Se non è una fisarmonica

Su Missioni Consolata di gennaio 2001 affrontate problemi di grande interesse in modo chiaro: chiaro per chi non è abituato a confrontarsi con l’ermetismo di tanti teologi cattolici, che tutto decidono in materia religiosa. A me pare ovvio che essere in grazia di Dio non dipende dalle loro interpretazioni incomprensibili, ma dai propri comportamenti.
Il famoso principio di san Cipriano (210/258 d. C.) «fuori dalla chiesa non c’è salvezza» poteva essere comprensibile a suo tempo, anche se impediva ad alcuni di credere nel Dio dal quale proveniva la loro fede. Era una norma, nella quale tutti avrebbero dovuto convergere; o forse era un principio giuridico-religioso. Poi bisognerebbe cercare di sapere se Cipriano, parlando di «chiesa», includesse anche le altre religioni. Ritengo che tutti gli esseri umani, in ogni tempo, abbiano sempre avuto una «chiesa», almeno come luogo di culto.
Il Concilio ecumenico Vaticano II affronta il problema della possibilità di salvezza anche per chi appartiene a religioni non cristiane.
L’articolo 16 della Lumen gentium dice: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa (e tuttavia cercano sinceramente Dio) e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire l’eterna salvezza». Ne consegue: chi per ragioni storico-geografiche, senza colpa, ignora il Vangelo e tuttavia cerca sinceramente Dio in cielo, in terra, in ogni luogo, avrà la salvezza.
E non sarebbe meglio dire che ogni essere umano può essere in grazia di Dio se i suoi comportamenti e le sue azioni sono conformi agli ordinamenti di un codice elementare nel quale è vietato tutto ciò che la coscienza disapprova?
Pio Moacchi
Savona

La voce di una coscienza educata, onesta e generosa è sempre positiva. Ma, se la coscienza si stiracchia a fisarmonica…

Pio Moacchi




Il TG3 – Piemonte

Spettabile redazione,
il 17 febbraio scorso, al TG 3 regionale (Piemonte) delle ore 19, i missionari della Consolata sono stati ricordati nei loro 100 anni di vita. È stato citato anche l’editoriale del numero speciale di Missioni Consolata, riguardante proprio il centenario, che riporta una bella lettera a Gesù Bambino.
Sono rimasto piacevolmente sorpreso dell’iniziativa «quasi coraggiosa» della Rai. Però la mia gioia è durata poco, purtroppo. Infatti ho avuto la delusione di constatare che, nel riportare la lettera di Gesù Bambino, sono state omesse due righe: riguardano la guerra della Nato in Kosovo e le bombe all’uranio.
Forse ai giornalisti, autori del servizio, all’ultimo momento è mancato il coraggio… Allora mi sono ritornate in mente le ripetute dichiarazioni di «fedeltà all’alleanza» che molti (troppi) politici dei più variegati «colori» si sono affrettati ad esprimere. Ma è proprio così riprovevole mettere in dubbio i metodi, l’organizzazione e la stessa legittimità della Nato?
Da parte mia, mi sono permesso di telefonare immediatamente alla Rai per protestare del taglio arbitrario. Forse non toccava a me che sono un vostro abbonato qualunque. Scusatemi per l’intemperanza.
Beppe Peroncini
Torino

Ben vengano simili «intemperanze»!…
Ci sono giunte altre lettere sui «100 anni dei missionari della Consolata». Compaiono sull’inserto «Tuttomondo».

Beppe Peroncini




Lacrime di una musulmana

Egregio direttore, ci ha disgustati la copertina di Missioni Consolata, gennaio 2001: il volto di una musulmana e non «lacrime di donna samburu».
Così avvenne per il centenario della rivista (ottobre-novembre 1998): anche su quel numero il volto di una musulmana. Idem in quattro o cinque numeri del 1998: sempre facce di musulmane e pagine e pagine di interviste a donne cristiane diventate musulmane.
Ci chiediamo se sia il caso di mettere, come primo messaggio della rivista, donne musulmane. Quale attinenza hanno con la rivista e con i missionari della Consolata? Molti lettori hanno commentato negativamente.
È vero che l’islam è la seconda religione in Italia e che di musulmane ce ne sono a migliaia; ma proporle sulla copertina di una rivista missionaria è del tutto fuori posto.
Egregio direttore, se lei è un «patito» per i volti musulmani, si prenda due o tre segretarie musulmane: così le può contemplare come e quando vuole. Ma abbia rispetto per la rivista, per i suoi lettori, per i missionari della Consolata.
Lettera firmata
Kenya
La copertina incriminata ritrae una donna, con due lacrime che le solcano il volto. La foto fu scattata da padre Benedetto Bellesi, il 18 settembre 1998, nella chiesa di Maralal (Kenya) durante il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso quattro giorni prima.
La commozione di quella musulmana per un missionario cattolico è quanto mai eloquente: come minimo esige (questa volta sì) «rispetto».
Secondo la Qabbalàh (tradizione mistica dell’ebraismo), l’Eteo raccoglie le lacrime delle donne, di tutte le donne. Ma qualcuno neppure le vede, perché chi piange è una musulmana!

