Perdenti 63. Jan Palach, dare la vita per la libertà

testo di Don Mario Bandera |


Più di mezzo secolo fa, era il 19 gennaio 1969, Jan Palach, studente cecoslovacco si immolò dandosi fuoco nella centralissima piazza San Venceslao a Praga, per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici e il clima di repressione instaurato dall’Armata Rossa nel suo paese. Nello sbuffo di fumo legato al suo gesto estremo, che per un istante si disperse sulla sua bellissima città, era contenuto un monumento simbolico molto più solido della pietra o dell’acciaio, certamente più duraturo, perché l’uomo è nato per la libertà. La libertà è un diritto inalienabile per ogni essere umano dal giorno della nascita fino alla morte.
Alla luce delle sofferenze di Jan Palach, quello che divenne fondamentale nella «lettura sapienziale» del suo gesto fu l’autenticità della sua identità umana. Quale altra creatura sulla terra avrebbe potuto immaginare da sé la bellezza di un futuro di libertà e giustizia, fino al punto di auto immolarsi per essa? Palach con il suo gesto, ribadiva di fronte all’oppressore, che l’uomo non può vivere in schiavitù.

Le sue ultime parole sul letto di morte sono un monito ancora oggi: «Dedicatevi da vivi alla lotta».

Jan, qualche giorno prima di prendere la tua estrema decisione, scrivesti a un tuo compagno di studi, suggerendo un’azione di rivolta collettiva che non fosse più solo una testimonianza individuale.

Auspicavo una protesta di massa contro la presenza e la tracotanza dei sovietici, non più sopportabile per chi, come me e i miei compagni di università, sentiva crescere dentro di sé il «dovere» della libertà e non soltanto il bisogno.

Tu fosti anche tra i fondatori del Consiglio accademico degli studenti, studiavi filosofia, eri interessato alla storia, all’economia, alla politica; avevi partecipato a dei viaggi di studio, eri stato persino a Leningrado per conoscere meglio la cultura russa. Avevi vissuto gli effetti della «Primavera di Praga», con il vecchio apparato comunista che cercava, sciogliendosi dal diktat sovietico, di realizzare un «socialismo dal volto umano», a cui molti guardavano con simpatia.

Eravamo in molti – tra i giovani – a sognare e ad aspirare a un socialismo senza apparati centrali, che fosse veramente democratico e che ammettesse un onesto senso critico. Per un giovane studente di filosofia come me, appena ventenne, questa era una speranza che riempiva il cuore e dava senso al futuro.

I sovietici, però, infransero questo sogno col rumore assordante dei loro cingolati.

Se non ricordo male, una settimana prima dell’invasione,
Brežnev da Mosca aveva telefonato a Dubček e, dopo vari rimproveri per la mancanza di decisione del capo cecoslovacco nel reprimere le libertà che i praghesi si stavano prendendo verso il Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica) e l’Urss (con grave danno per la tenuta del Patto di Varsavia), lo aveva minacciato dicendo: «Se non interverrete voi, lo faremo noi!».

Dubček aveva risposto che non gli risultavano attacchi all’Unione Sovietica, ma Brežnev lo aveva zittito: «Come puoi dire una cosa del genere, quando tutti i giornali ogni giorno pubblicano articoli antisovietici e antipartito comunista?».

Forse Dubček – che sicuramente aveva percepito la serietà dell’avvertimento, se non altro perché Brežnev ogni tanto in tono fraterno gli si rivolgeva con «caro Saša» – aveva pensato di avere tempo, ma non ne ebbe. Una settimana dopo, il 20 agosto 1968, i carri armati sovietici entrarono a Praga.

Nelle settimane seguenti il dibattito prese toni spesso pessimisti, oppure attendisti se non opportunisti. Ma non tutti accettavano la nuova situazione. Non io e alcuni miei compagni che ci sentivamo abbandonati dal resto del mondo a una lenta agonia. Fu così che decidemmo di sfidare il potere e la morte auto-immolandoci con il fuoco. Eravamo cinque studenti universitari, e per sorte a me toccò di inaugurare il rito.

Il vostro gesto estremo si ispirava al bonzo vietnamita Thích Quang Duc che l’11 giugno 1963 si era dato fuoco a Saigon per protesta verso il presidente del Vietnam del Sud, il Ngô Dình Diêm, e la sua politica ostile alla filosofia buddhista.

Forse. Però, l’esempio d’immolazione attraverso il fuoco venne a noi da più vicino, sia nel tempo che nello spazio: l’8 settembre 1968 Ryszard Siwiec, impiegato polacco di 59 anni, si era dato fuoco nello stadio di Varsavia per protesta contro la partecipazione delle truppe polacche all’occupazione della Cecoslovacchia. Il 5 novembre 1968 anche il dissidente ucraino Vasyl Makuch si cosparse di benzina e s’immolò in una delle strade principali di Kiev, contestando l’azione dei sovietici nel suo paese e in Cecoslovacchia.

Il tuo gesto era già forte in se stesso, ma hai anche lasciato uno scritto per spiegare la tua scelta.

Certamente. Ho lasciato nel mio zaino una lettera in cui spiegavo: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zpravy” (il notiziario delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».

Il 16 gennaio 1969, verso il tramonto, Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo nazionale, inzuppò i suoi abiti di benzina e si trasformò in una «torcia umana». Non morì subito, la sua agonia durò altri tre giorni.

Il 25 gennaio ai funerali parteciparono seicentomila persone, con una processione lungo tutte le principali vie di Praga.

Dopo più di mezzo secolo da quella tragedia ci si ricorda sempre di lui e di altri giovani che scelsero lo stesso destino. Quattro giorni dopo il sacrificio di Jan Palach, l’operaio ventiseienne Josef Hlavatý, si cosparse di petrolio e si diede fuoco morendo cinque giorni dopo con una lenta e dolorosa agonia. Jan Zajíc, diciannovenne studente moravo, si autoimmolò il 25 febbraio 1969; il 4 maggio 1969, toccò a Evžen Plocek, operaio trentanovenne, che s’incendiò in un sottopassaggio della cittadina di Jihlava.

Per chi lo conobbe, Jan era sano di mente e «aveva un carattere calmo, razionale, voleva diventare filosofo e partecipare al dibattito politico», forse sentiva troppa rassegnazione attorno a sé. A quel punto, credette non restasse altro che l’oblazione della propria vita per scuotere il suo popolo.

Alexsander Dubček, segretario del partico comunista cecoslovacco e allora primo ministro, durante i funerali disse: «Il sacrificio di Jan Palach ha traumatizzato tutto il nostro paese, una cosa del genere non era mai accaduta prima in Cecoslovacchia e, per quanto ne so, in Europa».

Per anni, la notizia dei gesti estremi di questi giovani, non trapelò in Occidente, la ferrea censura del Partito comunista ne impediva la diffusione. Erano esempi scomodi per chiunque, non soltanto per i sostenitori del governo filosovietico di Gustàv Husàk (subentrato a Dubček), che sotto le direttive di Mosca cercava di «normalizzare» il paese. Ma l’oscurità che avvolgeva i paesi gravitanti nell’orbita sovietica, grazie a questi coraggiosi testimoni, cominciava a dare i primi segni di cedimento, e il sacrificio di Jan Palach, come quello di altri numerosi giovani, avrebbe alla lunga portato alla riacquisizione della libertà e della democrazia per troppo tempo soffocate.

Don Mario Bandera




Perdenti 62. Silvio Pellico, cristiano e patriota


Patriota e scrittore piemontese conosciuto soprattutto per il suo libro «Le mie prigioni», pubblicato nel 1832, che contiene le sue memorie di dieci anni di carcere duro prima a Venezia e poi nel carcere dello Spielberg nella Repubblica Ceca (allora territorio dell’Impero austroungarico).

Litografia di Silvio Pellico Pubblicata da Pietro Marietti a Torino nel 1845

Identificato spesso nella memoria collettiva come «carbonaro», cioè come attivista per l’unità d’Italia contro ogni dominio straniero, Silvio Pellico in realtà fu molto di più: scrittore, drammaturgo, educatore e soprattutto un cristiano profondamente convinto e impegnato nel sociale.

Nato il 25 giugno 1789 a Saluzzo, nella provincia di Cuneo, dal piemontese Onorato Pellico e dalla savoiarda Margherita Tournier, aveva due fratelli e due sorelle. Tutti, fin dalla più tenera età, ricevettero una robusta educazione cattolica a opera della mamma.
Suo fratello Francesco diventò in seguito un gesuita, mentre le sue sorelle presero i voti. Il primogenito, Luigi, fu molto impegnato nella politica. Il padre era un commerciante di spezie con alterne fortune, che aveva aperto un negozio a Pinerolo e poi, fallito, si era trasferito a Torino.
La prima educazione di Silvio avvenne tra queste due città, ma la difficile situazione della famiglia lo costrinse a interrompere gli studi e fu mandato in Francia, a Lione, presso un parente per imparare da lui il mestiere del commerciante.

L’esperienza francese gli fece capire che non era tagliato per il commercio. Si appassionò invece di lingue, di studi classici e degli autori italiani allora emergenti, come Ugo Foscolo e Vittorio Alfieri. L’atmosfera post Rivoluzione francese e l’euforia dei nuovi tempi napoleonici, gli fecero mettere in secondo piano la sua formazione cristiana.

Quando il padre finalmente trovò un lavoro stabile a Milano, come impiegato del ministero della guerra del Regno d’Italia voluto nel 1805 da Napoleone, nel 1809 lasciò la Francia e si stabilì in quella città diventando insegnante di francese nel collegio militare.

Entusiasta di letteratura, frequentò i circoli letterari della città e diventò amico di Ugo Foscolo, che già ammirava, e altri letterati. Affascinato dalle tragedie, cominciò lui stesso a scriverne alcune. La sua seconda, Francesca da Rimini, ispirata a Dante, fu rappresentata il 18 agosto 1815 ed ebbe grande e inaspettato successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo.

Nel frattempo, il Regno d’Italia era caduto insieme a Napoleone nel 1814 e la Lombardia era tornata sotto il dominio dell’Austria.

Come sei sopravvissuto a Milano dopo il ritorno degli austriaci?

Grazie al successo della mia tragedia e di altri scritti che andavo pubblicando, sono stato assunto come precettore dei figli del conte Porro, e mi sono trasferito ad Arluno, vicino a Milano. Così ho potuto frequentare un gruppo vivace di letterati come Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi e Giovanni Berchet, come già facevo prima, appena arrivato a Milano, quando avevo stretto amicizia con letterati e scrittori come Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, che già ammiravo dai miei studi in Francia. Sono stato anche in relazioni con personaggi della cultura non italiana, come la scrittrice francese Madame de Staël e il filosofo tedesco Friedrich von Schlegel, considerato uno dei fondatori del Romanticismo.

Un circolo di letterati, non di agitatori politici. Com’è che ti sei fatto arrestare e addirittura condannare a morte?

Nel nostro circolo venivano sostenute e sviluppate idee tendenzialmente risorgimentali, volte alla possibilità di ottenere l’indipendenza totale dell’Italia da qualsiasi potenza straniera. Nel 1818 ci siamo anche avventurati nella pubblicazione di una rivista, «Il Conciliatore», di cui ero il direttore. La rivista non voleva avere posizioni radicali né in politica né in letteratura, ma di fatto eravamo di tendenza romantica e antiaustriaca. È stata un’esperienza breve perché nel 1819 la polizia ci ha obbligato a chiudere. Ero anche entrato in un gruppo carbonaro, chiamato «i Federati».

