Cari missionari

Altri «chiamati
all’ora 11a»

Gentile Direttore,
certamente si ricorderà di noi, per avere riportato nella rivista, nel numero di settembre 2004, la nostra esperienza in Rwanda con un titolo indovinatissimo: «Chiamati all’ora 11a».
Siamo ritornati un’altra volta in Rwanda e ora la missione per coppie anziane è stata considerata, dalle Pontificie opere missionarie, come «intuizione profetica».
Recentemente due coppie di Torino si sono impegnate ad andare in Rwanda nel 2009 per continuare l’aiuto nella pastorale familiare nella diocesi di Byumba. Le due coppie che stanno per partire hanno una solida base spirituale (sono delle Equipes Notre Dame) ma mancano di esperienza umana per una missione in Africa.
Le scriviamo quindi per chiederle se potreste, dal momento che sono a Torino, dare loro qualche indicazione circa la realtà africana e come rapportarsi con le persone… Se la cosa è possibile vi saremmo molto grati. Dopo tutto anche la vostra relazione del 2004 ha aiutato a far capire che il cristiano non può andare in pensione. Per questo la ringraziamo fin d’ora.
Laura e Giovanni Paracchini
Milano

Abbiamo provveduto con piacere alla richiesta e una delle coppie è partita per il Rwanda nel mese di febbraio. Siamo felici di aver contribuito a dimostrare che l’essere cristiano non va mai in pensione e che la missione… ringiovanisce.

Pallottole invece di… medicine?

Spettabile Redazione,
ho letto e trovato molto interessante l’articolo a pag. 24 su Missioni Consolata 10/11 anno 2008: «Si fa presto a dire terrorista». Il professor Angelo D’Orsi definisce l’11 settembre come «punto più alto raggiunto dal moderno terrorismo».
Sono d’accordo, ma quale terrorismo? Siamo certi che sia andata come ci raccontano? Troppe discrepanze tecniche ci inducono a maturare seri dubbi sulla verità dell’11 settembre. Cosa vi è dietro veramente? Forse lo stesso «incidente» simulato e usato per iniziare la guerra del Vietnam?
Da qualche anno opero un paio di mesi l’anno come volontario autonomo in un paio di villaggi di profughi clandestini birmani in territorio Thai (provincia di Mae Hong Son) e conosco bene tutti i risvolti di tale situazione (cliccando il mio nome su internet e yahoo-immagini troverete articoli e foto).
Mi sto convincendo sempre di più che i fondi che ora impieghiamo come assistenza sanitaria e per un paio di scuole, forse sarebbero più efficaci se spesi per finanziare i partigiani karen che combattono la dittatura militare birmana, che li sta condannando a un lento genocidio. In sostanza, comperare pallottole e non medicinali.
So che questo non è cristiano, ma lo è infinitamente meno quello che fanno i generali birmani.
Andrea Panataro
Sordevolo (BI)

La provocazione del sig. Panataro esprime con chiarezza l’indignazione che egli prova di fronte alle feroci repressioni delle legittime aspirazioni dei karen e delle altre popolazioni birmane; anche noi condividiamo l’indignazione, ma non la proposta, non solo perché non cristiana, ma anche perché sarebbe un rimedio peggiore del male. D’altronde, sono convinto che anche il signor Andrea non crede a tale proposta, ma continua a distribuire medicine, riso e altri aiuti essenziali.
 

Bombe a grappolo
ordigni di Satana

Cari missionari,
se Barack Obama è davvero così diverso dai suoi predecessori, lo dimostri firmando i trattati inteazionali contro le mine, le bombe a grappolo e gli altri ordigni ad azione indiscriminata.
Non ripeta anche lui il rivoltante, odioso ritornello: «Le mine sono essenziali per la sicurezza dei militari americani impegnati in missioni all’estero». Non cada anche lui nell’errore dei Bush, di Reagan dello stesso Clinton, e riconosca che è vero esattamente il contrario, ossia, questi infeali aggeggi, oltre a seminare il terrore tra i civili, a rovinare per sempre la vita a tanti bambini innocenti, a impedire l’agricoltura, a bloccare lo sviluppo di interi paesi, sono stati – e continuano anche oggi a essere – causa di mutilazione e di morte per migliaia di marines…
Mine e bombe a grappolo, o cluster bomb che dir si voglia, sono armi da terroristi, non da soldati leali e coraggiosi che vogliono lottare efficacemente contro il terrorismo per il ripristino della pace, della giustizia, dell’autentica legalità.
Se Washington tiene davvero ad avere un ruolo-guida nella lotta contro il male e contro i vigliacchi, dica «no» alle armi dei vigliacchi, dica finalmente «no» agli ordigni di Satana, perché questo sono le mine e le cluster, nient’altro che questo…
Cordiali saluti.
Francesco Rondina
Fano  
Speriamo che il presidente Obama metta al bando non solo le mine anti-uomo e le cluster bomb, ma ogni tipo di armi, poiché tutti gli strumenti di morte sono diabolici. Il suo discorso inaugurale lascia ben sperare, se d’ora in poi le risorse sprecate in armamenti e guerre per il petrolio saranno usate per «imbrigliare l’energia del sole e dei venti e della terra per alimentare le automobili e fare funzionare le industrie». Ha detto di aver «scelto la speranza invece della paura» e dalla folla si sono levate forti grida di «Amen!». Lo ripetiamo anche noi, sapendo quale forza rivoluzionaria contiene questa parola in bocca a Dio e agli uomini di buona volontà.

Bando al sigaro … di Fidel

«Cuba non è il paradiso ma neppure l’inferno» scrive Paolo Moiola nell’ultimo numero monografico di M.C. dedicato ai diritti. Poi però, riporta la valutazione del WWF che riconosce Cuba come «il solo paese del mondo a soddisfare i criteri dello sviluppo sostenibile» (cfr. MC 10-11/08, p. 84). Verrebbe quindi voglia di dire che, almeno per quel che riguarda il diritto a un ambiente sano e pulito, il rapporto tra risorse naturali consumate e risorse naturali rigenerate, il rapporto tra livello di benessere attuale e prospettive di benessere per le future generazioni, Cuba sia avviata verso il paradiso, non verso l’inferno.
Spero, di cuore, che il WWF abbia ragione, ma qualche dubbio ce l’ho. Il più importante riguarda lo stato delle foreste cubane: se si può prestar fede all’Unione internazionale per la conservazione della natura (I.U.C.N.), «nel 1812 il 90% del territorio cubano era ricoperto dalla foresta; nel 1959 la percentuale era scesa al 14%. La situazione rimase invariata nel corso di tutti gli anni Ottanta in quanto la maggior parte delle foreste rimaste si trovavano nelle montagne. Un tempo, probabilmente, la foresta pluviale ricopriva la parte meridionale dell’isola principale, ma oggi tutto quel che resta sono due appezzamenti di foresta sui pendii e le vette della Sierra Maestra e della Sierra de Imias. Nella Sierra del Escambray sopravvivono ancora dei frammenti di foresta montana, troppo piccoli per comparire sulle carte».

Non sarà male ricordare che Cuba è stata disboscata perché gli alberi erano un ostacolo alle monocolture agrarie, ovvero tabacco e canna da zucchero e che, se è vero che la frittata era già fatta prima della vittoria di Fidel Castro, è altrettanto vero che i comunisti cubani poco o nulla hanno fatto per ridimensionare le piantagioni di tabacco e canna e far riconquistare alle foreste almeno una parte degli spazi ingiustamente perduti.
Al contrario sigari, sigarette e pipe in bocca a Fidel, al Che e agli altri «eroi della rivoluzione», continuano a recitare un ruolo importante nella mitologia comunista, e – la cosa è troppo macroscopica per essere taciuta – alimentano un business globale perché, quando si tratta di far soldi con i diari, i quadei, le agende, le bandiere e magliette recanti l’immagine dei capi rivoluzionari impegnatissimi a fumare, anche i capitalisti più reazionari guardano le cose con un’altra lente.
Non condanno nessuno, ma il WWF e le altre grandi associazioni ecologiste non possono astenersi dal prendere una posizione molto chiara contro una piaga come quella del tabagismo, che oltre a causare tanti guai alla salute (ogni anno oltre 5,5 milioni di persone nel mondo perdono la vita per malattie provocate dal fumo, attivo e passivo, in Italia siamo tra le 80-90 mila) infligge gravissime perdite al patrimonio naturalistico di un gran numero di paesi.

Quindi se da una parte prendo atto degli sforzi fatti in questi ultimi anni da L’Avana contro il vizio del fumo e mi auguro con Moiola e Galeano, che Cuba somigli sempre più al paradiso e sempre meno all’inferno, dall’altra vorrei invitare a non sottovalutare i risvolti che la battaglia antifumo ha nella difesa delle foreste e della biodiversità. Perché se a Cuba le piantagioni di tabacco hanno provocato in passato l’estinzione totale di non poche specie vegetali e animali, oggi in Asia, Africa e America Latina sono corresponsabili della scomparsa delle foreste naturali, oltre che dello sfacelo dell’economia, dell’indebolimento del tessuto sociale, della perdita di tanti diritti e tante prospettive per il futuro.

Domenico di Roberto
Ancona




Cari missionari

Missionario troppo… nascosto

Cari missionari,
sono un vostro lettore e ricevo da diversi anni la vostra rivista e mi congratulo con voi per gli ottimi servizi, le rubriche ecc. Ma non vi scrivo per congratularmi con voi, perché non ne avete bisogno.
Nel 1997, il fratello di padre Giuseppe Richetti (morto in Kenya nel 1992 e sepolto a Nazareth, Nairobi) mi accompagnò, insieme ad altre persone, presso la vostra missione di Rumuruti, in Kenya, dove conobbi padre Mino Vaccari, che da alcuni anni aveva iniziato la costruzione di una chiesa ed altre opere; durante quel viaggio è nata l’idea di costruire un asilo, una scuola, il pozzo, le case per gli insegnanti ecc.
Con l’aiuto del comune di Fiorano Modenese e di tante altre brave persone del nostro comprensorio (Spezzano, Maranello ecc.) sono stati raccolti i fondi necessari per le costruzioni e anche per innumerevoli adozioni a distanza e ho visto, anno per anno (da allora sono andato a Rumuruti per 5 volte), che le opere sono state realizzate ed anche un numero considerevole di bambini sono stati aiutati.
Noi abbiamo dato i fondi e gli amici di Olgiate Molgora (Lecco) hanno contribuito con la mano d’opera e altri aiuti materiali, ma chi ha cornordinato tutto questo è stato padre Vaccari con i suoi collaboratori.
Anche se questo missionario non gradisce riconoscimenti o pubblicità, mi sembra doveroso ricordarlo nella vostra rivista per tutti i meriti che ha, magari con un piccolo articolo e qualche foto.
Non vi sto ad elencare tutti i pregi di questa persona perché certamente li conoscete meglio di me, ma sarebbe bello per tutte le persone della zona che ricevono la vostra rivista, leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti e fare vedere l’articolo ad amici per convincerli ad aderire a nuove adozioni o a donazioni pro Rumuruti.
Non voglio certo dare consigli su come impostare il giornale, perché certamente avrete da far conoscere fatti e avvenimenti molto più importanti, ma, ripeto, sarebbe bello leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti. Mi è gradito l’incontro per porgere a voi, ai vostri collaboratori e a tutti i padri della Consolata i miei più sentiti auguri di Buon Natale e felice e prospero anno nuovo.
Enrico Bigi
Formigine (MO)

Grazie, signor Bigi, per questa testimonianza sul nostro confratello padre Mino Vaccari e sulla sua attività apostolica a Rumuruti. Di Rumuruti abbiamo parlato in un articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto scorso: il missionario è appena menzionato; siamo d’accordo che meriterebbe molto di più; che qualcuno raccontasse più a lungo la sua vita missionaria; ma di padre Vaccari, purtroppo, non abbiamo neppure una foto nel nostro archivio.

