I conflitti intrattabili

Sono «intrattabili» i conflitti che nascono da due racconti distinti e antitetici di uno stesso processo storico. Quello israelo-palestinese ha visto alternarsi narrazioni opposte ad altre più conciliabili. Oggi la sua descrizione è quella più pericolosa di sempre.

«Ogni grande cambiamento sociale deve iniziare con la costruzione di nuove narrazioni». Questa citazione sintetizza l’intento del testo dello psicologo politico Daniel Bar-Tal, professore emerito presso l’Università di Tel Aviv.

La tesi centrale dell’autore è che i conflitti diventano «intrattabili» quando sono basati su due narrazioni opposte per visione e vissuti dei protagonisti. Quando entrambe le narrazioni nascono da una cultura del conflitto violento, ostacolano la ricerca di un diverso rapporto con l’altro e, dunque, impediscono la pace.

L’autore conduce un’indagine sul caso del conflitto israelo-palestinese analizzandone gli sviluppi e le conseguenze nelle diverse fasi.

Le narrazioni contrapposte

Il testo si articola in cinque parti: la prima attraversa il periodo che va dalle origini del conflitto agli accordi di Oslo del 1993; la seconda si concentra sulla ripresa e l’intensificarsi del conflitto dopo il 2000; la terza parla del prevalere dell’estremismo e della sua istituzionalizzazione, fino a Netanyahu come figura centrale della cultura del conflitto; la quarta riguarda la situazione attuale; la quinta è dedicata alle possibilità di trasformazione.

L’autore mostra come le due narrazioni contrapposte persistano e si irrigidiscano nel tempo.

La parte palestinese vede gli ebrei come immigrati e invasori. I palestinesi hanno una «legittimità esclusiva», un diritto di precedenza sulla «propria» terra.

Per la parte ebraica, la terra è l’eredità promessa da Dio, patria storico culturale, rifugio contro l’antisemitismo. I palestinesi sono parte del popolo arabo, inquilini sulla terra degli ebrei.

Su queste basi, rafforzate dal sionismo che nasconde la violenza della propria parte, Israele, che si considera «luce per le nazioni», vede se stesso come l’unica vittima, attribuendo ai soli «arabi» la volontà di distruggere l’altro.

La narrazione di pace

Elementi di una nuova narrazione emergono negli anni Ottanta, in seguito agli accordi di Camp David del 1978 e al riconoscimento di Israele da parte di Yasser Arafat, leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nel 1988.

Sono gli anni della prima Intifada palestinese, una lotta sostanzialmente nonviolenta, in seguito alla quale si sviluppano anche nella società israeliana nuovi atteggiamenti.

Una ricerca del 1999 mostra, infatti, che il 55% degli israeliani è favorevole alla creazione di uno stato palestinese e cambia anche la percezione della sicurezza, non più affidata alle sole armi, ma anche alla costruzione della pace attraverso la restituzione dei territori occupati.

Questa narrazione è sostenuta dallo sviluppo del Campo della pace, da esperienze come quella di Nevè Shalom e dalla sinistra israeliana.

Il ritorno della violenza

Tuttavia, dagli anni 2000, anche in seguito al fallimento del processo di pace, all’espansione delle colonie ebraiche nei territori occupati, al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, con la conseguente disillusione e lo scoppio della seconda Intifada (questa volta violenta), si giunge rapidamente a una escalation del conflitto e al ritorno alla narrazione negativa.

È in questo contesto che Israele usa la politica del divide et impera, sostenendo il movimento islamista di Hamas contro il partito laico di Al-Fatah, maggioritario nell’Olp e membro dell’Autorità nazionale palestinese.

L’occupazione dei territori palestinesi comporta l’arresto e l’uccisione di leader, la detenzione senza processo di migliaia di persone, anche minorenni, il rifiuto di permessi di soggiorno, la demolizione di case, la confisca di terre per gli insediamenti dei coloni, posti di blocco lunghi e umilianti per i palestinesi. Ogni protesta, anche nonviolenta, per Israele è «terrorismo».

Le condanne dell’Onu e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono disattese, e violate. Israele crea uno stato di apartheid.

Anche l’educazione consolida la narrazione egemone del conflitto: fin dal 1972, infatti, il ministro dell’Istruzione Ygal Allon ha eliminato la linea verde dalle mappe ufficiali di Israele: per le nuove generazioni, il territorio tra il fiume e il mare è un unico spazio che fa parte della patria. Ciò coincide con l’ideologia del movimento sionista religioso del «Grande Israele», che fonda nuove colonie e città ebraiche nei territori occupati, e diventa una forza trainante, sviluppando vittimismo, disumanizzazione del nemico, nazionalismo.

Al culmine di tale processo sta la figura di Benjamin Netanyahu.

Il sistema di occupazione deteriora la stessa democrazia israeliana nella quale si indeboliscono le istituzioni di controllo, si limita la libertà di espressione, si violano i diritti umani, si delegittima l’opposizione e si controllano i media, si discriminano le minoranze e cresce il nazionalismo, sino al razzismo.

L’autore chiama «occupartheid» il sistema che non merita più di essere definito democratico: in cima alla piramide stanno i coloni nei territori occupati, che godono di privilegi e benefici; seguono gli altri cittadini ebrei; poi i cittadini arabi di Israele; al quarto posto gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est, che non hanno diritto di voto alla Knesset e, infine, gli abitanti palestinesi delle zone occupate, la cui vita è regolata dalle direttive del comando militare.

Per una nuova narrazione

Quali prospettive di fronte a questa situazione, portata all’estremo dagli eventi del 7 ottobre e della distruzione di Gaza?

È indispensabile, per Bar-Tal, riprendere la narrazione a sostegno dei negoziati, riconoscere i palestinesi come partner legittimi, individuare obiettivi che rispondano ai bisogni di entrambi i popoli, porre fine all’occupazione, recuperare la democrazia e i suoi valori, ritrovare leader capaci di guidare il conflitto verso una de-escalation.

È necessaria una trasformazione sociale interna, condotta sia dalla società civile israeliana che dalle pressioni della comunità internazionale.

Ri-umanizzare l’avversario e comprendere che il prezzo del conflitto, per la stessa società israeliana, è più alto di quello per la pace sono i presupposti.

Se non sarà più possibile la soluzione a due stati, l’unica alternativa sarà quella dello stato unico binazionale, con uguali diritti per tutti i cittadini: fondamentale è alimentare la speranza che tutto ciò è possibile.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

Bibliografia

  •  N. Capovilla, B. Tusset, Sotto il cielo di Gaza, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2025, pp. 120, 15,50 €.
  •  B. Bashir, A. Goldberg (a cura di), Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Zikkaron, Bologna 2023, pp. 464, 20 €.
  •  Bruno Montesano (a cura di), Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi, Edizioni e/o, Roma 2024, pp. 128, 10 €.
  •  David Grossman, La pace è l’unica strada, Mondadori, Milano 2024, pp. 96, 16 €.
  •  Ilan Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, Fazi Editore, Roma 2024, pp. 144, 15 €.
  •  Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, Editori Laterza, Bari 2025, pp. 416, 20 €.
  •  Amedeo Rossi, Le parole divise, Israele/Palestina: narrazioni a confronto, Editori Q, Roma 2022, pp. 360, 16 €.



Cristiani, armi, nonviolenza

Massimo Rubboli indaga sulla storia del rapporto dei cristiani con le armi e la guerra in un testo frutto di 50 anni di studi. Dall’originaria opposizione alla violenza all’alternanza secolare tra rifiuto e giustificazione. Fino alle posizioni di oggi.

Massimo Rubboli, già docente universitario di Storia dell’America del Nord e di Storia del cristianesimo, raccoglie il frutto di cinquant’anni di ricerca sul rapporto tra i cristiani e la violenza nei secoli.

Dalle origini

Nella prima parte del volume, l’autore esamina il rapporto dei cristiani con la guerra dalle origini all’Ottocento. La forte convinzione dei primi cristiani che la sequela di Cristo è incompatibile con la violenza, lascia presto spazio alla sua accettazione e giustificazione.

Se Tertulliano (II sec. dC), pone in opposizione il servizio militare e la fede, per Eusebio di Cesarea (III sec.) l’arruolamento può essere una risposta alla chiamata di Dio. Con l’editto di Costantino (313 dC), poi, i cristiani smettono di abitare «nella propria patria come stranieri» e l’esercito e la pax romana diventano un baluardo in difesa della fede. Si sviluppa, così, con Ambrogio e Agostino (IV sec.), il tema della «guerra giusta» e, con le invasioni barbariche, anche quello della «guerra santa», che porterà, con papa Urbano II (XI sec.), alle crociate.

A questa deriva si oppongono Francesco di Assisi (XIII sec.) e movimenti come quelli di Catari e Valdesi, mentre Tommaso d’Aquino sistematizza il tema della guerra «giusta». Una scelta pacifista è quella dei Lollardi inglesi nel XIV secolo, e poi degli Ussiti.

Nell’ambito della Riforma protestante (XVI sec.), al filone maggioritario di Lutero, Zwingli, Calvino, si oppone quello minoritario degli Anabattisti. Per Lutero è legittimo che il cristiano usi la forza, ma anche che obietti a una guerra ingiusta. Anche per Zwingli la guerra giusta è legittima, e per Calvino l’uso delle armi è consentito in certe occasioni, ad esempio contro gli eretici.

Con la strage degli Ugonotti a Parigi nel 1572, inizia un periodo di sanguinose repressioni e di guerre di religione. In Inghilterra, dal calvinismo nasce il puritanesimo. I puritani, a metà del Seicento, fanno guerra al re Carlo I, lo sconfiggono e uccidono, mentre in America massacrano i popoli nativi.

Alla violenza negli Usa, si oppone William Penn (XVIII sec.), che invita in Pennsylvania i membri delle Chiese pacifiste. Lì possono fare obiezione alle armi.

Una figura di grande rilevanza dell’Ottocento, infine, è quella di Lev Tolstoj che afferma l’inconciliabilità delle armi con la fede, influenzando il Mahatma Gandhi.

Il Novecento e oggi

Nella seconda parte del volume, Rubboli affronta la posizione delle Chiese e dei cristiani nel Novecento e fino ai giorni nostri.

Il corposo approfondimento dello studioso attraversa l’ultimo secolo di storia mondiale raccontando personaggi e vicende che mostrano il percorso progressivo delle Chiese verso il rifiuto delle guerre, pur rimanendo forte in molti cristiani la legittimazione dell’uso della forza nei conflitti.

Scorrendo le pagine si incontrano intellettuali tedeschi che nel 1914 sostengono la guerra, e teologi come Karl Barth che rifiutano la legittimazione teologica del militarismo. Si legge che «di fronte al dilagare del nazismo in Europa la maggioranza delle Chiese ritenne che la scelta giusta fosse quella di fermare Hitler con le armi». Ci si imbatte nella storia del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, giustiziato per un fallito attentato contro Hitler.

