Buio e luce a duello (Gv 9)
Il nono capitolo del Vangelo di Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Il cuore del capitolo, però, è dedicato alle conseguenze di quella guarigione, in buona parte uno scontro verbale tra coloro che sono definiti farisei o giudei e Gesù. Gli altri personaggi si muovono in quello spazio e sono chiamati a prendere posizione. C’è chi lo fa con trasparenza e lucidità (il cieco guarito) e chi preferisce restare nell’ombra, muoversi senza chiarezza, per tenersi al riparo, come fanno i genitori del malato risanato.
Colui che era cieco, in effetti, ci mostra un atteggiamento limpido, onesto. Quello che Gesù gli chiede di fare, dopo avergli posto del fango sugli occhi: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», lui lo compie (v. 7). Quando i giudei lo interrogano sulla sua condizione, risponde sempre direttamente e senza ambiguità (vv. 9.11.17.24). Ammette serenamente ciò che non sa (vv. 12.25.36), ma intanto non gli manca il coraggio di ragionare e di provare, inutilmente, a far ragionare i suoi interlocutori (vv. 25-34): «Se quell’uomo sia peccatore, non lo so. Ma so che mi ha guarito, e non è cosa che accada tutti i giorni. Ed è strano che un peccatore possa portare a termine un’opera divina straordinaria».
Potremmo dire, seguendo il modo di esprimersi dell’evangelista, che il cieco nato mostra di vederci molto bene (o di essere guarito perfettamente) e di lasciarsi illuminare dalla luce (v. 5), mentre coloro che dovrebbero aiutare gli altri a vedere sembrano accecati dalla gelosia e da un rispetto rigido della legge: si muovono nelle tenebre (vv. 39-41, sui quali torneremo).
Il modo di ragionare umano
Abbiamo già detto che nel Vangelo di Giovanni, e in particolare in questo episodio, gli avversari di Gesù vengono definiti «farisei», ma anche «giudei». Questa seconda espressione è spesso, nel testo, una specie di parola in codice. Che quella non possa essere una definizione razzista lo intuiamo facilmente: anche Gesù è un giudeo, come i suoi discepoli e quasi tutti i personaggi del Vangelo. Per l’evangelista, però, «i giudei» sono coloro che si contrappongono a Gesù rinfacciandogli di non essere rispettoso della legge ebraica.
Molto probabilmente quella formula serviva anche a suggerire un messaggio sottinteso ai lettori di Giovanni. Alcuni di questi, infatti, non avevano abbandonato la frequentazione delle sinagoghe finché non ne erano stati espulsi, provvedimento che a volte li aveva sorpresi e di cui si rammaricavano. Giovanni sembra quasi volerli consolare, insinuando che quei giudei che si presentano come interpreti e garanti della volontà divina non si muovono necessaria- mente nella luce. Ecco perché anche del cieco nato si dice che venga «gettato fuori», espulso (v. 34), come quei cristiani scomunicati dai «giudei».
Questi, quindi, si presentano come rappresentanti della volontà divina, esprimendo un’intenzione buona e un compito prezioso.
Ma in base a cosa interpretano il volere di Dio? In base a una lettura rigorosa e pedante della legge scritta, intesa come un giudizio tranciante sulle azioni e sulle persone. Questo approccio rigido e legalista permette loro di illudersi di distinguere in modo sicuro chi è nel giusto e chi nell’errore: «Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore» (v. 24); «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?» (v. 34). È un’impostazione che costituisce sempre un rischio per qualunque persona religiosa, rischio nel quale anche le chiese cristiane nella loro storia a volte sono cadute, quello di porsi davanti alla vita degli esseri umani come giudici inflessibili, forti di una legge scritta che si pensa essere più significativa del modo con cui le persone provano a vivere e interpretare le proprie esperienze.
È lo stesso approccio che porta i discepoli di Gesù a chiedersi: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché fosse generato cieco?» (v. 2). La convinzione di fondo che ispira la domanda è che Dio interviene direttamente e immediatamente nella storia, punendo i malvagi. Questa era l’impostazione più tradizionale della religione ebraica, anche se era già stata contestata da tanti profeti: un’interpretazione consolante, perché rassicura la maggior parte delle persone di essere già a posto, già giuste.
E allora, se così fosse, di fronte a una persona che cieca non lo è diventata ma è nata, ci si interroga al limite se non sconti le colpe di altri, anche dei suoi stessi genitori. Sembrerebbe tutto logico, finché non si mettono in discussione le premesse del discorso.