Siamo tutti  
sconcertati

Egregio Direttore,
ho letto con notevole sconcerto l’articolo «ai lettori» sulla rivista Missioni Consolata del mese di settembre u.s., che avalla il parere di Famiglia Cristiana riguardo alla catalogazione dei bambini rom. Bravo!
Si vede che all’estensore dell’articolo va bene che siano mandati a pulire i vetri ai semafori, in mezzo ai pericoli del traffico (e non solo…), a rubare nelle case per l’impossibilità della minore età. E a scippare per le strade! Che non vadano a scuola e che vengano disconosciuti dai loro cari genitori quando incappano nelle forze dell’ordine: evidentemente questi esemplari sistemi educativi li preparavano a un «ottimo» avvenire di delinquenza in cui pare li veda bene un certo peloso buonismo di marca PD, che purtroppo sta inquinando parte del mondo cattolico e certa sua stampa. Se le nostre riviste la vedono così, tanto vale che ci abboniamo al Manifesto o all’Unità che, almeno per le loro balzane idee, non vanno a scomodare la religione.
Far «prevalere la compassione sulla legge»? Ma il medico pietoso fa la piaga cancrenosa e, da modestissima pecorella del gregge, mi pare che nei vangeli si propongano chiaramente la compassione, l’amore del prossimo e l’educazione affettuosa, ma severa.
Il suddetto buonismo propugna per tanto l’integrazione, ma come si può fare senza l’educazione e la scuola? Con l’identificazione dei bambini, i genitori verranno finalmente costretti a riconoscere le loro responsabilità e, debitamente supportati, ad indirizzare meglio la vita dei loro figli.
Inoltre, la via indicata da Gesù Cristo per la carità e l’amore fra i popoli, non mostra alcun bisogno di affratellarsi con gli atei, eredi di Marx, Stalin e compagnia (a meno che non lo si faccia per sadismo o per occupare uno scanno in parlamento…) per fare del bene. Consideriamo poi l’inscindibilità tra diritti e doveri a cui tutti si devono attenere, immigrati o europei che siano.
Date a Cesare… Non so poi dove sia il «mondo ecclesiale rassegnato e atrofizzato dalla paura», in quanto bastano le esortazioni di Sua Santità e le attività svolte proprio dal mondo ecclesiale, che non è certo asserragliato in una torre ebuea di paura e isolamento, ma che anche non raramente, nel seguire la parola di Cristo, egisce per i fratelli bisognosi anche a rischio della propria vita. Qui non è il caso di stracciarsi le vesti invocando la libertà di stampa ma non si deve travisare la realtà insolentendo l’operato della chiesa e dei suoi ministri.
Distintamente.
Benedetta dott.sa Rossi
Bologna

Siamo anche noi sconcertati per questa reazione all’editoriale del settembre 2008. Non ci va affatto bene che i bambini rom non vadano a scuola e che siano spesso sfruttati in tante maniere. Ma non crediamo che prendendo le loro impronte digitali si risolva il problema; anzi, crediamo che tale schedatura sia una forma di discriminazione rispetto a tutti gli altri bambini d’Italia e del mondo. E in questo concordiamo solidali con Famiglia Cristiana.
La difesa degli ultimi, degli emarginati, degli sfruttati… non è «buonismo», ma è «la via indicata da Cristo»; forse anche Lui rimane sconcertato nel constatare che tale via è più battuta da certi «eredi di Marx…» che da tanti «atei devoti» che usano la religione per i propri interessi.

Errata corrige

Caro Direttore,
ho visto l’articolo sul femminicidio in Messico, in effetti è venuto bene. Unica piccola osservazione: quando si parla del film Bordertown, ispiratosi al femminicidio, è stato sostituito il nome di Antonio Banderas (come avevo scritto io) con Martin Sheen… Ma Banderas era giusto, soprattutto perché dico che il giornalista da lui impersonato muore, non Sheen che fa il direttore del giornale. È veramente una pignoleria, ma mi sentivo di scrivertelo per chiarezza.
Daniele Biella
Milano

È vero. Nella storia narrata in Bordertown, a morire per la verità non è l’editore del Chicago Sentinel, impersonato da Martin Sheen, ma il capo-redazione del giornale locale El Sol de Juarez, impersonato da Antonio Banderas. Chi ha corretto l’articolo è stato tratto in inganno dalla locandina, in cui è messo in evidenza l’attore Sheen, invece di Banderas. Ce ne scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. 

Collaboratore premiato

I l Centro Santa Maria alla Rotonda della Fondazione don Gnocchi di Inverigo (Como) ha organizzato il Concorso letterario «Scrivere d’altro», seconda edizione, sulle tematiche relative alla figura e all’opera di don Carlo Gnocchi nel 51° anniversario della morte.
Il Concorso era riservato a quanti, giornalisti, operatori culturali, o semplici estimatori, abbiano inteso richiamare la figura e l’opera del compianto sacerdote venerabile servo di Dio don Carlo Gnocchi. Sono pervenuti alla segreteria del Concorso 52 elaborati tra professionisti e dilettanti. La giuria era formata da 10 membri provenienti dalle istituzioni civili e religiose, dal giornalismo, dall’imprenditoria, e ha proceduto in due moduli separati con votazione a maggioranza alla designazione dei vincitori delle due sezioni: la 1a sezione riservata a giornalisti, pubblicisti e quanti praticano la comunicazione come attività professionale; la 2a sezione è invece stata riservata solo a scrittori dilettanti.
Il vincitore della 1a sezione è risultato Eesto Bodini con l’articolo «Il dolore degli innocenti», già pubblicato su Missioni Consolata nel dicembre 2006 – Torino. La giuria ha attribuito il premio con la motivazione che recita testualmente: «L’articolo illustra con esemplare completezza il progetto di ricostruzione umana di don Carlo Gnocchi. È un ottimo contributo alla conoscenza della sua figura, elaborato in forma coesa e convincente».

P ersonalmente, come segretario del Concorso letterario e come operatore della Fondazione don Gnocchi, desidero esprimere il mio apprezzamento a Eesto Bodini per la rigorosità scientifica con la quale ha esposto il profilo della figura di don Carlo, sotto tutte le sfaccettature che hanno accompagnato ed esaltato le sue azioni verso i più piccoli e i più bisognosi, alla ricerca di quel riscatto dalle brutalità della guerra vissute nella campagna di Russia e con l’obiettivo di ricostruire la dignità della persona.
Non voglio dilungarmi nel parlare di Eesto Bodini come comunicatore sociale nel campo della medicina, di cui altri possono parlare diffusamente per conoscenza più diretta, desidero invece sottolineare l’aspetto più profondo e determinante sulla sua attività giornalistica, centrato proprio dal suo attaccamento alla figura di don Gnocchi.
Le vicende della sua infanzia lo hanno forgiato ad affrontare gli stessi temi della sofferenza e del suo senso nella vita quotidiana degli uomini. Don Carlo ha dato una risposta di fede che animava il fuoco delle sue iniziative di carità, per noi, e sicuramente per Eesto, il dolore e il suo significato, tema centrale della vita e dell’opera educativa di don Carlo, hanno segnato e accompagnato le vicende personali e professionali del vivere quotidiano.
Tutto questo per me traspare e si evince dai numerosi articoli e interventi di Eesto Bodini, tesi alla diffusione dei valori che la figura di don Carlo Gnocchi ha lasciato in eredità a tutti.
Silvio Colagrande
(direttore Fond. don Carlo Gnocchi di Inverigo, CO)

Tutta la redazione di Missioni Consolata si felicita con il signor Eesto Bodini e lo ringrazia per la sua preziosa e apprezzata collaborazione.




Cari missionari

Diritti di tutti e per tutti…

Egregio Direttore,
ho letto la dichiarazione dei diritti umani. Ritengo che a detta dichiarazione manchi qualcosa, una specie di principio, come filo conduttore di tutto quello che è possibile enunciare sui diritti umani. Ad esempio: «Ogni individuo nasce come titolare di tutti i diritti di questo mondo, ma ha pure il sacrosanto dovere di acquisire la capacità a esercitare un qualsiasi diritto ed esercitarli anche nel pieno rispetto dei diritti di ogni altro individuo».
Il discorso sarebbe alquanto lungo, ma mi fermo a questo piccolo principio. Cosa ne dite ?
Lucio Di Martino
Aosta

La Dichiarazione universale dei diritti umani ha sempre bisogno di essere completata con nuovi principi e proposte, ma soprattutto di essere implementata da tutti e per tutti gli esseri umani.

«Monti sacri» e alpinismo estremo

Cari missionari,
dopo un’estate funestata da una sequenza tragica di incidenti in alta montagna (Himalaya, M. Bianco…) c’era proprio bisogno di un articolo come «Monti sacri» (M.C. 9/2008 pag. 10-14).
C’è bisogno che qualcuno ci ricordi che le montagne, tutte le montagne, sono opera di Dio, create per unire e riappacificare, non per dividere o esasperare rivalità, tensioni, conflitti, guerre.
È ora di finirla con certa letteratura, che si ostina a parlare di «Montagne del diavolo», con l’alpinismo estremo, dove vince chi arriva prima o più in alto, con maggior frequenza o consumando la minor quantità di ossigeno delle bombole, sfidando le condizioni atmosferiche più avverse e l’anagrafe.
A questo alpinismo, che mi rifiuto di considerare come attività sportiva gradita a Dio e conforme al vangelo, preferisco di gran lunga l’alpinismo non competitivo, dove contano poco o nulla arrivare primi, il cronometro, il termometro e l’altimetro, mentre contano molto arrivare insieme, arrivare tutti e in buone condizioni di salute; arrivare senza aver deturpato l’ambiente montano con escrementi, plastica, scatolame e rifiuti vari.
Alle scalate dell’Everest, del K2 e altri «ottomila» che tanto fan parlare (e litigare…) scalatori, commentatori, scienziati, sponsor e governi nazionali, preferisco le iniziative di alpinismo sostenibile, come quelle intraprese da Carlo Alberto Pinelli, con la sua Mountain Wildeess in Afghanistan, martoriato da decenni di guerra.
Con lo slogan «dal kalashnikov alla picozza», Pinelli e i suoi amici, italiani e afghani, stanno offrendo un’opportunità di riscatto a giovani e meno giovani, indicando una via d’uscita a chi fino a ieri non vedeva altra possibilità di affermazione al di fuori delle armi e dell’oppio; e stanno dando anche una lezione di stile a chi, sclerotizzato nell’adorazione degli «ottomila», sembra incapace di accorgersi di ciò che accade un po’ più giù…
Apriamo occhi e orecchie e ascoltiamo i richiami di naturalisti e alpinisti poco famosi, ma che con tanta umiltà e pazienza stanno costruendo una speranza per le nuove generazioni e rimediando ai danni pedagogici ed ecologici fatti dai loro già celebrati colleghi.
Luciano Montenigri
Fano

«Monti sacri» settimane bianche

Cari missionari,
spero vivamente che l’articolo di G. Casiraghi sul significato religioso della montagna (M.C. 9/2008 pag. 10-14) arrivi in tante scuole e venga letto da docenti, alunni e genitori.
Sappiamo tutti che nelle scuole, specie alle superiori, montagna è uguale a settimana bianca: tanti la bramano, la raccomandano, la esaltano; ma sono tanti anche quelli che invece la boicottano… Questi partono dal principio che nella scuola non deve esserci alcuna discriminazione, mentre la settimana bianca le discriminazioni le crea, perché è un lusso che molti non possono permettersi: più di 500 euro per 7 giorni, senza contare il costo degli sci, vestiario ecc… Per cui la settimana bianca non è certo fattore di unione tra gli alunni, tra i genitori, gli stessi docenti.
Secondo me, però, ci sono altri due motivi per dire «no» alle settimane bianche, o almeno rivedee la modalità di approccio.
Il primo riguarda l’impatto ambientale. Negli ultimi anni turismo sulla neve e sport invernali sono aumentati in maniera esponenziale, diventando un fenomeno di massa. Da tempo i naturalisti ammoniscono che le montagne non sono in grado di reggere l’impatto di tale invasione: contrariamente a ciò che molti pensano, quelli montani sono ecosistemi assai fragili; per esempio, riflettiamo mai sul fatto che rifiuti e immondizie abbandonate a 2-3-6 mila metri di altitudine hanno dei tempi di decomposizione e riciclo incomparabilmente più lunghi di quelli rilevabili in pianura?
Il secondo motivo riguarda l’incolumità personale, sempre più a rischio su certe piste. Tutti vogliono cimentarsi nelle discese libere, fare snowboard, andare in motoslitta, alla ricerca di emozioni sempre più forti, col risultato che ogni anno si contano decine di morti e migliaia di incidenti e infortuni che pregiudicano la possibilità di riprendere una vita normale.
In Svizzera – dove nel 2007 ci sono stati ben 70 mila incidenti e nel solo mese di dicembre le squadre di soccorso con elicotteri hanno compiuto 300 missioni, con un costo di 150 milioni di euro – è stato introdotto lo skivelox. In Italia, dall’1-1-05, c’è l’obbligo del casco per gli under 14 (pena la multa da 30 a 150 euro) e di strumenti elettronici per i fuoripista.
Chiaramente però questi sono palliativi o poco più: la cosa più importante è educare le persone, in particolare i giovani, al rispetto di se stessi, degli altri, della natura. Voglio dare un consiglio alle autorità scolastiche, a cominciare dal ministro dell’Istruzione: prima di organizzare altre settimane bianche, le scuole invitino i volontari di Mountain Wildeess, si facciano dire da loro i rischi che il pianeta corre per colpa dell’accanimento sciistico, sia invernale che estivo.
Si facciano anche spiegare i motivi per i quali, negli ultimi 150 anni le nostre «madri delle acque» (così Mountain Wildeess chiama i ghiacciai) hanno visto la loro superficie ridursi del 33% e il loro volume diminuire di quasi il 50%, «trafitte da tralicci metallici, costellate di grandi rifugi-alberghi, solcate da cavi metallici e mezzi battipista che ne sconvolgono gli equilibri, spostando ingenti masse nevose in una triste gara per assicurarsi gli ultimi profitti prima della definitiva scomparsa delle nevi perenni…».
Francesco Rondina
Fano

«CHE SULUKULE VIVA!»