lettera firmata




Rompere il cerchio

Per 136 paesi del Sud del mondo il debito estero significa condanna
al sottosviluppo; per i paesi creditori è strumento di autentica usura e ricatto.
La situazione si sta ritorcendo come un boomerang contro le nazioni ricche. L’opinione pubblica preme su governi e organismi finanziari
perché i debiti vengano cancellati.
In questa lotta contro lo scandalo della povertà c’è posto per tutti.

Sommando i prestiti contratti tra gli anni ‘70-‘80 e obblighi accumulati nell’ultimo decennio, il debito estero dei paesi più poveri del pianeta ha raggiunto la somma di 2.500 miliardi di dollari, pari a 5 milioni di miliardi in lire. I debitori non riescono né a restituire i prestiti né a pagare gli interessi, senza drastiche misure economiche con effetti devastanti sull’ambiente e sulla vita di milioni di persone.
Alle scadenze di pagamento degli interessi, enormi quantità di valuta viene sottratta ai progetti di sviluppo per arricchire le economie del Nord. Per onorare tali impegni, l’America Latina, per esempio, spende 100 miliardi di dollari annui: la metà del Pil (prodotto interno lordo) e il triplo delle entrate delle esportazioni; i paesi dell’Africa subsahariana spendono risorse quattro volte superiori a quelle investite nel settore educativo e sanitario.

MANI ALLA GOLA

Il sistema dei prestiti è iniziato nel 1978, con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei paesi del terzo mondo. In due anni, con la rivalutazione del dollaro e l’innalzamento del tasso d’interesse dal 5% al 30%, i paesi debitori si son visti raddoppiare il valore del debito e moltiplicare per decine di volte gli interessi da pagare, sempre calcolati in valuta americana. Iniziava lo strozzinaggio planetario.
Senza contare i cinque secoli in cui l’Occidente ha depredato i paesi del Sud del mondo (vedi riquadro), oggi ci si domanda chi siano veramente i debitori. Per ogni dollaro dato al Sud del mondo, al Nord ne vengono rimborsati tre. Tra il 1980 e il 1996 l’Africa subsahariana ha pagato due volte l’ammontare del debito estero; eppure oggi è tre volte più indebitata di 20 anni fa: nel 1980 doveva ai creditori 85 mila dollari; nel 1997 sono saliti a 235 milioni.
Tradotte in costo umano, tali cifre sono uno strangolamento. In Zambia, tra il 1990 e il 1993, per ogni dollaro che il governo ha investito nell’istruzione elementare, ne ha pagati 35 ai paesi ricchi per gli oneri del debito. L’esempio riportato vale anche per gli altri paesi poveri: le somme devolute per il debito sono molto superiori a quelle investite per l’istruzione, sanità e altri servizi di base.
Per salvare la vita a 21 milioni di persone in Africa, calcola l’Unicef, basterebbe aggiungere 9 miliardi di dollari agli investimenti attuali; ma ogni anno il continente versa 13 miliardi di dollari per onorare i debiti.

