contribuire a cambiare il proprio Paese, emerge spesso nei racconti dei migranti che i Missionari della Consolata ricevono alla parrocchia di Saint Louis, con il loro servizio di accoglienza d’emergenza, attivo sette giorni su sette, 24 ore al giorno».

Nel 2024, riferisce Silvio, che con il team missionario di Oujda collabora in modo stabile, i migranti accolti dai missionari sono stati 3.744. «Di questi, l’80% circa veniva dal Sudan», il Paese africano dove è in corso la più grave crisi umanitaria sul pianeta, con 30 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti urgenti@.

Quasi metà dei migranti che sono arrivati a Oujda l’anno scorso, continua Silvio, erano minori stranieri non accompagnati, il più piccolo dei quali aveva 13 anni. C’erano poi 44 donne con 20 bambini fra i due e i dieci anni, e molti di loro in condizioni di salute che richiedono cure. Le consultazioni mediche sono state, infatti, poco meno di 1.500 e in 14 casi c’è stato bisogno di un intervento chirurgico. Le ferite e le patologie dermatologiche sono una costante, a cui si sono aggiunti tre casi di tubercolosi, due di anemia falciforme, un’insufficienza cardiaca e una renale. I missionari attivi a Oujda sono i padri Edwin Osaleh, Francesco Giuliani e Patrick Mandondo. Le principali difficoltà che segnalano riguardano l’accesso dei migranti all’ospedale, sia per i costi che occorre affrontare per ricoveri e terapie, che per la mancanza di documenti di identità degli assistiti. Fra gli altri servizi che il centro di accoglienza offre, spiegava padre Edwin in una relazione del 2024, ci sono anche il vitto e alloggio per le persone in attesa di rimpatrio volontario, la formazione professionale, l’alfabetizzazione e il sostegno alle vittime di tratta, che prevede la protezione e l’accompagnamento nelle procedure presso la polizia e le autorità marocchine.

eSwatini, lavorare per il dialogo

Sempre in Africa, ma quasi 11 mila chilometri più a Sud, c’è un’altra realtà dove favorire il dialogo può essere un modo per provare a vincere le tre sfide della Gpic. Monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, porta avanti nella sua diocesi, assieme a un gruppo di sacerdoti e collaboratori, un intenso e delicato lavoro per creare spazi di confronto costruttivo e pacifico.

Questo impegno si è reso necessario specialmente dopo che, nel 2021, il Paese ha vissuto momenti di tensione e violenza in seguito alle proteste, soprattutto da parte dei giovani, per l’uccisione di uno studente universitario e alla repressione da parte delle forze di sicurezza. Anche il 2022 ha visto ulteriori episodi violenti, e nel 2023 è stato ucciso Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani, fondatore di Msf, una coalizione di partiti di opposizione.

Al di là dei singoli episodi, alla base della tensione vi è probabilmente la frustrazione per le scarse opportunità di lavoro: il tasso di disoccupazione fra i giovani, raggiunge il 58%@.

«eSwatini», riferiva monsingor Ponce de Leon a MC nel gennaio dell’anno scorso, «ha sempre avuto un buon sistema educativo. Anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro»@.

Per riflettere su questo e altri problemi, la diocesi ha avviato diverse iniziative. «L’esperienza dei disordini ci ha aperto gli occhi sulla necessità di riunirci e dialogare», scrive oggi il vescovo. «Una delle iniziative è stato la creazione di “club della pace” nelle scuole superiori, che ora stiamo estendendo alle parrocchie».

C’è poi la sensibilizzazione sulla violenza di genere, ad esempio le due tavole rotonde con i membri del governo organizzate su questo tema, e l’inizio di un lavoro sulla salute mentale e di sostegno psicosociale: «Il suicidio sta diventando una parola familiare nel nostro Paese, almeno a giudicare dalle statistiche ufficiali. È una grande sfida in una cultura che ha sempre rispettato la vita». Infine, c’è l’Ecplo – eSwatini catholic parliamentary liaison office, «un ufficio lanciato un paio di anni fa per dare al lavoro del Parlamento un contributo ispirato alla nostra dottrina sociale. È molto apprezzato perché i nostri documenti sono brevi e diretti al punto».

Grande área de garimpo com dezenas de barracões sao vistos na regão do rio Uraricoera na Terra Indigena Yanomami. ( Foto: Bruno Kelly/Amazôia Real).