La Sulukule Platform, una vasta associazione composta da Ong, professori, volontari, giornalisti, commercianti e residenti del quartiere, ha aperto recentemente un Centro per bambini a Sulukule. In mezzo a tutte le macerie, detriti e sporcizie lasciate dalle ruspe e sfidando tutte le voci e gli annunci sulla fine di Sulukule, la Piattaforma continua a lavorare per la gente e i bambini del quartiere.
Al motto «che Sulukule viva», la Piattaforma vuole con ogni mezzo mostrare al mondo e al comune di Fatih che, nonostante le tante case demolite e le tante persone costrette a sgombrare, Sulukule rimarrà finché ci sarà l’ultima persona e arderà l’ultima lampada. L’apertura del Centro ha voluto dimostrare che ci sono bambini a Sulukule!
Lo scopo principale del Centro è aiutare i ragazzi a liberarsi dal trauma subito fin dall’inizio della cosiddetta riqualificazione del quartiere. Non sapendo quando le loro case saranno demolite, il rumore di ogni macchinario è un allarme spaventoso per le loro tenere orecchie. Molti hanno smesso di andare a scuola: hanno paura che, al ritorno, non troveranno più la loro casa, come se fosse in loro potere arrestare il processo di distruzione.
Nel Centro hanno luogo ogni attività, senza alcuna obbligazione: i bambini possono scegliere ciò che piace loro. Arti plastiche, dramma, giochi all’aperto, con giocattoli Lego e puzzle, lezioni di lettura e scrittura… sono alcune delle attività guidate dai volontari. Lo scorso agosto, guidati da un attore professionale, i ragazzi hanno rappresentato per ben 5 volte il dramma di Giulietta e Romeo, ambientato a Sulukule; ed è stato vero successo.
Nel Centro opera anche un ufficio di consulenza per i residenti di Sulukule per trattare relazioni e problemi con la municipalità di Fatih. I volontari redigono petizioni o danno consigli e assistenza legale, provocando anche cause giudiziarie contro la municipalità per le violazioni dei diritti umani. Grazie alla Piattaforma, Sulukule vive e speriamo che possa vivere e che lo lascino vivere.

Speriamo che si riesca a fermare anche le altre ruspe che  stanno facendo milioni di senza tetto in tutta Istanbul. A Kucukcekmece-Ayazma circa 2.500 famiglie sono state sfrattate e rilocate a Bezirganbahce; espropriate senza compenso, si sono indebitate e ridotte in miseria; 18 famiglie, senza denaro e senza un luogo dove andare, sono vissute in tende tutto l’anno.
La costruzione dello stadio olimpico proprio vicino ad Ayazma, ha avviato l’esodo dei residenti del quartiere, prevalentemente famiglie provenienti dall’est e sud-est della Turchia, di origine kurda; le abitazioni saranno ristrutturate per fae prestigiose ville per gli eventi olimpici.
La stessa sorte incombe sulla popolazione rom di Sulukule, perché il terreno è cresciuto molto di prezzo negli ultimi anni. Così i residenti di Sulukule, ivi presenti fin dai tempi di Bisanzio, devono dire addio non solo alle loro case, ma anche alla loro cultura e modi di vita. Anche Tarlabasi, altro distretto condannato al processo di trasformazione, attende la stessa sorte. Sembra tuttavia che la gente di Tarlabasi, guidata da una Ong locale, non lascerà la scena tanto facilmente: i residenti di questo quartiere hanno imparato bene la lezione da Ayazma e Sulukule e hanno cominciato a fare causa in tribunale con l’aiuto di bravi avvocati.
In tutta la Turchia e specialmente a Istanbul, i distretti di riqualificazione urbanistica, uno per uno si stanno organizzando e lottano con ogni mezzo contro tale processo, con la disobbedienza civile e citazioni giudiziarie, visite al parlamento e ai deputati, con qualsiasi altro mezzo utile.
I distretti di Istanbul si sono organizzati in un’unica grande coalizione (Istanbul Districts Platform) e hanno cominciato ad agire insieme. Turchi, rom, kurdi, siriani… differenti per etnicità, religione, affiliazioni politiche… ora sotto tutti mano nella mano contro le ruspe! Speriamo che abbiano successo e che trionfi «il diritto alla casa e residenza».
Cihan Baysal

Con questa lettera la signora Cihan Baysal, ricercatrice nel campo dei diritti umani per la Istanbul Bilgi University, ci offre un aggioamento sulla situazione della gente di alcuni quartieri di Istanbul, di cui Missioni Consolata ha raccontato nei numeri di maggio e giugno 2008.




Cari missionari

Giustizia per tutti…

Egregio Direttore,
mi permetto di fare qualche appunto all’articolo di padre Giuseppe Ramponi sul vescovo ecuadoregno Eduardo Proaño (M.C. 7-8 2008, p.16)) e, in genere, sul tono di moda in questi decenni, una visione dei popoli vicina a Rousseau: popoli originariamente buoni e dalla vita sociale quasi paradisiaca, rovinati completamente dai cattivi europei per di più cristiani.
L’evangelizzazione dell’America Latina ha le sue ombre, ma anche le sue luci: Turibio di Mongrovejo e Pietro Claver ne sono piccoli esempi… C’è poi la mentalità in molti popoli di dare sempre la colpa ad altri dei loro mali, ai cattivi sfruttatori: ieri il colonialismo, oggi il mercato globale e capitalismo selvaggio…
Noi popoli dell’Europa a chi dobbiamo chiedere i danni? Ai cartaginesi, ai romani, agli unni, ai mongoli, ai turchi… Siamo usciti da una lunga storia di guerre, stupri, pestilenze, fame e miserie d’ogni genere… A scuola ci hanno insegnato l’aspetto positivo della cultura greca che con Alessandro Magno ha unificato il mondo antico, così come poi il latino con Roma e con la chiesa: e oggi l’inglese, il francese, lo spagnolo non hanno forse portato anche qualcosa di buono nella crescita dei popoli?
L’ America Latina e specialmente l’Africa sono state evangelizzate, o meglio scolarizzate, da migliaia di missionari e missionarie usciti da tante povere famiglie e, pur con tutti i loro limiti, non sono andati in paesi lontani per imporre i loro usi e costumi e neppure per portare la rivoluzione delle armi, ma un po’ di vangelo secondo le loro capacità. Anche la grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe non è stata principalmente un fatto di potenti contro poveri, ma un incontro e uno scontro di poveracci con poveracci. In Europa abbiamo impiegato più di mille anni per capire che forse è meglio non scannarci a vicenda e formare invece una comunità.
La creazione geme nelle doglie del parto… Il mondo nuovo, dove la giustizia ha stabile dimora, verrà dopo la fine di questo… saluti e buon lavoro.
Don Silvano Cuffolo
Oropa (BI)

Grazie, don Silvano, per questa sua riflessione. Siamo d’accordo. Ma intanto dobbiamo darci da fare perché il Regno di pace e di giustizia per tutti cresca già in questo mondo.

«Chi inquina uccide»,
non solo con i Suv

Dopo la lettura delle pagine dedicate ai Suv (M.C. 2-2008 p. 66-67) sono ancor più convinto che l’acquisto degli Sport Utility Vehicle sia una moda più che una necessità, un cedimento alla macchina pubblicitaria più che la risposta alla domanda di sicurezza sulle strade. Al tempo stesso mi sembrano doverose alcune puntualizzazioni.
Primo: anche la critica al Suv rischia di diventare una moda, se è disgiunta dalla critica a tutto un modo di concepire il diritto al lavoro, mobilità, svago. Consideriamo, ad esempio, il settore della pesca: l’aumento del prezzo del gasolio ha messo in grossissima difficoltà le compagnie; ci sono state molte agitazioni, scioperi, richieste di aiuto economico all’Unione Europea, oltre che ai governi nazionali e alle amministrazioni locali. Ma una congiuntura economica drammatica come questa non dovrebbe essere anche l’occasione per cominciare a prendere finalmente e seriamente in considerazione l’ipotesi di sfruttare le risorse del mare in modo più saggio, più equilibrato, più responsabile?
Se è vero, come è vero, che alcuni colossi della navigazione commerciale (Cosco Container Lines, K Line, Yang Ming, Hanjing Shipping, ecc…) hanno raggiunto un accordo sulla riduzione delle velocità delle loro navi da 25 a 21,5 nodi e probabilmente si accorderanno per ulteriori riduzioni (studiosi e tecnici hanno calcolato che una diminuzione della velocità del 10%, per un portacontainer può significare una riduzione del consumo di combustibile del 30%), perché non si dovrebbe trovare un’intesa analoga anche per il settore della pesca e per quello della navigazione da diporto?
E quell’Europa che spinge tanto per la rottamazione, ridimensionamento e rinnovamento delle flotte pescherecce (troppi i pescatori, troppi e troppo vecchi i natanti), non potrebbe spingersi un tantino più in là ed esigere da armatori e costruttori la messa in atto di tutti gli accorgimenti e soluzioni aerodinamiche che la modea tecnologia offre, per consentire all’uomo di lavorare e magari anche di divertirsi in mare senza rovinarlo?
Secondo: non mi convince affatto la linea scelta da alcuni governi nazionali e, soprattutto, locali che hanno deciso di far pagare l’ingresso dei Suv nei centri storici (a Londra, per esempio, Jeep & C. entrano solo se pagano l’equivalente di 33 euro al giorno…). È una cosa altamente diseducativa, una ignominiosa resa alla logica del «vuoi inquinare? Paga!».  No, cari premier e cari sindaci, sempre più innamorati delle tasse, erano molto più convincenti ed educative le domeniche senza auto: quelle che, nell’ormai lontano inverno 1973-1974, trasformarono non solo le città, ma anche le strade extraurbane (autostrade comprese) in piccoli paradisi.
Vorrei ricordarvi che chi inquina uccide: lo ha detto tante vole anche papa Giovanni Paolo ii, lo ha ribadito il suo successore; e su MC lo hanno documentato magnificamente il dott. Topino e la dott.ssa Novara.
In uno stato che funziona nessuna autorità può dire a chicchessia «vuoi uccidere? Paga!». No, in uno stato di diritto non può esserci spazio per approcci del genere, che non differiscono molto da quelli che caratterizzano il mondo dei contrabbandieri, bracconieri, camorristi, mafiosi.
Nessun medico serio si permetterebbe di dire a un paziente, pieno di problemi a causa della sua golosità, «per contenere i danni della gran mangiata e gran bevuta che ti farai, ingoia questa pasticca, fatti questa iniezione».
Smettiamo, quindi, di prendere di mira i proprietari di Suv, come se fossero tutti gradassi, prepotenti, ubriaconi, carnefici, e di difendere gli altri automobilisti, motoscornoteristi, camionisti, come se fossero tutti umili, sobri, vittime. Ridimensioniamo anche la storia che chi mangia pesce, rispetto a chi mangia carne, fa meno male alla salute propria e agli equilibri planetari: sia in mare che nelle acque intee, la pressione sulle risorse ittiche ha raggiunto livelli intollerabili, così come è intollerabile la tragedia delle morti bianche a bordo delle imbarcazioni: fonti Fao riportano che «ogni giorno almeno 70 persone muoiono in incidenti di pesca nei mari dei quattro continenti», numero ben maggiore di quello che si riscontra in edilizia e agricoltura.
Guglielmo De Tigris
Urbino

UN MURO CHE NON DIVIDE

Il 20° secolo, il più sanguinario che la storia ricordi, ha dato luogo a catastrofi umane senza precedenti, che hanno leso la dignità di milioni di persone. A 90 anni dalla fine della Grande guerra, la parrocchia di Ciano del Montello ha voluto realizzare, nel piazzale della chiesa, un «Monumento alla pace», inaugurato la sera del 27 settembre scorso.
Questo piccolo lembo di terra veneta, in prima linea ai piedi del Montello e lambito dal fiume Piave, fu teatro di avvenimenti drammatici e vide i suoi abitanti lasciare i luoghi natii come profughi o combattenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni generalizzate, senza dimenticare i caduti dei paesi all’epoca nemici. 
L’intento principale dell’iniziativa è quello d’attuare una sorta di consegna intergenerazionale, per far sì che il ricordo sopravviva nella memoria e divenga, nel tempo, segno concreto per la tutela della libertà e della pace.
Il parroco, don Saverio Fassina, e gli animatori dei gruppi estivi si sono fatti promotori dell’opera, riflettendo a lungo su come poterla realizzare in maniera da rendere protagonisti i bambini e i giovani, così lontani nel tempo da quei tragici eventi, eppure eredi e diretti destinatari di sottesi messaggi di speranza per l’avvenire.
Avvalendosi della professionalità dell’architetto Giampaolo Blandini, si è scelto di valorizzare il muro dell’antico cimitero, che un tempo sorgeva accanto alla chiesa, applicandovi formelle in ceramica variopinta, create dai ragazzi, e aventi come tema predominante la pace. Accanto a queste ne sono state inserite altre, provenienti da viaggi o pellegrinaggi in diversi paesi del mondo, spesso martoriati, quali Etiopia, Palestina e Irlanda; esse contengono non solo messaggi iconografici, ma anche simbologie cristiane. Sul muro s’incontrano altresì iscrizioni islamiche, giunte dal Marocco, per affermare quella vicinanza umana che vuole andare oltre le etnie e le confessioni religiose.
Chiunque giunga in questi luoghi può sentirsi, così, accolto dalle parole: «La pace sia con te», espresse in varie lingue, fedi e immagini. Queste sono le «pietre vive» che coesistono, si sovrappongono e dialogano.