Ovviamente io e i miei amici eravamo dei sorvegliati e quando gli austriaci sono riusciti a intercettare alcune lettere compromettenti spedite da uno di noi, Pietro Maroncelli, siamo stati arrestati. Era il 13 ottobre 1820. Ci hanno rinchiusi prima nella prigione dei Piombi di Venezia e poi in quella di Murano, e il 21 febbraio 1822 siamo stati condannati a morte.

La sentenza è stata poi commutata a venti anni di carcere duro per Maroncelli e quindici per me, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in quella che oggi è la Repubblica Ceca. Nel 1830 ci hanno graziati e siamo tornati in libertà.

In famiglia avevi ricevuto una forte formazione religiosa, ma in gioventù te ne eri allontanato. Che è successo in carcere che ti ha fatto tornare alla fede?

Il periodo francese e quello milanese, con tutti gli entusiasmi rivoluzionari e gli influssi romantici, mi avevano allontanato dalla pratica della fede. Ma in prigione sono stato costretto a riflettere e ho avuto la grazia di avere con me alcune persone sinceramente credenti, come il conte Antonio Fortunato Oroboni, compagno di sventura in quel carcere e sincero cristiano che era stato arrestato nel 1819 nel suo paese di Fratta Polesine dove aveva fondato uno dei primi gruppi carbonari. C’era anche il mio amico Pietro Maroncelli, anche lui credente convinto.

Dal carcere ho scritto a mio padre nel 1822: «Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m’aveva quasi rapito». È stata un’esperienza profonda. Ogni domenica partecipavo alla messa, meditavo assiduamente la Bibbia, avevo la possibilità di leggere libri devoti. La religione mi ha aiutato ad abbandonarmi alla volontà di Dio, a essere paziente nel sopportare le prove, e mi ha dato la capacità di perdonare e amare tutti.

Tornato in libertà hai scritto il libro «Le mie prigioni», che ti ha fatto conoscere in tutta Europa.

Volevo ringraziare la Provvidenza per l’esperienza che avevo vissuto e mi aveva cambiato la vita. Per questo ho concluso il libro con queste parole: «Ah! Delle mie passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà ancora serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti [sic] ch’ella sa adoprare a fini degni di sé».

«Le mie prigioni», che hanno visto la luce nel 1832, erano per me soprattutto la testimonianza del mio cammino interiore e di come la fede fosse stata la fonte della mia resilienza. Non volevo vendicarmi di nessuno o denigrare qualcuno, ma certo desideravo raccontare semplicemente la verità di quanto avevo vissuto, anche non proprio tutto.  Il libro è stato accolto con grande favore, oltre ogni mia aspettativa, soprattutto per l’attenzione e la correttezza che avevo avuto nel giudicare i miei stessi carcerieri e per la nitidezza dell’ambientazione, lontanissima dal vaporoso sentimentalismo allora di gran moda quando si trattavano questi argomenti.

Ma ti aspettavi che diventasse quasi la bandiera del patriottismo, prima in Italia e poi anche in altre nazioni?

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Il libro ha avuto in Europa parecchie ristampe e numerose traduzioni, suscitando ovunque simpatie e appoggi nei confronti del Risorgimento italiano e una generale ripulsa contro le potenze straniere che occupavano il nostro paese. Di ciò ben si è accorto il Cancelliere della Corte di Vienna, Klemens von Metternich, che invano ha tentato più volte di confutare la mia testimonianza vissuta in carcere e di far mettere all’Indice il mio libro. Certamente non hanno avuto torto coloro che hanno detto che esso aveva danneggiato l’Austria più di una battaglia perduta.

Con i tuoi scritti e con il tuo atteggiamento ti sei però tirato addosso le diffidenze dei cattolici reazionari e dei liberali più accesi.

In molti il patriottismo andava di pari passo con massoneria e anticlericalismo, cose che ovviamente non trovavano in me. I liberali poi si sono sentiti anche più maldisposti verso di me quando sono diventato amico e poi segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionari. Io però ho continuato la mia attività di scrittore e nel 1837 ho pubblicato due volumi di «Poesie inedite», sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso; in quel periodo ho anche iniziato a scrivere, senza condurla mai a termine, la mia autobiografia.

Perché con i marchesi di Barolo?

Tornato in libertà, sono stato accolto dalla mia famiglia, ma non riuscivo a trovare un lavoro stabile e dignitoso. A un certo punto ho ricevuto l’offerta di andare a Parigi come istitutore del figlio del re Luigi Filippo, ma mi dispiaceva tantissimo lasciare i miei genitori proprio quando avevano più bisogno di me. Saputolo, la marchesa e il marito, di comune accordo, mi hanno offerto l’impegno di bibliotecario. Ho accettato con gioia. Con loro avevo una forte amicizia, la marchesa era stata una delle prime persone a congratularsi con me dopo la lettura de «Le mie prigioni», e condividevamo lo stesso spirito di fede e di impegno sociale per i più poveri. Per me erano «anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio».

I marchesi sono stati i fondatori delle Suore di sant’Anna, ancora oggi ben attive a Torino, e hanno avuto una attenzione particolare per l’assistenza alle carcerate e per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Hanno promosso le scuole per i più poveri, aiutato i malati (durante il colera del 1835, il marchese stesso ne è stato contagiato) e dato sostegno economico a tante attività caritative e alla costruzione di chiese.

Nel 1851 Silvio Pellico e Giulia Colbert Faletti entrarono nel laicato francescano come terziari. Pellico si spense il 31 gennaio 1854. Le sue spoglie riposano nel Cimitero monumentale di Torino, fondato proprio dai marchesi di Barolo.

Don Mario Bandera




I Perdenti 61. Salvo D’Acquisto, donare la vita

 

testo di don Mario Bandera |


Dopo le convulse settimane che fecero seguito all’8 settembre 1943, periodo nel quale la macchina bellica italiana si sfasciò, prima ancora che il paese potesse riprendersi dal collasso, uomini e donne dal carattere nobile seppero trovare nelle loro coscienze e nelle loro qualità di fondo le forze che permisero al nostro paese di risollevarsi e di guardare con fiducia al futuro. In questo contesto, il giovane vicebrigadiere Salvo D’Acquisto fu capace di assumere il ruolo gigantesco e pur umile di un martire cristiano. Per capire meglio la vicenda di questo giovane bisogna ricostruire l’episodio accaduto il 23 settembre di quell’anno a Palidoro, una località sulla costa tirrenica a pochi chilometri da Roma. Truppe naziste avevano occupato la zona e un reparto di paracadutisti tedeschi della 2ª Fallschirmjäger-Division (2ª divisione cacciatori) era accasermato presso alcune vecchie postazioni già in uso alla Guardia di Finanza nelle vicinanze della località Torre Perla di Palidoro.

Qui, nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1943, alcuni di loro, mentre ispezionavano l’antica torre saracena in riva al mare, usata dalla Finanza come deposito di materiale illegale sequestrato ai pescatori, furono investiti da un’esplosione, probabilmente causata da un ordigno rudimentale usato da pescatori di frodo, a suo tempo sequestrato dai finanzieri. Due paracadutisti morirono e altri due rimasero feriti.

Quel che realmente accadde non si conosce ancora con precisione, ma certo la reazione dei soldati fu immediata e dura, pensando a un attacco di partigiani.

Salvo, com’era la situazione generale in quel momento?

Nella zona, abitata prevalentemente da gente impoverita dalla guerra, non operavano gruppi partigiani. A Torrimpietra si tirava avanti con fatica, tanto che io stesso avevo spesso condiviso le razioni della caserma con i più poveri.

Che ci faceva un napoletano come te in quella zona?

Nato nel ‘20, ero cresciuto nel quartiere del Vomero. Avevo cercato di studiare, partecipavo alla vita della parrocchia e mi piaceva cantare, ma presto avevo dovuto cominciare a lavorare con un mio zio. Quando a 18 anni ho ricevuto la cartolina di leva, ho scelto di entrare nei carabinieri, come già diversi miei parenti avevano fatto. Entrato nel ’39, nel 1940 mi hanno mandato con il mio reparto in Libia, dove sono anche stato ferito a una gamba. Rientrato nel 1942, a settembre ho frequentato il corso accelerato per allievi ufficiali a Firenze e ne sono uscito come vicebrigadiere. Ho chiesto io stesso di essere mandato in una stazione di periferia per essere più vicino ai poveri. Mi hanno mandato a Torrimpietra, non lontano da Fiumicino. In breve avevo conosciuto quasi tutti. Poi è successo quel terribile incidente.

Dopo la morte dei soldati, che accadde?

Quel 22 settembre 1943, la sera tardi, dopo lo scoppio della bomba, poiché i soldati non parlavano italiano, hanno cercato del personale della polizia italiana per fare le indagini e trovare i colpevoli. A Palidoro non c’era la stazione dei Carabinieri, il comando più vicino era a Torrimpietra. Là mi hanno prelevato, perché al momento ero il militare più alto di grado in quanto il maresciallo comandante era assente.

Cosa hai fatto, allora?

Pressato dal comandante tedesco, che mi aveva dato tempo solo fino al mattino, ho provato a fare delle ricerche per capire cosa fosse successo, ed è apparso subito chiaro che si era trattato di un incidente e non di un attentato. Ma il comandante dei parà tedeschi non ne volle sapere. Era un tipo che aveva già usato violenza sulla gente in altri luoghi e voleva un colpevole a tutti i costi. Ha quindi scatenato i suoi che hanno prelevato 22 ostaggi tra la popolazione della borgata, assolutamente presi a caso. Tra loro, nella retata, c’erano perfino un venditore ambulante e un commerciante di Santa Marinella che passavano casualmente in quel momento sull’Aurelia.

Quindi, ti venne ordinato di individuare tra i prigionieri l’autore dell’attentato.

Dopo aver interrogato gli ostaggi, cercai in tutti i modi di far capire al comandante tedesco che nessuno di loro poteva essere un attentatore, perché era chiaro che era stato un incidente. La loro risposta fu rabbiosa. Mi presero a pugni e a calci, lasciandomi svenuto sul pavimento. Mi ripresi qualche momento dopo, in tempo per ascoltare questa affermazione urlata da un ufficiale nazista: «Se il colpevole non salta fuori, morirete tutti».

Quindi, portarono via gli ostaggi?

Anch’io fui costretto a salire sul camion con loro. Ci portarono ai piedi della Torre di Palidoro. Sulla sabbia erano già piantate, rigorosamente in fila, cinque vanghe di modello militare; dietro di esse un drappello di soldati con i mitra imbracciati. Dovevamo scavarci la fossa.

Condannati senza nemmeno un processo?

No, ci fu una farsa di processo: l’ufficiale passò davanti a tutti noi ostaggi ben allineati, e a ciascuno domandò se fosse l’autore dell’attentato. Ottenne evidentemente una serie di «no» terrorizzati. Dopo questa parodia, l’ufficiale nazista tracciò una lunga riga sulla sabbia col frustino e disse: «Va bene, scavatevi la fossa».