Altre esperienze

Ci sono altre esperienze significative che i missionari della Consolata portano avanti nella giustizia, pace e integrità del creato, ad esempio l’esperienza nell’Amazzonia brasiliana a cominciare da quella di Catrimani. Qui da 70 anni i missionari fanno cooperazione allo sviluppo in ambito educativo e sanitario, ma fungono anche da forza di interposizione fra le comunità indigene e le varie istanze che, nel corso di questi decenni, si sono avvicendate (o alleate) per mandare via questi popoli e sfruttarne le terre.@

C’è poi l’impegno delle missionarie della Consolata, a cominciare da suor Eugenia Bonetti, nella lotta alla tratta di esseri umani@, ma anche il lavoro che padre Nicholas Muthoka e i suoi confratelli portano avanti alla Spera, la parrocchia Maria Speranza Nostra, nel quartiere torinese di Barriera di Milano, zona popolare e multietnica@.

Dal punto di vista del pensiero e della riflessione su Gpic, a cominciare dalle parole e dal loro significato, un contributo prezioso e una sintesi di grande efficacia è stata, dalla fine anni Novanta e per una decina di anni, la Scuola per l’Alternativa, un’iniziativa dei Missionari della Consolata a Torino, in particolare di padre Antonio Rovelli, in collaborazione con questa rivista e le Ong Cisv e Vis.

«Abbiamo bisogno di parole», scriveva padre Rovelli nel 2005@, «perché le vecchie parole sono diventate moneta fuori corso per certi versi. Termini come guerra, terrorismo, amico, nemico, patria, pace, occidente, sostenibilità, progresso, Europa, democrazia e partecipazione, hanno subito una pericolosa metamorfosi semantica.

All’interno delle mura protette del Palazzo gli strateghi fanno i salti mortali, come dei veri e propri funamboli sull’asse dei significati, mentre lontano, nei vari contesti del vissuto sociale, la gente cerca significato e senso alla propria esistenza».

Difficile non sentire delle assonanze sorprendenti con l’oggi.

Chiara Giovetti




Vedere venire il bene


La mia vita, e la vita del mondo: crocifisse come te, Signore, inchiodate sulla morte.

Ero un tamarisco nella steppa: maledetto, gettato in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere (cfr. Ger 17,5-8).

Non vedevo venire alcun bene.
Nessuna consolazione mi toccava.
Tantomeno una speranza.

Ricordo in modo confuso, invece, cosa provavo guardando Maria. Invidia, forse rabbia. Sete, molta sete: un desiderio, allora, ancora senza nome.

Lei era un albero piantato lungo un corso d’acqua che non teme il caldo, perché ha radici stese verso la corrente.
Le sue foglie, in mezzo al sale di quelle ore, rimanevano verdi.

Il mio nome, Pietro, pronunciato da lei,
era un frutto dolce che mi veniva offerto. Bagnava la mia bocca disseccata.

La sua fiducia era il Padre. La sua cura per me era dire bene di Lui e di te.

Senza lei, non so se avrei ritrovato gli occhi per vedere il bene venire.

Di certo oggi protendo anche io le mie radici nodose verso il Padre, e osservo con stupore le mani di molti che, in tutta la Terra, afferrano i frutti del tuo Spirito tra le foglie verdi dei tuoi amici.

Come pellegrini di speranza tra le macerie, con Maria, fissiamo lo sguardo sul bene che viene,
da amico
Luca Lorusso

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Il capitalismo della sorveglianza


L’era digitale è piena di minacce di cui non siamo consapevoli. La raccolta e l’uso di informazioni di ogni tipo che ci riguardano è pervasiva. La possibilità di trovarci come singoli e società in uno stato di dipendenza e intontimento è concreta. Il capitalismo digitale è segnato dalla sorveglianza. È bene saperlo.

«Il capitalismo della sorveglianza» di Shoshana Zuboff, professoressa della Harvard business school dal 1981, è il frutto di anni di ricerca.

Mostra come l’era che stiamo vivendo, caratterizzata da uno sviluppo velocissimo della tecnologia digitale, sia piena di minacce di cui non siamo consapevoli.

Nel capitalismo della sorveglianza, infatti, c’è chi si appropria, per gli scopi più diversi, dei dati relativi ai nostri comportamenti, sia quando siamo online che quando siamo offline.