Si legge di episodi di resistenza non armata e di protezione dei perseguitati, come quello del pastore André Trocmé e della moglie Magda, che nel villaggio di Chambon sur Lignon salvarono migliaia di ebrei. Durante la guerra, le Chiese pacifiste storiche si impegnarono nella difesa dell’obiezione di coscienza, nella richiesta di un servizio civile alternativo e in opere di soccorso alle popolazioni, mentre in diversi Paesi le Chiese protestanti si esprimevano a sostegno dei governi in guerra. Gran parte del cattolicesimo francese sosteneva il regime di Vichy, nonostante diversi vescovi e teologi parlassero di resistenza spirituale all’antisemitismo e al nazismo.

Rubboli ripercorre anche le posizioni pacifiste della Chiesa cattolica: dalla denuncia della guerra come «inutile strage» di papa Benedetto XV, nel 1917, all’enciclica Pacem in terris del 1963 di papa Giovanni XXIII; dalla Gaudium et Spes del Vaticano II del 1965, alla Populorum progressio di papa Paolo VI del 1967. Dalle prese di posizione di Giovanni Paolo II sul diritto dovere di ingerenza umanitaria, al deciso riconoscimento della nonviolenza come strumento efficace per una politica di pace di papa Francesco.

Si incontrano poi le azioni di disobbedienza civile negli Usa contro la guerra in Vietnam, pur in mezzo a una maggioranza favorevole al Governo; una lettera del 1983 dell’episcopato cattolico statunitense riconosce la nonviolenza come impegno cristiano nel servizio al Paese.

In Italia, figure come don Primo Mazzolari e don Milani, sostenitori della nonviolenza evangelica; obiettori di coscienza durante la Grande guerra, come i protestanti Alberto Jong e Guido Plavan; Carlo Lupo, tra i fondatori del Movimento internazionale della riconciliazione. Nel mondo, figure come Martin Luther King e Desmond Tutu.

Rubboli parla anche del Consiglio ecumenico delle Chiese che si è espresso sempre più decisamente contro la guerra e per la nonviolenza come «unico metodo cristiano» per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.

Rubboli non manca di sottolineare la stonatura del patriarca di Mosca Kirill che difende l’aggressione russa all’Ucraina.

Teologia per la pace

Verso la fine del volume, l’autore fa il punto, nella speranza di offrire un quadro che aiuti lo sviluppo di una teologia della pace.
Oggi le Chiese hanno superato in gran parte lo spirito di «crociata» o di «guerra santa»; la «guerra giusta» ha ancora molti sostenitori, ma solo in situazioni estreme; emerge una teoria della «pace giusta» e si sviluppa una «teologia della pace» che si riallaccia al pacifismo anabattista e delle Chiese pacifiste storiche; nascono pratiche per risolvere i conflitti senza violenza, spingere sul disarmo, promuovere i diritti umani e la democrazia; si approfondisce, in riferimento ai conflitti sociali e tra Stati, la teologia del perdono e della riconciliazione.

Bibliografia

  •  Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, pp. 480, 25 €.
  •  Pier Cesare Bori, Tolstoj, Edizioni Cultura della pace, Fiesole 1991, pp. 203.
  •  Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni, Donzelli editore, Roma 2006, pp. 226, 24,50 €.
  •  Marco Labbate, Non un uomo né un soldo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2022, pp. 240, 16 €.
  •  Paolo Naso, Martin Luther King. Una storia americana, Laterza, Bari 2022, pp. 224, 12 €.
  •  Paolo Candelari, Ilaria Ciriaci, Guerra, pace, nonviolenza. 50 anni di storia e impegno, Paoline, Milano 2015, pp. 224, 16 €.
  •  Roberto Mancini, Brunetto Salvarani, Oltre la guerra. Le vie della pace tra teologia e filosofia, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2023, pp. 160, 15 €.



Dove scienza e spiritualità si parlano

La fisica quantistica ha aperto un modo nuovo di pensare il mondo, il tempo, l’uomo e la scienza stessa. Un fisico, inventore del microprocessore nel 1971, impegnato anche nello studio dell’intelligenza artificiale, propone le sue riflessioni sulla natura della coscienza, alla luce della teoria dei quanti.

Federico Faggin è uno dei più influenti scienziati e imprenditori del nostro tempo, conosciuto soprattutto per aver inventato e commercializzato nel 1971 il primo microprocessore commerciale, l’Intel 4004, e per i suoi contributi nel campo dell’intelligenza artificiale.

Nato in Italia nel 1941, negli anni Sessanta si è trasferito negli Stati Uniti, dove tutt’ora risiede. Nel 2011 ha fondato la «Federico and Elvia Faggin foundation», organizzazione non profit che si occupa di comprendere la natura della coscienza umana dal punto di vista scientifico.

Come lui stesso racconta, tutto è nato quando, pur avendo raggiunto già in giovane età obiettivi come la fama, la ricchezza, una famiglia felice, «non ero contento e non sapevo perché».

Di fronte a sé, vedeva i problemi dell’esistenza che tutti sono chiamati ad affrontare.

Grazie a un’esperienza interiore molto forte, si è reso conto che quello che doveva cambiare era lo sguardo con cui indagava la realtà.

Ha dedicato gli anni successivi a connettere la sua esperienza interiore con la fisica quantistica che padroneggia profondamente.

La sua storia è stata raccontata recentemente da un documentario che può essere visto ancora su Raiplay: «Federico Faggin, l’uomo che vide il futuro».

I suoi libri

Faggin ha pubblicato diversi libri per Mondadori. Se con «Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza», nel 2019 si è rivelato al grande pubblico, con «Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura», del 2022, ha avvicinato molti alle sue riflessioni, presentando il volume in numerosi incontri pubblici.

Con il suo ultimo libro, «Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono», Faggin riesce a divulgare le sue idee su coscienza, intelligenza artificiale e fisica quantistica.

Strutturato in forma di dialogo, questo libro illustra come scienza e spiritualità non siano aspetti dell’esperienza umana separati tra loro, bensì costantemente in comunicazione.

Partendo dalle basi della fisica quantistica, Faggin esplora fenomeni come l’entanglement quantistico del libero arbitrio e della coscienza, gettando su di essi uno sguardo molto originale.

Infatti, egli afferma che, secondo la fisica classica, la coscienza è prodotta dal cervello, mentre, attraverso la sua esperienza, lui la vede come il modo attraverso il quale ciò che chiamiamo Universo, o il Tutto, o l’Uno, o la Totalità di ciò che esiste, può conoscere se stesso.

Faggin definisce allora la coscienza come la capacità dell’Universo di conoscere se stesso, per cui ogni mente individuale rappresenta una manifestazione della coscienza universale. In questo senso la realtà del Tutto/Uno sembra essere organizzata in modo olografico, in quanto ogni sua minuscola parte contiene le informazioni dell’intero universo, anche se ogni unità di coscienza mantiene la sua individualità.

In «Oltre l’invisibile», Faggin racconta, dopo anni di percorsi spirituali, come l’amore sia la forza fondamentale che manifesta la realtà, suggerendo come, di conseguenza, la coscienza sia non un aspetto emergente della materia, ma una forza creativa e organizzativa.

Il suo è un libro che fa riflettere, apre spazi nuovi di significato e di consapevolezza del nostro stare al mondo.

Piccola bibliografia

  • Federico Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, Milano 2023, pp. 352, 12,50 €.
    In questo libro l’autore si propone di spiegare la differenza e la distanza incolmabile tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale. La coscienza è ontologica, esiste cioè da sempre, come proprietà intrinseca al cosmo. Ciò è confermato dalla fisica quantistica.
  •  Federico Faggin, Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza, Mondadori, Milano 2022, pp. 336, 13,00 €.
    In questa autobiografia Faggin racconta le sue quattro vite, dall’infanzia ai primi lavori, dalla controversia con Intel per l’attribuzione della paternità del microprocessore, fino all’impegno nello studio scientifico della coscienza.
  •  Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina editore, Milano 2014, pp. 248, 22,00 €.
    In questo libro, il noto fisico racconta in modo chiaro e accessibile a tutti come la fisica quantistica abbia cambiato la visione del mondo che ci circonda.
  •  Piero Martin, Questo è quanto. La fisica quantistica in cinque idee, La Terza, Bari 2025, pp. 168, 17,00 €.
    L’autore, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova, fa un racconto sulla fisica quantistica attraverso cinque idee fondamentali alla base della rivoluzione dei quanti: discontinuità, identità, futuro, indeterminazione e relazione.
  •  Enzo Pellegrino e Luca Visinelli, Dove abita il tempo. Passeggiare tra fisica e filosofia, Pendragon, Bologna 2024, pp. 127, 15,00 €.
    Questo libro illustra come è cambiato il significato della natura del tempo nella storia della scienza e della filosofia.



Russi contro Putin

Dopo oltre tre anni di guerra, Russia e Ucraina hanno iniziato a trattare. Alcuni libri raccontano l’esperienza dei russi che si oppongono al regime putiniano. Con coraggio e spesso a rischio della vita.

«La Russia che si ribella» è un libro agevole, che si legge tutto d’un fiato. Non è un trattato sistematico sull’opposizione in Russia. Ce la fa conoscere attraverso esperienze dirette di cinque persone che hanno cercato di ribellarsi. Tutte e cinque sono state intervistate nel marzo 2022, subito dopo l’invasione dell’Ucraina, nel 2023 a distanza di un anno, e nel gennaio 2024, appena prima della chiusura del libro.

Si tratta di Ljudmilla (i nomi sono tutti di fantasia per ovvi motivi), una delle ultime reduci dell’assedio nazista di Leningrado (come si chiamava allora l’odierna San Pietroburgo) tra il 1941 e il 1944, che smonta la retorica patriottica su cui si fonda la giustificazione del regime di Putin e, in particolare, dell’attuale guerra all’Ucraina. Il secondo intervistato è Ioann, prete ortodosso, perseguitato dal regime, cacciato dalla sua Chiesa perché ha tenuto prediche critiche sulla guerra. Il terzo si chiama Grigorij, ricercatore universitario, che ha svolto sondaggi in cui svela ciò che il potere non vuol sapere. Il quarto è Ivan, attivista contro la guerra a Mosca, emblema di ciò che accade a chi osa manifestare. Infine, c’è Katja, studentessa all’Università di Mosca, redattrice di un giornalino studentesco indipendente, oggi ovviamente chiuso.