Il fulcro di tutto il progetto si sviluppa su un’area quadrata di circa quattro metri per quattro. Su uno dei lati è rappresentata il Montello, con tralci d’uva ed elementi plastici che rimandano alle case e chiese del territorio; sull’altro vi è un richiamo al Monte Grappa, definito da alti alberi e percorso da aneliti di vita, prematuramente spezzati…
Nel mezzo della composizione è collocata una fontana per quanti, assetati d’acqua e di giustizia, si fermeranno per trovare ristoro. Alla base di questa sono disposti i sassi del fiume Piave, di diverse dimensioni e fattezze, per evocare l’incertezza traballante di passi confusi, tormentati da angoscia e paura. L’acqua, elemento vivificante, intende favorire la purificazione della memoria, personale e collettiva, e la rinascita.
Per evidenziare maggiormente questa idea di rinnovamento, un velo d’acqua ha il privilegio di scorrere sui versi di una poesia dell’ecuadoriano Jorge Carrera Andrade (1903 – 1978), pioniere della difesa della natura e della bellezza del mondo, sulla quale vedeva incombere il rischio dello sfregio di una ragione senza spirito.
«Verrà un giorno più duro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Un fulgore nuovo avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
liberi ormai della morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti delle armi distrutte
e nessuno verserà il sangue del fratello.
Il mondo allora sarà delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
d’abbondanza e freschezza senza frontiere».

La speranza è che quanti lo desiderano, piccoli o grandi, continuino ad apporre nuove formelle, provenienti da diversi luoghi ed esperienze, su questo «muro di pace». L’intero complesso è concepito, pertanto, come un’opera in divenire, un monumento vivo.
In questi luoghi, quasi completamente distrutti dalla guerra, bambini e ragazzi di Ciano, tramite questa esperienza, hanno compreso in maniera tangibile che l’infanzia e la giovinezza sono un momento privilegiato per diventare, in prima persona, portatori e costruttori di pace. Il compito loro affidato è di diffondere questo giornioso messaggio. In opere e parola. Perché non sempre i muri dividono.
Rosella Cervi
Ciano del Montello (TV)




Cari missionari

Quando si dice… malaria

Cari missionari,
leggo sempre con passione la vostra rivista, da quando mi sono abbonata alcuni anni fa, dopo un viaggio in Kenya con padre De Col.
Ho letto sul numero di giugno «I diversi volti della malaria», scritto dalla dott. Chiara Montaldo. La sua esperienza mi ha vivamente toccata. Con mio marito è dal ‘93 che «circoliamo» per l’Africa, i primi anni con tour operator, ma poi adottai il «fai da te». Non avevo il desiderio di essere solo un turista mordi e vai; così, dopo il Tanzania e il Kenya, scelsi definitivamente il sud della Costa d’Avorio, un po’ perché dimenticata da molti, un po’ per il fatto che c’è acqua.
Alloggiando in una casa africana, vivendo con la gente locale, va da sé che incominciai a dare qualche cosa di quello che sapevo fare: corsi di lavori femminili, scuola d’italiano per scolari e adulti, primo pronto soccorso. Col passare degli anni cercai di aiutare a migliorare il tenore di vita dei bambini bancal, di chi aveva delle malformazioni operabili. Ammalati inviati al centro di don Orione di Bonoua e da noi spesati anche con l’aiuto di amici e benefattori Italiani.
Fino all’anno scorso, la malaria mi sembrava una malattia tanto fantomatica dei libri di Salgari, del ciclista Coppi, forse anche perché il soggiorno di due mesi si articola nei mesi per così dire più secchi: febbraio-aprile. Mi capitava di incontrare e sentire adulti o bambini: «Mamma, non sto bene». «Cos’hai?». «La febbre». «Hai bisogno?». I più fortunati: «All’ospedale mi hanno fatto una puntura». E via che si facevano lavaggi con decotti di erbe; erbe che schiacciavano, bevevano, mettevano nelle narici e nelle perette anali. Sentivo poi: «Sai, il tale è morto». «Cosa aveva?». «La febbre». Per me finiva lì.
Finiva lì perché non capivo, non conoscevo bene, finché un giorno, di ritorno dalla capitale con addosso la sensazione di aleggiare a mezz’aria e mani caldissime, scoprii di avere la febbre a 39. Cosa vuoi che sia? Sarà il caldo, la stanchezza. Presi un paracetamolo e dopo mezz’ora la temperatura toò normale. Ma il giorno dopo, quando svenni per la pressione a 50/70, mi portarono al centro don Orione dove con la «goccia spessa» diagnosticarono la malaria.
Compresse per la malaria, di ferro per l’anemia, per la febbre, vitamine. Fu una settimana di brividi, sudore, fortissimi mal di testa, vomito e dissenteria, ma passò. Avevo i soldi e ho pagato i farmaci. Ho pagato, ma ho iniziato a vedere con occhi diversi, osservavo la parte bianca degli occhi, dai bambini agli adulti, e tutti l’avevano gialla o anche più scura da confondersi quasi con l’iride. Vedevo dopo «la febbre», la debolezza portata dall’anemia; dove potevo foivo pastiglie di ferro e vitamine. Molte persone avevano la pressione tanto bassa. Purtroppo quello è un paese dove viene consumata pochissima carne rossa, niente latte o formaggio; la poca verdura (cipolle, aglio, melanzane, peperoncino) viene resa purea per le salse con cui viene servito il foutou.
Quest’anno, mio marito e io siamo ritornati. È toccato a lui pagare il ticket della malaria e con le piastrine basse, in una clinica privata si sottopose a flebo per 5 giorni. Aveva i soldi e ha pagato.
Due giorni dopo il ritorno in Italia eccomi sul lavoro con un gran freddo, pensavo allo sbalzo di clima, ma la febbre a 40 (io che non ho mai la febbre) non lasciò dubbi, me l’ero portata in Italia: ma avevo portato anche i farmaci acquistati per precauzione in Africa. Dopo cinque giorni era tutto passato.
La constatazione che il Lariam non serve più è stato un colpo, più della malaria stessa. Se la conosci la curi e speri sempre in bene. Ciò che mi tortura è che noi bianchi possiamo permetterci i farmaci, tra gli africani solo i più ricchi. Si ammalano di malaria più volte nell’arco dell’anno, essendo un paese ad alto tasso di umidità, con lagune sparse un po’ ovunque. Dunque, malnutriti, debilitati, senza soldi…
Ho scrupolo di quanto nel mondo si spreca in sanità, di quanto cibo si butta in pattumiera, di quando si dice «non so cosa mangiare» davanti a scaffali pieni del supermarket, mentre c’è chi dice «non so cosa mangiare» perché non ha soldi per acquistare del cibo. Prevenzione: zanzariere, spray, zampironi, sono tutti troppo costosi.
In un paese dove si vive fuori e dove a causa dell’umidità si suda molto, aggiungendo che anche il Lariam non dà più sicurezza, mi chiedo cosa posso fare non solo per noi, ma soprattutto per i miei amici avoriani. Quando ritorno in Italia, vi ritorno con il cuore grosso, pesante, angosciato e quasi vergognosa di vivere in un posto così «facile».
Grazie per avermi letta. Con sentita simpatia.
Elena Tagini Malgaroli
Veruno (NO)

Abbiamo letto volentieri la sua testimonianza e altrettanto volentieri la pubblichiamo. La sua esperienza ci aiuta tutti ad aprire la mente e il cuore su una delle malattie dimenticate, ma che, purtroppo, fa più vittime dell’Aids tra le popolazioni africane. Tale testimonianza è, poi, un invito a pensare un po’ meno a noi stessi e a sentire concretamente più solidarietà verso i milioni di persone a cui è negata la speranza.

Abbassare i toni…

Spett. Redazione,
la lettera su «Le “porcate” e… la “porcata”» e l’articolo di riferimento (M.C. giugno 2008, p. 7) danno l’indicazione esatta di quanto la politica divida! E divide in modo tale da essere incompatibile con il proclamarci cristiani!
Certamente delle forze oscure hanno introdotto anche in Italia il bipolarismo: in questo contesto non c’è spazio per i cattolici, fagocitati a sinistra ed emarginati a destra, non riescono a far valere le proprie ragioni, e nel frattempo queste forze spingono perché le leggi che stanno loro a cuore, passino e lentamente distruggano il connettivo cristiano del nostro popolo. E noi facciamo a lite perché pensiamo che, con il nostro intervento all’interno del sistema, possiamo limitare i danni. Aborto e divorzio insegnano! Eppure gli alunni non apprendono!
Ci sono svariati motivi che dovrebbero spingerci a moderare i toni: il sereno confronto permette di approfondire le problematiche e di raggiungere conclusioni condivisibili; i toni accusatori non fanno altro che far erigere delle barricate insuperabili e lasciano il tempo che trovano; qualcuno utilizza il «divide et impera» e noi, ingenuamente ci siamo caduti; comunque in questo mondo nulla è eterno, nulla è per sempre, nonostante certe dichiarazioni roboanti di numerosi uomini politici, e quindi possiamo guardare al futuro con molta speranza e nonostante…
Mario Rondina
Fano (PU)

È vero, la politica divide, soprattutto perché non è più «politica», cioè servizio alla polis, al bene comune dei cittadini, ma servizio dell’imperatore di tuo. Troppi nostri rappresentanti, che si dichiarano cattolici, non sono coerenti con la loro fede cristiana, con l’insegnamento sociale della chiesa e con la propria coscienza.
Mal di denti…

Cari missionari
è certo consolante vedere che ci sono non pochi dentisti italiani che vanno in Kenya (M.C. n.2-08 p.72, M.C. n.5-08 p.7) e in altri paesi del sud del mondo a lottare contro le infezioni orali (causa di molte altre infezioni e patologie) di tante persone che vivono nella miseria nera: un bellissimo modo di interpretare l’imperativo evangelico della cura all’ammalato…
Nello stesso tempo però mi domando: è troppo chiedere che in questa direzione, qualcosina venga fatto… anche nella nostra Italia dove, nella stragrande maggioranza dei casi, riuscire a farsi curare dei denti equivale a consegnare a uno studio privato interi stipendi o intere pensioni? È troppo chiedere per quale motivo la cura e l’otturazione di un dente cariato costa in media 8 euro in Ungheria, 18 in Polonia, 46 in Francia e 135 in Italia? È troppo chiedere che il numero degli odontorniatri in forza al Servizio sanitario nazionale venga elevato e si avvicini almeno a quello dei… cappellani che, attualmente, sono quasi il triplo? Cordialmente.
Valentino Baldassaretti
 Urbino (PU)