CIRCOLO VIZIOSO
Per avere valuta pregiata con cui pagare i debiti, i paesi poveri sono costretti a distruggere l’agricoltura di sussistenza, per dare spazio alle coltivazioni intensive di prodotti per l’esportazione (caffè, cacao, fiori…). Immessi nell’arena dei mercati inteazionali, tali prodotti diventano preda delle multinazionali che, proprietarie delle catene di produzione e distribuzione, decidono a piacimento i prezzi di acquisto. Per i paesi produttori ne deriva enorme riduzione dei guadagni; il che rende impossibile pagare gli interessi e promuovere sviluppo.
Il debito è al tempo stesso causa ed effetto di impoverimento, con conseguenze disastrose: contrazione di nuovi debiti, tracollo della bilancia dei pagamenti, caduta dei salari, aumento della disoccupazione, migrazioni verso le città, delinquenza, analfabetismo, malnutrizione.
Tale situazione è poi fonte di corruzione. La collusione tra interessi di governi e banche occidentali, società finanziarie e multinazionali fanno del debito un lubrificante della macchina del capitalismo mondiale in costante ricerca di nuove aree d’investimento o sfruttamento.
Gli interessi sono bene rispecchiati nei «Piani di aggiustamento strutturale» (Pas), che il Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm) impongono ai paesi debitori, perché questi possano mantenere i loro impegni verso i creditori. Tali programmi, infatti, esigono l’apertura del mercato ai prodotti occidentali, con enorme danno alla produzione locale che soccombe alla concorrenza del più forte. In secondo luogo i Pas costringono i governi a tagliare le spese improduttive: scuola, sanità, strutture di utilità pubblica, aggravando le situazioni di povertà e miseria della popolazione.
Nelle mani dei creditori, infine, il debito estero si trasforma in potente arma politica per le scelte e il destino delle nazioni: dilazionamenti nei pagamenti o riduzioni del debito sono condizionate dai giochi di interessi politici o economici dei creditori; l’intransigenza si attenua in cambio della compiacenza dei debitori verso le manie egemoniche delle potenze occidentali.
All’Egitto, per esempio, fu annullato un terzo del debito, in cambio della lealtà verso gli Stati Uniti durante la guerra del Golfo contro l’Iraq. Un’importante quota dei debiti della Polonia fu cancellata e 31 miliardi di dollari furono stanziati per la ricostruzione e lo sviluppo degli altri paesi dell’Est, a patto che questi entrassero nell’orbita europea e aprissero le frontiere a prodotti e investimenti occidentali.
RITARDI E LATITANZE
Dei 136 paesi inscritti nei registri della Bm, 41 sono inseriti nella lista dei «paesi poveri fortemente indebitati»: 30 di essi sono in Africa. Nel 1996 è stato varato un programma per la riduzione dei debiti. Ma fino ad oggi i risultati sono stati scarsi. Nel 1999 Fmi e Bm hanno parlato di «aggiustamenti strutturali». Oggi cominciano a parlare di «strategia di riduzione della povertà»; esponenti della società civile sono stati invitati ai summit del Fmi e Bm: è un’autentica rivoluzione culturale.
Ma i paesi africani continuano a sentirsi abbandonati da oltre un decennio. La disavventura statunitense in Somalia e l’assenza di un forte interesse geopolitico nella regione hanno provocato una sorta di smobilitazione diplomatica e umanitaria generale, come testimonia il clima d’indifferenza che circonda le assurde guerre tra Etiopia ed Eritrea, nella regione dei Grandi Laghi e in altre nazioni africane.
«Nemmeno i cadaveri sugli schermi sono più in grado di smuovere l’opulenza dei paesi ricchi» ha esclamato il ministro degli esteri etiope, Seyoun Masfin, al recente vertice euroafricano del Cairo, denunciando l’indifferenza degli europei.
È vero che la miseria in Africa nasce dalla miscela di capricci climatici e disordini politici; ma la tragedia si consuma anche a causa della meschinità umana. Per esempio: il parlamento di Strasburgo, il 14 aprile 2000, non ha votato la delibera sull’aumento degli aiuti al Coo d’Africa per mancanza di quorum, rimandando la decisione al mese seguente: i parlamentari anticiparono il rientro a casa per paura di difficoltà nei trasporti. Un tranquillo week-end in famiglia vale di più della sorte di 8 milioni di persone che stanno morendo di fame!
La stessa sorte è toccata al Mozambico, in occasione dell’ultima alluvione: la Commissione europea ha approvato l’invio di aiuti umanitari a un mese dall’inizio dell’emergenza.
Tale catastrofe ha moltiplicato il coro di proposte per chiedere la cancellazione del debito estero del Mozambico; ma il Club di Londra, che raduna le più grandi banche private occidentali, ha risposto con una vaga decisione di rinviare i pagamenti per il servizio del debito. Eppure, lo stesso Club non ha esitato a cancellare alla Russia 10 miliardi di dollari di debito, permettendo così al Cremlino di continuare a finanziare la guerra in Cecenia.
Nel vertice tra paesi europei e africani, svolto al Cairo il 3 e 4 aprile 2000, i capi africani avevano messo in cima all’agenda la discussione della cancellazione del debito. Ma i rappresentanti europei non hanno preso alcuna misura degna di rilievo per arginae la crescita galoppante. Le speranze sono rimandate ai prossimi incontri che, su decisione dell’incontro del Cairo, si terranno ogni tre anni.