Il dato positivo è che nessuno dei cinque si è arreso: sono tuttora tutti attivi e impegnati. Quello negativo è che tutti, eccetto l’anziana di San Pietroburgo, vivono fuori dalla Russia. Dalla lettura di queste vicende sorgono diversi spunti di riflessione. Innanzitutto, sul progressivo irrigidimento del regime. In secondo luogo, sulle previsioni errate, fatte in Occidente e negli ambienti di opposizione in Russia, di una crescente difficoltà del regime a sostenere una guerra prolungata: l’economia non è crollata, il reclutamento dei soldati è avvenuto senza suscitare proteste visibili, il consenso è rimasto alto, soprattutto tra gli oligarchi, e – al momento – non si sono viste crepe nel regime.

Altro elemento che va sottolineato è la convinzione, comune a tutti gli intervistati, dell’estrema pericolosità di Putin e delle sue mire espansionistiche. La situazione è paragonata a quella dell’Europa degli anni Trenta, in questo condividendo le tesi degli occidentali più oltranzisti e in contrasto a quello che pensano molti pacifisti.

Alle testimonianze si aggiunge una riflessione dei due autori sulla situazione dell’opposizione, una cronologia del regime dal 2000 al 2024 e un «glossario della resistenza».

L’involuzione russa

Il libro descrive la trasformazione della democrazia autoritaria russa in «democratura», o democrazia illiberale, e – infine – in dittatura tout court. Un processo progressivo, prima lento e poi sempre più veloce.

Occorrerebbe riflettere su questa involuzione, perché nessuno standard democratico è dato una volta per sempre: si inizia dall’accentramento dei poteri in un capo (questo era presente nella costituzione del ’93 che accentrava tutti i poteri nel presidente della Federazione russa); si passa alle limitazioni dei diritti di riunione, manifestazione, stampa; si obbligano le organizzazioni a registrarsi; si dichiarano quelle ostili come agenti stranieri; si chiudono partiti, e – alla fine – il regime è completo.

Nel frattempo, alcune persone spariscono, vengono uccise per strada, o vengono inghiottite nei meandri del sistema carcerario. Il tutto sempre giustificato dalla necessità della sicurezza nazionale, della difesa del «nostro mondo», perché «siamo aggrediti», «attaccati» o, comunque, «lo stanno per fare».

In queste condizioni la domanda da porsi non è tanto «perché i russi non si ribellano», che molti in Occidente si fanno (concludendo poi che i russi sarebbero «geneticamente» inclini a genuflettersi al potere e a rimanere passivi e obbedienti), ma «come i russi si ribellano».

È la domanda cui tenta di rispondere questo libro, e su cui si concentra la riflessione finale degli autori.

Fare manifestazioni oggi in Russia significa incorrere in una repressione terroristica. Allora, chi resiste si inventa altri metodi, apparentemente depoliticizzati, come protestare con scritte sui muri, lasciare biglietti e volantini nelle stazioni dei mezzi pubblici, fare petizioni perché madri dei caduti, partecipare alle elezioni pur «farlocche» per dare segnali di preferenza ai candidati civetta, pur di diminuire il consenso a quelli del regime.

Insomma, i russi che si ribellano ci sono. Molti sono fuggiti (si parla di più di mezzo milione) ma molti sono rimasti in patria. Si vedono poco, ma in ogni regime dittatoriale è così: fino a quando la situazione non diventa esplosiva passando all’insurrezione, le critiche, le opposizioni rimangono sotterranee.

«La Russia che si ribella» fornisce una panoramica dettagliata e articolata di questa complessa realtà politica e sociale.

Senza sconti

In attesa che il dialogo tra i paesi belligeranti diventi concreto (sta faticosamente accadendo mentre scriviamo queste righe), il libro di Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese è anche un motivo di riflessione per noi che ci opponiamo alla guerra e alla deriva militarista in corso. Nella giusta critica alle scelte della classe politica occidentale, non dimentichiamo mai le condizioni dei russi e la denuncia chiara e senza sconti del regime tirannico ed oppressivo che Putin ha imposto su tutta la Russia.

Paolo Candelari
Centro studi Sereno Regis

Libri «resistenti»

  •  Elena Kostjucenko, La mia Russia. Storie da un Paese perduto, Einaudi 2023, pp. 435, 21,00 €.
  •  Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi 2022, pp. 384, 14,00 €.
    Elena Kostjucenko e Anna Politkovskaja sono due giornaliste d’inchiesta russe. La prima è fuggita nel 2022 perché dichiarata agente straniero, colpevole di aver scritto reportage dal fronte ucraino per il giornale Novaja Gazeta, poi chiuso. Il libro raccoglie articoli scritti nel corso degli anni 2020-2023, inframmezzati da riflessioni. La seconda giornalista, molto nota, è stata uccisa a Mosca nel 2005. Il libro è una raccolta di suoi articoli.
  •  Alexander Baunov, La fine del regime. La caduta di tre dittature europee e il destino della Russia di Putin, Silvio Berlusconi Editore 2025, pp. 636, 25,00 €.
    Il libro è uscito in Russia nel 2023. Poco dopo, l’autore è stato dichiarato agente straniero. Il libro tratta della caduta di tre dittature – Spagna, Portogallo e Grecia – per passare poi a diverse considerazioni sulla Russia di Putin.
  •  Gene Sharp, Come abbattere un regime. Dalla dittatura alla democrazia. Manuale di liberazione nonviolenta, Chiare Lettere, 2011, pp. 144, 10,00 €.
    È un testo divulgato in diversi Paesi dell’Est e anche arabi. È servito da manuale per vari gruppi di opposizione. Pur non trattando specificamente di Russia, può essere una lettura utile per iniziare ad addentrarsi nel mondo della lotta nonviolenta e della sua efficacia.

Siti «RESISTENTI»

⁠Per approfondire la conoscenza della resistenza russa, si segnalano questi due siti:

  • https://www.themoscowtimes.com Si tratta dell’ultimo giornale indipendente russo, costretto a chiudere in Russia dal marzo 2022. Pubblica articoli, commenti, riflessioni. In lingua inglese.
  • https://objectwarcampaign.org/en È il sito di una coalizione di diverse associazioni della società civile a sostegno degli obiettori russi, ucraini, bielorussi.



Il suicidio di Israele

Un piccolo libro affronta uno dei conflitti più intricati e centrali del mondo contemporaneo. Lo fa cercando cause e concause nella storia, e parlando, ad esempio, del valore del sentirsi «vittima» per entrambe le parti.

Il volume di Anna Foa, Il suicidio di Israele, aiuta a comprendere le tragiche vicende del Medio Oriente. Problematizza la situazione e stimola la riflessione. Lo fa a partire da una solida ricostruzione del passato nel quale i conflitti attuali affondano le radici.

Lo sguardo dell’autrice è dichiarato fin dalle prime righe: «Queste pagine contengono le riflessioni di un’ebrea della diaspora di fronte a quanto sta succedendo […]. Esse nascono dal dolore per l’eccidio del 7 ottobre e da quello per i morti […] della guerra di Gaza. È lo stesso dolore, per gli uni e per gli altri».

L’autrice, per «complicare le banalizzazioni», parte dalla storia: come nasce il sionismo? Quali conseguenze ha la sua nascita per il mondo ebraico e la Palestina? È un movimento di autodeterminazione o coloniale? C’è un solo sionismo o diversi sionismi, e diverse fasi storiche?

Una prima interpretazione è quella del sionismo come movimento di rottura nel mondo ebraico, in quanto persegue un progetto politico, lo Stato, che non ha mai fatto parte della sua costruzione filosofica fino alla fine del XX secolo.

Il sionismo nasce come movimento di rinascita nazionale che critica gli ebrei della diaspora e la loro «assimilazione»: nasce l’idea dell’ebreo nuovo, il sabra, alto e forte per il lavoro nei campi, che riscatta secoli di oppressione e di «vergogna».

Pur nascendo in Europa occidentale, il sionismo è figlio della società russa zarista dove, a inizio Novecento, nascono i Protocolli dei savi di Sion (un falso documento contro gli ebrei, ndr). Da questa società verrà la classe dirigente dell’insediamento ebraico in Palestina, l’Yishuv, nelle due ondate di aliyah (ritorno alla Terra Promessa) del 1904 e 1919-20.

Immigrati ebrei e nazionalismo arabo

Quando Theodor Herzl pubblica nel 1896 «Lo stato ebraico», tra le opzioni sul luogo in cui crearlo ci sono l’Argentina e l’Uganda. Lo scopo è quello di salvare gli ebrei dall’antisemitismo.

Nel 1919, l’emiro Faysal ibn Husayn (capo del governo di Damasco) e Chaim Weizmann (dal 1921 presidente dell’Osm, Organizzazione sionista mondiale), stringono un accordo, ma la rottura tra sionisti e mondo arabo arriva già nel 1920, quando la Conferenza di San Remo rende la Siria un protettorato francese e Faysal diviene re dell’Iraq.

Il nazionalismo arabo si sposta così dalla Siria alla Palestina e provoca la prima rivolta antisionista a Giaffa, nel 1921, anche in seguito al crescente numero di immigrati ebrei. A essa fa seguito quella di Hebron nel ‘29 e quella del ‘36, organizzata dal Gran Muftì di Gerusalemme, Amin Al Husayni, contro ebrei e inglesi.

Diverse posizioni ebraiche

Anche tra gli ebrei ci sono diverse posizioni. Per il movimento Brit Shalom, sostenuto da intellettuali come Martin Buber, Yehuda Magnes e Albert Einstein, lo Stato dovrà essere binazionale. Ebrei e arabi possono convivere con gli stessi diritti. Anche la sinistra sionista del partito Mapam la pensa così. I revisionisti guidati dal russo Vladimir
Jabotinsky, che si è staccato nel 1935 dall’Osm, sono, invece, a favore dell’uso della forza e dell’imposizione del progetto sionista. Così come il Betar, nato nel 1923 e organizzato militarmente, il cui capo, Menachem Begin, arrivato in Palestina nel 1942, diventa il numero uno del movimento terroristico Irgun e autore dell’attentato all’Hotel King David a Gerusalemme nel 1946.

In seguito all’avvento del nazismo, Jabotinsky sostiene la necessità di un’emigrazione di massa degli ebrei europei, e tra il 1933 e il 1937, 450mila ebrei vanno in Palestina.

Nel 1939 gli inglesi, timorosi dell’appoggio arabo all’Asse, limitano le quote di immigrazione (75mila nei 4 anni successivi). Alla fine della guerra, quando 250mila ebrei sopravvissuti vagano per l’Europa, l’Yishuv dà inizio all’Alyia Bet, l’immigrazione clandestina, che porta 120mila profughi in Palestina.

Nel 1947 finisce il mandato inglese e l’Onu delibera la spartizione della Palestina, in seguito alla quale viene fondato lo Stato di Israele nel 1948.

La guerra di quello stesso anno della Lega araba contro Israele è un punto di svolta: il conflitto aiuta la realizzazione del piano di espulsione dei palestinesi e di pulizia etnica del territorio. Avvengono violenze e massacri. È il colonialismo di insediamento.