CARI MISSIONARI

Ricordi
indimenticabili…

Carissimo Direttore,
sono tornato da poco dal mio secondo viaggio in Etiopia. Sono carico di ricordi indimenticabili, di volti espressivi che ho sempre davanti agli occhi e di sguardi limpidi che dicono tutto.
Ho visto la nuova scuola di Daka Bora (pietre argillose) con i nuovi banchi e fra poco arriverà l’acqua in quella terra arida. Questi progetti sono stati pensati dai nonni «vigili» di Borgo Valsugana, di cui fa parte anche il sottoscritto, e sono stati realizzati grazie ai contributi e al grande cuore di uomini, donne e associazioni varie di Borgo Valsugana.
Sono stato a Waragu e Minne, villaggi poverissimi, senza acqua, luce, mezzi di trasporto. Ho trascorso giorni indimenticabili e ho visto l’altra faccia del mondo. Sono stato uno di loro fra loro. Abitano in capanne poverissime, con 7-10 bambini; vivono di pastorizia e agricoltura. Hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Tutto viene trasportato a d’orso d’asino o sulle spalle delle donne, uomini e bambini. Salutavo tutti ed ero contraccambiato. Sono stato ospite nelle loro capanne e mi hanno offerto del pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia.
Erano felici quando ho donato un paio di pantaloni all’anziano, una saponetta alla maestra, un pullover al sacerdote locale e un paio di scarpe ad un ragazzo. Le donne mi hanno sorriso quando ho portato presso le loro capanne, le taniche d’acqua o la grossa fascina di legna al posto dei loro figli.
Padre Paolo Angheben, uomo di Dio e luce per tutti gli indigeni, dirige in queste località due scuole elementari, frequentate da 2.200 bambini e con 40 maestri che vengono stipendiati con gli aiuti che arrivano dall’Italia. Con 10 euro all’anno si può adottare un bambino a distanza e aiutarlo a frequentare le scuole.
Ho conosciuto la donna etiope, che soffre, piange, ride, consola, sopporta. Donna che ama e vuole essere amata. Donna umile, tenace, che cammina per ore portando i bambini o altri pesi sulle spalle. Donna infelice, perché a volte è umiliata e violentata. Donna che spera in un futuro migliore. Ragazze che studiano duramente per cambiare il volto del loro paese. Donna di fede, che prega e bacia il pavimento della chiesa. Donne con in braccio i figli ammalati, che aspettano per ore in silenzio il loro tuo per essere visitati, curati o vaccinati presso la clinica della missione, gestita da due suore e infermiere polacche.
Sono stato nella cittadella di Asella, a 2.600 metri di altezza e 60 mila abitanti, dove ho conosciuto padre Silvio Sordella, missionario instancabile e di fede incrollabile. Ho visitato l’orfanotrofio da lui fondato e diretto per tanti anni, con i vari laboratori: luogo di salvezza, speranza e di futuro per centinaia di bambini. Alcuni di essi mi hanno preso per mano e mi hanno mostrato le loro camerette e vari locali. Erano felici di stare con me (anche per le caramelle).
Per il 2009 il mio sogno (o utopia?)  è la costruzione di un ponte sul fiume Minne (ponte della stella, della speranza, della vita?) del costo di 8 mila euro circa. Durante la stagione delle piogge (la nostra estate) per le forti correnti né uomini, né animali, né mezzi di trasporto lo possono attraversare.
Un pensiero costante durante il mio viaggio è stato quello del mio cugino missionario, padre Giovanni De Marchi, vissuto e morto da santo, come lo ricordano tutti quelli che lo hanno conosciuto in vita in questo paese. Le suore della Consolata in Addis Abeba mi hanno raccontato qualche piccolo aneddoto della sua vita, soprattutto hanno rievocato l’incontro, in quello stesso luogo una ventina di anni fa, di due figure carismatiche e spirituali, umane e cristiane: Madre Teresa di Calcutta e padre Giovanni d’Etiopia.
Iddio e la Consolata proteggano e benedicano sempre tutti i missionari e le suore. Un grazie sincero per la loro ospitalità ai padri Paolo a Waragu, Jorge Pratolongo a Modjo e il superiore Antonio Vismara ad Addis Abeba che mi hanno permesso di vivere questa esperienza indimenticabile.
Auguri di ogni bene anche a voi e complimenti per gli articoli pubblicati sulla rivista: fanno pensare e riflettere.
Giovanni De Marchi
Borgo Valsugana (TN)

Lunga vita anche a lei, signor Giovanni, perché possa continuare a sognare e vivere con lo stesso entusiasmo del suo omonimo cugino, per il bene di quelle popolazioni per le quali il grande missionario ha speso tutta la sua vita.

Scherzi della memoria

Spett. Redazione,
in relazione alla mia lettera da voi pubblicata su Missioni Consolata, maggio 2008, apprezzo la risposta del dott. Azzalin. Lungi dal voler prolungare inutilmente una polemica, che del resto mi interessa poco, vorrei solo sottolineare l’impossibilità di capire che le osservazioni esteate dal dott. Azzalin fossero rivolte solo ed esclusivamente al gruppo di cui fa parte (invito chiunque a rileggere l’articolo). Accetto senz’altro questo punto di vista pur continuando a non condividee la sostanza.
Negli anni 2001-2003 ho lavorato per l’Apa a Kahawa, presso il dispensario della missione. Il dottor Azzalin ed io dunque ci conosciamo personalmente e i nostri contatti non sono certo stati saltuari, almeno fino a quando le nostre strade si divisero. Del resto mi rendo conto che entrambi abbiamo oltrepassato la cosiddetta mezza età ed è possibile che la memoria cominci a giocare qualche scherzo. Consiglio al collega, che saluto commosso, buoni libri ed esercizio fisico. A futura memoria.  
Cordialmente
dr. Massimo Fugazza
via e-mail

PREGHIERA ALLA MADRE DI DIO CON TRE MANI

C ari amici, vi mando questa mia preghiera per condividere con voi i miei sentimenti, dopo il riconoscimento del Kosovo come uno stato indipendente. Nessuno voglio offendere; vorrei solo informarvi che sono stati calpestati i diritti di un popolo intero: il mio.
Purtroppo, non è l’unico a chiedere giustizia. Ma io, ammirando tutti quelli che combattono contro ogni forma d’ingiustizia e discriminazione in questo mondo, chiedo un po’ di attenzione per questo colpo mortale che ha subito il mio popolo. Non sono solo io; sono più di dieci milioni di persone in lutto per lo strappo di Kosovo.
Vi mando la mia preghiera e vi chiedo di pregare insieme a me, perché il Kosovo torni parte della mia Serbia, con tutto l’amore e rispetto agli Albanesi e agli altri popoli che vivono nel mio paese, che hanno diritto alla loro lingua, alla loro cultura, alla loro religione, che hanno diritto all’autonomia, ma non hanno diritto di strappare la parte più preziosa della mia terra.

Prega per noi, Madre di Dio con Tre Mani.
Prega per noi serbi cristiani.
Hanno strappato Kosovo e Metohija
il cuore della mia Serbia.

Hanno rubato il mio passato.
Memoria storica e mille monasteri:
Gracanica, Decani, Pec patriarcato
dove si pregava in serbo da secoli.

Madre di Dio con Tre Mani,
vorrei pregare per la pace;
ma l’ho persa dal mio cuore,
contratto dall’immenso dolore.

E l’unico pensiero nella mente mia,
Kosovo e Metohija sono la Serbia;
pensiero doloroso e perenne,
Kosovo e Metohija, la serba Gerusalemme.

Ringrazio Te e i nostri santi Padri
per la forza che avevano le nostre madri,
che persero figli, mariti e fratelli
nel campo dei Merli.

Con il Tuo sostegno e la Tua protezione,
loro crebbero la nuova generazione,
insegnandole l’amore, il perdono e il coraggio
e ad opporsi al peccato e al malvagio;

e trasmettevano nei secoli della storia
la fede, la lingua, il cirillico:
le tre perle della nostra nazione
per non perderci nella globalizzazione.

Aiuta anche noi, Madre di Dio con Tre Mani,
a crescere figli nel timore di Dio, e cristiani
e che non dimentichino, Santa Maria,
Kosovo e Metohija sono la Serbia.

Snežana Petrovic,
Rovereto (Trento)




Cari missionari

Fame e sete
di buoni esempi

Cari missionari,
innanzitutto un grandissimo grazie per l’articolo uscito su Missioni Consolata nel mese di febbraio, a favore dell’operato, lungo e silenzioso, di fratel Giuseppe Argese. Sì, sto leggendo e rileggendo queste intense righe e mi pare di averlo fisicamente vicino questo personaggio (mai visto e che non conosco davvero). Vorrei parlare direttamente con lui… ringraziarlo, abbracciarlo, incoraggiarlo…
Iddio vi benedica tutti! Vi voglio tanto bene! Poche e semplici parole, ma col cuore. Delle notizie, cattive cattive, è piena l’aria e il mondo intero. Richiediamo un po’ di cose buone. Edificanti. Che riempiono lo spirito. Dei buoni esempi di persone generose, allegre (anche silenziose). In questo mondo pieno di cattiverie (non si sa da che parte stare, né per chi votare…) abbiamo veramente un bisogno (urgente) di fame e sete di giustizia. Cerchiamola (anche con il lanteino) tra i missionari veri, tra i volontari, tra i giovani, che nel buio della notte si incontrano con «gli ultimi» poveri e sbandati. Tutto è sempre per la gloria di Dio e l’edificazione del popolo di Dio.
Non è vero che tanti fanno il bene per farsi vedere. Costa fare il bene. E poi, il dovere del buon esempio dove lo mettiamo? È più facile criticare chi fa il bene, anziché tirarsi su le maniche e dare una mano sudando per il prossimo.
Tanti si propongono in questi giorni in televisione, vestiti sempre a festa (e con i gemelli dorati ai polsini delle camicie bianche). Ma, viva Dio, e questi sono gli esempi di chi ci dovrebbe governare? Chiacchiere e basta. I fatti sono tutta un’altra cosa.
Abbraccio tutti frateamente in Cristo Gesù.
Cherubina Lorusso
Milano

Siamo pienamente d’accordo: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Paolo VI).

Biocombustibile…
no grazie!

Cari missionari,
mi sento perfettamente in sintonia con quanto scritto da padre Giuseppe Svanera missionario a Marialabaja (Colombia) nell’articolo «E lo chiamano… progresso» (M.C. n. 2/08 p. 73). L’utilizzo della terra (specie quella dei paesi della fascia tropicale) per un’agricoltura finalizzata alla produzione di combustibili è un gravissimo errore.
So bene che qualcuno, per esempio il presidente del Brasile Lula, cerca di rassicurare gli ecologisti, ripetendo che «neppure un metro quadrato di selva sarà sacrificato per il bioetanolo»; ma io dubito, come anche padre Giuseppe dubita, che le cose andranno così: quante migliaia di kmq sono state cancellate per far posto, specie nei paesi del Sud-Est Asiatico, alla monocoltura della palma da olio!
In ogni caso, anche se Lula avesse ragione e per la produzione di biofuel dovessero essere usate solo aree già degradate, io dico che sarebbe un grosso sbaglio, perché quelle stesse aree potrebbero essere rinaturate, riforestate, affidate a cornoperative inserite nella rete del commercio equo e solidale. È ciò che avviene, per esempio, in alcune zone dell’Ecuador con il «Progetto Otonga», avviato da padre Giovanni Onore, missionario e docente all’Università cattolica di Quito; come avviene in alcune parti del Mato Grosso brasiliano coi progetti di padre Angelo Panza, sostenuti anche dalla Conferenza episcopale italiana grazie ai fondi dell’8 per mille.
Fa bene padre Giuseppe a dire che questo non è né può essere chiamato progresso: progresso è lotta contro la fame e la miseria, non consolidamento delle strutture di peccato che generano fame e miseria. Pertanto le popolazioni del Sud del mondo sono state accusate di distruggere le grandi giungle e svuotare gli scrigni della biodiversità (e così contribuire anche all’effetto serra e cambiamento climatico) per procurarsi legna da ardere: «Fanno così – dicevano in molti – perché non hanno tecnologia, né fonti di calore e di energia simili a quelle adoperate dai paesi sviluppati; quando ne disporranno, la pressione sulle foreste diminuirà».
Ebbene, oggi quelle stesse persone che ieri facevano questo discorso, per certi versi anche giusto, che cosa propongono? Propongono il ricino, canna da zucchero, girasole e palma da olio, perché, sostengono, «così ridurremo la dipendenza dal petrolio e faremo diminuire le emissioni nocive».
Ci vuole una bella faccia tosta. Innanzitutto non è vero che, aumentando la superficie adibita alla produzione di biocombustibili, diminuisce la dipendenza dal petrolio: forse diminuirà la percentuale, ma per farla diminuire in valore assoluto occorre ben altro, a cominciare dalla volontà politica.
Finora l’unico risultato certo di tale corsa al biocombustibile è stato l’aumento del prezzo del pane, pasta, carne, latte e suoi derivati, altri generi di prima necessità…
Guardiamo in faccia la realtà: le tecnologie non inquinanti o poco inquinanti ci sono, ma stentano a decollare; a volte si ha l’impressione che tale difficoltà sia inversamente proporzionale alla loro capacità inquinante. Prendiamo ad esempio le automobili: se non inquinano più faticano a essere collocate sul mercato. Il caso più eclatante è forse quello dell’auto ad aria compressa, la cui «produzione in serie è imminente», perché «tutto è pronto». Le stesse cose si dicevano otto anni fa, anche la rubrica scientifica Superquark se ne occupò: ma sulle nostre strade le auto ad aria compressa nessuno le ha viste, mentre si vedono e fanno presto a essere progettati, realizzati, testati, venduti i costosi, inquinantissimi e ingombrantissimi Suv (si veda Missioni Consolata di febbraio 2008). Negli ultimi otto anni sono aumentati di numero: in Italia prima del 2000 arrivavano a malapena a 100 mila, oggi sono più di mezzo milione.
Io penso che dobbiamo entrare nell’ordine di idee che, oltre certi limiti, le tecnologie non possono sostituirsi alle nostre mani, piedi, occhi, cervello: non possono essere le tecnologie a scegliere per noi. Le lampade fluorescenti sono una gran bella cosa, ma non riusciranno a farci risparmiare il famoso 80% se le terremo accese anche di giorno. I termovalizzatori, se fatti con un certo criterio, saranno anche utili; ma perché continuiamo a sottovalutare i benefici della raccolta differenziata? Per esempio, perché diamo per scontato che, nel ricliclaggio della plastica, Napoli non potrà mai raggiungere il 70% di Treviso e Treviso non potrà mai raggiungere il 90% di Stoccolma?
No cari politici «moderati» e cari industriali e confindustriali! La dipendenza dal petrolio non la supereremo né con gli etanolodotti della brasiliana Petrobras, né con gli inceneritori dell’Impreglio, tanto meno con la costruzione di centrali nucleari. La supereremo, invece, quando avremo capito che per i gran premi di Formula uno e di Motomondiale non possiamo continuare a sprecare migliaia di tonnellate di carburante e migliaia di kilowatt di luce (da quest’anno su certi circuiti si corre di notte, non di giorno).
La supereremo quando, ripensando a un passato neanche troppo lontano, riconosceremo che il calcio non era meno bello e meno seguito quando le partite (comprese le finali di Coppa dei campioni e Coppa del mondo) si disputavano di pomeriggio, senza bisogno dei riflettori.
La supereremo, cari ex vetero e neodemocristiani, che stravedete per una nuova stagione nucleare in Italia, quando accetteremo la rinuncia a certi viaggi aerei, certi yacht, certe crociere, nuovo Suv, ultimo modello di cellulare non come un’involuzione e regresso, ma come inizio di un cammino verso la vera civiltà dell’amore: amore a Dio Padre e Creatore, ai figli di Dio e nostri fratelli, verso la creazione di Dio, quella vicina e quella lontana, quella dei ricchi e quella dei poveri…
Francesco Rondina
Fano (PU)