Ogni nostra e-mail, ogni nostra interazione, ogni nostra emozione, è venduta, controllata, manipolata.

Se molti dei dati che ci riguardano vengono usati per migliorare prodotti o servizi, molti altri diventano quelli che Zuboff chiama «surplus comportamentale privato»: dati che vengono utilizzati per capire come ci comporteremo nel futuro e, di conseguenza, per persuaderci ad assumere comportamenti che generano maggiore profitto per alcuni grandi gruppi finanziari.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza diventano allora trappole che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono catturate e usate per scopi di altre persone.

Pensiamo a quanto internet sia saturo di pubblicità «personalizzata». Messaggi continui che producono sia dipendenza che intontimento psichico. Segno di quanto siamo tracciati, analizzati, sfruttati, e del rischio di essere modificati nei nostri gusti, scelte, persino nel nostro orientamento politico.

L’occulto condizionamento delle scelte individuali

I dati che più interessano al sistema del potere digitale sono quelli che provengono dai comportamenti quotidiani, quelli che possono essere riorientati a favore di obiettivi non nostri, gli scopi economici dei capitalisti della sorveglianza.

I nuovi protocolli automatizzati sono progettati per influenzare e modificare il comportamento umano.

Anziché usare eserciti e armi, il sistema del capitalismo della sorveglianza impone il proprio potere tramite l’automazione e un’architettura sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi.

Google ha avuto un ruolo importantissimo in questa direzione, perché ha finanziato ricerca e sviluppo ponendosi all’avanguardia.

Ogni individuo è sorvegliato: ciascuno diventa plusvalore.

Il libro di Shoshana Zuboff è molto ricco di informazioni su come i dati vengono acquisiti e usati, ovviamente all’insaputa del consumatore.

Nel testo è presente un’approfondita analisi storica, giuridica ed economica di questo nuovo capitalismo fondato sulle tecnologie digitali. È presente poi la descrizione della nuova forma di potere antidemocratico basato sull’occulto condizionamento delle scelte individuali.

L’utopia della Silicon Valley, per Zuboff, nasconde proprio un disegno politico antidemocratico, la cui spia è la fortissima partecipazione dell’oligarchia economica statunitense alla politica, come dimostra il governo Trump.

Non è magia, ma sorveglianza

«Il capitalismo della sorveglianza», pubblicato per la prima volta in Italia dalla Luiss University Press nel 2019 e riedito nel 2023, è un libro a tratti inquietante, ma che apre gli occhi su un aspetto poco indagato della nostra società liquida, e che ci interpella sui nostri comportamenti, anche quelli apparentemente più banali come mettere un like o accettare i cookie.

Ci fa capire come mai, nelle nostre ricerche su Google, troviamo subito i siti degli argomenti di cui stavamo discutendo.

Non è magia, ma sorveglianza.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis

Piccola bibliografia

Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano 2024, pp. 156, 16,00 €.

Cory Doctorow è giornalista, romanziere, attivista e noto blogger. Sostiene che l’unica possibilità rimasta per rispondere al capitalismo della sorveglianza è quella di distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale così come lo conosciamo. In modo da tornare a un web aperto e libero, in cui la raccolta dei dati non sia un principio fondante.

Pedro Baños, Così si controlla il mondo. I meccanismi segreti del potere globale, Rizzoli, Milano 2020, pp. 480, 19,00 €.

L’autore, ex comandante del controspionaggio dell’Unione europea, svela i giochi di potere tra le élite politiche internazionali, le tecniche e i trucchi utilizzati per indirizzare gli eventi e manipolare l’avversario: «Impoverisci e indebolisci il tuo vicino», «Menti, qualcosa resterà», «Chi fa le parti si prende quella migliore», e così via. E come tutto questo influisca nella vita di ogni singolo cittadino.

Stefano Borroni Barale, L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificiale, Altreconomia, Milano 2023, pp. 160, 14,00 €.

In questo libro si ricostruiscono le tappe che la comunità scientifica ha attraversato da Alan Turing, primo sostenitore forte dell’IA, ai creatori di ChatGPT, il software in grado di sostenere un dialogo credibile con un essere umano.

Comprendere questo fenomeno, però, può aiutarci a costruire tecnologie alternative, che promuovano la convivialità e la partecipazione diffusa invece del controllo di pochi sugli utenti.