Palestina colonizzata

La guerra del 1967, con la conquista da parte di Israele delle alture del Golan, della West Bank, di Gerusalemme Est e di Gaza crea le condizioni di occupazione dei territori palestinesi. Si diffonde una versione religiosa e aggressiva del sionismo, che si ritiene ispirata da Dio a colonizzare la terra di Israele.

È così che crescono gli insediamenti nella West Bank, da parte di gruppi estremisti riuniti nel Gush Emunim. Anche quando ci sono i laburisti al governo, 1967-’73, si espande la colonizzazione. Intanto, nel 1964 è nata l’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat, che considera illegale l’esistenza di Israele (principio mantenuto fino al 1998), proclama il diritto al ritorno dei profughi, e la lotta armata.

La guerra del Kippur, nel 1973, vinta da Israele con il sostegno Usa, non modifica la situazione.

Le due identità

Il secondo capitolo del volume di Anna Foa riflette sulle identità: mentre la costruzione dello Stato di Israele avviene a prescindere dallo sterminio nazista, dopo il processo Eichmann (1961) la memoria della Shoah diventa il cuore dell’identità di Israele, che si sente l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati dal nazismo.

Un altro elemento che identifica sempre più gli ebrei con Israele è il terrorismo palestinese. Esso non si rivolge più contro i soli israeliani, come a Monaco nel 1972, ma anche contro ebrei nella sinagoga di Roma nel 1982 o a Parigi nel 1980 e 1982.

Anche l’arrivo di 600mila profughi ebrei dai paesi arabi dopo il 1967 contribuisce a modificare l’identità di Israele, creando complessi rapporti tra ashkenaziti e mizrachim orientali, così come, negli anni Novanta, l’arrivo di oltre un milione di ebrei dai Paesi dell’ex Urss, che introduce il russo come terza lingua del Paese, dopo ebraico e arabo.

Infine, altro tassello identitario è la religione: i sionisti religiosi si moltiplicano e si crea una spaccatura tra laici e credenti.

Anche l’identità palestinese cambia. Il ritorno dei profughi, che nel 1948 sono 700mila, e nel 2025 saranno cinque milioni, è un ostacolo alla pace.

Se la Shoah è il cuore dell’identità israeliana, la Nakba, l’esodo forzato degli arabi palestinesi dai territori occupati, è il cuore dell’identità palestinese: «Entrambe sono identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale e dove la narrazione nazionale ruota in gran parte intorno a motivi legati all’essere vittima e alla perdita subita» (cfr. Olocausto e Nakba di Bashir e Goldberg, 2023).

Le paci fallite

Nel terzo capitolo del suo libro, Anna Foa prende in esame i tentativi di pace e gli ostacoli che li impediscono. In particolare, sono due i momenti che interrompono un possibile percorso dentro Israele: l’atto terroristico di Baruch Goldstein che, nel 1994, uccide 29 palestinesi nella moschea di Hebron; e l’assassinio, nel 1995, del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin da parte di Yigal Amir, un colono ebreo estremista di destra contrario a ogni negoziato.

Tutti i tentativi successivi di riprendere un processo di pace falliscono. La politica degli insediamenti illegali prosegue con circa 700mila coloni israeliani che si stabiliscono nei territori occupati. Inizia la costruzione del muro di separazione nel 2002. Nel 2006 Ariel Sharon decide in modo unilaterale la restituzione di Gaza ai palestinesi sgombrando 7.500 coloni. Le elezioni del 2006 nella striscia portano Hamas al potere che accresce la sua influenza anche in Cisgiordania. Nel 2009 Netanyahu dichiara ferma opposizione a ogni trasformazione dell’Autorità palestinese in stato autonomo. Gaza è sempre più controllata da Israele che scatena contro la striscia guerre nel 2009, 2012, 2014, 2021, fino a quella totale odierna.

Il suicidio

L’ultimo capitolo analizza i passaggi più recenti che portano a quello che l’autrice chiama «il suicidio di Israele» a opera del suo stesso governo.

L’operazione del 7 ottobre avrà come prima motivazione la salvaguardia delle moschee della spianata del Tempio, poiché i sionisti religiosi non riconoscono gli accordi su di essa, e il Temple institute lavora alla costruzione del Terzo Tempio che prevede la distruzione delle moschee.

Nel 2018 è varata una legge che prevede lo Stato degli ebrei, i soli legittimati a esercitare l’autodeterminazione nazionale. Ciò comporta un trattamento diverso tra i cittadini ebrei e non ebrei, e il rifiuto dello Stato palestinese.

«La trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza. La polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo israeliani e dei Territori, detenuti senza processo. Le dichiarazioni razziste di ministri si moltiplicano […]. Ci sono militari che rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere».

Poiché dal governo israeliano ogni critica è respinta come «antisemitismo», è opportuno definire anche questo concetto: due sono le definizioni recenti, quella dell’International holocaust remembrance alliance del 2016, che pone un legame stretto tra antisionismo e antisemitismo, e la Dichiarazione di Gerusalemme, del 2021, che definisce l’antisemitismo come «la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)».

Quando, durante le manifestazioni anti israeliane si grida «Dal fiume al mare, Palestina libera», si tratta di uno slogan antisemita? E gli ebrei del mondo «come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? […] Dopo questa terribile esplosione di odio, la strada, non dico per la pace, ma per una semplice convivenza, è lunga […]. Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade […]».

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

Angela Dogliotti

Suggerimenti di lettura

Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto. Storia di un conflitto (XIX-XXI secolo), Einaudi, Torino 2025, pp. 428, 32 €.

Bruno Montesano (a cura di), Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi, edizioni e/o, Roma 2024, pp. pp. 128, 10 €.

Daniel Bar-Tal, La trappola dei conflitti intrattabili. Il caso israelo-palestinese, FrancoAngeli, Milano 2024, pp. 400, 34 €.

Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 352, 20 €.

Ilan Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, Fazi, Roma 2024, pp. 144, 15 €.

Noam Chomsky e Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e Palestina, Ponte alle Grazie, Milano 2023, pp. 272, 16,90 €.

Bashir Bashir, Amos Goldberg (a cura di), Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Zikkaron, Bologna 2023, pp. 464, 20 €.




Il capitalismo della sorveglianza


L’era digitale è piena di minacce di cui non siamo consapevoli. La raccolta e l’uso di informazioni di ogni tipo che ci riguardano è pervasiva. La possibilità di trovarci come singoli e società in uno stato di dipendenza e intontimento è concreta. Il capitalismo digitale è segnato dalla sorveglianza. È bene saperlo.

«Il capitalismo della sorveglianza» di Shoshana Zuboff, professoressa della Harvard business school dal 1981, è il frutto di anni di ricerca.

Mostra come l’era che stiamo vivendo, caratterizzata da uno sviluppo velocissimo della tecnologia digitale, sia piena di minacce di cui non siamo consapevoli.

Nel capitalismo della sorveglianza, infatti, c’è chi si appropria, per gli scopi più diversi, dei dati relativi ai nostri comportamenti, sia quando siamo online che quando siamo offline.

Ogni nostra e-mail, ogni nostra interazione, ogni nostra emozione, è venduta, controllata, manipolata.

Se molti dei dati che ci riguardano vengono usati per migliorare prodotti o servizi, molti altri diventano quelli che Zuboff chiama «surplus comportamentale privato»: dati che vengono utilizzati per capire come ci comporteremo nel futuro e, di conseguenza, per persuaderci ad assumere comportamenti che generano maggiore profitto per alcuni grandi gruppi finanziari.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza diventano allora trappole che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono catturate e usate per scopi di altre persone.

Pensiamo a quanto internet sia saturo di pubblicità «personalizzata». Messaggi continui che producono sia dipendenza che intontimento psichico. Segno di quanto siamo tracciati, analizzati, sfruttati, e del rischio di essere modificati nei nostri gusti, scelte, persino nel nostro orientamento politico.

L’occulto condizionamento delle scelte individuali

I dati che più interessano al sistema del potere digitale sono quelli che provengono dai comportamenti quotidiani, quelli che possono essere riorientati a favore di obiettivi non nostri, gli scopi economici dei capitalisti della sorveglianza.

I nuovi protocolli automatizzati sono progettati per influenzare e modificare il comportamento umano.

Anziché usare eserciti e armi, il sistema del capitalismo della sorveglianza impone il proprio potere tramite l’automazione e un’architettura sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi.

Google ha avuto un ruolo importantissimo in questa direzione, perché ha finanziato ricerca e sviluppo ponendosi all’avanguardia.

Ogni individuo è sorvegliato: ciascuno diventa plusvalore.

Il libro di Shoshana Zuboff è molto ricco di informazioni su come i dati vengono acquisiti e usati, ovviamente all’insaputa del consumatore.

Nel testo è presente un’approfondita analisi storica, giuridica ed economica di questo nuovo capitalismo fondato sulle tecnologie digitali. È presente poi la descrizione della nuova forma di potere antidemocratico basato sull’occulto condizionamento delle scelte individuali.

L’utopia della Silicon Valley, per Zuboff, nasconde proprio un disegno politico antidemocratico, la cui spia è la fortissima partecipazione dell’oligarchia economica statunitense alla politica, come dimostra il governo Trump.

Non è magia, ma sorveglianza

«Il capitalismo della sorveglianza», pubblicato per la prima volta in Italia dalla Luiss University Press nel 2019 e riedito nel 2023, è un libro a tratti inquietante, ma che apre gli occhi su un aspetto poco indagato della nostra società liquida, e che ci interpella sui nostri comportamenti, anche quelli apparentemente più banali come mettere un like o accettare i cookie.

Ci fa capire come mai, nelle nostre ricerche su Google, troviamo subito i siti degli argomenti di cui stavamo discutendo.

Non è magia, ma sorveglianza.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis

Piccola bibliografia

Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano 2024, pp. 156, 16,00 €.

Cory Doctorow è giornalista, romanziere, attivista e noto blogger. Sostiene che l’unica possibilità rimasta per rispondere al capitalismo della sorveglianza è quella di distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale così come lo conosciamo. In modo da tornare a un web aperto e libero, in cui la raccolta dei dati non sia un principio fondante.

Pedro Baños, Così si controlla il mondo. I meccanismi segreti del potere globale, Rizzoli, Milano 2020, pp. 480, 19,00 €.

L’autore, ex comandante del controspionaggio dell’Unione europea, svela i giochi di potere tra le élite politiche internazionali, le tecniche e i trucchi utilizzati per indirizzare gli eventi e manipolare l’avversario: «Impoverisci e indebolisci il tuo vicino», «Menti, qualcosa resterà», «Chi fa le parti si prende quella migliore», e così via. E come tutto questo influisca nella vita di ogni singolo cittadino.

Stefano Borroni Barale, L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificiale, Altreconomia, Milano 2023, pp. 160, 14,00 €.