Le «porcate» e … la «porcata»

S pettabile Redazione, ho letto le lezioni sui mensili della rivista Missioni Consolata riguardanti il Figliol prodigo, apprendendo che il peccato più grosso è quello dei «peccatori presuntuosi». Infatti, in quel trafiletto si dice che «incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non essere perdonati può costituire un grave peccato, perché Dio… ha già perdonato prima ancora di averglielo richiesto» e ancora «peccare non è una cosa facile… perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita» e così via di questo passo.
Poi leggo su un quotidiano di giovedì 3 aprile 2008 che il biblista che ha risvegliato in me l’analisi del peccato, e mi ha liberato di tanti preconcetti sul peccato, riportandomi nella coscienza l’amore di Dio verso l’uomo, cade in un grossolano errore, scagliandosi contro una persona o addirittura contro la linea del centro destra con le parole: «I cristiani sono avvertiti in tempo, perché dopo non basterà una confessione a lavare la colpa della complicità che diventa anche apologia del fascismo, un cristiano che vota questi figuri non può in buona coscienza partecipare all’eucaristia e ricevere l’assoluzione in confessione, perché diventa complice in solido», e avanti con questo passo, facendo diventare cecchini di Gesù Berlusconi, Moratti, Fini, Casini, Bossi.
Dica Lei se non ci sono contraddizioni tra i commenti alla parabola nel primo capoverso della presente e questo modo di condannare una certa linea politica, dimenticando nel contempo di criticare l’altra linea politica, dove sono presenti i propagandisti e propugnatori agguerriti dell’aborto, dell’eutanasia e di tutte le altre «porcate» degli estremisti di sinistra, invogliando gli elettori a votare per quella lista.
Non è un grave e grossolano errore da una parte predicare l’Amore assoluto, e dall’altra parte predicare l’Odio assoluto?
Se vuole, mi dia una risposta sulla rivista che lei dirige, altrimenti cestini la presente, ovviamente io ne trarrò le mie deduzioni. Mi perdoni per il tempo che ho rubato e la ringrazio sin d’ora per la decisione che vorrà liberamente scegliere.
Giancarlo Macchi,
San Macario (VA)

Egregio sig. Macchi, siamo stati indecisi se pubblicare o meno la sua lettera, perché non ci piacciono le polemiche. Rispondiamo serenamente e telegraficamente, nella speranza che sia disposto e aperto alla verità.
1. Don Paolo Farinella, apprezzatissimo per la sua rubrica biblica pubblicata da più di due anni su Missioni Consolata, ha espresso critiche forti anche verso la sinistra e il governo Prodi; ma lei non le ha lette, perché non sono funzionali all’ideologia del suo giornale che non le ha mai pubblicate, per le ovvie ragioni che lei può capire.
2. La «porcata» di cui parla (termine forgiato dallo stesso autore della legge elettorale che lei conosce…) è più a monte: per due volte i cittadini italiani non hanno potuto scegliere i loro rappresentanti, ma sono stati costretti a votare quelli scelti dai capipartito. Nel suo partito vi sono circa 25 candidati condannati per vari reati, e tutti eletti, probabilmente per metterli al sicuro riparo dell’immunità parlamentare.
3. Don Farinella non «predica» l’«odio assoluto» in contraddizione con «l’amore assoluto», perché si tratta di due piani diversi e comunque non riguarda la singola persona, ma ciò che essa rappresenta, specialmente se offre una prospettiva di vita e assume atteggiamenti ideologici. Anche il gesuita padre Bartolomeo Sorge (vedi i suoi editoriali in Aggioamenti Sociali) usa la categoria del «berlusconismo» per descrivere l’ideologia dominante e dichiararla incompatibile con la fede cristiana. Questo non significa «odiare», ma «disceere». 
4. Per tornare alla parabola del Figliol prodigo, sull’«amore assoluto del Padre» non ci sono dubbi.  Ma fino a quando il figlio rimaneva a pascolare i porci, l’amore del padre c’era, ma era inutilizzato e il figlio non poteva gustare il perdono preventivo del Padre, né fare festa e mangiare il vitello grasso. Allo stesso modo, finché i mafiosi, i corrotti e corruttori… continueranno a strumentalizzare la religione, i valori cristiani, la famiglia cristiana… e a vivere da corrotti, anche contro l’amore del Padre, è meglio per loro che non si accostino all’eucaristia. Darebbero solo scandalo.
La Redazione




Cari missionari

Ambientalisti…
siate più seri!

Cari missionari,
dell’articolo di Topino e Novara, condivido l’impostazione di fondo: bisogna far crescere la raccolta differenziata, con l’educazione e organizzazione, e riuscire a vivere con meno consumi e imballaggi. Però, di fronte a una emergenza, che da Napoli minaccia di estendersi anche altrove, l’atteggiamento degli ambientalisti che dicono di no a tutto, non avanzano proposte concrete se non un generico «bisogna essere tutti più buoni», mi sembra un po’ poco.
Cominciando dalle proposte banali, ma efficaci, mi risulta che in molte città tedesche e qualcuna francese e Usa, i supermercati siano dotati di compattatori, che pesano quanto viene portato in plastica e vetro e danno dei gettoni da spendere nel supermercato. L’azienda che raccoglie i rifiuti risparmia comunque molto lavoro di raccolta dai bidoni. È poco, ma serve a creare un’abitudine, tanto al supermercato si va in auto.
Poi, anche se non sono un tecnico, non riesco a capire come mai in Germania, Svizzera e Francia, paesi dove esiste una buona cultura tecnica e un’attenzione all’ambiente superiore alla nostra (da 2 anni in Francia sono vietati i sacchetti di plastica), ci ridono dietro e ci invitano a mandare in treno i nostri rifiuti, che ci pensano loro a bruciarli: non si curano della salute e dell’ambiente? Non mi pare: forse hanno una tecnologia più avanzata, ma non vedo perché non la compriamo.
D’accordo, i nostri Pecoraro, camorristi e ambientalisti si stracciano le vesti; ma lo fanno anche per gli inceneritori superati che ci apprestiamo a comprare, forse perché erogano maggiori tangenti, oppure non sono superati neanche i nostri e chi fa l’ambientalista generico si limita a dire no a tutto, senza fastidiose informazioni tecniche? Insomma, in Italia non ho ancora trovato ambientalisti seri.
Claudio Bellavita
via e-mail

Lo smaltimento dei rifiuti è un problema complesso (l’emergenza campana lo dimostra) e ci coinvolge tutti. Ben vengano i suggerimenti, come quelli riportati anche nella lettera seguente. Una cosa rimane molto chiara: tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa e farlo meglio!

Si può fare… meglio

Caro sig. Direttore,
sono un vostro sostenitore e vi ho indicati come beneficiari del 5‰ per il 2006. Poiché si vocifera che qualcuno abbia rubato dai conti della posta, sarebbe bello se ci deste qualche notizia in merito ai vostri fondi, in una delle prossime edizioni della sua simpatica pubblicazione Missioni Consolata.
In questa rivista trovo molto interessanti gli articoli nei quali date notizia delle situazioni di vari paesi nel mondo, da un angolo visuale diverso dai soliti e da parte di chi ci vive veramente in mezzo. Unico neo, a mio parere, un certo piglio terzomondista e verde arcobaleno che appare in alcuni scritti, che mi sembra poco obiettivo, per il verso opposto nei confronti delle condizioni reali delle cose.
Certo il peccato del mondo e il suo «principe» permangono anche dopo la Pasqua; ma è anche vero che non tutto è male come proclama il «grande bugiardo». L’umanità in fondo sta proseguendo il cammino della Genesi di dominare la terra, certo nella caligine e nell’oscurità, ma avanzando più di quello che egli dice, irridendoci di fronte a Dio.
Prendiamo la globalizzazione: ora stiamo tutti a dire che è un gravissimo errore, che la sua molla è il bieco profitto, che l’umanità andrà incontro alla catastrofe. Non mi sembra proprio così: il fatto è, ad esempio, che le materie prime, il grano in testa, hanno prezzi elevati semplicemente perché la gente muore meno di fame e sta un pochino meglio di prima, che l’acqua scarseggia anche perché l’igiene migliora, che la miseria assoluta si è ridotta, ecc.
Certo, si può fare meglio; certo sarebbe bello che le persone lavorassero solo per il bene comune, ecc. Ma di chi è la colpa se non del fatto che quando la cosa è di tutti, nessuno se ne cura? I sindacati non si sono mai sognati di usare maggiore severità nei confronti dei propri iscritti, pubblici dipendenti; anzi, hanno permesso con questi ogni genere di licenza. Poi ci stupiamo che si torni al padrone?
Nel numero di marzo 2008, l’articolo di apertura di don Antonelli spara a zero nei confronti di chi produce immondizia, ma non mi sembra abbia l’onestà intellettuale di dire che il mancato uso degli inceneritori (ma sì, usiamola la parola) ha prodotto molta più diossina che se questi fossero stati funzionanti e che quindi erano, sono essi quel buon rimedio che è stato invece rifiutato in nome dell’assoluto.
Afferma l’Antonelli che l’immondizia è causata da un uso ignobile delle ricchezze della terra, ma si dimentica di dire che il più è causato dall’uso di involucri che rendono difficile il degrado delle merci e che quindi vanno a vantaggio della sicurezza e del buon uso dei prodotti.
Produrre di meno e consumare di meno? Toare al mondo passato di miseria dilagante e fame diffusa? La risposta non può che essere produrre e consumare meglio. Produrre con attenzione alle conseguenze conosciute dei nostri atti, senza perfezionismi, e consumare quanto è utile per sviluppare la nostra vita, senza giansenismi, ma disponibili a pagare quanto necessario per migliorare le cose. Dobbiamo mettere in conto che non sarà mai una risposta impeccabile; sarà sempre un meno peggio, ma sarà quanto possiamo e dobbiamo fare.
Francesco Ferrazin
via e-mail
Di ogni offerta pervenutaci tramite c.c. postale viene inviata lettera di riscontro e ringraziamento; ma non siamo in grado di confermare quanto si «vocifera».
Così pure per i benefici devoluti alla nostra Onlus tramite il 5‰ (di cui ringraziamo di cuore); essi sono gestiti dal Ministero dell’Economia tramite l’Agenzia delle Entrate, che ci comunica l’importo totale, senza i nomi dei singoli donatori.