© Report Difesa

Il lavoro di scavo durò quel tanto da far maturare nella coscienza di Salvo D’Acquisto la sua decisione. D’Acquisto aveva quasi 23 anni, ma era già una personalità decisa, anche se «prima» appariva perfino timido e incolore.
Fece chiamare l’ufficiale e si proclamò autore dell’attentato e unico responsabile di tutto. Quindi, Salvo ebbe appena il tempo di gridare «Viva l’Italia», e una raffica di mitragliatore lo colpì. Il suo corpo cadde senza vita nella fossa già scavata. Un ufficiale si chinò sulla vittima e sparò il colpo di grazia alla testa del giovane; alcuni soldati tedeschi poi coprirono con terra e sabbia il cadavere.

Il suo corpo rimase sepolto lì per una decina di giorni, poi due donne della zona lo dissotterrarono e gli diedero degna sepoltura presso il cimitero di Palidoro.

L’autoaccusa di Salvo D’Acquisto è stata considerata un grande atto di eroismo che gli è valsa una medaglia d’oro al valor militare e il processo di canonizzazione iniziato nel 1983. Le sue spoglie, riportate a Napoli nel 1947 e tumulate presso il sacrario militare di Posillipo, si trovano oggi nella basilica di santa Chiara a Napoli.

Don Mario Bandera

 


Diventerà davvero beato?

 

Una risposta possibile da questi passaggi tratti da articoli di due giornali cattolici (il testo completo è reperibile online).

 

Sin qui dunque l’eroe. Per giunta l’eroe morto disarmato invece che con le armi in pugno. E il santo? La questione della santità? Il 23 settembre 1983, quarantesimo anniversario della morte, l’allora ordinario militare Gaetano Bonicelli disse: «Salvo D’Acquisto ha fatto il suo dovere in grado eroico, ben oltre quello che il regolamento gli chiedeva. Ma perché l’ha fatto? Forse, in quel momento tragico, gli sono risuonate nel cuore le parole di Cristo: “Non c’è amore più grande che dare la vita per chi si ama”. Ma anche se la memoria del testo evangelico non l’ha aiutato, la forte educazione cristiana ricevuta in famiglia e nella scuola gli ha fatto cogliere l’essenziale del Vangelo». Parole con le quali il presule avviava la causa di canonizzazione di quel giovane autore di un gesto da martire che, come afferma oggi anche il fratello Alessandro, ebbe certo presente l’onore dell’Arma, la fedeltà alla patria, ma pure si abbandonò a Dio che quel «giorno di amore supremo» attinse in un campo dove aveva seminato. Una semina iniziata in famiglia, nelle scuole e negli ambienti religiosi delle Figlie di Maria Ausiliatrice, poi dei Gesuiti e dei Salesiani, frequentati sin dall’infanzia e dall’adolescenza. Dove affiora la prima educazione, non sfuggita nella documentazione per la causa di beatificazione svoltasi presso l’Ordinariato militare d’Italia, con un supplemento d’inchiesta nella diocesi di Napoli, dal 1983 al 1991, mentre nel 1999 si è resa necessaria una nuova inchiesta per indagare la possibilità del martirio (come per Massimiliano Kolbe). […]

Di lui, le cui spoglie riposano nella basilica di santa Chiara a Napoli dal 1986, resta in ogni caso la sintesi fatta da Giovanni Paolo II: «Ha saputo testimoniare la fedeltà a Cristo e ai fratelli. Ecco perché può definirsi un santo che ha contribuito per costruire la civiltà dell’amore e della verità».

Marco Roncalli
da Avvenire 14/10/2020

 

Dopo un rallentamento, sembra che la causa di beatificazione per «offerta della vita» abbia ripreso slancio. Mons. Gabriele Teti, postulatore della causa ed ex carabiniere, racconta che Salvo «a Roma incontrò un amico con il quale aveva fatto il corso da carabiniere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ci fu un grosso gruppo di Carabinieri che passò alla clandestinità, per combattere i tedeschi a Roma. un commilitone lo invitò a lasciare la divisa per unirsi ai partigiani. Rispose che il suo dovere era tutelare l’ordine, la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli erano state affidate e che il suo compito non era di andare via». Salvo era nato e cresciuto in una famiglia molto religiosa. Confida il postulatore: «Già nell’infanzia piccoli episodi fanno capire la sua indole. Tornando da scuola, donò le sue scarpe a un bambino che incontrava e che era scalzo. Un’altra volta si avventò a salvare un bambino che stava per finire sotto un treno». La causa di beatificazione si è arenata sul problema del martirio. Ora il sacrificio di Salvo rientra più facilmente nella categoria «offerta della vita», criterio introdotto da Papa Francesco l’11 luglio 2017 con il motuproprio Maiorem hac dilectionem: «Sono degni di speciale considerazione e onore quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri e hanno perseverato fino alla morte in questo proposito. L’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità, esprime una vera, piena ed esemplare imitazione di Cristo ed è meritevole di quella ammirazione che la comunità dei fedeli è solita riservare a coloro che volontariamente hanno accettato il martirio di sangue o hanno esercitato in grado eroico le virtù cristiane». Il «dono della vita» è simile ma non uguale al martirio.

Pier Giuseppe Accornero
da La Voce e Il Tempo, 19/10/2020




I Perdenti 60. Derek Redmond e la tenerezza di un papà

testo di don Mario Bandera |


L’infortunio di Derek Redmond alle Olimpiadi del 1992 non è solo uno straordinario episodio sportivo ma, soprattutto, una toccante testimonianza d’amore. Una dimostrazione del profondo legame che c’è tra un padre e un figlio. Fra il padre di Derek, suo primo «allenatore» e tifoso, e il figlio corridore.

Portrait of Derek Redmond taken in 2007

Derek Redmond nasce a Londra il 3 settembre del 1965. Fin dall’adolescenza mostra il suo talento nella corsa e fa sperare che col tempo si farà strada. Crescendo si specializza nella corsa dei 400 metri piani e sorprendentemente, non ancora ventenne, stabilisce il record britannico nella specialità. Prima di partecipare ai giochi olimpici di Seul nel 1988, Redmond vince un argento mondiale e un oro europeo.

Nella capitale coreana, durante le batterie di qualificazione, nel riscaldamento, a meno di due minuti dall’inizio della gara, Redmond sente un dolore lancinante a una gamba, che non gli permette di prendere parte alla corsa.

Sul tabellone, a fine gara, il giovane inglese figura quindi in ultima posizione con la dicitura Dnf «Did not finish» (non ha finito). Derek subisce diversi interventi chirurgici, e riesce a ritornare competitivo, tanto da partecipare di nuovo alle olimpiadi, quelle di Barcellona del 1992 durante le quali, però, avrà un nuovo infortunio. Nel nostro colloquio immaginario ripercorriamo le tappe della carriera sportiva di Derek fino a quel famoso incidente.

Ci racconti, in breve, i tuoi risultati prima dell’Olimpiade del ‘92?

Ho battuto il record britannico dei 400 metri piani nel 1985, quando non avevo ancora vent’anni. Nel 1986 ero parte della squadra che vinse la staffetta 4×400 metri ai Campionati europei e ai Giochi del Commonwealth. Nel 1987 ho riconfermato e migliorato il mio record nei 400 metri piani, lo stesso anno in cui ho vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4×400 ai mondiali di Roma.

Quando è iniziata la tua passione?

Ho iniziato a correre quando ero ancora bambino, con mio padre che mi accompagnava nelle diverse piste d’atletica dove erano in programma le più svariate corse podistiche giovanili.

Tutti dicevano che avevo una falcata potente ed elegante, resistenza nella velocità, capacità di dosare lo sforzo e dedizione assoluta negli allenamenti.

Uno così è conteso da tutti gli allenatori giovanili.

E io ho sempre cercato di non deludere chi aveva fiducia in me.

Diciamolo pure, uno che a diciannove anni ha fatto il record britannico del mezzofondo è apparso subito come il volto nuovo per l’Europa che voleva sfidare gli Stati Uniti nei quattrocento metri all’Olimpiade di Seul.

Mi ero preparato con scrupolo e dedizione per quell’evento.

Ero giovane, ma sapevo che certi treni non passano spesso. Mi ero allenato duramente ed ero arrivato in Corea con due ambizioni: la prima era quella di qualificarmi per la finale, la seconda era di tornare a casa con una medaglia. Non importava di che colore, mi bastava salire sul podio.

Ma il 1988 non è stato il tuo anno, visto che durante i giochi non hai potuto partecipare alla finale per un infortunio al tendine di Achille. Come hai reagito di fronte a quella situazione?

Mi sentivo bollato da quel Dnf, «non ha finito la corsa». Dopo quell’infortunio ho dovuto subire in tutto ben tredici interventi. I piedi, le caviglie e le mie gambe stavano insieme come cristalli di Boemia: delicatissimi, ma per me preziosissimi. Il mio sogno era tornare a essere di nuovo competitivo: è stato veramente un cammino lungo e doloroso che mi ha impegnato per diversi anni.

La tenacia e la perseveranza hanno portato il loro frutto: hai vinto, infatti, l’oro nella staffetta 4×400 metri ai mondiali di atletica di Tokyo del ‘91.

L’allenatore della squadra britannica credeva in me e si era preso il rischio di mettermi nella staffetta per i mondiali. Ero in squadra con Roger Black, John Regis e Kriss Akabusi: sulla carta una grande staffetta. Nella pista di Tokyo siamo diventati la staffetta della leggenda che ha trionfato lasciandosi alle spalle il fortissimo quartetto a stelle e strisce.

Così ti sei qualificato agevolmente per l’appuntamento olimpico del 1992 a Barcellona. I bookmakers inglesi ti presentavano come uno dei favoriti.

Finché non ho avuto il mio nuovo infortunio, sembrava che l’Olimpiade questa volta andasse bene. Avevo vinto tutte le gare preliminari ed ero già nelle semifinali della corsa dei 400 metri. Mi avevano dato la corsia numero cinque, quella riservata ai migliori, con un raggio di curva ideale e la possibilità di controllare facilmente gli avversari ai lati.

Subito dopo lo sparo dello starter, sono partito con agilità e ho iniziato la solita progressione. Ma ai centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito il muscolo della gamba «stirarsi» e un dolore lancinante. Una gamba ha ceduto di schianto e mi sono accasciato a terra portandomi le mani sul viso. Gli altri atleti già tagliavano il traguardo mentre io ero ancora là, in ginocchio sulla pista, immobile e in lacrime.

Pensavo ai quattro anni passati tra sale operatorie, centri di riabilitazione, palestre e pista per cancellare quel Dnf di Seul.

Derek Redmond aiutato dal padre / Photo by Pascal PAVANI / AFP

A questo punto un giudice ti è corso vicino per aiutarti a lasciare la pista, ma tu hai rifiutato il suo aiuto. Ti sei rialzato e, zoppicando vistosamente, hai ripreso la tua corsa saltellando su una gamba sola.

Dentro di me ripetevo insistentemente che non ci sarebbe stato di nuovo un Dnf accanto al mio nome. Dovevo finire la corsa. Mi son tirato su, mi sono messo in piedi e ho cominciato a saltellare sulla gamba sana per raggiungere la meta. Il dolore era molto intenso, ma non sono uno che si arrende facilmente. Volevo finire la gara, fosse anche stata la mia ultima corsa. Nulla per me era peggio del pensiero che non avrei terminato la mia gara.