EQUITÀ E SOLIDARIETÀ
Intanto i rapporti tra Europa e Africa continuano a viaggiare su binari di scambi commerciali ineguali e lontani da vera solidarietà. Da una parte, infatti, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) costringe i paesi in via di sviluppo ad aprire i loro mercati, mentre per quelli occidentali persistono le barriere doganali a svantaggio dei prodotti del Sud del mondo; a ciò si aggiunga che i prezzi dei prodotti esportati e importati dai paesi poveri vengono sempre stabiliti nelle capitali della finanza occidentale. E il debito di questi paesi continua a crescere; mentre lo sviluppo rimane un sogno.
Con la Convenzione di Lomé, l’Europa ha accordato a 71 stati di Africa, Caraibi e Pacifico (Acp) un trattamento privilegiato per i loro prodotti di esportazione. Dal 29 febbraio 2000 tale trattamento ha aperto lo spazio a nuovi accordi da negoziare tra il 2002 e il 2008. Ma lo spirito che li animerà è stato cinicamente espresso da Philippe Lowe, capofila della delegazione europea: i nuovi accordi commerciali «dovranno essere compatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio».
Un saggio di tale spirito si è avuto il 15 marzo 2000: il parlamento europeo ha approvato l’uso del 5% di grassi vegetali nella fabbricazione di cioccolato, meno costosi del burro di cacao. Tale delibera penalizza i paesi produttori di cacao, africani e latinoamericani. Si calcola, infatti, che con l’impiego di grassi vegetali la richiesta di semi di cacao diminuirà di 80-120 mila tonnellate.
Secondo la Ong inglese Oxfam, 11 milioni di persone (1,2 milioni di famiglie con appezzamenti di 4-5 ettari) sopravvivono grazie alla produzione di cacao; oltre tutto il suo prezzo si è dimezzato nel giro di due anni. Quale futuro per il Ghana, per esempio, che produce 400 mila tonnellate di burro di cacao l’anno e che prevede una perdita di 300 milioni di dollari? Quali prospettive per la Costa d’Avorio, che ne produce 1,2 milioni di tonnellate, quasi tutte per l’esportazione?

EFFETTO BOOMERANG
Secondo l’Osservatorio geopolitico delle droghe e dei conflitti in Africa (Ogd), negli ultimi 15 anni l’aumento della coltivazione di droga è legata al calo dei prezzi dei prodotti agricoli da esportazione (caffè, cacao, arachidi), causato dalle leggi del mercato globale, e alla crisi dell’agricoltura di sussistenza.
Nonostante sia illegale in tutta l’Africa, la coltivazione della cannabis (canapa indiana) è diventata una vera coltura di sostituzione: cresce in qualsiasi terreno, non ha bisogno di cure particolari ed è più redditizia. Un ettaro di terra coltivato a cannabis rende al contadino della Costa d’Avorio 300 volte di più del cacao; in Senegal 50 volte la coltivazione di arachidi; rispetto a riso e manioca il guadagno è 55 volte superiore. Il prezzo della marijuana sale; quello degli altri prodotti da esportazione scende: nel 1995 il rapporto di prezzo tra marijuana e cacao era di 60 a 1; col caffè, di 100 a 1.
Secondo Laurent Laniel, ricercatore dell’Osservatorio di Parigi, i principali responsabili della rivoluzione della cannabis sono i piani di aggiustamento strutturale, che hanno abolito le barriere doganali e misure protezionistiche, tagliato finanziamenti e assistenza tecnica all’agricoltura di sussistenza, danneggiato la produzione intea.
Stretta nella morsa del debito, l’Africa ha cominciato a sostituire la coltivazione dei prodotti da esportazione con quelle imposte dal mercato internazionale: quello della droga è sempre in espansione. L’infiltrazione nella rete di traffici mafiosi e criminali inteazionali nel continente trasforma l’Africa in centro di smistamento di cocaina ed eroina destinate a Europa e Stati Uniti.
Così, una semplice normativa, come quella sul cacao varata dal Parlamento europeo per accontentare gli interessi di pochi, non riguarda solo un innocuo cambiamento di gusti per i consumatori del Nord, ma incide profondamente nella vita delle popolazioni africane e ritorna al mittente come un boomerang, sotto forma di quel traffico di stupefacenti che si vuole combattere.
BASTA CON LE PAROLE
La soluzione del problema del debito dei paesi indebitati e dello scandalo della povertà non riguarda solo i governi e le istituzioni finanziarie inteazionali, ma chiama in causa anche noi. In occasione del giubileo sono state fatte diverse campagne di mobilitazione della società civile per rinnovare l’appello della cancellazione del debito ai paesi poveri. Qualcosa si è mosso, ma la strada è ancora lunga. Tali campagne devono continuare, per sensibilizzare maggiormente la gente e aumentare la pressione sui governi creditori, perché facciano scelte responsabili per alleviare la situazione di miseria in cui vivono miliardi di persone.
Inoltre, il debito estero è solo una delle tante cause del sottosviluppo. È un segmento della spirale perversa del sistema economico mondiale in cui viviamo. Alla pressione politica, bisogna unire una nuova mentalità nei nostri consumi. L’acquisto di certi prodotti alla moda, per esempio, ci rende complici dell’oppressione e sfruttamento a cui sono sottoposti operai, donne e bambini nelle fabbriche dove tali beni vengono prodotti. L’investimento dei propri risparmi può renderci inavvertitamente azionisti d’imprese e banche che speculano sulla vendita di armi o traffici criminali.
È necessario, secondo un famoso slogan, «pensare globalmente e agire localmente». Il che significa operare una coraggiosa inversione di tendenza nel nostro agire quotidiano, passando dal consumismo a uno stile di vita più sobrio, adottando strategie di solidarietà che consentano a tutti una vita più dignitosa.
A livello locale sono molte le strategie in atto che aiutano a fare scelte responsabili in fatto di consumi e investimenti: commercio equo e solidale, consumo critico e boicottaggio dei prodotti di certe multinazionali, imprese non profit, banche etiche, mutua autogestione, bilanci di giustizia… Senza contare le varie reti di solidarietà, iniziative di protesta, conferenze e forum per le alternative… che vengono organizzate a livello nazionale e internazionale.
È questione di viaggiare informati e non arrendersi. La sfida delle ingiustizie locali e globali è grande e difficile: oggi può sembrare utopia.
Domani sarà realtà.