Altri dentisti in Kenya

V orrei prendere spunto dall’articolo del dott. Azzalin sull’iniziativa dell’ApaOnlus con il progetto «Adotta un dentista a distanza» (M. C. febbraio 2008, pag. 72), per contribuire a chiarire alcuni aspetti del volontariato in Kenya e relative problematiche che coinvolgono le associazioni che vi operano.
Faccio parte dell’associazione SmomOnlus (Solidarietà medico odontorniatrica nel mondo – http://www.smomonlus.org). Per conto dell’associazione e in partenariato con i missionari della Consolata, negli anni 2003-2004 ho dato avvio a due progetti di intervento odontorniatrico: a Likoni (Mombasa) e a Maralal. Grazie all’aiuto di padre Masino Barbero, lo studio dentistico di Likoni è diventato autonomo in breve tempo. Da alcuni anni una collega locale, regolarmente assunta, conduce lo studio in modo continuativo e con brillanti risultati.
Attualmente la Smom è impegnata, sempre a Likoni, per strutturare in un locale adiacente allo studio, un laboratorio odontotecnico. Il dott. Paolo Bologna sta operando affinché anche questa iniziativa si realizzi in tempi brevi con l’inserimento di operatori qualificati locali. L’autonomia e autosufficienza delle strutture sanitarie locali è dunque un punto chiave attorno al quale ruota il nostro lavoro di operatori sanitari e non sembrerebbe lecito voler prescindere da questo assunto, che guida da sempre l’operato della nostra associazione.
Ben diversa, però, è la situazione a Maralal. Lo studio dentistico è attivo dal 2003. Tra la diocesi di Maralal, nella persona del vescovo mons. Virgilio Pante, e la Smom, è stato stilato un protocollo d’intesa, che definisce le linee operative di entrambe le istituzioni. Numerose missioni di volontari, dentisti, odontotecnici e assistenti, si sono succedute nel tempo prestando cure a migliaia di persone.
Tuttavia Maralal, e più in generale il Samburu District, non è luogo di immigrazione intea. Lontano com’è dai circuiti urbani, non si presta a reperire personale sanitario locale qualificato. Il Dental Unit di Maralal potrebbe dunque, per molto tempo ancora, rivestire un ruolo puramente assistenziale, le cui saltuarie prestazioni non soddisfano i propositi di autonomia operativa caldeggiati dalla Smom. Nel corso delle numerose missioni che ho condotto a Maralal, ho avuto occasione e possibilità di approfondire la conoscenza di quella regione e focalizzare alcune problematiche cruciali.
Il Samburu District  fa parte dei distretti Asal (Arid and semi arid lands). Per caratteristiche climatiche e di territorio è dunque soggetto a periodi ciclici di siccità, che spesso in passato hanno dato luogo a terribili carestie. Per le tribù nomadi e seminomadi di quelle terre, la mancanza d’acqua rappresenta la sofferenza e la morte delle mandrie di bovini e capre, unica fonte del loro sostentamento.
Da questa consapevolezza nacque l’idea di perforare un pozzo per l’acqua nella regione. Iniziato nel 2006, a fine agosto 2007 il pozzo era completato e messo in funzione a Leir-Bahawa, 20 km a sud di Maralal. Alcuni volontari che parteciparono alle missioni si sono attivati personalmente per raccogliere fondi rivelatisi preziosi (se il «turismo umanitario» dà questi frutti… perché no?).
La Smom, nel suo intento di proporre un intervento globale di promozione e salvaguardia della salute, impegnando energie e risorse, ha patrocinato la realizzazione di quest’opera, volta a garantire l’accesso libero e gratuito a un bene prezioso e indispensabile. Ne beneficeranno circa 10 mila persone. L’opera non sarebbe stata comunque possibile senza l’aiuto esterno di singoli e associazioni, che hanno prontamente aderito all’appello della Smom. Per questo ringrazio: la parrocchia S. Giovanni Gemini (AG), don Salvatore e collaboratori; le associazioni «Carta Vetrata» di Cammarata (AG) e «Itinerari» di Telgate (BG); il gruppo «Amici di Villabalzana»(VI); una donatrice anonima di Reggio Emilia; padre Alex Moreschi.
Tralascio volentieri ulteriori commenti sul «turismo umanitario» e resto in attesa che qualcuno individui, nel lavoro sopra descritto, intenti «narcisistici e autoreferenziali» o, peggio ancora, una testa di ponte per introdurre «un inutile quanto dannoso e nuovo colonialismo di tipo economico».
Nel frattempo sarebbe auspicabile una maggiore prudenza nei giudizi e una rinnovata coscienza che promuova una reale solidarietà fra gli operatori umanitari a unico beneficio dei destinatari del nostro servizio.  Saluti fratei.
Dott. Massimo Fugazza

G razie, padre, per avermi passato la lettera del dott. Fugazza. Chi fa, è spesso esposto alle critiche.
Non ricordo chi sia il dott. Fugazza e se l’ho incontrato da qualche parte non lo ricordo. Lavoro in Africa dal 1987 e so come vanno queste cose, ma non volevo certo irretire nessuno anzi semmai ringraziarlo, insieme a quei gruppi elencati nella lettera, per ciò che fanno in Africa. Il mio era un pensiero ben condiviso dal gruppo di cui faccio parte e dunque rivolto solo a noi stessi. Mi spiace per questo malinteso: non era assolutamente mia intenzione coinvolgere altri e mi scuso sin d’ora se non è stato afferrato il concetto. Sono in partenza per il Ghana… Le farò avere la risposta condivisa dall’ApaOnlus.

Dott. Dino Azzalin




Cari missionari

Passione
per la Parola di Dio

Cari missionari,
il commento di don Paolo Farinella alla parabola del Figliol prodigo è un dono grande. Don Paolo è riuscito in un’impresa che riesce a pochi, quella di coniugare rigore scientifico e cuore, passione, capacità di coinvolgere il lettore in profondità. Con la sua esegesi don Paolo ci ha comunicato qualcosa di veramente importante, ci ha dimostrato che la parola di Dio non è mai scontata, che è sempre in grado di dare, a chi le lascia un minimo di spazio, nuovi stimoli, nuovo slancio, nuovo vigore.
Per me don Paolo è come quella terra fertile di cui ci parla Gesù nella parabola del seminatore, una terra capace di produrre ora il trenta, ora il sessanta, ora il cento per uno. Spero che quel che ha fatto con la parabola del Figliol prodigo don Paolo possa presto farlo anche con altre pagine evangeliche, per esempio la parabola dell’amministratore disonesto (Luca 16,1-14). Cordiali saluti.
Ludovico Torrigiani
Pesaro Urbino

Sono molti che, come il signor Torrigiani, ringraziano per il commento alla parabola del Figliol prodigo. Siamo grati anche noi a don Paolo per la sua collaborazione, per la «passione» con cui ci spezza il pane della Parola e ce la rende affascinante e «coinvolgente».
La lunga spiegazione della parabola è nata dalla lettera a lui scritta da un nostro lettore; per cui benvenuti altri suggerimenti, come quello del signor Torrigiani.
A proposito
di morti bianche

Cari missionari,
anche se non sono di Torino e finora l’ho vista solo in televisione e sui giornali questa bellissima città, la città della Madonna della Consolata, la simpatia che ho per lei è grande ed è proprio questo sentimento di simpatia che mi fa sentire in dovere di scrivervi per esprimere alle famiglie di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marco, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, tutto il mio cordoglio e la mia vicinanza.
Da decenni si ripete che in Italia ci sono troppe morti bianche, che si investe troppo poco in sicurezza, che coloro che dovrebbero fare le ispezioni sono troppo pochi e persino che, spesso e volentieri, gli imprenditori vengono avvisati dell’arrivo dell’ispettore, per cui l’ispezione stessa si risolve in una farsa…
Nello stesso tempo però, ci si lamenta che l’Italia corre poco, il suo Pil cresce troppo lentamente, le imprese hanno troppi vincoli, gli imprenditori, quando vogliono licenziare qualcuno, incontrano ostacoli inconcepibili e che tutto questo ci fa sempre più regredire nella classifica della competitività. C’è addirittura chi sostiene che bisogna dare nuovo impulso all’edilizia, che le aree fabbricabili vanno aumentate, che i giovani debbono smetterla di fare i bamboccioni e che è ora di piantarla con la storia del lavoro precario che scoraggia la ricerca dell’autonomia, della flessibilità che deprime il desiderio di creare nuovi nuclei familiari e dei contratti a termine che scoraggiano la mateità. Guai anche a ricordare che il tasso di abortività è in crescita tra le lavoratrici extracomunitarie, guarda caso, quelle più esposte ai ricatti padronali.
Ecco, io credo che, se vogliamo veramente bene alle vittime dei roghi, delle cadute dalle impalcature, del caporalato, del mobbing, degli abusi – sessuali e non – sul posto di lavoro, non possiamo astenerci dal dire queste cose, non possiamo – e qui mi rivolgo innanzitutto al clero e all’episcopato – fare campagne giuste, anzi sacrosante contro l’aborto e la RU486 e poi girare gli occhi dall’altra parte quando un movimento, sindacato, partito chiedono, ad esempio, l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a tutte le aziende, siano esse acciaierie, calzaturifici o aziende agricole, e a prescindere dal fatto che abbiano 1, 5, 15, 100 o un milione di persone alle loro dipendenze.
Cari vescovi e cari preti, che ogni prima domenica di febbraio riempite le sedie e le panche delle chiese di volantini inneggianti alla bellezza e alla vita e invitate i Casini e gli Sgreccia a tener conferenze contro la mentalità abortista e relativista, dove stavate rintanati domenica 15 giugno 2003, giorno del referendum sull’articolo 18? Perché tante belle omelie contro il liberismo selvaggio delle multinazionali, quando presiedete le esequie funebri di chi muore in incidenti come quello alla ThyssenKrupp e tanto, tanto silenzio (in alcuni casi addirittura ostilità…) quando, attraverso proposte di modifiche legislative, qualcuno cerca semplicemente di responsabilizzare chi gestisce un’azienda e togliergli l’illusione pericolosa (pericolosa per lui e i suoi familiari oltre che per gli operai e comunità civile…) di essere anche giudice supremo, oltre che imprenditore e manager, e che certe sue decisioni sono insindacabili, incontestabili e irrevocabili? Cordialmente.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Errata corrige

Cari missionari,
la vostra rivista è bella e interessante, la trovo anche varia nella scelta degli argomenti e scritta in modo semplice, ma comunque di un buon livello culturale. Però, forse, andrebbe un po’ più curata nei particolari, nella correzione delle bozze, perché qualche strafalcione, purtroppo, ogni tanto si trova.
Due esempi. Nel numero di ottobre-novembre 2007, a pag. 106 si parla della moglie di Maometto, dicendo che è vissuta nel xvi secolo e che era una donna musulmana. Il profeta Muhammad, ovviamente, è vissuto mille anni prima, e la moglie non può, a rigore, essere definita musulmana, considerando che, al momento delle nozze con Maometto, l’islam non era ancora sorto. Invece, nel numero di gennaio 2008, a pag. 46, si dice che della non violenza «l’antesignano fu Indira Gandhi»; ovviamente non è il Mahatma Gandhi, con cui non era neppure imparentata.
Scusate la pignoleria, ma mi sembra giusto collaborare, affinché MC diventi sempre migliore, anche grazie alla necessaria precisione nei contenuti.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano
Prima di tutto grazie per la collaborazione. Sono due strafalcioni imperdonabili, di cui avremmo dovuto accorgerci prima di passare le bozze alla correzione finale.
E poi, ci scusiamo con i nostri lettori.

Kosovo indipendente – Interesse d’Italia

Cosa farebbero gli italiani se un giorno gli albanesi (o qualsiasi altro gruppo etnico presente nel territorio) diventassero la maggioranza in una delle regioni italiane, perché le famiglie italiane hanno pochi figli, e decidessero di proclamare quella regione «Repubblica indipendente»?
Gli italiani non hanno conosciuto  gli effetti della «lotta demografica» (significa fare più figli possibile) per poter vendicare il diritto di «autodeterminazione», una volta diventati maggioranza assoluta.
Forse gli italiani pensano che questo non potrebbe mai succedere  alla loro terra, o credono di poter adottare due misure nel reagire: una  per se stessi e l’altra per gli altri?
«È nell’ interesse d’Italia il Kosovo indipendente»! Per questo motivo l’Italia è pronta a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, legittimare lo strappo di un territorio a un paese sovrano, indipendente, riconosciuto come tale dal diritto internazionale. Ma è veramente questo l’interesse d’Italia? Non è il vero interesse di un paese pensare al futuro delle giovani generazioni, trasmettere loro dei valori, e guardarsi di  fare quello di cui quelle generazioni possano vergognarsi?