Il modo di ragionare divino
Ma Gesù non si adegua a questo modo di ragionare. È vero che in questo capitolo non si insiste sul fatto che il suo modo di porsi, di dialogare e di agire rispecchi o attesti quello del Padre, ma è anche vero che il cieco guarito ci aiuta a recuperare come implicito ciò che non viene esplicitato: «Da che mondo è mondo, non si è mai sentito che qualcuno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 32-33). È il cieco stesso a vedere nella propria guarigione un segno del fatto che quanto compiuto da Gesù è opera divina. E allora, qual è e come si esprime questa opera divina? Fin dall’inizio, Gesù rifiuta di ragionare in termini di peccato. Persino la malattia invalidante è l’occasione di mostrare Dio all’opera (v. 3). E il Dio che interviene nella storia è innanzi tutto colui che permette di vivere, e di vivere in pienezza. E se Gesù fa semplicemente le opere di colui che lo ha mandato (v. 4), ciò significa che è il Padre stesso a volere che gli uomini vivano bene. A dirla tutta, non sembrerebbe che sia semplicemente Gesù ad agire, benché poi nel nostro episodio sia solo lui a fare e discutere. L’evangelista fa infatti dire a Gesù che coloro che devono agire sono tanti, «noi». Come in un lapsus, inizia a suggerire che non è solo lui a dover compiere le opere del Padre, ma anche i discepoli e i futuri credenti, che sono coinvolti in questa comunione tra Padre e Figlio. Per ora sembra un particolare non significativo, un errore casuale, ma più avanti Gesù potrà spiegare meglio che è a quello che sono chiamati tutti i credenti in lui.
Che Gesù non si muova in una logica di peccato e punizione è mostrato dalla modalità del suo intervento, che appare totalmente gratuito, un vero e proprio dono.
Fidarsi
Il cieco non chiede neppure di essere guarito. È Gesù che prende l’iniziativa. Se c’è da parte sua una richiesta previa, è semplicemente quella di fidarsi. Ma non si tratta tanto di una condizione, quanto di un ingresso nella logica divina, che chiede, cerca, spera un incontro personale profondo, giocato sempre e solo sulla fiducia. Allora Gesù spalma subito del fango sugli occhi dell’uomo, come anticipo della guarigione, ma poi gli chiede di andare a lavarsi. Peraltro, potremmo dire che è Gesù stesso, inviato da un Padre che cerca incontro e fiducia profondi, a fidarsi del cieco, perché non va a controllare che si lavi, né resta lì ad aspettarlo. Lo invia, e confida che tutto sarà fatto secondo l’intenzione del Padre.
Né pretende di essere ricompensato. Solo quando il cieco ora vedente sarà stato mortificato dai farisei ed espulso dalla sinagoga, Gesù, sentendo la notizia, lo cerca e gli propone di credere in ciò che il guarito non sa ancora di conoscere. Gli offre di entrare in una nuova dimensione di fiducia e di ascolto.
Gesù, autentico volto del Padre, rifiuta quindi di ragionare in termini di peccato, ma si muove in una dimensione di relazione personale e di fiducia, offrendola non come mezzo per compiacere se stesso, ma come risposta al desiderio e al bisogno umano.
Non il Dio severo che si offende se si viola una sua regola («Era sabato il giorno in cui Gesù aveva aperto gli occhi al cieco»: v. 14), ma il Padre amorevole che spera di essere amato, e che sa che quell’amore può fare il bene dei suoi figli.
Lo scontro tra luce e tenebra
Comprendiamo allora bene perché l’indagine dei farisei sull’uomo nato cieco sia condotta in quel modo così duro e fastidioso: non stanno cercando di capire il cuore di Dio, né di comprendere bene che cosa è accaduto, vogliono solo ricondurre tutto ai propri criteri prefissati, che attribuiscono a Dio. Tanto che, se del bene è stato fatto fuori dalle regole, è segno che non è bene, che va pensato come peccato.
E si interrogano i testimoni per scoprire tracce di questo peccato, intimidendo i genitori dell’uomo guarito e punendolo perché si limita a indicare ciò che era sotto gli occhi di tutti: «Dio non ascolta i peccatori. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 31.33).
Possiamo allora comprendere meglio la chiusura del capitolo. Gesù sostiene di essere venuto nel mondo per un giudizio, per distinguere la luce dalle tenebre. Chi con le proprie decisioni e azioni cerca di costruire l’umanità, accresce la possibilità per tutti di vivere pienamente, riconoscendo con coraggio i segni di vita e crescita e promessa che coglie intorno a sé, vive nella luce divina, vede e prospera. Gesù giunge nel mondo destinato ad aiutare a distinguere tra chi si muove in questa che è la linea di comportamento divina e chi si lega a leggi, dominio, distinzioni rigide. In questo senso «chi non vede», chi si sente peccatore, sbagliato, inadeguato perché non corrispondente a un modello rigido, tornerà a vedere. E chi crede di vedere e poter giudicare gli altri, diventerà cieco (v. 39).
È possibile che i farisei che ascoltano Gesù comprendano il senso del suo discorso, se reagiscono chiedendo: «Siamo ciechi anche noi?» (v. 40). E la risposta di Gesù è esattamente in quella linea: «Se foste ciechi», ossia se davvero non ci vedeste, senza vostra responsabilità, come un cieco che nasca tale, «non avreste colpa». «Siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (v. 41). Il Padre guarda il cuore, l’intimo, e riconosce i limiti non voluti, le fragilità, le difficoltà (anche il cieco nato ammette di non sapere tante cose), senza pensare che siano dei problemi. Esattamente come chi ama non incolpa l’amato di limiti che non riesce a superare pur provandoci, o che addirittura non riconosce. È la presunzione di essere coloro che sanno tutto, e possono vagliare chi è a posto e chi no, che ci fa essere ciechi.
Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 11 – continua)