In quel momento tutti gli spettatori dello stadio avevano occhi solo per te.

Saltellando stremato, sono arrivato al rettilineo finale. In quel momento, un uomo, evitando la sorveglianza, è entrato in pista ed è corso verso di me. Con sorpresa ho visto che era mio padre, quel papà che vent’anni prima mi aveva portato per la prima volta su una pista d’atletica.

Evidentemente non ce la faceva più a vederti in quelle condizioni.

Mi si è avvicinato e mi ha sorretto, aiutandomi a sopportare il dolore: io piangevo come un bambino, ma avevo accanto a me la migliore spalla su cui posare il capo. Così insieme, abbracciati, io e mio padre abbiamo continuato la nostra corsa.

In quel breve percorso cosa ti ha detto tuo papà?

Mi ha ripetuto con voce piena di commozione: «Derek, sono tuo padre, tieni presente che non sei obbligato a finire la corsa».

Gli ho risposto: «Papà, voglio portare a termine questa gara».

E lui, di rimando: «Ok, abbiamo iniziato questa avventura insieme e la finiremo insieme».

Poi mi ha consigliato di camminare e smettere di correre saltellando, ripetendomi in continuazione. «Sei un campione, non hai nulla da dimostrare».

Abbracciati, abbiamo zoppicato insieme verso la linea del traguardo. Sulla pista eravamo ormai solo io e mio padre, l’uomo a cui ero più affezionato, quello che aveva supportato le mie scelte e la mia carriera nell’atletica da quando avevo sette anni.

Sugli spalti erano tutti in piedi a vedere voi due, padre e figlio, che procedevate uniti. Poi, tuo padre ti ha lasciato a cinque metri dal traguardo.

Sì, era la mia gara, e dovevo finirla da solo. Lui era al di là della linea, ad accogliermi con un grande abbraccio.

Non mi sono neppure accorto della «standing ovation» che il pubblico mi dedicava, non capivo più nulla, ero solo in lacrime.

 

Il video di quella gara è stato scelto dal comitato olimpico internazionale per la campagna Celebrate humanity perché: «Redmond e suo padre, nonostante il dolore e l’umiliazione, non arrivarono primi o secondi o terzi. Ma arrivarono!». A distanza di tanti anni Derek ripete che quella gara gli ha tolto tutto ma gli ha dato di più. E continua a riportare la sua esperienza in giro per il mondo. Perché le medaglie passano, le statistiche si dimenticano, i risultati si confondono: solo le emozioni rimangono.

Don Mario Bandera

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Ricordiamo che i fatti sono veri, ma questa intervista a Derek,  che è ancora vivo e vegeto, è una finzione.




I Perdenti 59. Il «cura gaucho», san José Gabriel Brochero

testo di Don Mario Bandera |


José Gabriel del Rosario Brochero nacque a Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) probabilmente il 16 marzo 1840, sebbene sia stato registrato all’anagrafe un giorno dopo, quando ricevette il battesimo. I genitori, Ignacio Brochero e Petrona Dávila, erano poveri ed ebbero dieci figli. José, il quarto nato, si fece prete e tre delle sue sorelle seguirono la vita consacrata, entrando tra le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli.

Morì contagiato dalla lebbra il 26 gennaio del 1914. È stato beatificato da papa Francesco (suo conterraneo) il 14 settembre 2013, e successivamente canonizzato, sempre da papa Francesco, il 16 ottobre 2016.

Il discernimento vocazionale di Brochero, iniziato nell’infanzia, fu lungo e travagliato. Un suo amico, Ramón José Cárcano, testimoniò di averlo spesso udito esprimere dubbi e incertezze sul suo diventare sacerdote. Alla fine, José Gabriel entrò nel collegio seminario «Nuestra Señora de Loreto» a Cordoba il 5 marzo 1856, a sedici anni. Il 4 novembre 1866, fu ordinato sacerdote dal vescovo José Vicente Ramírez de Arellano.

Da novello sacerdote, José Gabriel fu impegnato su tre fronti:

  • fu collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba;
  • fu instancabilmente attivo nel soccorso agli ammalati e nell’assistenza ai moribondi quando nel 1867 scoppiò nella provincia di Córdoba, come nella capitale Buenos Aires, un’epidemia di colera;
  • servì come prefetto agli studi del seminario maggiore avendo ottenuto nel 1869 il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba.

Nel novembre 1869, fu destinato alla parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Qui si dedicò anima e corpo all’evangelizzazione della popolazione della vasta zona, alla cura degli infermi e anche all’organizzazione della società civile, promuovendo la costruzione di strade, ponti in pietra e persino una linea ferroviaria, tutto per ottenere dei collegamenti più rapidi con la città capoluogo di Córdoba e non lasciare nell’isolamento la popolazione di cui si prendeva cura.

Dicono che la tua morte fu causata dalla lebbra presa visitando i lebbrosi, ma il tuo servizio di sacerdote era già iniziato mentre era in corso un’altra grave epidemia.

Proprio così. Nel 1867, l’epidemia di colera aveva devastato la città di Córdoba colpendo oltre 4mila persone. Pensai che fosse naturale per me, come sacerdote, andare di casa in casa consolando e sostenendo le famiglie, assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati, e dando una sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia.

Due anni dopo, era il 18 novembre 1869, fosti incaricato della cura d’anime in una parrocchia nel cuore della pampa.

Era la parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Vi giunsi da Córdoba dopo tre giorni di viaggio in sella alla mia mula malacara (faccia brutta). San Alberto era una parrocchia di poco più di diecimila anime, che si estendeva su un’area di oltre 4mila chilometri quadrati, popolata da gauchos, ovvero i cow boy dell’America del Sud, che erano addetti alle grandi mandrie di bovini e ovini loro affidati, sia nella pampa che sulle montagne, da semplici contadini attaccati alla loro terra e anche infestata da bande di briganti. Le comunicazioni erano molto difficili, soprattutto a causa della mancanza di strade percorribili tutto l’anno e alla presenza di ostacoli naturali come le catene montuose delle Sierras Grandes.

Un anno dopo il tuo arrivo, accompagnavi già uomini e donne a Córdoba per far compiere loro gli Esercizi spirituali secondo il metodo di Sant’Ignazio.

Una volta arrivato, la prima cosa che feci fu di dedicarmi anima e corpo alla gente, vivendo come loro e stando vicino a loro in ogni modo. Anche il mio modo di vestire si adattava all’ambiente. Mi vestivo come un gaucho con un poncho sulle spalle che copriva la talare, stretta in vita da una cintura di cuoio. In testa avevo un cappello dalle ampie falde; in mano il libro di preghiere e il messale, tenuti insieme con un nastro rosso per non perderli durante i viaggi.

Sigaretta in bocca, usavo un linguaggio semplice e diretto, molto colloquiale, e a volte forte, per farmi comprendere da gente analfabeta che parlava solo il dialetto. Mi chiamavano il cura gaucho perché sapevo cavalcare e domare muli e cavalli come loro. Così visitai tutte le famiglie e davo una mano a tutti, sia dal punto di vista materiale che spirituale. Passavo ore a confessare, e i miei preferiti erano i poveri, perché «Dio è dappertutto, però è più vicino ai poveri che ai ricchi. È come i pidocchi». I prediletti dei pidocchi sono proprio i più miseri, gli indigenti, quelli che non si lavano, né si vestono bene e non hanno cibo a sufficienza.

Oltre alla povertà materiale c’era ovviamente tanta povertà spirituale.

Per questo mi impegnavo molto nella predicazione attraverso visite nelle case, anche quelle più lontane. Mi fermavo anche due giorni in una famiglia, radunando amici e vicini, per avere tempo per confessioni, catechesi e messa. Cercavo di farmi invitare nella casa della «persona più condannata, più ubriacona e ladrona della zona, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente sarebbe venuta ad ascoltarmi. Se fossi invece andato da una buona famiglia, quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi spirituali».

Esercizi spirituali? Ma non sono cose da preti, frati e suore?

Gli Esercizi, ispirati a sant’Ignazio di Loyola, «sono una via e un metodo particolarmente prezioso per cercare e trovare Dio, in noi, attorno a noi e in ogni cosa, per conoscere la sua volontà e metterla in pratica», mettendo ordine nella propria vita. Per chi accettava la proposta, organizzavo carovane per raggiungere Córdoba. Tali carovane superavano a volte le cinquanta persone, e d’inverno erano spesso sorprese da tormente di neve. Dopo le asperità del viaggio e grazie al clima di amicizia che si creava fra loro in quei giorni di ritiro, molti decidevano di cambiar vita.

Dato che il viaggio era lungo e difficile, pensasti di fondare una casa per Esercizi spirituali a Villa del Tránsito, la cui costruzione, avvenuta con la collaborazione attiva dei tuoi parrocchiani, durò dal 1875 al 1877.

Vero, e a quella casa fece seguito, nel 1880, una scuola per le bambine, perché non sopportavo l’idea che il mondo delle ragazze adolescenti fosse tagliato fuori dal progresso che stava arrivando anche nel cuore profondo dell’Argentina.

Spronasti la gente anche a costruire nuove strade, ponti in muratura, uffici postali e persino una ferrovia, ma lo sforzo maggiore lo dedicasti alle scuole rurali. Migliorando le possibilità di comunicazione e accrescendo la loro cultura aumentavi il benessere comune.

Bisogna dire che lungo tutta la mia vita ho profuso instancabilmente il mio impegno civile e religioso per spingere i miei parrocchiani alla costruzione di infrastrutture per migliorare le comunicazioni e uscire dall’isolamento. Nelle località più isolate, soprattutto, stimolavo anche a far sorgere case di accoglienza per i poveri e gli infermi oltre a scuole rurali per i bambini e i ragazzi più bisognosi.

Nemmeno il freddo o la pioggia ti facevano desistere dal promuovere incontri di catechesi per la formazione del tuo popolo e portare I sacramenti agli ammalati.

«Altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», ripetevo alla mia gente.

Un giorno però il vescovo ti volle con sé nella città di Córdoba e ti nominò canonico della cattedrale.

Nell’aprile del 1898 accettai di essere nominato canonico della cattedrale di Córdoba e lasciai quindi la parrocchia il 30 maggio. Lo feci solo per obbedienza e perché la mia salute non era molto buona, sperando di potermi curare meglio in città. Ma la città non era per me e il 25 agosto 1902 fui nuovamente nominato parroco a Villa del Tránsito, dove rientrai il 3 ottobre, rinunciando al canonicato.

Per quanto gratificante fosse il ruolo di canonico della cattedrale, sentivo sempre più impellente la necessità di stare vicino alla gente per alimentare in essa la speranza di un futuro migliore e vivere con dignità la sua esistenza, specialmente quella dei più poveri.

Rientrato a Villa, hai continuato a scegliere quelli che erano in condizioni più difficili, senza guardare a rischi personali.

La vita dei più poveri era più importante della mia. E i più poveri erano i lebbrosi. Sì, nella mia parrocchia c’erano anche lebbrosi che erano abbandonati da tutti, ma Dio non li aveva dimenticati. Per questo li visitavo regolarmente. Tra di loro c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Riuscii ad avvicinarlo e lo visitavo regolarmente: gli portavo da mangiare, lo pulivo e bevevo il mate con lui. Era il mio modo per dimostrargli quanto valesse agli occhi di Dio.