I serbi sono un popolo con profonde radici cristiane, che nel corso dei secoli è riuscito a sopravvivere e a trasmettere alle generazioni dei valori cristiani, nonostante il secolare dominio ottomano, nonostante mezzo secolo di ateizzazione comunista. Sopravviverà anche in questa Europa, che ha rinnegato le proprie radici cristiane, proprio perché ha sempre avuto la ricchezza spirituale che è il Kosovo.
Nei Balcani non è cominciato tutto il 28 giugno 1989 con Milosevic, come dicono i giornali, informati dall’Osservatorio dei Balcani, ma secoli prima: il 28 giugno 1389 con il sultano Murat e lo zar Lazzaro, quando entrambi persero la vita in battaglia sul Campo dei Merli (Kosovo), mentre Murat occupava e Lazzaro difendeva la Serbia. I serbi per la prima volta persero il Kosovo e vissero per secoli sotto dominio turco.
La seconda volta lo persero durante il comunismo di Tito, che proclamò il Kosovo e la Metohija una provincia autonoma, accolse tutti gli albanesi che venivano dall’Albania, favorì la loro natalità essendo lui stesso il padrino di ogni famiglia che aveva più di nove figli.
Gli albanesi possono impossessarsi della terra che non appartiene loro, dei monasteri medievali della chiesa ortodossa serba, e presentarli ai turisti come fossero loro, come stanno già facendo, possono edificare il «loro stato» sulle altre bugie, e cercare sostegno e protezione dei potenti che non temono Dio, ma questo non può durare. È passato l’impero ottomano, è passato il comunismo, passerà anche questo nuovo impero, che sfrutta, sottomette o cancella il più debole.
I serbi continueranno a trasmettere ai loro figli la via, verità e vita che è Gesù Cristo, convinti che quello è il più grande interesse di ogni generazione.
Snežana Petrović, Rovereto (Trento)

Comprendiamo l’amarezza della signora Petrović, da molti anni nostra collaboratrice, e ne condividiamo le ragioni, per la perdita di una parte storicamente così importante del territorio del suo paese. Ogni separazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito, porta solo dispiaceri. Proverei anch’io gli stessi sentimenti, qualora un pezzo d’Italia dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza o si staccasse per confluire in un altro stato.
Nei decenni passati, anche in Italia ci sono stati (e ci sono ancora) movimenti indipendentisti o separatisti, come quello dell’Alto Adige o Südtirol, caratterizzato da tensioni e attentati terroristici, per ottenere la secessione dall’Italia e l’unione con l’Austria. Ma grazie al dialogo e agli accordi pacifici tra i maggiori responsabili delle due nazioni, le tensioni sono state dissolte. Da quando, poi, anche l’Austria è entrata nella Comunità europea, nessun tirolese si sogna di modificare i confini tra i due paesi.

S ulla nostra rivista abbiamo seguito con apprensione e rammarico le tensioni e violenze etniche che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia negli ultimi anni. Più che ricercare i colpevoli della tragedia balcanica, abbiamo riportato le testimonianze di persone impegnate nella pacificazione tra i popoli, mediante il dialogo e la cooperazione disinteressata: unica strada valida anche per il futuro.
Auguriamo che Serbia e Kosovo entrino nella grande famiglia di popoli che è l’Unione europea, in cui i confini geografici perdono la loro importanza, i nazionalismi vengono stemperati e le identità e i diritti delle minoranze etniche più garantiti… con l’aiuto di Dio, che guida la storia dei popoli.




Cari missionari

«Missioni Consolata» alla Sorbona di Parigi

Caro Direttore,
insegno Relazioni inteazionali in una nota università di Parigi. Spesso, per le mie lezioni e per discutere con gli studenti dei fatti più importanti che accadono nel mondo, porto diverse riviste di attualità internazionale, tra cui la sua.
Abbiamo potuto apprezzare così la serietà del suo magazine e, sia io che gli studenti, ci eravamo particolarmente affezionati a due giornalisti, Giulietto Chiesa e Piergiorgio Pescali, i cui articoli leggevamo con interesse e trovavamo sempre puntuali e ricchi di spunti per le nostre discussioni. Purtroppo vedo che nessuno dei due scrive più sulla vostra rivista. Ci piacerebbe che tornassero a scrivere o, se è possibile, potrebbe dirci su quale rivista o giornale scrivono ora questi due giornalisti? La ringrazio per la risposta.
PS. Ho conosciuto la rivista da una mia amica in Italia.
Valerie Lacombe Boulenga
Parigi

Ci fa piacere e ci lusinga sapere che Missioni Consolata è apprezzata e «studiata» in una università prestigiosa come la Sorbona; per questo abbiamo provveduto a inviarla, in abbonamento omaggio, alla biblioteca del Dipartimento di studi inteazionali del famoso ateneo.
Per quanto riguarda il dott. Pescali, abbiamo pubblicato un suo articolo sulla Corea del Nord nel numero di gennaio 2008 e ne pubblicheremo un altro sulla Cambogia nel numero di aprile.


Grazie per il 5×1000

Gentile Redazione,
ho lavorato qualche mese a Mogadiscio nel 1992-93, presso l’ospedale pediatrico del SOS Kinderdorf Inteational con suor Marzia Ferrua e sono rimasto in contatto con lei per qualche anno… Mi piacerebbe riprendere i contatti con suor Marzia che penso sia ancora a Nairobi, perché in maggio devo (situazione permettendo) andare lì e passarvi un mese come tutor di un gruppo di 10 pediatri africani, che iniziano ora in febbraio un training course di 2 anni in endocrinologia pediatrica (in un ospedale di quella città) organizzato dalla Società europea di endocrinologia pediatrica (Espe), e mi piacerebbe incontrarla nuovamente.
Vi ringrazio per l’attenzione e complimenti per la rivista che sia io, pediatra (universitario, ma con interessi per i paesi in via di sviluppo e per la cooperazione), sia mia moglie, insegnante, leggiamo e troviamo utile per conoscere meglio il Sud del mondo e i guasti che noi produciamo. La conoscenza di suor Marzia e delle altre sorelle di Mogadiscio, il sacrificio di suor Leonella ci ha spinto a indicare le vostre missioni per il 5 per mille…
Un cordiale saluto e augurio a voi ed ai religiosi e religiose della Consolata di sempre ottimo lavoro.
Raffaele Virdis
Parma

In una seconda e-mail, il dott. Virdis ci ha comunicato che suor Marzia si è fatta viva, prima che arrivassero le nostre informazioni. Intanto, ringraziamo per l’apprezzamento della nostra rivista, per la stima e simpatia verso i nostri confratelli e consorelle e per il sostegno alle loro attività missionarie.

Tranquilli… Siamo per la vita!

Caro Direttore,
ho terminato di leggere il numero monografico di ottobre-novembre, dedicato alle «Donne dell’altro mondo». È ampio, ben documentato e interessante, complimenti!
Mi chiedo, però, se alla redazione della «Consolata» non vi siete accorti di qualche distonia, nei testi pubblicati, con l’insegnamento morale della chiesa in materia di bioetica. Parlare di Michelle Bachelet, «presidenta» del Cile, e dire che «si è ricordata delle donne quando ha dovuto decidere su altre tematiche dividenti» è un modo un po’ involuto e, secondo me, poco corretto di dribblare sui temi, subito accennati nel testo, della pillola del giorno dopo e della «salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti», dizione che nasconde, tutti lo sappiamo e mi preoccupa che lo nascondiate, la questione dell’aborto. Sappiamo come la pensa la Bachelet: sono diritti delle donne che lo stato laico deve riconoscere e anzi favorire. Perché non dire apertamente che la pensa così?
È, innanzitutto, una questione di correttezza e di completezza di informazione: i lettori italiani, indipendentemente da come la pensano, hanno il diritto di conoscere le opinioni dei governanti cileni, e anche di come la pensa la rivista di una delle congregazioni più note dei missionari italiani. Che poi magari agli italiani non gliene importi o non ne sappiano molto del Cile, in questa sede non ha importanza, anzi è un motivo di più per far crescere le conoscenze dei lettori su quanto accade negli altri paesi.
Il problema della qualità della notizia e del giudizio morale sul comportamento delle donne che vanno al potere nei paesi del terzo mondo, rimane.
Nel numero monografico c’è un altro richiamo alla cosiddetta «salute riproduttiva», quando si parla di Odile Sankara del Burkina Faso: sembra di capire (ma non lo dite chiaramente) che anche lei lotta per risolvere i problemi legati all’aborto che riguardano le donne del suo paese, ma parlare della solita «salute riproduttiva» fa capire in che modo intenda risolverli. E allora perché non spiegare chiaramente come la pensa questa donna, aiutando i lettori a elaborare un giudizio critico e motivato, compito precipuo di una rivista di formazione cristiana dove senz’altro nessuno ha dimenticato l’invito evangelico di dire sempre «sì, sì; no, no»?
Mio suocero e due miei cognati hanno studiato a Bevera e a Varallo Sesia, e senz’altro hanno ricevuto una buona formazione cristiana: oggi sono forse cambiate le cose da voi e, anziché il rispetto della vita umana dalla nascita alla fine naturale, si insegnano i diritti riproduttivi, tanto propagandati dall’Onu?
Spero proprio di no, spero che le opinioni espresse siano quelle dei giornalisti che hanno scritto gli articoli, e che magari sull’argomento non sono molto in linea con Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Se invece anche voi avete cambiato idea… non c’è più religione!
Cordialmente.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano

Prima di tutto, sig. Malaspina, grazie dei complimenti per il numero monografico sulle «Donne dell’altro mondo».
Nel compilare il nostro numero abbiamo voluto semplicemente presentare alcune figure di donne che stanno cambiando i paesi del Sud del mondo, facendosi strada in tutti quei campi ancora riservati al genere maschile. Ciò non significa che ne approviamo tutte le idee e le iniziative concrete.
Per cui vogliamo tranquillizzare il nostro affezionato lettore: siamo sempre stati schierati e continueremo ad esserlo in difesa della vita, dal suo concepimento fino alla morte naturale.

Siamo schierati… con gli oppressi

Ho letto sul numero di dicembre 2007 l’intervista a don Capovilla e mi ha colpito la totale noncuranza verso i problemi dei bambini palestinesi: non una parola sul fatto che nelle scuole venga loro insegnato a combattere e siano indottrinati sul bello del farsi esplodere; non una parola sui miliardi destinati alla gente, ma che la vedova di Arafat si gode all’estero.
La semplificazione dei problemi è una bella cosa, ma tacere sugli attentati e guerre subite da Israele (che è sempre stato attaccato dagli arabi, mai viceversa) e sul fatto che la spianata delle moschee non sia uno dei tre luoghi sacri dell’islam, ma «semplicemente» la spianata del tempio, quindi sacro per tutti i «popoli del libro», ma da molti anni frequentabile solo dai musulmani, fa sospettare una mancanza di buona fede.
Mi risulta che il papa Giovanni Paolo ii sia potuto andare a pregare al Muro del pianto, ma non sulla spianata; sono stati i palestinesi a entrare in armi nelle chiese di Betlemme, non i soldati israeliani. Quindi sembra che non ci sia quell’enorme tolleranza verso i cristiani.
Mi sarei quindi aspettato un riassunto storico della situazione, o comunque un’altra voce, oltre alla pubblicità, neppure velata, dei libri dell’intervistato. Certa che la parzialità sia stata casuale e non finalizzata alla suddetta pubblicità, cordiali saluti.

Luisa Pellegrino
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Essere considerato di parte, e non casualmente, è un onore per me, oltre che un dovere a cui ormai da tempo cerco di ottemperare come meglio posso, soprattutto vivendo in prima persona i drammi inenarrabili di milioni di esseri umani ormai sull’orlo della catastrofe umanitaria. Per me e per la gran parte di inteazionali che nei Territori Occupati cercano di operare, mettendo a rischio la vita, poiché la potenza occupante non tollera chiunque possa testimoniare l’abisso di ingiustizia subito dai palestinesi.
Essere «di parte» significa stare dalla parte del diritto internazionale, delle risoluzioni Onu, puntualmente disattese da Israele, dei diritti umani violati quotidianamente da 60 anni, della legalità irrisa e difesa solo dalle Nazioni Unite.
Significa gridare a voce alta quando uno stato occupante viola qualsiasi regola impunemente, quando costruisce un muro dentro il territorio che appartiene a un altro popolo, quando costruisce illegalmente insediamenti sulla terra altrui con una colonizzazione mai interrotta. Quando imprigiona e commette omicidi extragiudiziali in nome della propria sicurezza, quando sradica migliaia di ulivi e ruba acqua e terreno ai contadini; quando costruisce strade solo per israeliani in territorio palestinese, quando dissemina le strade palestinesi di checkpoint illegali.
La nostra «parzialità» è, per fortuna, condivisa da sempre più israeliani che, per amore del loro paese, criticano aspramente il loro governo. Stare dalla parte della legalità internazionale significa gridare con la stessa voce angosciata che il terrorismo è ugualmente illegale, ma prima di tutto aberrante, disumano e immorale, sempre e ovunque, quello di un kamikaze che compie una strage in un ristorante come quello di un esercito che continua a bombardare e massacrare un milione di esseri umani a Gaza.
Per far questo, però, non basta fare come lei dice «un riassunto storico della situazione»: bisogna partire, ascoltare, condividere, con pellegrinaggi ed esperienze che ci mettano in contatto diretto con la reale situazione in cui si vive, sia in Israele che in Palestina. Bisogna però avere il coraggio e la pazienza di ricordare al mondo o a chi ci vuol stare a sentire che «in Terra Santa non c’è una guerra tra due eserciti, ma c’è uno stato occupante e un popolo occupato», come ripete sempre il patriarca latino di Gerusalemme mons. Sabbah.
È quello che cerca di fare anche il testo «Bocche Scucite», che Missioni Consolata, secondo lei, proprio non doveva pubblicizzare, ma che io volentieri le invierò, per restituire la parola (ed è davvero urgente) a chi possa gridare quello che ci ostiniamo a non voler sentire.
Cordiali saluti.

don Nandino Capovilla