Tutti mercanti

Egregio direttore,
intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e sinistra.
Ho sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri». Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che amarezza!
Francesco Benegiamo
Galatina (LE)

Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.

Francesco Benegiamo




Ipocrisia armata

Signor direttore,
la lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca. Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione sociale e culturale»?
Quanto al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato libero della globalizzazione…
La verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare. Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.
L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E, dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.
Alessandro B.
Modena

Nel 2000 l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma… l’Italia è terza al mondo.

Alessandro B.




Un tesserato… della speranza

Signor direttore,
sono stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso. Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e «neoliberalismo».
Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».
Il liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande capitale.
Anche il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in «basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.
A mio avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».
Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito della paura descritto da Fromm. Perché?
Perché si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».
In Perù ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.
Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime elezioni.
Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele Vaccaro, di rivolgere un invito.
«Per vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la subordinazione degli altri».

Gabriele Vaccaro




Padre Giovanni Milo

Caro direttore,
sono un fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto avete fatto per lui.
So che padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.
Accludo anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.
Michele Milo
Patù (LE)

Eri il vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:
«C’è tempo per le cose del cielo,
Dio vuol la primizia
e non i miseri resti».
Io rimasi colpito
di quanto dicesti.
Or hai lasciato
tragicamente
questa vita terrena
improvvisamente.
Nella tua vita,
primizia tu hai dato
e colmo d’amore
a Dio sei arrivato.

Francesco Petracca

Michele Milo




Nessuno sconto alle mine antiuomo

Caro direttore,
mi riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata, marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni, sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).
Non dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997, nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di ordigni militari da destinare al mercato mondiale».
Uniamo dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla, che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice (si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale. Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.
Non dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata) dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK 82 di proprietà della SEI.
È stata proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito della bonifica.
Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona (probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi e braccia.
La costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.
Francesco Rondina
Fano (PS)

Varie volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

Francesco Rondina




La verità è verità

Spettabile redazione,
ho letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.
Claudio Simonetti
Cumiana (TO)

Signor Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

Claudio Simonetti




L’imbarazzo del buon Dio

L’imbarazzo del buon Dio

Cari missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno 2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella del nonno, devota della Vergine Consolata.
Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile decadimento fisico e psichico.
Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho chiesto aiuto a Lei, la Consolata.
Ora desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una «finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la carità.
Teresa Ressia – Saluzzo (CN)

Lettere come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.
E grazie pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:
Cari missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa, ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.
Sono una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto 95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore, se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».
Da parte nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo anche il Padre Eteo.

Teresa Ressia




La lettera dell’inafferrabile

R itengo opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata, febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau mau in Kenya.
Il direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau, ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata. Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al nostro risorgimento.
Invito a leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su Missioni Consolata, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi, protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534; europei 63; civili 32.

C ome si comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa, raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo.
«F ra i missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco Comoglio come loro leader spirituale per tutto ciò che fece. Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani, anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un notevole coraggio».
«Padre Bartolomeo Negro fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo, generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».
«Nel 1954 la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio. Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

A llego pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su Wathiomo Mukinyu, settimanale della diocesi di Nyeri.
Silvana Bottignole – Torino

Ecco la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.
Caro Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.
Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi. Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così felice.
Ho il problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà tanto addolorata.
Mia moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata. Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di Mathari, così da essere accanto alla chiesa.
Addio a questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non incontrerò più in questo mondo nervoso.
Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.
Dedan Kimathi

Silvana Bottignole




Povertà: solidarietà e giustizia

Cari missionari,
vi sottopongo due semplici domande.
1. Ho letto che esiste un popolo di miserabili, che sopravvivono cercando granchi in acquitrini: bambini, vecchi e donne stanno tutto il giorno nel fango per trovare granchi e poi venderli con un modesto guadagno. Vivono nelle foreste dell’Amazzonia. Non è possibile aiutarli? Dato il lavoro che svolgono, cadono in malattie invalidanti, e i bambini non vanno nemmeno a scuola.
2. Poiché i silos delle regioni risicole italiane sono colmi (per cui c’è crisi), non è possibile acquistare riso a prezzo modico e inviarlo in Etiopia, Somalia, Sudan… dove le popolazioni soffrono la fame?
So che voi, missionari, vi date da fare per i poveri della terra. E io vorrei che per tutti ci fosse almeno il pane quotidiano.
I. Robbiati
Pavia