In questo libro si ricostruiscono le tappe che la comunità scientifica ha attraversato da Alan Turing, primo sostenitore forte dell’IA, ai creatori di ChatGPT, il software in grado di sostenere un dialogo credibile con un essere umano.

Comprendere questo fenomeno, però, può aiutarci a costruire tecnologie alternative, che promuovano la convivialità e la partecipazione diffusa invece del controllo di pochi sugli utenti.




Scienziate visionarie


Sono poco conosciute, ma molto importanti: le donne che nell’ultimo secolo hanno contribuito con i loro studi a rinnovare la scienza e, insieme, la società. Un libro ne presenta dieci, con le loro impostazioni «visionarie» e innovative.

L’interesse del pubblico verso le storie di donne scienziate cresce nel tempo, stimolato anche da diversi libri.

Per esempio, nel 2018 è uscito Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie, volume curato da Sara Sesti e Liliana Moro.

Come sottolinea Adriana Giannini nella sua recensione del libro, «ci si rende subito conto che le scienziate selezionate […] oltre alle doti intellettuali fuori dall’ordinario, dovevano possedere una grande tenacia e sete di sapere per riuscire a evadere dal ruolo che la società prevedeva inesorabilmente per le donne che non volevano essere emarginate: occuparsi della famiglia o chiudersi in convento».

Molte di quelle donne hanno incontrato grossi ostacoli per realizzare i loro progetti, per farsi riconoscere e trovare spazio in un mondo dominato dal potere e dai pregiudizi maschili.

Tra il 2023 e il 2024 sono usciti altri tre titoli su donne scienziate, ciascuno dei quali presenta alcune figure femminili, scelte sulla base di specifiche caratteristiche: si sono occupate di scienze naturali, ambientali, mediche. Tutte con un approccio trans disciplinare, attento ai contesti sociali e alle relazioni interpersonali.

Tra «ribelli», «prime» e «visionarie», queste donne hanno introdotto nuovi modi di vedere, pensare e agire nel loro lavoro.

Visionarie

Ci soffermiamo qui sul libro di Cristina Mangia e Sabrina Presto, Scienziate visionarie, del 2024.

Le due autrici sono ricercatrici del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) che da anni studiano questioni ambientali e di salute pubblica.

La scelta delle dieci figure è in sintonia con il vissuto professionale delle autrici, e con la loro riflessione sulla scienza come impresa collettiva, immersa in un tessuto sociale che condiziona le domande di ricerca, le metodologie di lavoro, gli obiettivi.

Il filo ideale che connette tra loro le studiose presentate nel volume è proprio la convinzione che la scienza debba smettere di essere percepita (e praticata) come lo studio neutrale e oggettivo di una realtà esterna. Deve essere invece riconosciuta come una pratica collettiva e intersoggettiva di esplorazione delle relazioni tra umanità e natura, dipendente dal contesto storico in cui è fatta, dai mezzi tecnici e, soprattutto, dagli obiettivi dell’indagine. Gli obiettivi, infatti, orientano le domande di ricerca, le quali, a loro volta, condizionano la raccolta e interpretazione dei dati che contribuiscono a costruire una visione del mondo per l’intera società.

Un aspetto comune delle studiose presentate è la loro «visionarietà»: la capacità di proporre delle trasformazioni sociali tali da proteggere la sicurezza ambientale, la giustizia e la pace.

Un altro elemento è l’impegno politico. Tutte sono state protagoniste di varie forme di contestazione del maschilismo (spesso razzista) che caratterizzava le leggi, le abitudini, le regole, i vincoli del loro tempo dominato dalla tecno-scienza. Tutte hanno fatto ricorso a metodologie empatiche e nonviolente per sovvertire quella forma insidiosa di patriarcato che impediva alle donne di esprimere le loro potenzialità, e ostacolava la loro attitudine a indagare il mondo naturale con l’obiettivo d’imparare, anziché di usarlo e dominarlo.

L’esigenza di trasformare il modo di pensare e praticare la scienza si è manifestata gradualmente, a partire da quando una minoranza della comunità scientifica (soprattutto femminile) ha fatto emergere la coscienza che la complessità del mondo non può essere esplorata dalle singole discipline separate tra loro, e che occorre far collaborare visioni diverse, non solo scientifiche ma trans disciplinari.

Relazione umanità natura

Le due autrici presentano per prima la figura di Donella Meadows (Usa, 1941-2001), che negli anni 70 del Novecento, insieme ai suoi colleghi, propose l’idea che la Terra sia un sistema complesso, interconnesso e, soprattutto, «finito», ossia con risorse limitate, e limitate capacità di ripristinare gli ecosistemi alterati dalle azioni umane.

Il libro I limiti alla crescita, di cui Meadows fu prima autrice, segnò uno spartiacque nella percezione della relazione tra umanità e natura, anche se alla nuova comprensione delle cose non seguì una sufficiente consapevolezza, né furono prese adeguate misure per ridimensionare l’impatto umano sul pianeta.

Seguono le presentazioni di altre scienziate: Alice Hamilton (Usa, 1869-1970) a partire dall’inizio del Novecento, esplorò per prima le conseguenze dei processi industriali e della produzione di sostanze tossiche sui lavoratori. Aprì la strada alla moderna medicina occupazionale.

Nello stesso periodo Sara Josephine Baker (Usa, 1873-1945) avviò una rivoluzione nella sanità pubblica, introducendo e applicando norme di igiene e prevenzione soprattutto con i bambini e le fasce di popolazione più disagiate.

Un altro esempio significativo della diversa prospettiva delle donne di fronte ai problemi è quello di Alice Stewart (Regno Unito, 1906-2002): mentre ingenti finanziamenti erano destinati a sviluppare prodotti industriali sempre nuovi, pochi fondi venivano assegnati alla medicina sociale, cioè all’indagine degli effetti dei nuovi prodotti sulla salute delle persone.

Fu Alice Stewart a scoprire gli effetti della tecnologia nucleare (dalle radiografie ai fallout delle esplosioni) e a denunciare i rischi dell’esposizione alle sostanze radioattive.

Anche la giapponese Katsuko Saruhashi (1920-2007) fu coinvolta nelle indagini sugli effetti delle radiazioni e ne denunciò le gravi patologie. Non esitò a mettere le sue competenze scientifiche al servizio di una intensa attività pubblica antinucleare, e a incoraggiare le giovani ad approfondire le conoscenze scientifiche a difesa di scelte politiche consapevoli.

La statunitense Rachel Carson (1907-1964), diventata famosa a livello mondiale non solo per i suoi studi, ma anche per le sue doti di scrittrice, ha avuto il merito di opporsi coraggiosamente alla potente industria chimica che, senza scrupoli e senza controlli, stava spargendo pesticidi nelle campagne e nei campi coltivati, con effetti devastanti su ambiente e salute.

Meno famosa, ma altrettanto combattiva, fu Beverly Paigen (1938-2020), anch’essa statunitense, ricercatrice impegnata nello studio di varie forme di cancro. Raccogliendo le segnalazioni di mamme residenti nella città di Niagara Falls a riguardo di malattie e malformazioni nei loro figli, rilevò la presenza di sostanze tossiche nell’area. Dopo anni ottenne di far riconoscere una grave contaminazione nei terreni della zona.

Le ricerche di Carson e Paigen furono ostacolate da scienziati, politici e industriali che screditarono il lavoro scientifico delle due studiose e le attaccarono personalmente in quanto donne.

Solo dopo molti anni, e grazie alla loro competenza e tenacia, furono approvate importanti leggi e create istituzioni nazionali a difesa dell’ambiente e della salute.

Delle altre studiose presentate nel libro, due in particolare, Wangari Maathai (1940-2011), keniana, prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace, e Suzanne Simard, canadese, nata nel 1960, sono ricordate soprattutto per l’attenzione che hanno dedicato alle foreste.

Wangari, con il movimento di donne da lei fondato (il Green belt movement), promosse e realizzò la riforestazione di ampie aree del Kenya, recuperando alberi autoctoni e il ripristino di eco-agro-sistemi in grado di sviluppare una agricoltura di sussistenza per le comunità locali.

Suzanne, contrariata dall’abitudine dell’industria del legno di piantare monocolture di alberi e di utilizzare diserbanti chimici per tenere «pulite» le radure, incominciò a indagare se ci fossero delle relazioni, degli scambi di informazioni tra i singoli alberi. Grazie ai suoi studi scoprì che le foreste sono ecosistemi interconnessi, le cui radici, associate a reti di funghi, costituiscono una fittissima rete sotterranea, che sarebbe stata poi chiamata «wood wide web».

L’interpretazione che Simard fornì delle relazioni scoperte dentro l’ecosistema foresta era che tra le diverse forme di vita ci sia cooperazione e mutuo sostegno: una spiegazione che fu accolta con diffidenza e scetticismo dalla comunità accademica.

È lo stesso tipo di reazione che incontrò Lynn Margulis (1938-2011), biologa statunitense, quando propose che, all’interno di singole cellule, siano attive complesse forme di cooperazione tra i corpuscoli intracellulari.

Lo sguardo femminile delle due studiose avrebbe portato a una radicale reinterpretazione di molti scambi tra gli organismi, a tutti i livelli.

Foreste e cellule, e, in generale, tutti i viventi, non sono solo in competizione tra loro, ma elaborano anche raffinati dialoghi e strumenti di cooperazione, che in certi casi portano all’evoluzione di nuove forme di vita.

Al termine della carrellata di presentazioni viene ricordata l’unica scienziata italiana del gruppo, Laura Conti (1921-1993). Come ricordano le due autrici, fu «partigiana, medica, studiosa instancabile, politica, scrittrice, divulgatrice».

Laura Conti riuscì a intrecciare competenze scientifiche e impegni sociali, e a porre alla comunità scientifica domande cruciali sugli intrecci tra scienza, etica, democrazia e condizioni sociali. Domande che – come fanno notare le due autrici – sono ancora oggi di grande attualità.

Trasformare la scienza

La mancanza di fiducia nella capacità delle donne di contribuire allo sviluppo della scienza ha accompagnato tutto il Novecento, e ancora oggi molte studiose fanno fatica a entrare in gruppi di ricerca e farsi ascoltare. Sono portatrici di modi diversi di guardare il mondo, di affrontare i problemi, di svolgere le ricerche: le loro prospettive, quando riescono a farsi sentire, possono aprire la strada a nuove piste, offrire soluzioni innovative a problemi irrisolti.

Questo approccio all’idea di scienza, ormai presente da alcuni decenni a livello internazionale, viene individuato con il termine «scienza post normale» (Pns): propone una metodologia di indagine per affrontare problemi complessi e controversi, tipici dell’interfaccia tra scienza, politica e società, ed è parte di un interessante movimento di democratizzazione della scienza. Tuttavia, è condivisa finora da una componente minoritaria della comunità scientifica, ed è contrastata dalla crescente influenza dei poteri forti (economici, politici, finanziari) e dell’apparato industriale militare in favore della competitività e della guerra.