Bevendo il mate con lui ti sei preso la lebbra.

Sì, visitando i lebbrosi sono diventato anch’io lebbroso. Ho dovuto lasciare la parrocchia e ritirarmi presso una mia nipote, perché ero diventato molto debole e quasi cieco. Io che una volta ero come un cavallo di razza, pieno di energia, dovevo farmi aiutare per le mie necessità e anche per celebrare la messa. «Ma è un grandissimo favore che mi ha fatto Dio Nostro Signore liberandomi completamente dalla vita attiva e lasciandomi solo con la vita passiva, voglio dire che Dio mi ha dato come occupazione… di pregare per gli uomini passati, per quelli presenti e per quelli che verranno fino alla fine del mondo».

Il «cura gaucho» morì, o meglio visse la sua Pasqua, a Villa del Tránsito il 26 gennaio 1914, tre mesi dopo aver scritto una lettera al suo vescovo, in cui diceva: «Ora ho tutto pronto per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

È certo, fosse anche solo per la complicità della comune origine argentina, che papa Francesco ha sempre stimato molto «el cura gaucho». Anzi, c’è da scommettere che quando nella messa crismale del 2013 (la prima nella sua nuova veste di «vescovo di Roma») ha chiesto ai preti di essere pastori zelanti con «l’odore delle pecore», pensava a lui. Come del resto ha lasciato trasparire alla sua canonizzazione, quando lo ha definito: «Pastore che odorava di pecora, che si fece povero tra i poveri, che lottò sempre per stare vicino a Dio e alla gente, che fece e continua a fare tanto bene come carezza di Dio al nostro popolo sofferente».

Nel 1916, in suo onore, la cittadina argentina di Villa del Tránsito dove morì, assunse il nome di Villa Cura Brochero.

Dichiarato venerabile da papa Giovanni Paolo II nel 2004, beatificato da papa Francesco il 14 settembre 2013 dopo il riconoscimento di un miracolo a lui attribuito, è stato canonizzato il 16 ottobre 2016. I suoi resti mortali sono venerati nel santuario della Madonna del Transito, a Villa Cura Brochero, mentre la sua festa liturgica è stata fissata il 16 marzo.

Come ultima sottolineatura segnaliamo che cresce sempre più in Argentina, come in altre parti dell’America Latina una richiesta abbastanza originale: che il santo sacerdote José Gabriel del Rosario Brochero, sia proclamato «protettore per il turismo equestre e per i cavalieri e le amazzoni che lo praticano».

I missionari e missionarie della Consolata lo hanno scelto come loro protettore e modello per questo anno 2021.

Don Mario Bandera




I Perdenti 58. Beato Carlo Acutis

L’Eucaristia «è la mia autostrada per il Cielo». Sono le parole semplici e significative di un adolescente, espresse nel linguaggio tipico dei giovani d’oggi. Quel ragazzo era Carlo Acutis.

Carlo nasce a Londra, dove i genitori si trovano temporaneamente per motivi di lavoro, il 3 maggio 1991, da Andrea Acutis, di una nota famiglia di Torino, e Antonia Salzano, una coppia di genitori dediti al lavoro e alla famiglia. Appena un mese dopo la nascita di Carlo, la famiglia si stabilisce, per motivi di lavoro del padre, a Milano dove il piccolo Carlo inizia a frequentare le scuole prima presso le Suore Marcelline e, poi, nel liceo classico «Leone XIII», diretto dai Gesuiti.

Curiosità viva

Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: quella di avere una grande curiosità sul mondo che lo circonda e sul mistero della vita. È talmente curioso – specialmente sulle questioni religiose – che la mamma inizia a seguire un corso di teologia per riuscire a soddisfare le domande che il figlio, man mano che cresce, le pone. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva: Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli. Prende a modello di vita alcuni giovani santi: Francisco e Jacinta Marto, i pastorelli di Fatima, Tarcisio, Luigi Gonzaga, Domenico Savio.

Anche al catechismo si distingue per la sua attenzione, per la capacità che ha di entrare nel mistero di Dio.

Amore all’Eucarestia

All’età di sette anni riceve la prima comunione: da allora, come racconterà la mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». S’innamora così tanto dell’Eucaristia che ne diviene un vero apostolo, non solo presso i suoi amici e coetanei e verso i più piccoli quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, attraverso una delicata sensibilità cristiana che resta una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita.

Assisi

Carlo ha un legame speciale con Assisi, «un luogo che il giovane milanese amava e in cui ha respirato il carisma di Francesco – scriverà di lui William Stacchiotti su La Voce -. Lo considerava il posto che lo faceva sentire più felice e qui aveva espresso il desiderio di essere sepolto. Carlo ha iniziato a frequentare la città dal 2000 dopo che i genitori acquistarono un’abitazione nel centro storico a fianco alla chiesa di Santo Stefano. Durante le festività natalizie e pasquali e nelle vacanze estive, amava trascorrere il suo tempo in città insieme ai suoi amici frequentando la piscina e giocando a calcio. Una vita serena, spensierata, vissuta con gioia con i suoi coetanei e con le persone incontrate nei suoi lunghi soggiorni. Egli non era un semplice turista o un pellegrino come i tanti che affollano la città del Poverello».

La malattia fulminante

Ma la storia terrena di questo giovane non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Si pensa inizialmente a una semplice febbre, un’influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi portano a una diagnosi infausta: leucemia del tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Entrando dice a sua madre: «Da qui non uscirò più», le sue sono parole di un’autentica profezia. Nei giorni del ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non viene mai sentito lamentarsi, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, lui sempre risponde: «Bene, c’è gente qui che sta peggio di me. Non svegliate mia madre che è stanca e si preoccuperebbe». Ormai conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso». Il 9 ottobre chiede l’unzione degli infermi, tre giorni dopo, il 12 ottobre, si spegne serenamente, raggiungendo quel Cristo che tanto ha amato nella sua breve vita.

Originale, non fotocopia

Amava ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo». Sua inoltre è la frase: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per orientarsi verso questa meta e non «morire come fotocopie», Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente. Ma per una meta così alta servono mezzi specialissimi: i sacramenti e la preghiera. In particolare, Carlo metteva al centro della propria vita il sacramento dell’Eucaristia che chiamava «la mia autostrada per il Cielo». Così lo ricorda mons. Michelangelo M. Tiribilli al Sinodo dei giovani del 2018.

Amore ai poveri

I funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: si presentano alla celebrazione persone di ogni ceto, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito, un giovane che si avvicinava a loro, che li aiutava, che li faceva sentire amati, tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neanche dalla mamma.
È un classico dei santi, chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Carlo, in uno dei suoi video, ha espresso il desiderio di essere sepolto in terra ad Assisi, e viene, quindi, inumato in una tomba della famiglia nel cimitero della città francescana.

Amico di Gesù

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo, Carlo è stato un giovane come tanti giovani, ma nella sua normale giovinezza ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei fa fatica a cogliere: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e stordisce, Carlo è riuscito a sentire la voce sottile del Signore, che chiama a una vita vera; fra i fuochi della gioventù e le tormente del XXI secolo è riuscito a sentire quel sussurro di una brezza leggera, che è stato per lui e, attraverso lui, per molti, una trasfigurazione che lo ha fatto somigliare a quel Gesù che tanto ha amato. Carlo Acutis è la dimostrazione che non esistono tempi o età in cui è più difficile vivere la fede, perché Gesù non è un ideale o un pensiero filosofico, Gesù è una persona viva, che ama, che si fa amare, e l’amore non ha tempo e non ha età.

Il miracolo

Il 12 ottobre del 2010, mentre si celebrava il ricordo di Carlo nella parrocchia di Nostra Signora Aparecida di Campo Grande, in Brasile, al momento della benedizione con una sua reliquia, si avvicinò al sacerdote celebrante un uomo con il suo bambino in braccio, affetto da pancreas anulare, una rara malattia, che causava al bambino continui conati di vomito, anche se ingeriva solo liquidi. Giunti dinanzi alla reliquia, il bambino chiese al padre cosa dovesse dire e il padre rispose: «Chiedi di smettere di vomitare». Baciando la reliquia il bambino ripeté le parole «smettere di vomitare». Da quel momento il vomito cessò per non tornare più. Nel mese di febbraio del 2011 i genitori sottoposero il bambino a nuove analisi ed emerse che il piccolo era totalmente e inspiegabilmente guarito. Questo miracolo è stato riconosciuto dalle Commissioni della Congregazione delle Cause dei Santi per la beatificazione di Carlo.

Beatificazione

Constatata la grande fama di santità di cui Carlo ha goduto sin dal giorno della sua morte, il 15 febbraio 2013 fu istruito il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusosi il 24 novembre 2016.

Carlo fu dichiarato venerabile il 5 luglio 2018.

Il 6 aprile 2019 fu riesumato (come è tradizione fare nel caso di cause di beatificazione) e il corpo fu trovato in buono stato di conservazione, ancora con tutti gli organi integri. Ne fu prelevato il cuore (come reliquia) e il corpo fu trattato per la conservazione. Fu quindi traslato nel Santuario della Spogliazione, dove si venera all’interno di un monumento funebre, dotato di vetro, che permette, durante le ostensioni, di vederne il corpo.

Il 20 febbraio 2020 fu promulgato il decreto sul miracolo. La cerimonia religiosa della sua beatificazione si tenne il 10 ottobre 2020, celebrata nella sua amata Assisi.

Patrono dell’Internet?

Nell’esortazione apostolica Christus vivit – scritta a fine marzo 2019 -, papa Francesco, dopo aver ricordato tanti santi e sante giovani, ha un ricordo particolare per Carlo e le sue brillanti doti informatiche. «Ti ricordo – scrive nei nn. 104-106 – la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane venerabile Carlo Acutis.

Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.

Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo».

Queste parole di papa Francesco hanno incoraggiato l’iniziativa di chiedere che Carlo sia proclamato il patrono del web.

don Mario Bandera

Clicca qui per andare al sito ufficiale sul beato Carlo Acutis
con accesso all’Associazione Carlo Acutis e al Progetto TUCUM.




I Perdenti 57. Galileo Galilei, tra scienza e fede

testo di Don Mario Bandera |


«La mathematica è l’alfabeto in cui Dio ha scritto l’Universo». Queste parole pronunciate da Galileo Galilei presentano molto bene il nostro personaggio: fisico, filosofo, matematico e astronomo, egli è considerato il padre della scienza moderna perché con notevole anticipo sui suoi tempi creò un approccio scientifico alla realtà, basato sull’osservazione oggettiva.

Nato a Pisa nel 1564, Galileo iniziò nel 1580 a studiare medicina presso l’Università della sua città, prima di scegliere nel 1583 di specializzarsi in matematica. Fino al 1585 Galileo rimase a Pisa dove studiò anche fisica. Nella sua città fece la sua prima scoperta importante: si racconta che osservando
l’oscillazione di un lampadario fissato al soffitto della cattedrale di Pisa scoprì l’isocronismo, fenomeno che
stabilisce che il tempo di oscillazione di pendoli di eguale lunghezza è
costante qualunque sia l’ampiezza dell’oscillazione.