DEBOTORE SARAI TU

«Ho scoperto che anch’io posso pretendere rimborsi dagli europei – ha detto un capo indigeno messicano, in occasione del 500° anniversario della “scoperta” dell’America -. Ne fa fede l’Archivio delle Indie. Foglio dopo foglio, ricevuta dopo ricevuta, risulta che solo tra il 1506 e il 1660 sono arrivate in Spagna 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento.
Non ci abbassiamo a chiedere ai fratelli europei i sanguinari tassi d’interesse variabile tra il 20-30% da essi imposti ai paesi del terzo mondo. Ci limitiamo a esigere la restituzione dei materiali preziosi prestati, più il modico interesse fisso del 10% annuale, accumulato negli ultimi tre secoli.
Su questa base, applicando la formula europea dell’interesse composto, informiamo gli scopritori che ci devono 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento, ambedue elevate alla potenza di 300. Come dire, un numero per la cui espressione sarebbero necessarie più di 300 cifre e il cui peso supera ampiamente quello della terra».

Italia: chiesa e governo contro il debito

I n occasione del giubileo in Italia è stata lanciata la «Campagna ecclesiale per la riduzione del debito estero ai paesi poveri». L’iniziativa si era proposta un triplice scopo: raccogliere fondi per comperare quote di debito di Zambia e Guinea Bissau verso l’Italia; sensibilizzare la comunità ecclesiale e civile, invitandola ad adottare nuovi stili di vita; pressione politica sul governo italiano perché cancelli i debiti dei paesi poveri e spinga i paesi creditori a fare altrettanto.
Iniziata con l’avvento del 1999, la Campagna è terminata con la chiusura dell’evento giubilare. Il resoconto verrà presentato in questo mese all’assemblea della Cei; ma il Comitato ha iniziato a fare i conti. Sono stati raccolti 25 miliardi di lire; la somma finale dovrebbe superare i 30 miliardi.

I l primo obiettivo, la raccolta di 100 miliardi, è lontano dalla meta fissata originariamente. Si poteva fare qualche cosa di più dicono gli organizzatori. La Campagna ha coinvolto la chiesa italiana a macchie di leopardo.
Tuttavia il bilancio complessivo è positivo. Un terzo della somma (oltre 9 miliardi) è passato attraverso la Banca Etica: un grande successo di immagine e fiducia per questa istituzione, che si propone di usare in modo trasparente e solidale i risparmi in essa depositati.
Oltre 5 milioni di persone sono state sensibilizzate sui problemi dei paesi poveri, mediante convegni, seminari, momenti di formazione: 30 mila animatori formati allo scopo, in maggioranza fuori della cerchia del mondo missionario e Ong: un importante potenziale umano per continuare, anche quando le campagne mondiali saranno concluse, l’impegno per combattere povertà e disuguaglianze, mettere in discussione i meccanismi che regolano i rapporti tra Nord e Sud.
Infine, con altri organismi, la Campagna ha esercitato un’efficace pressione politica sul governo e parlamento italiano, spronandolo a passare dalle promesse ai fatti.