Elena Camino

Suggerimenti di lettura

  • Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, I limiti alla crescita, Editoriale scientifica, Napoli 2023, pp. 252, 16 €.
  •  Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Fandango libri, Roma 2021, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, La condizione sperimentale, Fandango libri, Roma 2024, pp. 256, 17 €.
  •  Laura Conti, Discorso sulla caccia. Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura. Di coccolamenti durati milioni di anni. Di primati, gatte e lupi. Della dubbia compatibilità tra uomo e pianeta Terra. Di possibili catastrofi. E dei rischi di facili rimedi, Altreconomia, Milano 2023, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, Il tormento e lo scudo. Un compromesso contro le donne, Fandango libri, Roma 2023, pp. 272, 18 €.
  •  Laura Conti, Cecilia e le streghe, Fandango libri, Roma 2021, pp. 176, 16 €.
  •  Wangari Maathai, Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano 2012, pp. 393, 17,50 €.

 




Danilo Dolci, un uomo di pace


Nato cento anni fa, il «Gandhi italiano» è stato nel nostro Paese uno dei pensatori più influenti della nonviolenza, della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia. Il suo impegno sociale ed educativo, il suo metodo maieutico e partecipativo, sono attuali ancora oggi. Un libro ci spiega perché.

«Un cambiamento non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni».

Così diceva Danilo Dolci (1924-1997), uno dei pensatori più influenti della nonviolenza e della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia.

Nel centenario della sua nascita, la sua figura è tornata all’attenzione del pubblico.

Per l’occasione, infatti, oltre a una serie di iniziative importanti sparse sul territorio italiano, è uscita una nuova edizione, per Altreconomia, del testo Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta. Il volume è curato da Giuseppe Barone, collaboratore di Dolci sin dal 1985, attuale vicepresidente del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, e coordinatore del comitato scientifico del Borgo Danilo Dolci (Trappeto, Palermo).

Danilo Dolci fu soprannominato «Gandhi della Sicilia» o «Gandhi italiano» perché dedicò la sua vita al miglioramento delle condizioni dei contadini della Sicilia adottando metodi nonviolenti. Utilizzò, infatti, il digiuno, ed elaborò il metodo maieutico reciproco per costruire le soluzioni dei problemi sociali insieme alle persone direttamente coinvolte.

Un esempio di democrazia dal basso che oggi, in un momento di grande scollamento tra i cittadini e politica, ritrova la sua attualità.

Biografia di un nonviolento

Il testo di Giuseppe Barone raccoglie una serie di scritti che documentano la vita e le opere di Dolci, e include interviste e testi poco conosciuti che mettono in luce la profondità del suo pensiero e del suo impegno in vari ambiti della società.

Oltre alla biografia di Dolci, nel volume troviamo un ricordo di Luca Baranelli, un’intervista di Mauro Valpiana allo stesso Dolci, nella quale l’intervistato denuncia il rapporto mafia-politica e il riemergere del fascismo già nel 1995, non solo in Sicilia, ma nelle maglie dello Stato.

Di grande interesse sono anche i testi tratti da alcune delle più importanti opere di Dolci come Per una rivoluzione nonviolenta, Dal trasmettere al comunicare e Il metodo maieutico reciproco, dove compie un’attenta analisi della realtà nella quale lavora e illustra il suo impegno sociale ed educativo ispirato alla nonviolenza.

Se c’è una metafora che può indicare l’azione di Danilo Dolci è senz’altro quella della domanda. Attraverso le domande, infatti, egli scavava con bambini e adulti nel terreno dei bisogni e creava con loro le possibili risposte che diventavano progetto politico.

Solo allora intraprendeva mobilitazioni e contatti con i politici del momento, ottenendo anche importanti risultati come la costruzione della diga sul fiume Jato, nella Sicilia Nord occidentale.

Senza dimenticare la creazione del Centro educativo di Mirto (Messina), una scuola immersa nella natura, costruita a misura di bambino.

Basti pensare che ogni aula ha tre entrate che danno tutte sulla campagna, le finestre sono basse, in modo che ogni bambino, anche da seduto, possa vedere fuori, i banchi disposti a cerchio in modo che ci sia coerenza tra il metodo maieutico e la struttura.

Solo così si può passare da una scuola incentrata sul «trasmettere» a una scuola che vuole «comunicare» e costruire un sapere condiviso, basato sull’interesse nei confronti del mondo, così naturale nei bambini e così schiacciato negli adulti.

Un libro da sorseggiare, da assaporare, da leggere insieme perché possa diventare di nuovo realtà.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis


Piccola bibliografia

  • https://danilodolci.org/
  • www.borgodanilodolci.com/
  • Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio editore, Palermo 2009, pp. 433, € 15,00.
    • Un libro tramite il quale Dolci voleva far conoscere le condizioni in cui versava nel secondo dopoguerra la popolazione della Sicilia fatta di banditi, cioè esclusi dalla società.
  •  Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda edizioni, Milano 2011, pp. 295, € 18,00.
    • Pubblicato per la prima volta nel 1988, in questo saggio Danilo Dolci denuncia i danni causati in ogni ambito da rapporti unidirezionali, trasmissivi, violenti, e propone l’alternativa della comunicazione, della maieutica reciproca, della nonviolenza.
  • Danilo Dolci, Inchiesta a Palermo, Sellerio editore, Palermo 2013, pp. 378, € 18,00.
    • È un’inchiesta su quelli che si industriano e si arrangiano, cioè i disoccupati di Palermo alla fine degli anni 50. Una massa di persone che viveva ai margini della società e in uno stato di degrado.
  •  Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio editore, Palermo 2011, pp. 425, € 15,00.
    • Danilo Dolci racconta lo «sciopero alla rovescia» nel quale guidò un gruppo di braccianti alla ricostruzione di una strada abbandonata nei dintorni di Partinico e per il quale venne arrestato nel 1956. Descrive cosa accadde nelle piazze, nei tribunali, nelle stanze di polizia. È un documento prezioso per capire quanto fosse dura la strada per affermare la democrazia repubblicana in Italia in quegli anni.
  • Danilo Dolci, Il potere e l’acqua, Melampo editore, Milano 2010, pp. 94, € 12,00.
    • In questo scritto emerge l’esperienza di Danilo Dolci con le popolazioni siciliane sul tema dell’acqua: risorsa fondamentale che può diventare strumento di potere con cui creare disuguaglianze e manipolazioni dell’ordine sociale.
  •  Danilo Dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, Edizioni Mesogea, Messina 2018, pp. 301, € 19,50.
    • È una delle più belle testimonianze dell’impegno educativo di Danilo Dolci all’indomani delle lotte per la diga sullo Jato e di fronte alla spaventosa situazione delle scuole dei territori colpiti dal terremoto.

 




La montagna sacra


Viviamo nel tempo della crisi climatica e dell’illusione di poter controllare e dominare la Terra. Il libro di Enrico Camanni invita alla sapienza del limite. Partendo dalla proposta di scegliere una cima alpina da lasciare libera dalla presenza umana. Per contemplare (e non conquistare) qualcosa che supera l’uomo.

«In senso stretto, si definisce sacro ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito e insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro è separato, è altro».

Questa la definizione che l’enciclopedia Treccani dà del concetto di «sacro». Sacro è ciò che ha a che fare con un limite, con la delimitazione di uno spazio riservato alla sfera del divino, uno spazio che l’uomo non abita e del quale non può disporre.

Naturalmente la dimensione sacrale non ha necessariamente bisogno di essere declinata in uno specifico credo o religione.

Non occorre la fede nell’esistenza di un dio per sperimentare la sacralità. Per questo, anche in una prospettiva laica, ha senso riflettere sul significato del sacro e sulle sue implicazioni, sulla convinzione, cioè, che l’ambito dell’agire umano non è illimitato e che, di conseguenza, l’uomo non si trova al centro di tutto, perché esiste qualcosa che lo supera.

Le Alpi indicano il limite

Nel libro di Enrico Camanni si ragiona su questo senso del limite. Lo spunto che dà avvio alla riflessione è una proposta emersa durante il centenario (2022) dell’istituzione del Parco nazionale del Gran Paradiso: l’idea di impegnarsi a non salire più la cima del Monveso di Forzo, tra la Val Soana e la Val di Cogne, e dichiararla sacra, lasciandola libera dalla presenza umana. Non calpestarne più la vetta. Una proposta che ha acceso un grande dibattito.

Non si tratta, per il comitato promotore, di interdire la salita con un divieto legale (come accade, ad esempio, dal 2019 in Australia a Uluru-Ayers Rock, la «grande pietra» sacra della mitologia aborigena), la proposta ha piuttosto un valore simbolico, un invito all’astensione dall’azione del salire, alla contemplazione dal basso che ci induca a non percepirci come gli artefici onnipotenti di un mondo nel quale tutto può essere soggetto alla nostra volontà di conquista e di dominio.

Camanni esplora dunque questa concezione del limite ponendo attenzione al territorio montano. Lì, infatti, risalta con maggiore forza la necessità di percorrere la via dello sviluppo sostenibile, «che definisco “terza via” – scrive Camanni – in alternativa alle due strade a fondo cieco che sono state percorse nella seconda metà del Novecento e non sembrano ancora del tutto archiviate: le Alpi dei condomini e le Alpi della retorica romantica».

Si tratta della proposta di una differente idea di turismo e di frequentazione dello spazio alpino, opposta a quella che crede, ad esempio, che la montagna, per svilupparsi, abbia bisogno di più piste da sci, con infrastrutture a quote sempre più alte, di strade anche in valloni isolati, e così via. È l’idea di un turismo (che sembra peraltro in crescita) incentrato sulla bassa velocità, su un escursionismo in cerca di luoghi selvaggi liberi il più possibile da tracce di presenza umana, sull’esplorazione della storia e della cultura dei territori.

Il mondo politico, in Italia perlomeno, continua a rimanere sordo al turismo sostenibile: «Basti un dato – si legge nel libro di Camanni -: alla fine del 2023 il ministero del Turismo ha assegnato 152 milioni di euro alla montagna, così suddivisi: 148 milioni al turismo della neve (impianti di risalita e innevamento artificiale) e 4 milioni all’ecoturismo per “minimizzare gli impatti sociali, economici e ambientali” del settore. Una mancetta».

La sapienza del limite

Lo sfondo su cui tutto questo si gioca è la questione ambientale, in relazione alla quale è stato coniato il termine «Antropocene», perché «a differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti – scrive Paul J. Crutzen in Benvenuti nell’antropocene!, Mondadori, 2005 -, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova, di cui un osservatore extraterrestre potrebbe distinguere l’azione, siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi assieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto e del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni».