Spettabile redazione,
il mondo si evolve e l’uomo realizza il progresso come un continuum immodificabile. Ma non è ovunque così.
Tutta la storia è costellata di baratti primitivi e di scambi evoluti, ma anche di guerre e lotte fratricide per il potere, di grandi invenzioni (spesso militari), trasformate per l’uso civile sotto la regia dell’economia. Questa ha creato l’attuale abisso tra nord e sud del mondo.
Considerando positivo il progresso economico che porta benessere, si scopre però che il bene non è per tutti, perché non può e, soprattutto, non deve essere così. Io parlo di «tirannia economica».
Le nazioni, tecnologicamente avanzate, non trarrebbero beneficio dal progresso di una vasta area, denominata «terzo mondo», se non quello immediato di una manodopera affamata che lavora per un dollaro al giorno. Allo stesso tempo, è vero che nuovi mercati portano a nuovi consumi e nuova ricchezza, che però spesso si riversa in modo precipuo sugli stessi investitori.
Di fronte agli immediati aiuti in denaro ai paesi del sud del mondo (altrimenti sarebbero abbandonati a se stessi) nelle catastrofi naturali e sociali, non è inconscio il desiderio dei grandi di mantenere netta la «separazione». Nel caso contrario, cambierebbe radicalmente lo scenario internazionale, con neo nazioni militarmente instabili e… pericolose per il già delicato equilibrio sullo scacchiere mondiale.
Oggi le multinazionali preferiscono spostare una parte della produzione nei paesi a basso costo di lavoro, per essere più competitive sul mercato; ma non è nell’interesse dei rispettivi governi trasformare un’area depressa in una nuova potenza economica, proprio per le ragioni sopra enunciate.
Quali sarebbero le conseguenze per l’umanità se tutti potessero vivere secondo il modello occidentale, portatore sicuramente di grandi scoperte medico-scientifiche, ma anche centrato sul consumismo voluto, dilagante, satollo?
Ciascuno intanto con la sua auto continua ad inquinare il mondo, che è già ad un punto di non ritorno.
E continua anche il baratro fra ricchi e poveri. La prova tangibile di tale situazione sta nel mancato condono del debito estero ai paesi poveri. Si è fatto ben poco nel concreto.
Noi, che apparteniamo a quel 20 per cento dell’umanità che possiede l’80 per cento delle ricchezze della terra…
Enrico Cerutti
Borgaretto (TO)

Ci troviamo «sostanzialmente» d’accordo con entrambe le lettere. La prima solleva il problema della solidarietà: solidarietà che si impone, specie di fronte a situazioni di grave emergenza. La seconda lettera, più articolata, affronta la questione del complesso rapporto fra nord e sud del mondo: l’uno arricchito e l’altro impoverito.
Spesso si dice: all’affamato non dare solo il pesce; insegnagli invece a pescare, perché solo così non avrà più fame. Ma, se il «pesce» è disponibile solo per pochi privilegiati, che fare?… Ecco allora che la solidarietà rimanda necessariamente alla giustizia internazionale.
Quanto al dramma del debito estero del terzo mondo, si veda l’ennesimo nostro articolo a pagina 12 e seguenti.

I. Robbiati e Enrico Cerutti




Ci ripensi, signora

Spettabile direzione,
non intendo più ricevere il vostro giornale. Ciò è motivato dalla mia consapevolezza, secondo la quale la chiesa cattolica non ha alcun diritto di sovvertire i delicati equilibri culturali dei popoli, in nome di una sua presunta superiorità.
Apprezzo il sacrificio di molti missionari e la loro azione umanitaria, ma non posso esimermi dal riconoscere che molte lotte (e perfino guerre) nel mondo sono causate dalla tenace penetrazione culturale dei cattolici. Perché non accettare la positività di ogni aspirazione a Dio? La chiesa di Roma non attua certo la frateità dei popoli del mondo.
Vi prego, perentoriamente, di non inviarmi più la vostra rivista.
Anna Laura Spinelli
Spoleto (PG)

Ci dispiace, signora, che lei eviti il confronto culturale-religioso, oggi più che mai necessario.
La chiesa cattolica non è, certo, immune da colpe (non per nulla il papa, nel passato giubileo, ha chiesto pubblicamente perdono), ma esprime anche la volontà di dialogo con tutti… dal quale lei sembra essersi volutamente tagliata fuori

Anna Laura Spinelli