I debiti complessivi dei paesi del Sud del mondo verso l’Italia ammontano a 60 mila miliardi di lire. Nel luglio 2000, governo e parlamento hanno varato una legge che prevede la rinuncia di 12 mila miliardi di lire di crediti. È lo strumento normativo più coraggioso tra quelli emanati dai paesi creditori: non si fa distinzione tra debiti antichi e nuovi; sono coinvolti 70 paesi, non solo i 41 classificati come Hipc; la cancellazione effettiva, legata a progetti di lotta alla povertà, dovrà avvenire entro tre anni; sono previsti interventi indipendentemente dagli obblighi inteazionali.
Sono già stati presi contatti con vari paesi debitori e nel gennaio scorso il governo ha annunciato la cancellazione totale dei crediti italiani per 22 tra i paesi altamente indebitati, per un ammontare di 4 mila miliardi.
Ma non è il caso di abbassare la guardia. È necessario continuare a vigilare sulla trasparenza delle modalità di future cancellazioni e, soprattutto, insistere perché nel vertice dei G8 (il prossimo si terrà a Genova in luglio) l’Italia spinga la Bm, Fmi e tutti i paesi creditori a cancellare definitivamente e in fretta tutti i debiti dei paesi poveri.

Benedetto Bellesi

Antonio Rovelli




La pevertà… di una masai

L’articolo di padre Pino Galeone (Missioni Consolata, gennaio 2001) lascia irrisolte molte questioni: chiama in causa noi seminaristi, come pure il direttore della rivista.
Padre Pino racconta la propria esperienza nel seminario di Roma Bravetta ed esprime il suo punto di vista nei riguardi dei compagni non europei e, soprattutto, africani. Questi, secondo Pino, non hanno fatto il voto di povertà; invece, a causa del tenore di vita in cui sono sommersi e al quale devono sottostare, sognano la ricchezza e molto spesso cadono nel consumismo.
Non entro nella mente di Pino: egli può pensare ciò che vuole. Ma potrei e dovrei ricordargli che ci sono molti seminaristi africani che provengono da famiglie migliori della sua, dove «ha scelto la povertà».
La maggioranza di noi chiede al direttore di Missioni Consolata perché un tema (interno all’istituto) sia stato messo in pubblico. Ci sono altri modi di presentare un problema che interessa solo i fratelli dell’Africa, e non tutti i lettori della rivista.
Nello stesso tempo, non ci è chiaro lo scopo di pubblicare la fotografia di una donna masai con un bambino e il seno scoperto. Fino a quando saremo giudicati in base ad una minoranza? Quanti seminaristi provengono dal contesto di quella donna?
Wilson Kamami M.
Roma

L’esperienza di padre Pino non interessa solo l’Istituto internazionale dei missionari della Consolata, ma anche tutti i lettori della rivista. L’Italia è diventata una nazione plurietnica, con marocchini, boliviani, filippini…
È auspicabile un arricchimento reciproco, facendo tesoro dei valori di tutti: a cominciare dalla lingua del paese in cui si risiede. Non mancano scontri culturali, perché si è «diversi»… anche nel valutare la povertà. Padre Pino, però, non ha scritto che i seminaristi africani «non hanno fatto il voto di povertà».
Certo, vi sono famiglie di seminaristi africani più benestanti di quelle dei compagni europei. Ma non è la regola, anzi! E che i seminaristi, in genere, possano cadere nel consumismo è stato confermato pure da padre Giacomo Baccanelli, direttore del seminario di Roma Bravetta.
Circa la donna masai, la foto ha una didascalia che ne motiva la scelta.