Dal 1589 insegnò a Pisa e nel 1592 venne chiamato presso l’Università di Padova dove
rimase come docente fino al 1610. I diciotto anni trascorsi nella città veneta furono
definiti da Galileo «i migliori di tutta la mia età». Nello studio di Padova creò una piccola
officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio: qui inventò nel 1593 la macchina per portare l’acqua a livelli più alti, che fu subito acquistata e utilizzata dalla Repubblica di Venezia.

Ci spieghi come mai un pisano come te lasciò il Ducato di Toscana, brillante per la sua cultura e le arti, per andare a insegnare a Padova?

Andai a Padova anzitutto perché la sua era una delle più antiche e prestigiose università italiane, ma soprattutto per la posizione del governo della Serenissima che la faceva essere una delle università con la maggiore libertà di pensiero e ricerca scientifica, rispetto a quelle di tutti gli altri stati europei, sia cattolici che protestanti. E per me quello, innamorato della matematica e della ricerca scientifica, era il posto ideale.

Il 9 ottobre 1604 nei cieli europei una supernova eccezionale fece vacillare tutte le teorie astronomiche ufficiali del tempo. Fu un fenomeno che ebbe molti osservatori, perché il quel periodo c’era una spettacolare congiunzione di Giove e Saturno. Era il momento buono per fare oroscopi e anche tu ne approfittasti per farne a pagamento.

Insegnavo matematica e astronomia (ancora tolemaica, anche se nel cuore cominciavo a essere copernicano). A quel tempo astronomia e astrologia viaggiavano insieme, convinti come si era dell’influsso degli astri nella vita delle persone. Per cui in molti mi chiedevano oroscopi.

Quella supernova, osservata e documentata dal suo nascere al suo scomparire, aveva cominciato a mettere in discussione la concezione allora dominante sulla natura del cielo e delle stelle. Non era una cometa e neppure un pianeta sconosciuto. Cos’era e da dove veniva? Così mi sono messo ad approfondire e, quando nel 1607 degli occhialai olandesi costruirono il primo cannocchiale, intuii le possibilità offerte da quello strumento che permetteva di vedere lontano.

Così costruisti il tuo primo cannocchiale (chiamato poi nel 1611 telescopio) modificato e perfezionato, e nel 1609 lo presentasti al governo della Serenissima.

Il nuovo strumento mi permise di acquisire informazioni precise sulla luna. Scoprii che la sua superficie non era liscia come pensavano gli antichi, ma presentava delle irregolarità. Il cannocchiale mi diede modo di studiare anche la Via Lattea, che si rivelò un insieme di stelle lontanissime, che allargavano all’infinito i confini dell’universo. Osservai pure che i pianeti del sistema solare avevano dei satelliti e scoprii anche i quattro maggiori satelliti di Giove. Scrutando il sole, poi, vidi con una certa sorpresa che sulla sua superficie c’erano delle macchie.

Le scoperte vennero pubblicate nel 1611 nell’opera Sidereus Nuncius, che inviai al granduca di Toscana Cosimo II de Medici, il che mi valse una posizione da insegnante a Firenze.

Quali erano le idee nuove che tu presentasti?

I miei studi mi portarono a sostenere l’autonomia della scienza da filosofia e teologia.

Lo esprimo in modo semplificato: proponevo che filosofia e teologia (e quindi la Bibbia) dovessero spiegare il perché dell’esistenza del mondo, ma che toccasse alla scienza spiegarne il funzionamento e le leggi. Per me solo la scienza poteva dare una conoscenza valida della natura. «È l’intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo», scrissi a Caterina de’ Medici, citando una frase del cardinale Cesare Baronio, per spiegarle questo concetto.

china di Paul Gichui

Nel 1611, la Chiesa e il Sant’Uffizio iniziarono a prestare attenzione alle tue opere, e nel marzo di quell’anno fosti convocato a Roma, da papa Paolo IV. Là ti venne ribadito che il nuovo metodo scientifico e il sistema copernicano contraddicevano i testi sacri.

Qualche anno dopo, precisamente nel 1614, a Firenze, frate Tommaso Caccini lanciò contro i matematici moderni, e in particolare contro di me, l’accusa di contraddire le Sacre Scritture con le nuove concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Avevo infatti aderito alle idee di Keplero sui movimenti dei pianeti, tra cui quella in base alla quale la Terra compiva su se stessa un moto di rotazione, e alla teoria eliocentrica enunciata nel De revolutionibus orbium coelestium del 1543 dall’astronomo polacco Niccolò Copernico, per cui non il Sole girava attorno alla Terra, ma il contrario.

Il clima iniziò a farsi teso per i sostenitori di queste idee, e nel 1616 i teologi della Chiesa di Roma (come anche i Riformatori protestanti) affermarono che le idee copernicane erano eretiche perché contraddicevano le Sacre Scritture e le opinioni dei Padri della Chiesa.

Fu in quel periodo che formulai il metodo scientifico sperimentale in una serie di lettere scritte tra il 1613 e 1616, tra le quali la lettera a Caterina de’ Medici, chiamate poi Lettere copernicane, e nel Saggiatore, testo del 1623 dedicato allo studio delle comete. In queste due opere mi preoccupai di spiegare come la Bibbia avesse carattere morale e salvifico, ma non scientifico, per cui volevo chiarire l’approccio che si doveva avere nelle scienze. Le discussioni di carattere scientifico dovevano basarsi su ipotesi e teorie elaborate e confermate a partire dall’osservazione diretta della realtà naturale.

L’osservazione sistematica e scientifica della realtà naturale offriva un cammino nuovo ed esaltante al sapere. Le conferme ottenute aprivano la strada a quello che sarebbe poi rimasto il migliore metodo per comprendere i meccanismi della realtà naturale: il metodo scientifico sperimentale.

Quindi tu fosti uno dei primi protagonisti di quello che sarebbe stato un lungo contrasto tra religione e scienza?

Sì, perché con le sentenze di condanna da cui fui raggiunto, si voleva sottolineare che non ci poteva essere una scienza indipendente dalla visione religiosa biblica, come sostenevo io.

I tempi della cultura e della società nelle quali vivevo non erano ancora maturi ad accogliere le mie idee, ma io volevo che maturassero.

Nel 1633 accettai di presentarmi al tribunale dell’Inquisizione a Roma, per risolvere la questione che ormai si trascinava da prima del 1614, quando un frate di Firenze mi aveva denunciato al sant’Uffizio. Una questione che non riguardava solo me, ma anche altri studiosi (laici, religiosi e frati) che condividevano le mie idee.

Quindi non finì nel 1616 quando ti ammonirono per la prima volta a non professare né divulgare la teoria copernicana?

Dopo quell’ammonizione, il dibattito continuò, e in modo molto vivace, anche perché avevo un carattere forte e non mi lasciavo certo intimidire dai miei oppositori. In più il numero di coloro che condividevano la visione copernicana del mondo e si interrogavano sul vero rapporto tra scienza e Sacre Scritture cresceva. Fu in quel periodo che pubblicai il mio libro Il Saggiatore, che impressionò positivamente il papa Urbano VIII, con il quale mi incontrai poi molte volte.

Quale fu la causa dell’ultimo processo e condanna?

acquarello di Paul Gichui

Nel 1632, dopo anni di lavoro, pubblicai il libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, approvato anche dal consultore dell’Inquisizione di Firenze. Nel libro, oltre a sostenere e provare la teoria copernicana, ribadivo che la matematica, mezzo necessario per capire la razionalità della natura, non poteva essere in contraddizione con Dio, il quale è assoluta razionalità. Il libro ottenne un grande successo anche tra molti ecclesiastici e studiosi, ma fece infuriare i conservatori degli uffici romani che lo videro come una minaccia alla fede. In più, in alcuni ambienti, si cominciò ad accusare il papa di essere troppo tenero con le correnti eretiche.

Da qui la decisione di convocarmi a Roma per il processo, che iniziò il 12 aprile e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna.

Quando ti hanno condannato, sei finito in prigione?

La condanna prevedeva tre anni di prigione e la recita una volta alla settimana dei sette salmi penitenziali. Ma la prima cosa che dovetti fare fu l’abiura, nella quale giuravo di credere in tutto quello che «tiene, predica e insegna la santa Chiesa cattolica».  Ma per i salmi, hanno accettato che li dicesse mia figlia, suora di clausura, e presto la pena venne tramutata in arresti domiciliari che scontai fino alla morte nella mia villa di Arcetri, vicino a Firenze, chiamata «il Gioiello».

***

Il 10 novembre 1979, nella sala regia del Vaticano, accanto alla Cappella Sistina, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, davanti a cardinali, ambasciatori, scienziati e uomini di cultura di tutto il mondo, Papa Wojtyla ha affermato: «La grandezza di Galileo è nota a tutti, come quella di Einstein. Ma, a differenza di colui che oggi noi onoriamo davanti al Collegio cardinalizio, nel Palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – noi non sapremo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa».

Dopo aver ricordato che il Concilio Vaticano II aveva deplorato i conflitti che hanno indotto gli uomini a credere che ci sia contrasto tra scienza e fede, il Santo Padre ha così proseguito: «Io auguro che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galilei e, nel riconoscimento leale dei torti, da qualsiasi parte provengano, facciano scomparire le lacune che questo caso ancora presenta, nella mente di molti, in una concordia fruttuosa fra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. Io dò tutto il mio appoggio a questo compito che potrà onorare la verità della fede e della scienza e aprire le porte a future collaborazioni».

Secoli dopo la sua morte, nel 1992 la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, «riabilitandolo» e assolvendolo dall’accusa di eresia. Egli è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani.

Don Mario Bandera




I Perdenti 56. Suor Leonella, amore come medicina

testo di don Mario Bandera |


Il 26 maggio 2018 è stata beatificata a Piacenza – sua città natale – suor Leonella Sgorbati delle missionarie della Consolata, uccisa nel 2006 in Somalia. Era una consacrata dagli ideali cristallini, aveva dedicato completamente la sua vita missionaria a formare personale locale per gli ospedali in Africa. Nel 2000 aveva accettato di lasciare il Kenya, dove era arrivata nel 1970, per andare ad aprire una scuola per infermieri a Mogadiscio pur consapevole dei rischi che correva in un territorio sconvolto dalla violenza della guerra e dall’estremismo della jihad islamica. Ogni giorno si affidava serenamente e con estrema fiducia a Dio.

Suor Leonella, il cui nome di battesimo era Rosa, era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola (Piacenza). La sua vocazione l’aveva portata a entrare nell’Istituto delle missionarie della Consolata. Nell’anno in cui è stata uccisa era fra le ultime quattro religiose presenti in Somalia. Tutti gli altri missionari avevano dovuto abbandonare il paese negli anni Novanta, a causa dell’affermazione di gruppi islamisti integralisti e dell’assenza totale delle istituzioni statali, nel contesto di una guerra civile scoppiata nel 1986, e ancora in corso anche se con minore intensità.

La sua testimonianza, il suo sacrificio, restano una delle pagine più luminose e intense della storia dell’Istituto delle missionarie della Consolata.

Suor Leonella, come nasce la tua vocazione?