Il modo di intendere il nostro rapporto con il resto dei viventi e della natura ha, lo si voglia o no, un peso centrale nella politica odierna, la dimensione ecologica peraltro non va considerata come un ambito a sé stante ma si intreccia strettamente a quella economica e sociale.

Dai rapporti del Club di Roma dei primi anni Settanta, al lentius profundius suavius (più lento, più profondo, più dolce) di Alexander Langer, sino alla Laudato si’ di papa Francesco, non poche sono le voci che possono aiutarci a riflettere sulla pratica del limite nell’interazione tra l’uomo che agisce, produce e consuma risorse e la cornice naturale entro la quale compie queste azioni.

La sapienza del limite ha radici antiche, cercare di ancorarci saldamente a queste radici può costituire la migliore base per l’edificazione di un futuro che, è lecito pensare, o sarà ecologico o non sarà.

Massimiliano Fortuna
Centro studi Sereno Regis

Piccola bibliografia

  •  Paul J. Crutzen, Benvenuti nell’antropocene!, Mondadori, Milano 2005, pp. 94, 12,00 €.
  •  Marco Albino Ferrari, Assalto alle Alpi, Einaudi, Torino 2023, pp. 144, 12,00 €.
  •  Amitav Ghosh, La montagna vivente, Neri Pozza, Vicenza 2023, pp. 64, 10,00 €.
  •  Alexander Langer, La scelta della convivenza, E/O, Roma 2022, pp. 136, 8,00 €.
  •  Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 2022, pp. 400, 13,50 €.
  •  Papa Francesco, Laudato si’. Laudate Deum, Ancora, Milano 2023, pp. 264, 4,00 €.
  •  Marco Tedesco con Alberto Flores d’Arcais, Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare, Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 159, 15,00 €.

 




La guerra dentro


Il volume mette in luce le radici affettive della guerra. Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a sostenere o rifiutare la violenza armata? Si può considerare tramontata la cultura del «mors tua vita mea»? Alcuni studiosi sostengono di sì.

Il titolo del volume curato da Diego Miscioscia e pubblicato dalle edizioni la meridiana incuriosisce: «La guerra è finita». Ma come? Con tutti i conflitti che ci sono.

«La tesi di questo libro – si legge all’interno – è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti».

Quello che stiamo vivendo è un tempo in equilibrio sull’orlo di un’estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico. È quindi necessaria una riflessione su quali possano essere gli elementi di un percorso diverso che metta la guerra fuori dalla storia e realizzi processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.

Il mondo interno e la guerra

Il testo utilizza punti di vista scientifici diversi (dalla biologia, alla psicologia, alla storia), e parte da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra. Questo per mostrare che, nel corso del Novecento, il sistema guerra è entrato in crisi a causa della sua irrazionalità e distruttività, e a causa della sua inefficacia nel risolvere i conflitti. Ma anche per mostrare, allo stesso tempo, che in tale contesto, si sono sviluppate le competenze mentali della pace.

Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali. Esso mostra strategie di sopravvivenza orientate più alla cooperazione che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dagli scimpanzé bonobo.

Il riferimento teorico più forte è, però, quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani Franco Fornari e Luigi Pagliarani che, circa 60 anni fa, elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione delle risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.

Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare», essa «si innesta anche su […] dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno».

Questa dimensione psicologica ci aiuta a comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra, e anche il fatto che, per costruire una solida cultura di pace, è necessario lavorare sul mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.

Il volume, perciò, mette in luce le radici interiori della guerra, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari. Essa sostiene che i valori e le motivazioni personali nascono da logiche sentimentali diverse che fanno riferimento al mondo familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e quelli sessuali, virile e femminile.

«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza», si legge nel testo.

È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna» che integri e armonizzi i codici diversi, evitando che qualcuno di essi si radicalizzi, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale che estremizza il codice paterno.

È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace».

Nel corso dell’ultimo secolo alcuni passi nella direzione di uno sviluppo delle competenze mentali della pace sono stati fatti.

Miscioscia individua tre condizioni significative: il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero; la crisi della cultura patriarcale; la globalizzazione economica, che ha fatto sentire a molti di essere cittadini del mondo più che di nazioni.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è segnata: la creazione delle Nazioni Unite e l’articolo 11 della nostra Costituzione ne sono due esempi.

Via la guerra dalla storia

Poiché la mente umana è influenzata da ambiente, educazione e cultura, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni».

Nella terza parte del volume si individuano le azioni collettive che possono incidere sui processi mentali dei singoli: favorire il sentimento di essere parte di una comunità; educare con metodi nonviolenti anziché repressivi; narrare la storia come storia del mondo e delle sue civiltà, delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi pacifici, invece che come celebrazione di conquiste ed eroi.

L’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, fornisce indicazioni su come parlare di guerra ai bambini, cosa significa educare alla pace, come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.

«Il contributo più importante che abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità […]: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un’utopia […]. Si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l’ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali».

Quello fatto da Diego Miscioscia è un lavoro ricco e importante. La presenza di alcune imprecisioni storico culturali che potevano essere evitate da una più rigorosa revisione delle informazioni, nulla toglie al suo valore. Per fare solo due esempi: Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962, non nel 1952; il Mean non è tra le associazioni promotrici della campagna «Un’altra difesa è possibile» per la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta, e nemmeno la Rete italiana pace e disarmo, la quale si sarebbe costituita dopo l’inizio della campagna dall’unione della Rete della pace con la Rete italiana per il disarmo, queste sì promotrici della campagna.

L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché è uno strumento davvero prezioso.

Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’Unesco (firmata nel 1945): «Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

bibliografia

  •  Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 288, 24,00 €.
  •  Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e Associati, Milano 2012, pp. 111, 13,50 €.
  •  Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2011, pp. 634, 11 €.
  •  Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1992, pp. 656, 13 €.
  •  Antonella Sapio, Per una psicologia della pace, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 944, 58 €.
  •  Franco Fornari, Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, Milano 1969.



Angelelli e Gerardi


Il tempo delle giunte militari in America Latina ha visto fiorire molte esperienze di lotta nonviolenta per la giustizia. Tra queste, quelle del vescovo argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998), entrambi per una Chiesa dei poveri. Entrambi ammazzati dai regimi.

Anselmo Palini, insegnante e saggista di San Giovanni di Polaveno, Brescia, attivo sui temi dei diritti umani e della nonviolenza, ha pubblicato diverse biografie, quasi tutte per l’editore Ave, di testimoni del nostro tempo impegnati per la giustizia e la pace.

Tra questi, ci sono, oltre ai più noti Oscar Romero e Hélder Câmara, altri due vescovi latinoamericani, assassinati dalle giunte militari dei loro Paesi perché testimoni scomodi del Vangelo.

Sono l’argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e il guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998).

Enrique Angelelli

Enrique Ángel Angelelli Carletti, rettore del seminario di Cordoba, Argentina, e assistente della Joc (gioventù operaia cristiana) e della Juc (gioventù universitaria cristiana), diventa vescovo ausiliario della diocesi nel 1960 schierandosi subito a fianco di campesinos (contadini) e operai.

Durante il Concilio Vaticano II, che lo segna profondamente, è uno dei firmatari del «Patto delle

Catacombe» (16/11/’65), nel quale «i vescovi si impegnano a vivere in povertà, rinunciare ai simboli del potere, mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale, operare per la giustizia e per un nuovo ordine sociale».

Nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin, in Colombia, conferma questa direzione di impegno e, quando viene nominato vescovo di La Rioja, celebra la messa nel barrio Cordoba Sud, uno dei più poveri della città.

A causa delle sue denunce, le autorità proibiscono la trasmissione per radio della messa. Viene allora diffuso un documento nel quale si afferma: «È possibile far tacere una trasmissione radiofonica, ma non la Chiesa, perché la forza e la ragione stessa della sua esistenza sono radicati nella presenza misteriosa dello Spirito di Cristo, che è vivo in ciascun uomo di questa terra, bagnata dal sangue dei suoi figli, versato per difendere la propria dignità».

Nel 1973, durante la festa in onore di Sant’Antonio, nella parrocchia di Anillaco, Angelelli viene aggredito a sassate da sicari dei latifondisti. Il papa Paolo VI gli fa sentire il suo sostegno attraverso una visita del superiore dei Gesuiti, Pedro Arrupe, e di Jorge Mario Bergoglio.

Già prima dell’avvento della giunta militare, gli squadroni della morte della Tripla A (la neofascista Alleanza anticomunista argentina) uccidono preti e laici impegnati, finché, nel 1976, il golpe militare instaura la dittatura che durerà fino al 1983.

Dopo l’ennesimo assassinio di due preti, padre Gabriel Josè Rogelio Longueville e fratel Carlos de Dios Murias, nell’orazione funebre Angelelli invoca: «Mi rivolgo a coloro che hanno preparato, organizzato ed eseguito l’assassinio dei due sacerdoti: aprite gli occhi, fratelli, se vi chiamate cristiani! Rendetevi conto del sacrilegio e del crimine che avete commesso».

Nei giorni successivi raccoglie dai parrocchiani testimonianze e prove di quanto accaduto e prepara un rapporto da trasmettere alla Conferenza episcopale, per evitare che tutto sia insabbiato.

Il 4 agosto 1976, mentre ritorna a La Rioja accompagnato dal vicario episcopale, Arturo Pinto, la sua auto è affiancata da un’altra che la spinge fuori strada facendola ribaltare.

Nonostante i tentativi di farlo passare per un incidente stradale, la verità del crimine non potrà essere nascosta a lungo.

Dopo l’assassinio del vescovo Angelelli, la repressione in Argentina continua. Migliaia di persone sono arrestate e scompaiono, sono rinchiuse nelle caserme, torturate, gettate in mare con i voli della morte. I familiari non riescono ad avere notizie.

Il 30 aprile 1977 un gruppo di quattordici donne, le Madres de Plaza de Mayo, si presentano davanti alla Casa Rosada, il palazzo del Governo, in silenzio e con le foto di figli, mariti, fratelli scomparsi, per avere notizie.

Tutte le settimane, per anni, queste donne saranno lì, con la loro muta presenza, a denunciare l’orrore della dittatura, inaugurando una protesta nonviolenta che risuonerà in tutto il mondo.

Un colpo per la giunta golpista sarà il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1980 all’attivista nonviolento cattolico Adolfo Perez Esquivel, che è imprigionato per quattordici mesi e liberato nel 1978.

Dopo la fine della dittatura, nel 1985, il rapporto Nunca Mas, che ricorda anche l’assassinio del vescovo Angelelli, consentirà di avviare i processi contro i militari accusati di gravi violazioni dei diritti umani e porterà alla condanna all’ergastolo dei generali Videla, Massera e altri.

Il 27 aprile 2019 monsignor Enrique Angelelli viene beatificato da papa Francesco.


Juan Gerardi

Il testo di Palini su Juan José Gerardi Conedera riporta nel sottotitolo: «Nunca mas. Mai più».