Wilson Kamami




Le proposte di un fotografo

Caro direttore,
ho letto gli editoriali di dicembre e gennaio, che mi sono piaciuti. Oltre alla messa festiva, frequento anche gruppi e ritiri spirituali, ed è «scomodo» concretizzare nel quotidiano ciò che abbiamo sentito.
Certe scelte sono controcorrente e, inevitabilmente, si rinuncia ad amicizie e rapporti sociali. Il rinunciare ad alcune «alleanze» non è facile. Eppure dobbiamo essere credibili, soprattutto verso i giovani: «capire il presente e inventare il futuro», offrire testimonianze alternative per un domani più giusto (la «Scuola per l’alternativa» che organizzate è un esempio).
In gennaio Massimo Veneziano scrive: «La via non è la rivoluzione, ma la dissidenza, la discussione, il confronto di idee. Concetti, questi, che il “pensiero unico” vuole estinguere o appropriarsene a proprio comodo». Ed io esprimo delle proposte da attuare.
Per favorire sempre di più il regno di Dio (regno di pace e giustizia), appoggiamo piccole iniziative di solidarietà e volontariato, dove la gente unita lavora insieme; acquistiamo prodotti del commercio equo e solidale; cerchiamo di capire l’altro, mettendoci dalla parte del «vinto»; aiutiamo l’anziano, il malato, l’escluso; stimoliamo il confronto e il dialogo.
Spesso, vivendo tranquilli e non «disturbando», non siamo d’aiuto.
Daniele Dal Bon
Torino

Daniele è un amico. È anche un buon fotografo: «un fotografo per la solidarietà internazionale» ama definirsi. Vi sono fotografi che incassano soldoni. Non Daniele.

Daniele dal Bon




Cent’anni: buon compleanno!

Carissimi missionari,
questa è la mia prima e-mail, e desidero che sia un grazie per il bene ricevuto da tutti voi e per quanto abbiamo condiviso in questi ultimi anni.
Partecipo con gioia al centesimo compleanno dell’Istituto Missioni Consolata, come farei per un amico con il quale condivido giornie e dolori. Dei 100 anni ne ho vissuti 23, da quando (ero un «fagottino» di 15 giorni) sono entrata in Corso Ferrucci 14 – Torino, in braccio ai genitori, per ricevere la benedizione di un padre.
Crescendo in una famiglia profondamente cristiana, i sacerdoti per casa non sono mai mancati. Nella mia visione di bimba (talora mi sbagliavo), il missionario era un uomo magro (perché nel terzo mondo si mangia poco), con una barba lunga e bianca che lo rendeva dolce e austero nello stesso tempo, con uno stuolo di bambini che lo ascoltavano attenti; e lui, seduto su un ceppo, raccontava la «favola vera» di un Dio fatto uomo.
Oggi conosco parecchi missionari della Consolata in Italia e nel mondo: dinamici, attenti alle necessità del prossimo, disposti all’ascolto, sempre pronti a donare la vita per l’annuncio del vangelo. Con alcuni di loro ho vissuto esperienze belle, che hanno contribuito alla mia formazione spirituale e missionaria.
Ho avuto anche il dono di osservare, nella casa di Alpignano (TO), i missionari anziani in preghiera nella cappella; è stata una visione che mi ha fatto comprendere che cosa significhi «vivere per Cristo»; nella loro debolezza ho visto la gioia, nel dolore della malattia e vecchiaia ho avvertito una forza… Ai piedi di «quel» Santissimo lavorano, soffrono e pregano uomini di tutto il mondo e di ogni colore, uniti in un’unica icona di amore a Cristo, tramite i piccoli-grandi uomini che io chiamo missionari.
L’Istituto Missioni Consolata, nell’arco della sua vita centenaria, è sicuramente cambiato molto. Ma spero non venga mai meno lo spirito di «famiglia» a cui il beato Allamano teneva tanto e che mi ha fatto sempre sentire a casa… Amici, buon compleanno!
Chiara

Chiara, Chiara! Anche il tuo nome è una vocazione missionaria.

Chiara




La foto birbona

Caro direttore,
due rilievi circa l’articolo su padre Pietro Calandri (Missioni Consolata, gennaio 2001).
Primo. L’articolo è ben fatto. Padre Benedetto Bellesi ha saputo cogliere l’essenziale, affinché la personalità di Calandri apparisse nella sua vera luce: un personaggio vivo e tangibile, con tutte le sfumature umane e gli atteggiamenti di fede che ne rivelano la grandezza d’animo, lo slancio missionario con cui affrontava le vicende della vita. Emergono le molteplici capacità di pioniere, artista e il vigore con cui realizzava imprese difficili, fra contrasti che avrebbero stritolato persone meno determinate.
Secondo. La foto di fratel Corrado Maritano è originale e simpatica; ma… è stata confusa con quella di padre Calandri.
mons. Aldo Mongiano
Torino

Ah quella foto simpatica… e birbona! Missionari in paradiso, pietà!