Il desiderio di donare tutta la vita a Dio è nato in me a 16 anni: in quel lontano giorno – aprile 1956 – leggendo la sua Parola, mi sono sentita «abitata» come se il Signore mi volesse tutta per Sé. Ho provato una tale emozione che in seguito avrei scritto nel mio diario: «Da quel momento capii che non mi sarei sentita mai più sola, ma abitata da Lui».

Un vero scossone per la tua giovane vita, non è così?

Che ha avuto una conseguenza decisiva per la mia esistenza in quanto, riflettendo su quello che stavo vivendo, ho deciso che mi sarei fatta suora… che avrei cercato di vivere per Cristo, e di parlare a tutti del suo amore.

Questi ardori giovanili, sono diventati scelte concrete con il passare degli anni.

Difatti, undici anni dopo sono entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata e nel momento della mia professione religiosa mi è stato dato il nome di Leonella.

E poi come si sono sviluppati gli avvenimenti della tua vita consacrata?

Dopo aver compiuto il noviziato e gli studi in infermeria e ostetricia, nel 1970 ho realizzato il sogno di partire come missionaria per il Kenya, dove sono restata 30 anni, interrotti solo da tre rientri in Italia. Agli amici e familiari, che mi chiedevano perché non facessi ritorno più spesso in patria, rispondevo: «Un po’ per gli impegni, un po’ per scelta», ma rassicuravo tutti che non ero diventata selvatica, anche se mi sentivo sempre più africana.

Il tuo lavoro in Kenya in che consisteva?

Dopo i primi anni, appena ho avuto la qualificazione per l’insegnamento, mi è stata affidata la formazione delle infermiere e ostetriche locali. Ho svolto questo servizio soprattutto all’ospedale di Nkubu, vicino alla città di Meru. Con le ragazze aspiranti infermiere ci volevamo un bene dell’anima, tant’è che pur essendo le allieve numerose, riuscivo a stabilire un rapporto profondo e personale con ciascuna di loro.

Ma viste le tue capacità, a questi primi impegni se ne sono aggiunti ben presto altri, non è vero?

Negli anni successivi, sono stata nominata caposala di pediatria al Nazareth Hospital vicino Nairobi, ho conseguito un diploma universitario per dirigere la scuola per infermieri, e, dulcis in fundo, nel ’93 sono stata scelta come superiora delle missionarie della Consolata in Kenya.

La tua competenza nel vasto campo sanitario del Kenya era ampiamente riconosciuta da tutti.

A tal punto, che sono stata chiamata a far parte del Consiglio nazionale degli infermieri, con sede a Nairobi. Ho avuto così modo di partecipare alla stesura del progetto dell’anno 2000 del ministero della Sanità del Kenya «Salute per tutti», che aveva l’obiettivo di creare nelle zone rurali, dove è concentrata l’80% della popolazione, centri sanitari autogestiti.

Proprio allora, però, ti è arrivato un invito al quale non ti sei sentita di dire di no.

Infatti, sempre nel 2000, ho ricevuto una proposta dalla Somalia, dove era rimasto solo un piccolo gruppo di mie consorelle che lavoravano come volontarie nell’Ospedale Sos, Kinderdorf International, l’unica struttura sanitaria presente a Mogadiscio che offriva cure gratuite in ambito pediatrico.

Naturalmente hai accettato.

Sapevamo che c’era urgente bisogno di una scuola per infermieri e infermiere, per questo ho detto di sì. Una volta giunta in Somalia, con molti sacrifici, siamo riuscite ad aprire una modesta struttura.

Nel 2006, si sono diplomate le prime 34 infermiere. Per l’occasione ho voluto che la cerimonia fosse davvero molto solenne e formale. I diplomandi erano tutti con la toga universitaria e in alta tenuta. L’avvenimento senza precedenti in Somalia, è stato trasmesso dalla tv locale, e anche in Kenya.

Qualcuno però ha cominciato a far circolare la voce che tu stavi trasformando questi giovani convertendoli al cristianesimo.

I più fanatici, vedendo i ragazzi con le toghe, dicevano che li avevo già vestiti da «padri», cioè come i missionari. Io non ho fatto caso a queste illazioni piene di acredine nei nostri confronti, ma bisogna pur dire che nel 2006 la Somalia era pervasa da fortissime tensioni, e pur muovendoci nella realtà di Mogadiscio con molta prudenza e nel rispetto di tutti, eravamo ben consapevoli di essere «in trincea», senza difesa alcuna. Per questo le nostre giornate avevano un tempo cospicuo dedicato alla preghiera e alla contemplazione.

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati


Dopo il 12 settembre 2006, giorno del discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona, scoppiano proteste in tutto il mondo islamico alimentate dai gruppi più radicali. Le consorelle, più avanti, racconteranno di una mattina in cui suor Leonella, che si alzava molto presto per pregare, aveva detto loro con aria sconvolta che «si doveva pregare e offrire molto per il papa e per la Chiesa perché aveva sentito dalla radio che il mondo musulmano era in grande agitazione a causa di un discorso del papa a Ratisbona».

Il 17 settembre è domenica, suor Leonella ha terminato la lezione alla scuola infermieri dell’ospedale e sta rientrando al Villaggio Sos dove abita, situato dall’altra parte della strada, quando viene colpita a morte. Sette pallottole per lei e la sua guardia del corpo, Mohamed Mahamud Osman, musulmano e papà di quattro figli, che muore nel tentativo di difenderla. Lei viene portata ancora viva in ospedale, dove tanti somali si offrono per le trasfusioni di sangue. Una consorella, Marzia Ferra, racconterà così i suoi ultimi istanti: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “Perdono, perdono, perdono”». Una parola, ripetuta tre volte, che sgorga dal cuore pieno di amore di un’autentica testimone cristiana dei nostri tempi.

Suor Leonella resta nella memoria della grande famiglia missionaria come una donna dalla mente brillante e dal carattere solare e allegro, sempre pronta alla battuta di spirito. «Il suo sorriso aperto e schietto, la generosità nel servire, l’allegria e l’affabilità che faceva stare bene coloro che le erano vicino, sono qualcosa di indelebile e un caro ricordo per una luminosa missionaria della Consolata come suor Leonella».

Don Mario Bandera

*Al martirio di suor Leonella è stato dedicato il dossier su MC maggio 2018.

Quadro della beatificazione di suor Leonella Sgorbati




I Perdenti 55. Hadewijch d’Anversa, beghina, mistica e poetessa

testo di Don Mario Bandera |


È interessante notare come alcuni termini che all’origine avevano un loro un preciso significato, ora ne abbiano un altro ben diverso. È il caso del sostantivo femminile «beghina» (mentre il corrispondente maschile – bagardo – non è mai stato popolare) che «nell’uso comune – scrive il vocabolario Treccani – [si riferisce a una] donna che ostenta una devozione puramente esteriore e formale; bigotta, bacchettona».

Questo termine, a partire dal XII secolo, fu utilizzato per indicare membri di associazioni religiose femminili formatesi al di fuori della struttura ufficiale degli ordini monastici e religiosi con lo scopo di una rinascita spirituale della persona e di un rinnovamento della Chiesa. A tali associazioni si univano donne nubili o vedove, donne pie, fortemente religiose, ma volutamente non monache. Si consacravano al Signore e vivevano in comunità (beghinaggi) o in piccoli gruppi, ma non abitavano nei conventi. Contraevano voti simili a quelli degli ordini religiosi, però privilegiavano la libertà individuale, non rinunciavano ai loro beni e si impegnavano a vivere del lavoro manuale e a distribuire il superfluo. Si affidavano a un consigliere spirituale, ma senza rispondere direttamente alle autorità ecclesiastiche.

Questi movimenti sorsero soprattutto nelle Fiandre (oggi parte del Belgio) intorno al 1150 e si diffusero largamente in Germania e in Francia, e, in misura minore, in Italia, avendo séguito proprio in tempi in cui nascevano i grandi ordini religiosi, come i francescani, i domenicani, i cistercensi. Il tempo di massima fioritura fu il XIII secolo, a cui seguì un periodo di declino con una ripresa nel XVII secolo che neppure la Rivoluzione francese riuscì a spegnere. Le ultime beghine erano ancora attive in Belgio negli anni ‘70 del secolo scorso.

Sebbene influenzate dalla vivacità religiosa del tempo e dalla voglia di rinnovamento che condividevano con i nuovi ordini mendicanti, queste associazioni presto caddero in sospetto di eresia a causa di interpretazioni molto personali e a volte esclusivamente letterali delle Sacre Scritture. Questo era dovuto al fatto di non avere una regola scritta, uni-forme e approvata, all’eterogeneità dei gruppi e alla larga diffusione tra il popolo, e all’essere spesso confuse con movimenti ereticali come Manichei, Catari, Osservanti, Albigesi, Flagellanti e Fratelli del Libero Spirito.

Il termine «beghina» ha un significato incerto e «deriverebbe dal verbo beggen (cfr. ingl. to beg) “pregare” e insieme “mendicare”, o dal francese antico bege (mod. beige), ossia dai “panni bigi” di rozza lana di cui si vestivano» (enc. Treccani). Probabilmente è stato utilizzato anche con connotazioni dispregiative e derisorie da parte dei membri delle istituzioni ecclesiali più antiche che guardavano con sospetto la nascita in seno alla Chiesa di simili movimenti.

Noi abbiamo voluto saperne di più colloquiando con Hadewijch d’Anversa, una delle rappresentanti di spicco del movimento delle beghine di quei secoli.

Carissima, di te conosciamo solo il nome e gli scritti che ci hai lasciato, parlaci un po’ della tua vita.

Sono nata nei pressi di Anversa da una famiglia aristocratica, e ho vissuto tra le Fiandre e il Brabante, tra la fine del 1100 e la metà del 1200, più o meno contemporanea o poco più giovane di san Francesco d’Assisi. Durante il mio periodo di «beghinaggio» misi per iscritto molte mie meditazioni.

Tra le tue opere c’è un gruppo in liriche di stile provenzale, ispirate non dal tuo amore di donna per un uomo o viceversa, bensì dal tuo immenso amore di donna per Dio.

Ho scritto molto nella mia lingua locale, il neerlandese, anche se conoscevo bene sia il latino che il francese. Ho lasciato quarantacinque Poesie Strofiche (Strofische Gedichten), frutto del mio amore per Dio. Ho scritto anche trentuno Lettere (Brieven) a carissime amiche che potevano capire e intendere il mio stato d’animo, e a cui raccontavo le mie pene e le mie gioie di innamorata di Dio.

Abbiamo anche la descrizione delle tue visioni, nelle quali, con più immediatezza, descrivi le tue mirabili esperienze mistiche.

Ho lasciato il racconto di quattordici Visioni (Visoenen) e ho scritto anche un testo definito la Lista dei perfetti (Lijst der volmaakten) dedicato a persone per me sante, oltre un gruppo di sedici Poesie miste (Mengeldichten), definite anche come «lettere in rima».

I miei scritti, soprattutto le poesie, vengono riconosciuti come esempio del vertice letterario (scritti da una donna tra l’altro!) raggiunto dalla letteratura mistica delle Fiandre e del Brabante nei XII e XIII secoli.

Dai tuoi scritti capiamo che il tuo cammino di ascesi mistica è stato un percorso esaltante che ti ha portata a vivere esperienze quasi impossibili da raccontare.

Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere, e comunque immaginare, ebbene questo non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno dell’uomo e noi avremmo finito di amarlo. La stessa cosa avviene con gli uomini senza profondità, presso i quali l’amore è presto alla fine.

La mia è stata come un’avventura interiore, una «fiera cavalcata» alla ricerca dell’Amato. Perché l’Amore è tutto, e ciò che conta è soltanto amare, senza preoccuparsi dei dogmi e della gerarchia ecclesiale.

Come hai vissuto il tuo amore per Dio?

Antico manoscritto delle visioni di Hadewijch d’Anversa

Possiamo dire che la vera ragione dell’amore è un’onda che cresce sempre, senza arrestarsi mai. Ciò che appartiene alla ragione è in opposizione con quel che soddisfa la vera natura dell’amore: la ragione non può infatti portar via nulla all’amore, né a sua volta può dargli alcunché.

Prima di possedere l’Amato – lo esprimo con il linguaggio simbolico della poesia provenzale del mio tempo -, bisogna fargli la corte per conquistarlo, agendo sempre cavallerescamente e con generosità, in tutte le cose e con qualsiasi persona, sconosciuta o meno che sia, secondo la dignità dell’Amato, per l’alta fama e per il bene che l’amante avrà presso di lui. Perché lui intende bene la cortesia: quando conosce le grandi pene e il duro esilio che ha sofferto la sua amante, nonché i suoi nobili sacrifici, allora non può non rispondere con l’amore e dare tutto se stesso. Ecco come si corteggia l’Amato!

Ma come è possibile arrivare a questi livelli?

L’aquila fissa il sole senza mai arretrare, come l’anima interiore guarda Dio senza distogliere mai lo sguardo da lui. L’evangelista Giovanni è il capostipite di questa spiritualità, di questo modo di amare Dio, dove non si pensa né ai santi né agli uomini, ma affidandosi completamente alle mani del Signore, si vola semplicemente nelle altezze divine. Quando l’aquilotto non può fissare il sole, viene gettato fuori dal nido. Così farà l’anima sapiente, la quale rigetta tutto ciò che può oscurare lo splendore dello Spirito, poiché all’anima – al pari dell’aquila – non si addice il riposo, bensì il volo incessante verso l’altezza sublime.

Perciò, secondo il tuo modo di vedere, Dio esercita nel più piccolo dei suoi doni tutte le sue più grandi virtù.

Le ricchezze di Dio sono molteplici; Dio è molteplice nell’unità e semplice nella molteplicità. Poiché Dio è questo, tutti i suoi figli conoscono le sue copiose delizie, davvero tutti, l’uno più dell’altro.


La mistica teologica della Hadewijch, rappresentante dell’affascinante mondo della mistica femminile del Medioevo fiammingo, è un esempio significativo di un fedele connubio tra esperienza mistica (da lei chiamata «conoscenza sperimentale») e contemplazione della Parola. Su Hadewijch d’Aversa non è ancora detta l’ultima parola. Per conoscerla meglio si deve soprattutto leggere la sua opera. Le sue Lettere ci restituiscono l’immagine di una donna colta, intelligente, sensibile, soprattutto rivolta a filtrare le sue abbondanti grazie mistiche alla luce del Dio trinitario. Una figura più attuale che mai. Possiamo dire che Hadewijch rappresenta un unicum nella storia della prosa e letteratura neerlandese: la somma maestria con cui ha saputo esprimersi nella sua lingua volgare, ci ha fornito un’opera magnifica. Un’opera pervasa dall’amore, concetto chiave della sua vita. La sua vita, infatti, è una continua ricerca dell’amore per poter soddisfare l’amore e con esso Dio. Le sue esperienze personali, raccontate alle sue amiche, dovevano guidarle alla pienezza dell’amore. Concludendo possiamo dire che la mistica dell’amore in quei secoli lontani ha preparato il terreno a una pedagogia ascetica che è presente ancora oggi nella vita della Chiesa.

Don Mario Bandera

 


NOTA BIOGRAFICA

(da https://it.wikipedia.org/wiki/Hadewijch)

Hadewijch d’Anvers (fine XII secolo – inizio XIII secolo) è stata una mistica e poetessa fiamminga, vissuta probabilmente nel ducato di Brabante (nel quale allora erano incluse città come Bruxelles, Anversa, Lovanio e Breda). Legata al nascente movimento delle «Beghine», fu tra le principali figure della letteratura volgare europea sviluppatasi in quel periodo. Scrisse anche opere in prosa. Non si posseggono notizie certe riguardanti la scrittrice, al di fuori delle indicazioni contenute nelle sue opere, tramite le quali ci ha svelato gli aspetti più intimi della sua anima. Confidò di essere stata conquistata dal «divino amore» all’età di dieci anni, che l’ha accompagnata per tutta la vita. Le sue opere furono incentrate sull’amore, sulle sofferenze e le estasi che produce all’anima. Nelle Brieven (Lettere), chiarì la sua dottrina mistica, costituita da una miscela di razionalità e passionalità sublimata. Ancora più significative furono le Strophische Gedichten (Poesie strofiche), realizzate riadattando gli schemi della lirica provenzale alla sua forte espressività, e ruotanti attorno al tema dell’Assoluto, dell’amore frutto della trasposizione dell’ideale cavalleresco, dell’umiltà come condizione di grazia e della contrapposizione tra quest’ultima e la fierezza.

 




I Perdenti 54. Giorgio Perlasca, diplomatico per amore

testo di don Mario Bandera |


Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la sua famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova. Negli anni Venti aderisce con entusiasmo giovanile alla nascente ideologia fascista, in particolar modo alla sua versione dannunziana. Tanto che, per sostenere le idee di Gabriele D’Annunzio, litiga con un suo professore che aveva condannato l’impresa del Vate a Fiume, e per questo motivo è espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.

Coerentemente con le sue scelte ideologiche, nel 1936 parte come volontario per la guerra di Etiopia e nel 1937 per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco. Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, nel 1939, il suo rapporto con il fascismo entra in crisi essenzialmente per due motivi: l’alleanza che il governo di Mussolini stringe con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto una guerra solo vent’anni prima, e per le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Rinuncia quindi alle sue idee giovanili, senza però diventare un oppositore al regime. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trova con permesso diplomatico nei paesi dell’Est Europa come agente di una ditta di Trieste che importa carne per l’Esercito italiano. L’armistizio tra l’Italia e gli Alleati dell’8 settembre 1943, lo coglie mentre si trova a Budapest in Ungheria.

Sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà al Re d’Italia, e nonostante le nostalgie fasciste di gioventù, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici dove gli viene prospettato il trasferimento in Germania. Nel mese di ottobre del 1944, quando i tedeschi che occupano l’Ungheria affidano il potere alle Croci Frecciate, ovvero ai filonazisti magiari, iniziano le persecuzioni sistematiche e le deportazioni nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica.

Davanti alla grande sinagoga di Busapest

In un contesto così difficile e violento come ti muovesti in quei frangenti a Budapest?

Approfittando di un permesso che mi diedero per andare a Budapest per una visita medica, riuscii a nascondermi e fuggire. Mi nascosi prima presso vari conoscenti, quindi, grazie a un documento che attestava la mia partecipazione alla guerra civile spagnola e al foglio che mi assicurava assistenza diplomatica per il mio lavoro di importatore di carne per l’esercito, trovai rifugio presso l’ambasciata spagnola.

Quel documento della guerra di Spagna, firmato nientemeno che dal Generalissimo Franco, fu fondamentale per te.

Grazie a quello, in pochi minuti diventai cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, e iniziai a collaborare con Ángel Sanz Briz, l’ambasciatore spagnolo che, assieme ad altri ambasciatori di paesi neutrali presenti in Ungheria (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano), stava già rilasciando salvacondotti per proteggere gli ebrei ungheresi.

Già, ma a fine novembre 1944 Sanz Briz lasciò l’Ungheria per il suo rifiuto di riconoscere il governo filonazista appena nato.

Il giorno dopo, il ministero dell’Interno ungherese, venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz, ordinò di sgomberare le case di proprietà della Spagna, dove avevano trovato rifugio molti cittadini ebrei.

E fu a quel punto che tu, Giorgio Perlasca, commerciante italiano di bestiame, con una conoscenza perfetta della lingua spagnola, prendesti la decisione più importante della tua vita.

l documento redatto a mano con le credenziali che accreditano Giorgio Perlasca come diplomatico dell’Ambasciata spagnola in Ungheria, presentato al Ministero degli Esteri d’Ungheria nel novembre 1944.

Infatti, mi precipitai presso il ministero dell’Interno urlando: «Sospendete tutto! State sbagliando tutto! L’ambasciatore spagnolo Sanz Briz si è recato a Berna in Svizzera, per comunicare più facilmente con il suo governo a Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza».

È proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci, difatti fosti creduto e le operazioni di sgombero furono sospese.

Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici, compilai di mio pugno la nomina ad ambasciatore spagnolo e la presentai al ministero degli esteri dove le credenziali diplomatiche vennero accolte senza riserve.

Nelle vesti di diplomatico tenevi in piedi pressoché da solo l’ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile impostura che ti portò a salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati nelle case protette lungo il Danubio.

Cercavo di tutelarli in ogni modo dalle incursioni delle Croci Frecciate, mi recai più volte con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del re di Svezia, e con il nunzio della Santa Sede monsignor Angelo Riotta, alla stazione per cercare di recuperare più gente possibile.

Protetto dalla mia posizione di diplomatico spagnolo riuscii persino a ingannare il ministro dell’Interno ungherese, minacciando una supposta ritorsione spagnola sui cittadini ungheresi viventi in Spagna e addirittura in America Latina, se avesse autorizzato l’incendio del ghetto di Budapest.

È vero che trattavi ogni giorno con il governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilasciando salvacondotti che dicevano: «Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non saranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà sotto la protezione del governo spagnolo».

Questi salvacondotti li rilasciavo utilizzando una legge voluta nel 1924 dal ministro spagnolo Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (ovvero di antica origine spagnola) scacciati alcuni secoli prima (31 marzo 1492) dalla regina Isabella la Cattolica dal suolo iberico. Lungo i secoli essi si erano dispersi in tutta Europa.

La legge Rivera in un certo qual modo fornì la base legale dell’intera operazione organizzata coraggiosamente da te, che permise di mettere in salvo più di cinquemila ebrei ungheresi.

Direi proprio di sì.

Perlasca e Cossiga il 30 giugno 1990

Il busto dedicato a Giorgio Perlasca davanti all’Istituto di Cultura Italiana di Budapest

Dopo l’entrata a Budapest dell’Armata Rossa sovietica, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia. Da eroe solitario diventa un «uomo qualunque»: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà. Grazie però ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca viene alla luce.

Le testimonianze dei sopravvissuti salvati sono numerose e ben documentate, la notizia diventa di dominio pubblico, arrivano i giornali, le televisioni, si pubblicano libri su quella drammatica vicenda.

Lo stesso Perlasca – vincendo la sua naturale riservatezza – accetta di recarsi nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché follie come quella del nazismo non abbiano mai più a ripetersi.

Giorgio Perlasca muore il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova, sulla sua lapide a fianco delle date di nascita e di morte, è incisa un’unica frase in ebraico: «Giusto tra le Nazioni».

Don Mario Bandera

Libro dedicaro a Giorgio Perlasca