Anche il Guatemala, infatti, come altri stati latinoamericani, ha vissuto sul proprio territorio la stagione delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti.

Richiamandosi alla dottrina Monroe del 1823 che affermava la supremazia degli Stati Uniti sul continente americano, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la politica statunitense guarda all’America Latina come al «cortile di casa», da controllare contro il pericolo comunista rappresentato dalla rivoluzione cubana del 1959.

Anche in Guatemala si crea così una stretta alleanza tra gli interessi dell’oligarchia terriera latifondista e le multinazionali statunitensi come la United fruit company, per controllare le monocolture di caffè e banane contro le rivendicazioni contadine e la riforma agraria realizzata dall’unica esperienza democratica guatemalteca, tra il 1945 e il 1954, sotto i governi di Juan José Arevalo (1945-52) e Jacobo Arbenz Guzman (1952-54).

Durante questa breve parentesi viene varata una Costituzione democratica e creato un Codice del lavoro, nasce il Partito guatemalteco del lavoro e la riforma agraria aiuta 100mila famiglie contadine.

Nel 1954, però, un’invasione dall’Honduras guidata dal colonnello guatemalteco Carlos Alberto Castillo Armas, con un gruppo di mercenari e con il diretto aiuto della Cia per respingere il «pericolo rosso», costringe alle dimissioni il presidente Arbenz Guzman.

La giunta militare che si instaura elimina tutte le conquiste democratiche, ripristina il lavoro gratuito degli indigeni, incarcera tutti i sospetti di «comunismo», inaugura un nuovo periodo di repressione e di violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle popolazioni native.

Se in un primo periodo la Chiesa guatemalteca sostiene la dittatura, in seguito, soprattutto dopo il Concilio e la citata Conferenza di Medellin, si diffonde l’«opzione preferenziale per i poveri», di cui Gerardi diventa uno degli esponenti più autorevoli.

Ordinato prete nel 1946, vive tutta l’esperienza del passaggio da una Chiesa schierata con le forze conservatrici a una Chiesa conciliare, attraverso il contatto con le popolazioni rurali, lavorando con le comunità dei popoli indigeni, promuovendo l’uso delle lingue locali nell’alfabetizzazione e nel movimento dei «delegati della parola». Perché, osserva Gerardi, il fatto che esistano culture distinte è una manifestazione della diversità in cui Dio si rivela e agisce all’interno di tutta la cultura umana.

È presidente della Conferenza episcopale del Guatemala dal 1972 al 1976, e poi dal 1980 al 1982. Nel 1976 è il primo firmatario di un documento nel quale i vescovi «denunciano le situazioni di violenza istituzionalizzata, caratterizzate da strutture sociali ingiuste, da emarginazione e miseria».

Per far fronte a tutto ciò, la Chiesa indica la necessità di una radicale riforma agraria, e imputa alle profonde disuguaglianze sociali l’estendersi della rivolta armata, che a sua volta determina l’inasprirsi della repressione. Dunque una spirale di violenza senza fine. Denuncia poi l’esistenza di gruppi paramilitari, l’uso sistematico della tortura, la violazione dei più elementari diritti umani.

Anche la radio diocesana denuncia le violenze e gli assassinii, come lo stesso Gerardi ricorderà: «In quel periodo eravamo vittime di una persecuzione continua. La radio della diocesi era stata accusata dall’esercito di fiancheggiare la guerriglia. Un giorno trovammo un cadavere davanti all’ingresso della radio, con un cartello sul quale era scritto “Padre Lans è morto. Così moriranno tutti gli altri della radio”».

In un anno, dal 1977 al 1978, sono assassinati 143 leader contadini, preti e catechisti.

Nel 1980, anno dell’assassinio in El Salvador di monsignor Oscar Romero, le forze di sicurezza del regime del generale Fernando Romeo Lucas Garcia compiono il massacro all’ambasciata di Spagna: 37 vittime tra contadini e studenti che ne hanno occupato i locali, compresi quattro diplomatici spagnoli.

Lì perde la vita anche il padre di Rigoberta Menchù, futura premio Nobel per la pace nel 1992.

La diocesi di Santa Cruz, guidata da Gerardi, da cui provenivano i contadini che avevano occupato l’ambasciata, emette un duro comunicato di condanna: «Da quattro anni il Quichè sopporta il peso di una violenza estrema, aggravato dall’occupazione militare della zona nord e da altre misure che, di fatto, colpiscono il popolo a beneficio di una minoranza. Come causa di fondo scopriamo uno schema di sviluppo economico, sociale e politico che non tiene conto degli interessi dei poveri e si appoggia alla Dottrina della sicurezza nazionale, che sottomette le persone a un regime di terrore. […] Per questa ragione facciamo nostra la denuncia dei contadini che sono morti per il popolo del Quichè, nell’ambasciata di Spagna».

Ma le uccisioni di dirigenti sindacali, preti, operatori pastorali continuano, compresa la madre di Rigoberta Menchù, rapita, torturata e lasciata agonizzante per giorni.

Sfuggito a un attentato, nello stesso anno Gerardi decide di chiudere la diocesi per mettere al riparo sacerdoti e catechisti, e si rifugia presso vari conventi, mentre molte famiglie contadine vanno in montagna, dove formano le Comunità di popolazione in resistenza (Cpr) «che sviluppano forme di convivenza e sistemi di lavoro collettivi e che, grazie alla perfetta conoscenza del territorio, sono in grado di difendersi dall’esercito».

Dopo un viaggio a Roma, a colloquio con papa Giovanni Paolo II, monsignor Gerardi, per sicurezza, non rientra in Guatemala (si scoprirà in seguito, infatti, che era è stato preparato un attentato contro di lui), e si rifugia in Costa Rica fino al 1982.

Nel 1981, una missione di Pax Christi internazionale, guidata da monsignor Luigi Bettazzi, visita Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Nel rapporto che ne segue si legge: «Sono gli interessi dell’economia occidentale a spingere i sedicenti Paesi liberi e democratici a tenere in piedi quei regimi dittatoriali che assicurano vendite di materie prime e scambi economici in termini vantaggiosi per i Paesi industrializzati che dominano il mondo. Che in questi Paesi del Centroamerica non esista la democrazia, che piccoli gruppi di famiglie straricche dominino e sfruttino la maggioranza della popolazione in miseria, questo non sembra avere molta importanza. Così l’assurda e spietata dittatura del Guatemala serve da punto di riferimento e di ritrovo degli interessi economici e militari di diversi Paesi dagli Stati Uniti a Israele».

Nel 1983, sia il Tribunale permanente dei popoli in seduta a Madrid, sia Amnesty international, condannano le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dalla dittatura guatemalteca, in particolare dopo il colpo di stato di Efrain Rios Montt del 1982, che persegue l’annientamento delle comunità Maya, facendo terra bruciata intorno a loro e reclutando a forza i ragazzi per contrastare la guerriglia. Prima di essere deposto da un ennesimo colpo di stato nell’agosto 1983, i suoi diciassette mesi di governo sono tra i più sanguinari della storia del Guatemala.

Il mutato clima internazionale induce ad avviare un processo di transizione politica che consegni il potere ai civili: nel 1985 si svolgono elezioni generali che portano alla vittoria del democristiano Vinicio Cerezo Arévalo, ma il Paese è ancora dilaniato dalla guerra tra esercito e gruppi della guerriglia.

Il vescovo Gerardi, nel 1986 fa parte della Commissione nazionale di riconciliazione, frutto dei primi passi verso un processo di pace nel Paese.

Nel 1989 l’arcivescovo di Città del Guatemala, Prospero Penado del Barrio, gli affida il compito di creare un Ufficio per i diritti umani nella diocesi.

Nella veste di coordinatore di questo ufficio, negli anni parteciperà alla Commissione Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, denunciando l’impunità che regna nel suo Paese.

Dopo il Premio Nobel per la pace a Rigoberta Menchù nel 1992, anche Gerardi riceve diversi riconoscimenti internazionali.

Nel 1994 a Oslo viene sottoscritto un accordo tra il governo del Guatemala e la Unidad Revolucionaria nacional guatemalteca (Urng), che prevede l’istituzione di una Commissione di indagine sulle violenze perpetrate nel Paese. Gerardi propone di integrarla con il progetto Remhi (Recuperacion de la memoria historica), un lavoro da lui coordinato, che si concluderà con la pubblicazione di quattro volumi dal titolo Guatemala. Nunca mas, per documentare le uccisioni, le sparizioni, la repressione e le violazioni dei diritti umani tra il 1956 e il 1996.

L’arcivescovo Penado del Barrio, nella Presentazione del rapporto scrive: «Con questa guerra in cui si è torturato, si è assassinato e si sono fatte scomparire intere comunità, che sono rimaste terrorizzate e indifese in questo fuoco incrociato, in cui si è distrutta la natura, che nella cosmovisione indigena è sacra, la madre terra, è anche stata spazzata via, come un uragano impetuoso, la parte più viva dell’intellighenzia del Guatemala. Il Paese è rimasto improvvisamente orfano di cittadini autorevoli».

Nel 1995 Gerardi partecipa in Italia alla Marcia Perugia-Assisi.

Nel 1996 è firmato finalmente l’accordo di pace, e nel 1998 il rapporto Nunca mas è consegnato a Rigoberta Menchù.

Due giorni dopo la presentazione dei risultati del progetto Remhi, il vescovo Gerardi è assassinato nel suo garage.

Per il delitto saranno condannati il colonnello Byron Lima Estrada, suo figlio, il capitano Byron Lima Oliva, il soldato Obdulio Villanueva e il viceparroco Mario Orantes in qualità di complice, ma i mandanti, gli alti vertici militari e politici, rimarranno liberi.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis


I LIBRI DI ANSELMO PALINI

  •  Hélder Câmara. «Il clamore dei poveri è la voce di Dio», Ave, Roma 2020, pp. 240, 14,00 €.
  •  Don Pierino Ferrari. «Vestito di terra, fasciato di cielo», Ave, Roma 2020, pp. 304, 14,00 €.
  •  Teresio Olivelli. Ribelle per amore, Ave, Roma 2018, pp. 318, 20,00 €.
  •  Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo». Ave, Roma 2018, pp. 290, 20,00 €.
  •  Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline, Milano 2017, pp. 224, 16,00 €.
  •  Marianella Garcìa Villas. «Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi», Ave, Roma 2014, pp. 272, 12,00 €.

Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009, pp. 304, 16,00 €.




L’ecologia profonda


Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.

«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).

«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».

La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.

Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.

Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.

  1. Version 1.0.0

    La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.

  2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
  3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
  4. L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
  5. Le politiche devono essere modificate.
  6. La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
  7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
  8. Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.

L’uomo Arne

Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.

Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».

Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.

In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.

In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.

Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.

Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.

Essere positivi

L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.

«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.

Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.

Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.

Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.

Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.

Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.

Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.