Mons. Aldo Mongiano




La via di Lilliput

Egregio direttore,
congratulazioni per il dossier «Sulla via di Lilliput» di Missioni Consolata, settembre 2000.
Condivido le parole di Serge Latouche sulla necessità di scelte etiche da parte dei consumatori e sul bisogno di resistere «all’impresa del lavaggio del cervello» dei media. Come sottolineato da Aluisi Tosolini, di fronte alla massa d’informazioni che riceviamo, avere notizie non viziate da esigenze di mercato o propaganda politica esige grande sforzo.
Ho trovato stupende le considerazioni di Antonio Nanni sugli stili di vita, sulla sobrietà felice e sull’etica del limite, che propongono valori che dovrebbero essere di tutti, a maggior ragione se credenti. Purtroppo non sono facilmente riscontrabili nella pur cattolica società del nord-est, manifestamente ricca, dove vivo.
Società nella quale operano tante associazioni di volontariato laico e cattolico testimoniando tali valori; nonostante ciò, «pare» prevalere l’«ideale-denaro». Società nella quale il proprio benessere è giustificato dal quotidiano e «faticoso» lavoro, mentre la solidarietà sembra essere sostituita dalla più facile beneficenza patealistica: il buonismo, di cui scrive Tosolini.
Società nella quale tanto successo hanno i modelli del neoliberismo, proposto da Berlusconi, confusamente mescolati con la fobia del «diverso» sostenuta per anni da Bossi e ora sinistramente affascinata dal modello «Haider».
Tamara Prest
Padova

«Lungi dal giudicare le scelte altrui – continua Tamara Prest -, ma per una necessità di comprendere, mi chiedo quale coerenza possa legare l’osservanza della fede cattolica, ampiamente manifestata, ai valori proposti dai suddetti personaggi.
Ciò che talvolta pare mancare è la consapevolezza delle proprie affermazioni, nonché la coerenza tra teoria e pratica.
La sensazione è che si sia perso il senso religioso, sostituito dalla spettacolarizzazione del rito (se n’è parlato nel giubileo) e dalla privatizzazione anche della fede.
In tale disorientamento sapere che c’è chi, come voi, s’impegna a diffondere una cultura alternativa fa sperare in un possibile futuro migliore».

Tamara Prest




Dov’è finito l’uomo

Egregio direttore,
faccio parte della «sinistra antagonista», demonizzata dai mass media. Però ho individuato un punto in comune tra il mio pensiero e quello della sua rivista: l’umanesimo. Ma, oggi, sembra che solo una parte della chiesa abbia a cuore l’uomo nella sua globalità, cioè nei diritti civili, nel diritto a vivere in un ambiente salubre e nutrirsi in modo genuino.
I diritti umani dovrebbero essere ormai acquisiti in modo irrevocabile. Purtroppo non è così.
Com’è possibile che in Italia esista un partito come Forza Nuova, i cui militanti si dichiarano fascisti… e la repressione della polizia colpisce chi contesta le loro adunate?
Com’è possibile che uno stato mandi soldati a fare guerre umanitarie e, 10 anni dopo, si accorge che quanto diceva chi contestava le guerre non era privo di fondamento? I proiettili all’uranio non fanno tanto bene: lo si sa e dice da 10 anni!
Com’è possibile che almeno la metà dello schieramento politico italiano pensi che non sia sbagliato se noi siamo ricchi e tanti altri (quelli del sud e di tutti i sud) poveri? Sono poveri, perché non sono stati capaci di fare come noi. Oggi sono pure fastidiosi. Perché non se ne stanno a casa loro?
Com’è possibile che le generazioni precedenti la mia (ho 27 anni), nel campo lavorativo abbiano avuto più diritti di noi, sebbene abbiamo studiato molto di più?
Dove è finito l’uomo? Ne rimane traccia in qualche bel discorso, ma nella vita di tutti i giorni assistiamo alla proliferazione di un modello economico, il neoliberismo, con le conseguenze che paghiamo salate.
Lorenzo De Ambrosis
(via e-mail)

L’attenzione all’uomo certamente ci accomuna. Con parole più stringenti (per i cristiani), è Dio stesso che domanda all’assassino Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4, 9). Inoltre, fra i diritti dell’uomo, non si scordi la libertà religiosa. Anche dal punto di vista antropologico, l’uomo globale non può prescindere dallo Spirito. Ancora: accanto alla solidarietà dell’uomo verso il fratello, ci piace sottolineare quella del Padre verso i suoi figli.

Lorenzo de Ambrois